INDICE
Breve biografia dei fondatori 1772-1858
1. I fratelli Anton’Angelo e Marcantonio Cavanis
Box: un ritratto infantile e uno giovanile di P. Anton’Angelo Cavanis
1.3 Dalla prima comunità all’erezione canonica
1.4 I fondatori e la scuola nel loro tempo
1.5 I fondatori nella formazione dei seminaristi
1.6 Terza età, lotte e preparazione della successione
1.7 La vecchiaia e le malattie. Morte e fama di santità
1.8 La causa di beatificazione
1.9 Sull’origine dei Cavanis a Cornalba (Bergamo) e sul loro stemma
1.10 Il nome dei Cavanis nei toponimi stradali del mondo
2. Del nome della Congregazione delle Scuole di Carità
2.1 Del significato del nome “Scuole”
2.2 Del significato del nome “Carità”
3. Dell’abito della Congregazione delle Scuole di Carità
4. La situazione numerica della Congregazione nel XIX secolo
Tabella: situazione numerica e lista dei membri dell’Istituto Cavanis l’8 dicembre 1830
4.1 La situazione numerica della Congregazione nel 1838
4.2 Lista dei religiosi e seminaristi Cavanis il 10 settembre 1841
4.2.1 Sacerdoti nella casa di Venezia
4.2.2 Sacerdoti nella casa di Lendinara
4.2.3 L’Istituto femminile nel 1841
Tabella: religiosi e seminaristi Cavanis il 12 novembre 1856
Tabella: religiosi e seminaristi Cavanis il 1° novembre 1864
4.3 Lista dei religiosi sacerdoti Cavanis nel febbraio 1868
4.4 Lista dei religiosi sacerdoti Cavanis il 12 marzo 1877
4.5 Numero dei religiosi preti il 16 aprile 1886
4.6 Lista dei patriarchi di Venezia ai tempi della Congregazione
4.7 Lista dei vescovi della diocesi di Adria ai tempi della casa Cavanis di Lendinara
4.8 Lista dei vescovi della diocesi di Treviso nei tempi della Congregazione Cavanis
4.9 Lista degli arcivescovi dell’arcidiocesi di Lucca nei tempi della Congregazione Cavanis
4.10 Lista dei papi nei tempi della Congregazione Cavanis
5. La casa di Venezia 1820-2020
5.1 La nuova casa di residenza della comunità di Venezia
5.2 L’ala “nuova” delle scuole di Venezia
5.3 La storia della casa di Venezia, dopo la prepositura di P. Sebastiano Casara
Tabella: costruzioni, acquisti e affitti della casa di Venezia
Tabella: mappali e numeri anagrafici della casa di Venezia
6. La Chiesa di s. Agnese (1866-2020)
6.2 Scuole e confraternite relative alla parrocchia di s. Agnese
6.3 Gli altari antichi della chiesa di s. Agnese
Box: Il fonte battesimale di S. Agnese, ora a S. Maria del Rosario
6.4 Il rifacimento della chiesa
6.6 La Soprintendenza all’opera
6.9 Il collaudo dei restauri e del nuovo organo
Box: P. Giuseppe Panizzolo e l’acqua alta
6.10 Nota sulle chiese e cappelle dell’Istituto Cavanis di Venezia
Tabella: cronologia delle chiese e cappelle della casa-madre di Venezia
Tabella: la comunità di Venezia dal 1820 al 2020
7. La casa di Lendinara 1833-1896
Box: gli archivi e il diario della casa di Lendinara
7.1 La casa di Lendinara dal 1833 al 1866
Tabella: comunità di Lendinara dal 1834 al 1866
7.2 La casa di Lendinara dal 1866 al 1896
7.2.1 I Padri Cavanis a Lendinara e Alberto Mario
Tabella: comunità di Lendinara dal 1866 al 1896
Tabella: le case (comunità e scuola) di Lendinara
Tabella: le chiese e cappelle di Lendinara utilizzate dall’Istituto
Tabella: le proprietà immobiliari della comunità di Lendinara
7.3 La passione e la morte della casa di Lendinara nella prospettiva generale italiana
8. Excursus sulle devozioni e sui santi dei Cavanis
8.1 San Giuseppe Calasanzio (1557-1648)
8.2 Maria SS. ma, Madre di Dio
8.3 San Vincenzo de’ Paoli (1581-1660)
8.4 San Gaetano Thiene (1480-1547)
8.5 Sant’Alfonso de’ Liguori (1696-1787)
8.10 Santi Scolopi e della Famiglia Calasanziana
Parte Seconda
Seconda fase della vita della Congregazione 1848-1884
Box: Prima Guerra d’Indipendenza (1848-1849)
Box: la Repubblica di San Marco (22 marzo 1848-24 luglio 1849)
Tabella: lista dei prepositi generali dell’Istituto Cavanis
1. I tempi dei prepositi generali Frigiolini, Casara e Traiber
1.1 P. Vittorio Frigiolini, secondo preposito generale (1852)
1.2 Modalità di elezione/nomina del terzo preposito generale, P. Sebastiano Casara
2. L’epoca di P. Sebastiano Casara, il “secondo fondatore” nella
Congregazione e nel mondo
2.1 La prima serie di mandati di P. Sebastiano Casara (1852-1863)
2.2 La seconda serie di mandati di P. Sebastiano Casara (1866-1884)
Box: la Seconda Guerra d’Indipendenza d’Italia (1859) e l’inizio del Regno d’Italia (1861)
2.3 Il mandato di P. Giovanni Battista Traiber (1863-1866)
Box: la terza Guerra d’Indipedenza d’Italia (1866)
Box: il beato Antonio Rosmini Serbati, prete e filosofo
2.4 Possibilità di fusione tra la Congregazione delle Scuole di Carità e un’altra
3.1.1 Le trattative (1856-1857)
3.1.2 Vita della comunità di Possagno e del Collegio Canova (1857-1869)
3.2 La seconda fase (1869-1881)
3.3 La terza fase: anni di assenza e di silenzio (1881-1889)
3.4 La quarta fase: tre anni d’incertezze e la riapertura (1889-1892)
3.5 La quinta fase: la casa di Possagno attuale (1892-2019)
3.6 Il Liceo Calasanzio dagli anni Cinquanta ad oggi
3.6.1 Relazione storica sull’edificio
3.6.2 II nuovo Liceo Calasanzio
Terza fase della storia della Congregazione. Il “dopo Casara” (1885-1900)
1. Padre Domenico Sapori, preposito generale (1885-1887)
3. Padre Giuseppe Da Col, preposito generale (1887-1900)
Tabella: i sacerdoti Cavanis nell’agosto 1891
4. L’era del cardinal Sarto, patriarca di Venezia
Box: il corredo per entrare nella comunità Cavanis nell’Ottocento
5. I principali discepoli e compagni dei fondatori
6. Biografie dei religiosi Cavanis del secolo XIX
6.1 Diacono don Angelo Battesti
6.2 Seminarista Giuseppe Scarella
6.3 Seminarista Bartolomeo Giacomelli
6.4 Chierico Francesco Minozzi
6.5 Fratel Francesco Dall’Agnola
6.6 Seminarista Antonio Spessa
6.8 Chierico Giovanni Giovannini
6.15 I padri Angelo Cerchieri e Giovanni Battista Toscani e il laico Pietro Zalivani
6.18 Padre Vittorio Frigiolini
6.21 P. Giovanni Francesco Mihator
6.24 P. Narciso Emanuele Gretter
6.27 Fratel Luigi Tommaso Armanini
6.33 Fratel Giacomo Barbaro (Fratel Giacometto)
6.34 P. Giovanni Maria Spalmach
6.36 P. Giovanni Battista Larese
6.40 P. Giovanni Battista Fanton
7. Biografie di religiosi Cavanis del XX secolo
7.3 Fratel Clemente Dal Castagné
7.6 Seminarista Carlo Trevisan
7.7 Fratel Bartolomeo (Bortolo) Fedel
7.9 P. Agostino Santacattarina
7.10 Novizio Nazzareno De Piante
7.18 P. Giuseppe Borghese (P. Bepi)
7.20 P. Luigi D’Andrea e fratel Enrico Cognolato
7.27 P. Agostino Menegoz Fagaro
7.29 Il Venerabile P. Basilio Martinelli
7.30 P. Francesco Saverio Zanon
7.45 Fratel Edoardo Bartolamedi
7.53 Fratel Guerrino Zacchello
7.55 P. (Vescovo) Giovanni Battista Piasentini
7.74 P. Ermenegildo Loris Zanon
7.75 P. Luis Enrique Navarro Durán (P. Lucho)
7.83 Fratello e diacono don Aldo Menghi
8. Biografie dei padri Cavanis defunti nel secolo XXI
8.14 P. Aldino Antonio da Rosa
8.17 P. Fiorino Francesco Basso
8.24 Fratello e diacono don Giusto Larvete
8.29 P. Giovanni Carlo Tittoto
8.38 P. Antonio (Tonino) Armini
Tabella: religiosi Cavanis defunti in ordine alfabetico
Tabella: religiosi Cavanis defunti in ordine di anno di morte
Tabella: religiosi Cavanis defunti (sepolture e cimiteri)
9. Principali amici e collaboratori dei fondatori
9.2 Il beato Luigi Caburlotto (1817-1897)
9.3 Ricordando Mons. Daniele Canal
9.4 Ricordando i fratelli Passi
10. Benefattori e benefattrici dei Cavanis
10.1 Benefattori e benefattrici dei fondatori della prima metà del XIX secolo
10.1.2 Sig. Francesco Marchiori (vedi il capitolo sulla casa di Lendinara)
10.1.4 Contessa Carolina Durini Trotti
10.1.5 Cav.r Pietro Pesaro, Londra
10.1.6 Canonico Angelo Pedralli di Firenze
10.2 Benefattori e benefattrici dell’Istituto della seconda metà del XIX secolo
10.2.1 Mons. Giovanni Battista Sartori Canova (Vedi capitolo sulla casa di Possagno)
10.2.2 Contessa Loredana Gatterburg-Morosini
10.2.3 Mons. Luigi Bragato di Vienna
10.2.4 Don Giuseppe Ghisellini
10.2.5 Principe Giuseppe Giovanelli e sua madre, la principessa Maria Buri-Giovanelli
11. I capitoli generali dell’Istituto Cavanis del XIX secolo
11.1 I capitoli del XIX secolo più in dettaglio
Tabella: prepositi, vicari, definitori e consiglieri generali (1852-2019)
1.1 I tempi del pontificato di papa Pio X nella chiesa e nel mondo
1.2 L’inizio del XX secolo nel mondo
1.3 L’inizio del XX secolo in Europa
1.4 L’inizio del XX secolo in Italia
1.5 Padre Giovanni Chiereghin, preposito generale (1900-1904)
1.6 Padre Vincenzo Rossi, preposito generale (1904-1910)
1.7 Padre Antonio dalla Venezia, preposito generale (1910-1913)
Box: Censimento della Congregazione mariana di Venezia 1952
1.8 Padre Augusto Tormene, preposito generale (1913-1921)
2. La prima guerra mondiale: “La prima carneficina mondiale” (8 luglio 1914 -11 novembre 1918)
2.1 Venezia e la prima guerra mondiale
2.2 L’Istituto Cavanis durante la prima guerra mondiale
2.3 Le testimonianze nel Diario di Congregazione
2.4 I diari di guerra dei religiosi-soldati Cavanis
2.4.1 Diario di guerra e prigionia di Pellegrino Bolzonello, novizio Cavanis: “I miei ricordi di guerra 1915-1918”.
– Offensive sul fronte dell’Isonzo
– Questo era il mio fronte, il fronte goriziano
– La grande offensiva del maggio 1917
– Seconda azione – Quota 126 – Cimitero di Gorizia
– Sugli Altipiani di Bainzizza
– Sul Monte S. Gabriele
– La ritirata di Caporetto
– Dal fiume Isonzo a Codroipo
– La prigionia
– Piccoli episodi
– Vicende del campo
2.4.2 Diario di guerra e prigionia del novizio Alessandro Vianello
2.5 Monumenti e lapidi dei caduti
3. La chiesa tra le due guerre mondiali
3.1 I tempi di Benedetto XV nella chiesa e nel mondo
3.2 La politica femminile dell’Istituto Cavanis
3.3 I tempi di Pio XI nella chiesa e nel mondo
3.3.1 Papa Pio XI e l’Istituto Cavanis
3.4 Padre Agostino Zamattio, preposito generale (1922-1928)
3.5 Padre Giovanni Rizzardo, preposito generale (1928-1931)
4.1 L’Istituto Cavanis nel periodo fascista
Box: attività della Centuria Balilla e Avanguardisti
4.2 Padre Aurelio Andreatta, preposito generale (1931-1949)
4.2.1 Il riconoscimento giuridico dell’Istituto
Tabella: proposte di fondazioni non accettate
Tabella: religiosi Cavanis nel luglio 1939
4.3 I tempi di Pio XII nella chiesa e nel mondo dal 1939 al 1958
4.4 Pio XII e l’Istituto Cavanis
4.5 Padre Aurelio Andreatta preposito generale (seconda parte)
5. La seconda guerra mondiale: “La seconda carneficina mondiale”
(1939-1945)
5.1 La seconda guerra mondiale e l’Istituto Cavanis
5.4 Vita di una comunità Cavanis nell’Italia in guerra nel 1943
5.5 Microstorie Cavanis nella macrostoria della seconda guerra mondiale
5.5.1 La guerra e la prigionia di Edoardo Bortolamedi
5.5.2 Memorie di guerra di Armando Soldera, un noviziato diverso
5.5.3 La guerra di Marino Scarparo
5.5.4 La guerra e la cappella votiva di S. Giuseppe a Coldraga
5.5.5 Vita di seminario nel Probandato di Possagno (1940-1945)
5.5.6 La guerra a Porcari, annotazioni di P. Vincenzo Saveri
5.5.7 Ricordi del Probandato di Vicopelago
5.5.8 Memorie di guerra di P. Giuseppe Leonardi
5.6 La casa di Roma – Casilina
5.6.1 Illustrazione del progetto “Renosto” dell’erigendo Istituto Cavanis Pio XII a Roma
5.7 Le catacombe dei santi Marcellino e Pietro ad duas lauros
5.7.1 Il martirio di Marcellino e Pietro
5.8.1 L’apertura del mausoleo di sant’Elena
6.1 Il mandato di P. Aurelio Andreatta continua dopo la guerra
6.2 Cronaca della vita della Congregazione dal 1947
Tabella: apertura di case dal 1919 al 1968
Tabella: ordinazioni presbiterali 1795-2019
Tabella: date su professioni e ordinazioni
Tabella: seminari Cavanis in Italia dal 1918 al 1970
7. La seconda metà del XX secolo
7.1 Padre Antonio Cristelli, preposito generale (1949-1955)
7.2 Il padre Gioachino Tomasi, preposito generale (1955-1961)
7.2.1 Precisazioni istituzionali definite all’inizio del mandato di P. Tomasi
Tabella: numeri dei religiosi Cavanis nel luglio 1958
8. Dal 1958 al 1970: anni che hanno cambiato la Chiesa e il mondo
8.1 Il papa Giovanni XXIII e l’Istituto Cavanis
8.2 Angelo Giuseppe Roncalli, Giovanni XXIII
8.3 Continuando la relazione sui fatti della prepositura del P. Gioachino Tomasi.
Tabella: numeri dei religiosi Cavanis nel luglio 1960
8.4 Padre Giuseppe Panizzolo, preposito generale (1961-1967)
Tabella: numeri dei religiosi Cavanis nel luglio 1967
8.5 Padre Orfeo Mason, preposito generale (1967-79): apertura dei Cavanis in
Brasile e nel mondo
8.6 Il capitolo generale straordinario speciale (1969-1970) e le Costituzioni e direttorio
8.6.1 Breve storia dei lavori capitolari
8.6.2 Breve cronologia delle Costituzioni
8.7 I tempi di papa Paolo VI nella Chiesa e nel mondo
8.8 I capitoli generali del XX e XXI secolo
8.9 I capitoli generali ordinari del XX e XXI secolo
8.10 I capitoli generali straordinari del XX secolo
9. Alcuni collaboratori e benefattori dell’Istituto Cavanis defunti nel XX-XXI secolo
9.4 Angelo (Lino) Architetto Scattolin
9.9 Alberto Cosulich e famiglia
9.10 Professor Antonio Lazzarin, restauratore
Le case d’Italia fondate nel XX secolo
1.1 “Porcari: la chiesetta dell’Immacolata”
1.2 “Testimonianze di anziani”
1.3 Inaugurazione della chiesa
1.4 Il duplice giubileo del collegio Cavanis di Porcari
2. La casa del Probandato di Possagno (1919)
3. La casa di Pieve di Soligo (1923)
5. La casa del Sacro Cuore e il noviziato annesso
5.1 Una gita dei padri a Coldraga e benedizione della “villa”
5.2 La posa della prima pietra e l’inaugurazione della casa
5.4 Gli esercizi spirituali – gli incontri di preghiera
5.5.2 La benedizione e la posa della prima pietra della chiesa (5 giugno 1938)
5.5.4 Consacrazione della chiesa (2 giugno 1939)
5.5.5 Inaugurazione solenne nella domenica di Pentecoste (4 giugno 1939)
5.5.6 Il pontificale del vescovo
5.6 Uno sguardo al complesso delle costruzioni in Col Draga
5.7 Altri edifici e avvenimenti
6. La casa di Santo Stefano di Camastra (1938)
7. La casa di Fietta del Grappa – Villa Buon Pastore (1940)
8. La casa di Vicopelago e poi di s. Alessio (1941)
9. La casa di Costasavina (Pergine-Trento) e poi di Levico (Trento)
(1943-1948)
10. L’Istituto “Dolomiti” di Borca di San Vito di Cadore – Belluno (1945)
11. La casa di Roma –Torpignattara (1946)
12. La casa dell’Istituto Tata Giovanni –Roma (1953)
13. La casa di Capezzano Pianore (1953)
14. La casa di Chioggia (1954)
15. La casa di Cesena (1958-1959)
16. La casa di Solaro –Milano (1962)
Dagli anni ’70 del XX secolo a oggi
1. L’espansione geografica, la missione
2. Padre Guglielmo Incerti, preposito generale (1979-1989)
3. Padre Giuseppe Leonardi, preposito generale (1989-1995)
4. Padre Pietro Fietta, preposito generale (1995-2001; 2001-2007)
4.1 La casa di Pozzuoli – Monterusciello (1996)
4.1.1 Motivo e occasione della scelta dei Padri Cavanis
4.1.2 L’Istituto Cavanis a Pozzuoli
4.2 La casa di Massafra (parrocchia s. Francesco di Paola)
5. Padre Alvise Bellinato, preposito generale (2007-2013)
6. Padre Pietro Fietta, preposito generale (2013-2019)
7. Padre Manoel Rosalino Rosa, preposito generale (2019 – ….)
Le parti territoriali
1. Le missioni Cavanis: storia degli inizi
2. La provincia italiana, la Pars Italiae
3. Breve storia della provincia del Brasile, la Pars Brasiliae
Tabella: religiosi Cavanis Italiani attivi nella Provincia Antônio e Marcos Cavanis do Brasil
Tabella: i governi della Pars Brasiliae
3.1 Le case della Pars Brasiliae
3.2 La casa (le case) di Castro-Paraná-Brasile
3.3 La casa di Ortiguera-Paraná-Brasile
3.4 La casa di Ponta Grossa-Paraná-Brasile
3.5 La Parrocchia de Nossa Senhora de Fátima di Vila Cipa e la Sua “Casa do Menor”
3.6 Il centro della pastorale universitaria di Ponta Grossa – Oásis
– Primi passi
– Le cose cominciano a funzionare
– Espansione della PU
– Momenti forti
– “Assessoria” nazionale
– Conclusione
3.7 Il seminario maggiore Antônio e Marcos Cavanis e il noviziato di Ponta Grossa
Tabella: case riunite di Ortiguera (1969-2019) e Ponta Grossa (1980-2019)- Paraná -Brasile
Tabella: la casa di Ortigueira (autonoma)
Tabella: la casa di Ponta Grossa (autonoma)
Tabella: centro di Pastorale Universitaria Oásis-Ponta Grossa-Paraná-Brasile
3.8 La casa di Realeza-Paraná-Brasile
3.9 La casa di Pérola d’Oeste-Paraná-Brasile
3.10 La casa di Planalto-Paraná-Brasile
Tabella: le casa di Realeza (1971-2019) e di Pérola d’Oeste (1994-2019)- Paraná-Brasile
Tabella: casa di Realeza (separata dalle altre)-Paraná-Brasile
Tabella: casa di Pérola d’Oeste, parrocchia Sagrado coração de Jesus
Tabella: casa di Planalto (separata da Realeza)-Paraná-Brasile (1988-2010)
3.11 L’arcidiocesi di Belo Horizonte-Minas Gerais-Brasile
Tabella: le case di Belo Horizonte-Minas Gerais-Brasile (1984-2019)
3.12 I Cavanis a Brasília-Brasile
3.13 La casa di Uberlândia-Brasile
Tabella: la casa di Uberlândia
3.14 La Casa di Celso Ramos – santa Catarina (1998-2019)
3.15 La casa di parrocchia São José a São Paulo (1994-2019)
3.16 La casa di Mossunguê – Curitiba (1996-2008)
3.17 La casa della parrocchia di São Mateus do Sul (1995-2004)
3.18 La casa di Novo Progresso, parrocchia Santa Luzia – Pará – Brasile (1998-2019)
3.19 La casa di Maringá-Paraná-Brasile (2001-2019)
3.20 La casa di Guarantã do Norte, parrocchia Nossa Senhora do Rosário – Mato Grosso
3.21 La casa di Castelo de Sonhos-Pará-Brasile
Tabella: seminaristi Cavanis del Brasile nel 1999
Tabella: religiosi e seminaristi Cavanis brasiliani nel 2018
3.22 Le case do Menor o da Criança-Brasile
Tabella: case do Menor o da Criança
4. La regione andina, la Pars andium
Tabella: i governi della Pars andium
4.1.1 La casa di Esmeralda (1982-1996)
4.1.2 La casa di Quito, seminario (1984-2019)
4.1.4 Casa del Collegio Borja III
4.1.5 Casa di Valle Hermoso (1992-2019)
4.2.1 La casa di Bogotá, seminario “Virgen de chiquinquirá”-Colombia
4.3.1 La casa di Santa Cruz de la Sierra -Bolivia
4.4.1 La casa di Éten-Chiclayo-Perù
5. La delegazione delle Filippine (2000-2019)
Tabella: delegazione delle Filippine
5.1 Casa del collegio Letran di Tagum (2000-2019)
5.2 Seminari di Tibungco – Davao City (2003-2019)-Repubblica delle Filippine
5.3 Parrocchia di San José di Braulio E Dujali-Davao de Norte-Repubblica
delle Filippine
6. Delegazione della Casa di Romania
6.1 La città di Paşcani e la Romania
Tabella: delegazione della Romania
7. Delegazione Cavanis nella Repubblica Democratica del Congo (2004-2019)
Tabella: governi della delegazione della Repubblica Democratica del Congo
Tabella: membri della delegazione della Repubblica Democratica del Congo
Breve storia della Congregazione delle “Maestre delle Scuole di Carità”
1. Le tre sedi dell’Istituto femminile Cavanis
1.3 La terza e definitiva residenza
2. Elenco delle Maestre e delle ragazze dell’Istituto femminile Cavanis il 10 settembre 1811
3. Alcuni episodi notevoli della Pia Casa di educazione delle Scuole di Carità
4. I venerabili Cavanis e Santa Maddalena di Canossa
4.1 Maddalena di Canossa chiamata a Venezia
4.2 Lettera di accompagnamento
4.3 Regole generali per la Scuole di Carità
4.5 Elenco delle maestre nel locale delle Eremite in parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio
4.7 L’Istituto femminile confluisce nell’Istituto Figlie di Carità Canosina
5. Breve storia delle Suore della Pia Società del Santo Nome di Dio, dette “Suore Cavanis”
Appendice 1 – L’opera dei fondatori
1. (Appendice 1.1) Preghiera attribuita ai fondatori dell’Istituto Cavanis
2. (Appendice 1.2) La gratuità delle Scuole dei fondatori e dei Cavanis
3.1 Pueros et juvenes paterna dilectione complecti
3.3 Sollicita vigilantia a saeculi contagione tueri
3.4 Spiritu intelligentiae ac pietatis quotidie erudire
4.2 Le costituzioni e la Bibbia
4.8 Testi biblici nelle lettere dei fondatori
5. (Appendice 5) Edifici storici
Appendice 5.1. Il palazzo natale dei fondatori
Appendice 5.2. Breve storia della “casetta”
Appendice 5.3. La cappella del Crocifisso a S. Agnese. Memoriale dei fondatori
6. (Appendice 6) Le missioni all’estero
Appendice 6.1. Spiritualità Cavanis in Brasile
6.1.2 La congiuntura veneziana
6.1.4.1 Opzione per i poveri e opzione per i giovani
6.1.4.2 Il nome della Congregazione: paternità e carità
6.1.4.5 La povertà e i mezzi poveri
6.1.4.6 L’ingenuità e la semplicità
6.1.4.7 La piccolezza dell’Istituto
6.1.4.11 La gioia, la libertà e la pace
6.1.4.12 “Uniforme vocazione” e la comunità
6.1.5 La congiuntura del Brasile nel 1988
6.1.6 Il Progetto educativo Cavanis in Brasile
6.1.6.1 Stile Cavanis in Brasile. Una proiezione nel futuro
6.1.6.2 Future attività educative dei Cavanis in Brasile
– La scuola
– “Casas do Menor”
– Centri di Pastorale Universitaria e della Gioventù
– “Assessoria”
– La catechesi
Appendice 6.2. Uno sguardo dei Cavanis sull’Africa
6.2.2 L’Istituto Cavanis e l’Africa
Appendice 7 – Sistemi di riferimento
Appendice 7.1. Glossario dei termini viari (toponimi) veneziani
Appendice 7.2. Excursus sui selciati veneziani
Terza fase della storia della Congregazione.
Il “dopo Casara” (1885-1900)
Si può osservare come nei decenni successivi, che seguirono alla rinuncia definitiva di P. Casara (1885), la vita della Congregazione divenne abbastanza semplice, troppo tranquilla, quasi senza eventi, abbastanza asfittica e in ogni caso senza aperture di nuove case. P. Casara aveva aperto la casa e la scuola di Possagno (1857) e successivamente fu abbastanza occupato e preoccupato tra l’altro per causa della soppressione dell’Istituto (e di tutti gli istituti religiosi in Veneto) e della confisca dei beni ecclesiastici e quindi dei beni dell’Istituto Cavanis e delle sue tre case; e in seguito dal suo lungo e faticoso lavoro di recupero dei beni immobili e mobili e di riorganizzazione della Congregazione.
Dopo l’apertura di Possagno, l’iniziativa successiva fu quella di aprire casa e scuola a Porcari (provincia di Lucca, 1919), 62 anni dopo. Si viveva con quello che si aveva, con un piccolo numero di religiosi, senza preoccuparsi dell’espansione e della ricerca di nuovi membri per la Congregazione. Il numero di religiosi professi arrivava al massimo ad una ventina. I capitoli generali erano molto brevi, qualche volta duravano l’espace d’un matin, cioè una mattinata, o una serata: un giorno, due giorni, un pomeriggio o un dopocena; si facevano pochi viaggi e si avevano pochi contatti; rare erano le pubblicazioni e le relazioni pubbliche.
Perciò è difficile trovare notizie in abbondanza su questo periodo, a meno che non si legga il Diario della Congregazione nel nostro Archivio generale storico.
1. Padre Domenico Sapori, preposito generale (1885-1887)
Domenico Sapori nacque nel villaggio di Tolè nell’arcidiocesi e provincia di Bologna, sull’Appennino, il 16 ottobre 1831.
Durante i tre anni dal 1849 al 1851, sedici aspiranti avevano fatto domanda per entrare in Congregazione ed erano stati accettati; fra coloro che arrivarono in Istituto ve ne furono ben quattro solo nel mese d’ottobre del 1851: ma solo tre su sedici perseverarono sino alla fine: il nostro Domenico Sapori, Francesco Avi, che diventò fratello religioso, e Vincenzo Brizzi (anche lui della provincia e della diocesi di Bologna), che sarà religioso e prete Cavanis, come Domenico Sapori.
Questi era stato raccomandato al P. Marco dal dottor Bartolomeo Brizzi e da suo figlio, l’arciprete Zeffirino Brizzi, di Vergato, paese vicino a Roffeno, in provincia di Bologna.
L’ingresso in Congregazione del giovane Domenico Sapori (3 ottobre 1851), che diventerà preposito, ma soprattutto che condurrà una vita da buon religioso e prete nell’Istituto, diede molta gioia ai nostri fondatori e in particolare a P. Marco. Costui vedeva che due degli aspiranti (Sapori e Brizzi) provenivano dagli Stati della chiesa e più in particolare dall’antico stato degli Este ovvero l’Emilia-Romagna. P. Marco osservava speranzoso che l’Istituto sarebbe stato conosciuto fuori dal Veneto e «nei paesi lontani » (a quei tempi così erano considerati Bologna e Ferrara!). P. Marco diceva dell’aspirante o postulante Domenico Sapori che era «saggio, buono, forte e molto promettente» e ancora che era «abbastanza provvisto di ciò che si richiedeva per essere accolti [nel seminario]».
P. Giovanni Chiereghin, che l’aveva conosciuto bene personalmente, diceva di lui: «La ferma virtù di questo santo religioso si mostrò ancora più bella per il contrasto fra il suo carattere impetuoso e tutto fuoco tipico del sangue della Romagna e il suo sforzo continuo e generoso per frenarlo secondo i precetti evangelici». Con molta sincerità, cosa non molto comune fra gli scritti che hanno un po’ il sapore agiografico, come l’opera citata di P. Giovanni Chiereghin, egli aggiunge: «…il Signore non l’aveva dotato di vivido lume intellettivo, tuttavia era provvisto di rettitudine, di giudizio e di una volontà ferma che gli permetteva di non sottrarsi davanti alle difficoltà, ai sacrifici; e qualcuno può ricordarsi di quanto la sua presenza fosse di continuo edificante, seppur quando fu per breve periodo condiscepolo tra i ragazzi adolescenti di tredici anni”. Altra notizia assai sorprendente sul nostro padre Domenico è che egli «non aveva fatto degli studi regolari».
A proposito del suo carattere forte, monsignor Giuseppe Ambrosi, che l’aveva conosciuto già in età avanzata, scrive di lui in un poema: «…anima ardente, che, incapace di frenare il suo nervosismo…».
Fece la professione dei voti a Venezia il 25 marzo 1854, festa dell’Annunciazione; nel 1855 i confratelli temevano che potesse morire di vaiolo, infettato com’era stato durante una visita all’ospedale civico (ai Santi Giovanni e Paolo a Venezia); fu messo in quarantena e assistito dalla comunità in una catapecchia isolata dal lato opposto dell’orto, il più lontano possibile dalla «casetta» e dalle scuole; e si rallegrarono perché guarì e rientrò in comunità.
Ebbe la tonsura ecclesiastica il 21 maggio 1855, i quattro ordini minori il 6 aprile 1856, il suddiaconato nel giugno 1857 e l’ordinazione presbiterale il 19 settembre 1957.
Esaminando gli scritti di P. Sebastiano Casara e la corrispondenza tra lui e P. Giuseppe Da Col che era a Possagno con il giovane Domenico Sapori, si apprende la storia difficile della sua vocazione e della sua giovinezza, dinnanzi alla situazione della sua famiglia caduta improvvisamente in miseria sul finire degli anni ’50 del secolo XIX. Su richiesta pressante della sua famiglia, Domenico pensava di uscire dalla Congregazione per aiutare i suoi genitori; ma fu aiutato da P. Casara, come pure del P. Giuseppe Da Col, suo rettore a Possagno con delle cure paterne e dei buoni consigli che ebbe la grazia e la buona volontà di accettare; e la sua famiglia venne aiutata per molto tempo dalla pur povera comunità. Fu sempre riconoscente verso P. Sebastiano in modo particolare. Fu costante nella vocazione e ottenne un buon risultato.
Il necrologio della Congregazione lo definisce: religioso assiduo nell’educazione dei giovani, incurante di se stesso, amava lavorare e faticare, proiettato solo al volere divino.
Visse e lavorò nelle nostre case di Venezia, Possagno e Lendinara. In riassunto, lo troviamo:
A Possagno, fu membro della prima piccola comunità, con P. Da Col come rettore, nel 1857. Restò lì dieci anni, e P. Giovanni Chiereghin crede di poter affermare che, dopo P. Da Col, nessuno guadagnò la stima e l’affezione degli abitanti di Possagno come P. Sapori; e ciò per la sua osservanza religiosa, la rettitudine gioiosa per qualunque opera di carità, l’amore e l’assiduità nell’insegnamento; quest’ultimo gli doveva costare parecchio con il carattere “accensibile” che si ritrovava.
Fu l’ultimo padre Cavanis presente a Possagno, nella scuola del Collegio Canova, al momento della soppressione della Congregazione e della confisca del collegio stesso, e al momento di chiudere la casa e di lasciarla ai funzionari del demanio italiano (a seguito delle leggi dette «eversive»), portò a Venezia su un carro i poveri mobili della comunità, l’archivio della casa di Possagno e forse la biblioteca della comunità (1867). P. Giovanni Chiereghin dice che dovette «ritirarsi da Possagno quasi di nascosto per sottrarsi alle dimostrazioni di affetto e di attaccamento di quelli – ed erano i più numerosi – che in P. Domenico come in P. Da Col veneravano l’amico, consigliavano il padre».
Da Possagno si trasferì presso la comunità di Venezia. Lo ritroviamo ancora lì l’8 marzo 1877. Questo fu il periodo della maturità umana, cristiana e religiosa. P. Giovanni Chiereghin commenta che, in questa fase, in cui forse lo conobbe meglio, non chiedeva niente e non rifiutava niente (secondo il motto antico e ancora in uso nella nostra Congregazione), che non aveva fiducia in se stesso ma solo nel Signore, che pregava umilmente. Anche se in età adulta, accetta di preparare e sostenere degli esami per ottenere i titoli necessari per l’insegnamento alla scuola elementare, ed ottiene il diploma, lui che non aveva fatto degli studi regolari, come si diceva sopra. Come insegnante di bambini piccoli alle elementari gli occorse molta pazienza, dovette gestire il suo carattere «accensibile» e ci riuscì virtuosamente.
Funse da maestro dei novizi a Venezia, come lo era stato a Possagno, trasmettendo ai giovani la conoscenza e il senso di appartenenza alla Congregazione attraverso l’esempio piuttosto che con i discorsi.
Fu eletto preposito generale il 10 settembre 1885, durante un capitolo provinciale straordinario, convocato dopo le dimissioni presentate il luglio precedente da P. Sebastiano Casara. Il nuovo preposito nominò Casara suo vicario e prefetto delle scuole di Venezia, poi lo incaricò di continuare e concludere la redazione della seconda parte delle costituzioni, sulle strutture e il governo della Congregazione e sulla formazione.
Il mandato di P. Sapori fu molto breve, perché egli completò semplicemente i due anni che mancavano al triennio di P. Casara, dimissionario dopo il primo anno.
P. Sapori durante il periodo di prepositura soffrì per l’opposizione di tre o quattro religiosi che già avevano fatto soffrire P. Casara, in relazione alla preparazione della seconda parte delle costituzioni, come si dirà più ampiamente in seguito. Già il 22 ottobre 1885, poco dopo la sua elezione, scrive: “Ricevo dai P.P. Larese, Marini, Miorelli e Simeoni delle Proposte sulle nostre Regole, ai quali rispondo brevemente di non poter accettarle” Il “gruppo dei quattro”cominciava la lotta anche con P. Sapori.
Il 21 dicembre 1885 P. Sapori indice “adunanze capitolari per trattarvi delle nostre Costituzioni” per il giorno 27 succssivo, durante le vacanze natalizie delle scuole.
Tali “adunanze capitolari” si tennero però in forma separata, ossia a Venezia si riuniva la comunità locale; i confratelli di Lendinara (le case erano solo queste due in quegli anni, tra il 1881 e il 1892) partecipavano per corrispondenza. La procedura era quanto meno strana, quasi inedita in Congregazione; soprattutto non si capisce se si tratti di un vero capitolo provinciale o di che cosa. In effetti, poco più avanti in una correzione di sua mano, superlineare (cioè fatta sopra una parola cancellata da lui stesso), P. Sapori parla di “capitolo locale-provinciale”!
Invitati i padri di Lendinara a mandare le loro proposte pre-capitolo, “Il rettore di quella Casa risponde: Sappia pure, Padre, che qui nessuno ha Proposte da presentare costì al Capitolo. La S. Famiglia benedica; come desideriamo ardentemente anche noi, la deliberazione da Lei presa riguardo all’importantissimo affare delle nostre Regole, ecc.”
Il 27 dicembre, il Diario riporta: “Stasera; ore 6 pom[eridian]e hanno avuto principio le sessioni capitolari sull’argomento delle nostre Regole. Vi sono state discusse formolate e votate le due prime osservazioni fatte dalla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari. Indi, suggellati i voti in due copertine distinte, sono state spedite ai padri di Lendinara per averne votazioni complete, delle quali sarà fatto lo spoglio”. Pare che il preposito e i suoi confratelli non avessero capito che le osservazioni giunte da Roma sulla bozza delle regole, preparata da P. Casara con collaboratori vari, non dovevano essere “discusse formolate e votate”, ma obbedientemente inserite nelle Costituzioni, per pia e dovuta obbedienza a Roma, ma anche semplicemente per motivo di strategia e di logica, se si voleva ottenere l’approvazione da Roma.
Due giorni dopo, il 29, “Arrivano i voti della Casa-Lendinara, e a quegli uniti se ne fa lo spoglio. Stasera seconda Adunanza capitolare, che viene interrotta; per gravi dispiaceri: il Superiore di ciò oltremodo dolente esprime pubblicamente la sua deliberazione di ricorrere alla S. Sede, e quivi per l’Ordinario mandare le Regole a Roma per implorarne sanzione Pontificia”. E il 30 dicembre: “In conformità al detto sopra scrivo al Cardinal Patriarca; gli annunzio l’avvenuto, e gli notifico la mia ferma deliberazione di completare quanto prima le Regole, e di presentarle a Lui perché le prenda in esame e poscia le invii con una sua Accompagnatoria alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari.”
La procedura seguita era a mio parere del tutto irregolare; il Patriarca non aveva alcuna competenza sulle regole di una Congregazione di diritto pontificio, il cui testo originale (del 1837) era stato approvato dalla santa Sede.
La vita era abbastanza dura per P. Sapori in quei due anni della sua prepositura: certa volta scriveva a P. Casara: «In seguito si discusse della terza osservazione [sulle costituzioni] cosi calorosamente e sfacciatamente, che si dovette interrompere la sessione e dunque la questione delle nostre costituzioni fu interrotta. (…) Capisco che per multas tribulationes oportet me transire ». Un’altra volta scrisse a Casara, evidentemente suo consigliere e consolatore « P. Miorelli dice che accetterà le regole che saranno approvate [dalla Santa Sede N.d.A.]. Aggiunge che non può trovar possibile restare a Venezia. Io gli risposi di andarsene in famiglia. Testa matta!».
P. Sapori ricevette il consiglio da qualcuno dell’ambiente della Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari: «Chi ha in mano il bastone del comando, comandi!».
Ma non mancavano le consolazioni: “ Da otto Padri di questa Famiglia ricevo una Dichiarazione da loro sottoscritta; del come intesero la Mozione fatta dal preside nel Capitolo locale tenuto il 1° settembre-anno decorso. Dichiarazione contro di alcuni pochi, i quali pretendono di annullare intieramente le deliberazioni prese circa le Regole nel Capitolo del 1884.”
Il 1° marzo 1886 si viene a sapere che le costituzioni con le correzioni e aggiunte apportate nel difficile periodo tra il capitolo provinciale del 1884 a questa data, sono state affidate a un amico calligrafo, per preparare la versione definitiva da inviare a Roma. Il calligrafo era un tale don Vincenzo Vianello. Seguì la presentazione delle regole al patriarca: “Oggi stesso ho presentato a Sua Eminen.a il Patriarca le Regole con la relativa Accompagnatoria, a Lui raccomandando vivamente questo affare per noi della massima importanza. Egli mi ha promesso di prenderselo a cuore, assicurandomi che tutto riuscirà prosperamente: pertanto incarica due canonici per l’esame delle medesime”.
Il 16 aprile troviamo nel diario: “Da Sua Emin.a il Card. Patriarca mi viene comunicato per iscritto le osservazioni a Lui dirette dai P.P. Larese, Miorelli e Marini, contro alcuni punti di Regole contro l’Accompagnatoria, che che da me fu presentata a Sua Em.a al fine di ottenere sanzione Pontificia delle Regole medesime”. Il 18 aprile P. Sapori manda a Lendinara “una copia delle Osservazioni (…) alle quali devono rispondere in lettera chiusa diretta al patriarca i 19 Firmatari dell’Accompagnatoria per le Regole; Alcuni di questi sono accusati di debolezza e pentimento nell’apporre la loro firma; al proponente [= il preposito, a quanto si capisce] poi viene data l’imputazione di pressione o quasi pressione. Accusa obbrobriosa!”.
P. Sapori risponde al patriarca: “Rispondo in breve alle pred.te Osservazione, e chiudo con le seguenti parole: L’ultimo capoverso del suo venerato Foglio (del Patriarca) allude ad una pressione usata ai Firmatari dell’Accompagnatoria a Lei indirizzata; e ne venne fatto cenno da testimone auricolare. Cotanto schifosa accusa non me la sarei mai aspettata. Su questo punto intendo venirne al chiaro. Consapevole e sicuro del fatto mio, la voglio finita con questa guerra sleale e serpentina. O s’intenta un processo a me, o io lo intento altrui”.
Il 28 maggio 1886 le bozze delle regole risultano spedite dal Patriarca a Roma. La loro approvazione fu solleitata da don Ghisellini, tramite un suo conoscente, l’archivista della S. Congregazione.
P. Sapori intanto comincia a procedere contro il Miorelli il 26 luglio: “Scrivo al P. Miorelli, che partito pel Tirolo il 19 corr.e non ha per anco scritto una riga; gli ricordo le sue espressioni scandalose fatte ad un Padre giovane circa le Regole, e lo richiamo al dovere, o starsene a casa sua”. E il 30 luglio: “Oggi ricevo risposta dal P. Miorelli, il quale mostra di non capire ciò che gli ho scritto in una mia del 26 corrente. Bisognerà che gli scriva nuovamente e gli spieghi ancor meglio, perché di questo passo non si può andare innanzi”. Ancora il 1° agosto: “Riscrivo al P. Miorelli in Tirolo facendogli conoscere le sue indiscipline, le parole imprudenti da lui dette a diversi; quindi lo richiamo al dovere di religioso”. “Il P. Miorelli scrive da casa essere lui dispostissimo ad accettare le Regole. Trova poi cosa per esso impossibile il dimorare in questa famiglia [di Venezia] nell’attuale condizione degli spiriti” “Gli rispondo essere ora di finirla: così non potersi andare avanti, chè ne va il buon ordine e la disciplina religiosa”.
Si stava procedendo, su un altro fronte, a preparare il capitolo provinciale da celebrarsi circa un mese dopo, e si erano eletti i discreti o delegati; intanto “l’amico don G[iuseppe]. Ghisellini ne manda l’atteso Rescritto Pontificio, onde la S. Congreg. Dei Vescovi e Regolari proroga ad annum il nostro Capitolo provinciale, che doveva aver luogo ai primi del prossimo 7bre 86. –Ci notifica inoltre che le Nostre Regole hanno già preso un buon inviamento”. Il preposito Sapori comunica la cosa a Lendinara, e riceve dai padri il conforto dell’appoggio nelle sue decisioni contro il Miorelli: “Il P. Da Col a nome pure del P. Bassi, mentre mi confortano a sperare fiducioso in Dio rimettendomi alla sua amabilissima Volontà, manifestano il loro pieno consenso a quelle misure, che dovransi usar per liberare il nostro povero Istituto dalle inquietudini, dagli scandali, dalla rovina che da pezza gli sovrasta”.
Il 22 agosto 1886: “Il p. Miorelli insiste nel voler essere traslocato a Lendinara; diversamente abbandona l’Istituto, e domanda un Attestato della sua prestata educazione alla gioventù, e che ei sia uscito dall’Istituto spontaneamente”. Il 23 P. Sapori scrive: “Gli si manda l’attestato richiesto, restando egli soggetto a questo Ordinariato”.
Intanto prosegue l’esame della bozza di nuove costituzioni presso la S. Congregazione dei Vescovi e Regolari: “Per mezzo del P. Pacifico Cappuccino mi arrivano alcune Osservazioni sulla nostra Regola, fatte dal Ponente, P. Tomaso da Forlì”. Il 12 febbraio 1887, ascoltati i definitori residenti a Venezia, e i due residenti a Lendinara per lettera, P. Sapori risponde alle osservazioni. Il 25 marzo riceve, tramite il Ghisellini, una risposta alla sua, che sembra positiva, ma non definitiva. Il 5 giugno 1887 giunge notizia “che sarebbe presto fatto il Rescritto d’approvazione quando noi fossimo contenti di mutare il nome di Preposito provinciale in Preposito generale oppure in Preposito della Congregazione”; P. Sapori consulta con i definitori, e risponde positivamente alla proposta, il giorno dopo, 6 giugno.
In questo periodo, nei primi mesi del 1887, giungono molte proposte di aspiranti da parte di parroci e altri sacerdoti del Trentino e del Veneto, ma molte non sono accettate perché i candidati non sembrano adatti, per età eccessiva o troppo giovane, per mancanza di studi o altro. P. Sapori scrive allora un regolamento con i criteri di accettazione, e lo sottopone ai definitori. Ma molte volte i giovani, non solo in quest’anno ma piuttosto spesso, non sono accettati anche per mancanza di posto o perché non possono corrispondere la “dozzina”, e l’Istituto è troppo povero per poterli accogliere gratuitamente. Nel 1897, le famiglie dei novizi e altri seminaristi (per esempio la famiglia di Giovanni D’Ambrosi, novizio) pagavano – o dovevano pagare – 50 centesimi al giorno. Per la vestizione dello stesso, la famiglia fu richiesta della somma di £ 20,– probabilmente per le spese della confezione dell’abito religioso. Le famiglie erano invitate a contribuire per il vitto e alloggio soltanto fino alla prima professione dei voti, dopo di che tutte le spese spettavano alla Congregazione.
Nel clima dell’attesa ansiosa del Rescritto pontificio di approvazione delle regole, si consuma un fatto doloroso per la comunità. P. Sapori, preposito, annota nel diario: “P. Michele Marini partì allontanandosi dall’Istituto anche fisicamente, che di spirito n’era distaccato da gran tempo: Iddio gli perdoni tutte quante le amarezze da lui arrecate alla nostra povera Congregazione”. In seguito “Il suddetto Marini scrive una lettera al Superiore, onde gli manda (sic) perdono, come pure ad altri offesi da lui con tante impertinenze”.
Le cose delle Regole non vanno bene, contrariamente a quanto aveva più volte assicurato da Roma l’amico don Ghisellini: “Speranze deluse! Dalla S. Congr.e dei V.V.R.R. invece del Rescritto di approvazione alle nostre Regole ci si ripetono le vecchie Oservazioni del 1866; più nuove avvertenze ci si propongono. Insomma siamo ancora a principio della questione. Sia fatta in tutto e per tutto la Sant.ma alt.ma e amabil.ma Volontà del Signore”. Il giorno dopo. P. Sapori annota nel diario: “Si comunicano a questa famiglia [di Venezia] le sudd. avvertenze, ed ad essa si raccomanda caldamente di pregare con fervide suppliche lo Spirito Santo acciocchè ne illimini la mente a conoscere e fare il meglio che più torni alla gloria divina e al bene del nostro povero Istituto”.
Sia pure con difficoltà, per motivi di salute e altro, ad avere presenti i due definitori e il delegato o discreto della casa di Lendinara, il 1° settembre 1887 si tenne il capitolo provinciale ordinario. Nel corso di questo, P. Domenico Sapori ultimò il suo breve e sofferto biennio come preposito nel settembre 1887 e fu sostituito dal capitolo provinciale, che elesse al suo posto P. Giuseppe Da Col, e la notizia del cambio del governo presenta già la grafia molto tipica di Da Col. Nel diario di Congregazione quindi cambia la scrittura.
P. Domenico nel suo brevissimo mandato aveva stimolato fortemente la redazione della seconda parte delle costituzioni e una parziale riforma della prima. Ma aveva anche sofferto molto: P. Giovanni Chiereghin annota: «Non esitiamo ad affermare che questi due anni furono per lui anni di grandi sofferenze, di agri dolori, all’inizio a causa della sua sincerità ed autentica umiltà, con la quale avrebbe osteggiato qualsiasi carica, e anche per delle circostanze critiche speciali, che potevano scuotere vivamente il suo carattere focoso. Pianse ma accettò per il bene dell’Istituto e se il Signore lo volesse, sarebbe rimasto di più in croce.».
Durante il mandato di P. Sapori, si era fatto, come si è detto sopra, un ultimo tentativo (prezioso, commovente, significativo, ma un tantino ingenuo e soprattutto ostinato e irrealista) in nome della Congregazione e soprattutto dei discepoli e compagni dei fondatori quando questi erano ancora in vita, che si chiamavano spesso gli «anziani», scrivendo per ottenere dalla Santa Sede, presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, il ritorno alla struttura originale. Si chiedeva cioè di ritornare ai voti “locali” e temporanei, senza superiore generale, di abbandonare la forma di congregazione religiosa, e di ritornare alla condizione originaria che oggi si chiamerebbe una società di vita apostolica. La risposta di Roma fu negativa, come era ovvio e come si è visto.
Dopo il capitolo provinciale del 1° settembre 1887, P. Domenico Sapori visse i suoi ultimi anni a Lendinara, come pro-rettore di quella casa dell’Istituto, dal settembre 1887 all’ 8 agosto 1890, giorno in cui fu colpito da un attacco apoplettico e fu trasportato esanime alla casa della comunità dal convento femminile dove era andato a confessare le suore. Restò allora a Lendinara, dove P. Giuseppe Bassi lo sostituirà come pro-rettore; lì continuò a dare il buon esempio alla comunità e al popolo con la sua pazienza, la capacità di sopportare il dolore, la sua rassegnazione e la sua totale abnegazione alla volontà divina. Soffrì un secondo attacco apoplettico il 2 febbraio 1894 e ne morì quattro giorni più tardi, il 6 febbraio 1894, dopo aver lungamente sofferto della paralisi che lo aveva lasciato allettato per ben tre anni e mezzo.
Era stato sepolto naturalmente nel cimitero (vecchio) di Lendinara. Il 18 gennaio 1910 tuttavia P. Vincenzo Rossi, “il preposito, con Don Pietro Rover parroco di Bonisiol[o], presenziarono il trasporto delle ossa dei PP. Domenico Sapori e Narciso Gretter dal luogo ov’erano stati tumulati in Lendinara, al sepolcreto speciale della Congregazione. Purtroppo, come si spiega meglio nella biografia del P. Vincenzo Brizzi, non si sa dove e cosa sia questo “sepolcreto speciale della Congregazione”. Le sue spoglie si devono quindi considerare disperse.
2. L’era di papa Leone XIII
Era l’era di Papa Leone XIII. Il suo pontificato (1878-1903) corrisponde in Europa a un periodo difficile per la chiesa, soprattutto a causa di ciò che si può chiamare «l’apogeo dell’anticlericalismo», sia a livello degli intellettuali, delle università, dei centri di ricerca, della massoneria, e inoltre, in Italia, dello stato, il Regno d’Italia; e ancora spesso a livello popolare, per esempio nelle regioni degli antichi stati della chiesa (Emilia, Romagna, Umbria, Marche, Lazio) e ancora di più a Roma.
L’abilità di Leone XIII, Vincenzo Pecci, che era stato vescovo di Perugia e in seguito cardinale, « si è concretizzata nell’unire alla fermezza della dottrina, sviluppando una teologia politica molto ampia, un grande talento diplomatico che gli permisero di calmare situazioni di conflitto che alimentavano la rivendicazione dei diritti della chiesa». Riesce anche a calmare abbastanza le tensioni dovute alla presa di Roma, con la ritirata del pontefice e dello stesso Leone XIII al Vaticano; e a tutta la questione romana, che sarà tuttavia risolta solo una trentina d’anni più tardi, dato che anche questo papa era intransigente su questo punto. Di nobili origini, era un papa dall’aspetto e dalla postura ieratica e pontificale.
Nelle sue numerose e importanti encicliche di carattere politico e sociale, riafferma da un lato i valori del diritto canonico e la sua distinzione rispetto al diritto naturale e alla presenza dell’autorità divina sull’autorità degli stati, dei re e dei governi, così come insiste sul concetto e sulla pratica del centrismo romano, benché temperato, dato che consultava di frequente i vescovi e il collegio dei cardinali; si oppose al razionalismo e al regalismo che volevano dominare le chiese; si richiama al Sillabo di Pio IX; ma allo stesso tempo apre un dibattito più ampio e riconosce certi valori di libertà, democrazia e progresso scientifico. La più conosciuta delle sue encicliche è di certo la Rerum novarum (1891) in cui discute la situazione sociale e soprattutto quella del mondo del lavoro. Condanna il socialismo ma anche il liberismo assoluto. Questa lettera enciclica pontificia apre il passo ad altre encicliche pubblicate soprattutto nei vari anniversari della Rerum novarum, da parte di vari papi suoi successori sempre più impegnati nella difesa dei lavoratori, dei poveri e della giustizia sociale.
Papa Leone aveva anche dimostrato una notevole apertura di spirito nel campo della critica biblica e storica, lasciando libero accesso ai ricercatori di ogni religione o confessione all’archivio vaticano. Nella sua enciclica Providentissimus Deus del 1893 favoriva lo studio della linguistica delle lingue bibliche e una sana critica del testo, nello stesso tempo in cui ribadiva l’inerranza delle scritture; e nel 1902 istituì la commissione biblica pontificia.
Un tratto caratteristico del mandato pontificio di Leone XIII fu la ricerca del dialogo, di stabilire pacificazione e unità con le chiese orientali, iniziativa preziosa ma che non ebbe molto successo a causa delle resistenze locali sia da parte dei cattolici che degli ortodossi.
Bisognerà studiare quanto impatto ebbe la sua dottrina, il suo messaggio e la sua pratica sulla vita del nostro istituto.
3. Padre Giuseppe Da Col, preposito generale (1887-1900)
Giuseppe Da Col è nato a Venezia il 21 gennaio 1819. Ha vissuto dalla nascita nella casa dei fondatori essendo figlio di uno dei domestici della famiglia dei conti Cavanis, Camillo Da Col (soprannominato Fortunato e chiamato così in tutte le lettere dei fondatori). Suo nonno per parte di padre si chiamava anche lui Giuseppe Da Col, come suo nipote P. Giuseppe, ma veniva chiamato con il diminutivo veneziano Beppetto. Anche P. Giuseppe, del resto, era chiamato, almeno in adolescenza Bepetto.
Giuseppe crebbe avendo come educatrice la madre dei fondatori, la contessa Cristina Pasqualigo Basadonna Cavanis, e più tardi come consigliere spirituale P. Antonio.
Entrò nella «casetta» il 19 maggio 1832, sei giorni dopo P. Marco. Vestì l’abito clericale, cioè la talare, il 23 agosto 1834. Ricevette la tonsura il 23 settembre 1837. Indossò l’abito Cavanis con gli altri religiosi e seminaristi il 15 luglio 1838, il giorno prima dell’erezione canonica dell’istituto. Fu istituito nei tre ultimi ordini minori (lettorato, esorcistato, accolitato) l’8 agosto 1841 e ricevette il suddiaconato il 18 settembre 1841 e il diaconato il 26 marzo 1842. Emise la professione religiosa il 1° febbraio 1843. Fu ordinato prete lo stesso anno, l’11 marzo 1843.
Negli studi teologici di quattro anni si era distinto con la qualifica di “prima classe” in tutte le materie, spesso “con eminenza”.
Fu inviato a Lendinara e restò in questa città fino al 1857, l’anno in cui fu trasferito a Possagno, per essere il primo rettore della nuova casa e comunità e parroco dell’antica parrocchia della Santissima Trinità, di cui il tempio del grande architetto e scultore Antonio Canova è chiesa parrocchiale.
Durante ventitre anni fu parroco di questa parrocchia (il primo Cavanis parroco e prete di parrocchia), in cui lasciò un ottimo ricordo perché era realmente un buon pastore. Essendo parrococontinuò assieme al fratello laico Francesco Luteri la presenza Cavanis a Possagno per molti anni, dopo che ci fu la soppressione dell’istituto, la chiusura della scuola e l’assenza conseguente della comunità Cavanis sensu stricto di Possagno (dal 1869). Durante questo periodo eccezionale, portava la veste talare, la fascia e la mozzetta, proprie del parroco invece dell’abito religioso Cavanis, che non poteva più indossare dopo la soppressione. Durante i suoi anni di attività pastorale come parroco di Possagno, fu particolarmente stimato da monsignor Giuseppe Sarto, il futuro S. Pio X, che era originario di quel territorio.
Nel 1853 e 1858, rispettivamente, Padre Da Col tenne due discorsi funebri molto apprezzati (rispettivamente a Venezia e a Possagno) nell’occasione della morte di ciascuno dei due fondatoriscrisse una testimonianza per servire alla biografia di P. Marco. A questo proposito, nel suo archivio personalesono conservati numerosissimi testi, di sua mano, delle sue omelie e catechesi, tenute sia come parroco di Possagno, sia come preposito generale in occasione di vestizioni, professioni religiose, messe novelle, sia ancora per i capitoli di famiglia quando era preposito e dunque anche rettore a Venezia.
Qualche dettaglio sul periodo del suo mandato:
1887 – Fu eletto preposito generale durante il periodo di difficoltà, anche per la Congregazione, relativa al decreto Post Obitum e alla questione rosminiana. Nel Diario di Congregazione, alla data del 1° settembre 1887 si trova la seguente frase: “Questa mattina, come erasi già stabilito, si tenne il Capitolo per le elezioni generali. A Preposito dell’Istituto riuscì eletto il Padre Giuseppe Da Col. Che il Signore lo benedica, e gli conceda di veder prosperare ogni dì più in nostro povero Istituto!” Dopo questa frase, il diario è compilato sempre nell’inconfondibile scrittura del P. Da Col. Questi fu rieletto preposito per diversi trienni, fino al 1900. Introdusse così la Congregazione nel XX secolo.
Il 16 luglio 1888 fu celebrato il cinquantesimo anniversario solenne dell’istituzione canonica della Congregazione, celebrato nella chiesa di S. Agnese dal cardinal Agostini, patriarca di Venezia.
Era un periodo abbastanza piatto in Congregazione: la casa di Lendinara era morente, si manteneva più che altro per principio, soprattutto perché non si rimanesse con la vergogna di avere soltanto la casa madre; la casa di Venezia aveva un numero insufficiente di religiosi insegnanti, tanto che, per poter provvedere all’insegnamento liceale per due aspiranti, si dovette contrattare un insegnante laico di latino e greco; nell’ultimo decennio e anche negli anni seguenti si avevano normalmente al massimo due o tre aspiranti e postulanti, non di più, e anche i chierici erano scarsissimi. Il verbale della riunione del capitolo definitoriale del 10 agosto 1891, consistente in poche righe, in un fascicolo annuale che contiene solo questo foglietto, esordisce con una frase piena di tristezza: “Purtroppo non c’era da pensare alla Costituzione di famiglie. Preghiamo, e preghiamo di cuore il Signore a benedirci, così che nel 1894, ed anche prima se Gli piace, sia necessario occuparsene”. La Congregazione pareva veramente morente, anche se si stava lavorando ora con maggior vigore al rinnovamento delle costituzioni.
Tabella: i sacerdoti Cavanis nell’agosto 1891
COMUNITÀ DI VENEZIA
COMUNITÀ DI LENDINARA
A Venezia oltre ai padri c’erano probabilmente 2 o 3 fratelli laici, di cui le fonti finora tacciono i nomi, come spesso succede; e sicuramente 2 novizi (probabilmente Augusto Tormene e Francesco Saverio Zanon); a Lendinara c’era il postulante (non professo, candidato alla tonsura; ammalato) Giovanni Maria Spalmach e probabilmente un solo fratello laico.
In totale, c’erano in Congregazione sedici sacerdoti professi, 3 o 4 fratelli professi (in tutto, 19 o 20 professi) e tre seminaristi non ancora professi.
NB: P. Sapori era paralizzato; dopo un anno e due mesi sarebbe morto il P. Rovigo; l’anno seguente 1893, P. Francesco Cilligot avrebbe lasciato la Congregazione, e P. Ghezzo sarebbe impazzito e ricoverato in manicomio.
Nel frattempo, si continuava la corrispondenza con la Congregazione dei Vescovi e Religiosi, con l’appoggio anche del Patriarca, e sempre con la mediazione di don Giuseppe Ghisellini a Roma; quest’ultimo divenuto nel frattempo monsignore. È particolarmente importante la lettera del 17 dicembre 1887, diretta collettivamente dagli anziani dell’Istituto al cardinale prefetto della S. Congregazione.
Proseguiva però in Istituto l’attesa spasmodica del decreto di approvazione delle nuove costituzioni. L’amico monsignor Ghisellini continuava periodicamente e cordialmente a inviare lettere piene di speranza, ma il 29 gennaio 1889 il tono delle lettere cambia: “Lettera d’informazione riguardo all’affare pendente [dell’approvazione delle costituzioni], che, purtroppo non pare sia per essere in breve favorevolmente conchiuso”, come scrive l’amico Ghisellini. “Scrivono da Lendinara i PP. Sapori e Bassi relativamente alla lettera loro comunicata del Ghisellini, che essi giudicano di non insistere con altre istanze, e tirar innanzi senz’altro nello stato in cui siamo; ma insieme dichiarano di uniformarsi pienamente a ciò che qui dagli altri Padri sarà deciso”.
Si pensò per vari giorni a Venezia, come a Lendinara, sulla risposta da dare e su che cosa fare; e poi “Dopo che tutti i Sacerdoti della Famiglia [di Venezia] pensarono in questi giorni sulla risposta da darsi alla lettera n° 5 di D. Ghisellini, ci siamo raccolti questa sera e fatto diverse osservazioni, si convenne di dover rispondere che non si vorrebbe fare appello alla S. Congregazione in forma solenne col mezzo d’un Avvocato, secondo il consiglio dallo stesso M.r Uditore della Sacra Congregazione, e che piuttosto desideriamo di sapere se, dopo che avessimo avuta communicazione uffiziale dell’ultima decisione del Congresso (sic), potessimo noi stessi innalzare un ricorso, affinché l’affare fosse esaminato dalla Congregazione de’ Cardinali la quale sola dà una sentenza finale, alla quale noi fin d’ora ci dichiariamo pronti di rimetterci pienamente. Così scrissi oggi stesso all’amico Ghisellini, aggiungendogli due osservazioni alla sua lettera; la prima, che noi non possiamo essere pareggiati alle Suore del Preziosissimo libere da voti; poiché noi già li abbiamo i nostri voti secondo il Breve apostol. di fondazione, e la spiegazione sulla loro natura data dalle nostre Costituzioni approvate. L’altra osservazione che noi già siamo soggetti ai Vescovi, e questo pure secondo il detto venerato Breve apostolico, e nel senso spiegato dalle medesime Costituzioni, e sempre praticamente inteso dai rispettivi Ordinariati Vescovili”. La questione viene poi più ampiamente esposta nel diario qualche giorno dopo.
Ancora sulla questione: “Riferisce l’amico D. Ghisellini la conferenza che potè finalmete tenere coll’Emo. Card. Prefetto della S. Congregazione de’ V. e R. sui nostri voti. – All’interpretazione data in proposito dal Card. al Breve Pontif.o di approvazione dell’Istituto ci pare di dover soggiungere sommessamente qualche osservazione, e le faremo dopo di aver sentito il parere degli anziani”.
L’opinione degli anziani arriva tra l’altro da Lendinara: “Rispondono i PP. Sapori e Bassi dichiarando amendue di farla finita, e che convenga rimettersi all’interpretazione Superiore riguardo ai voti”. In seguito: “Risponde il Rvd.o D. Ghisellini all’ultima mia – scrive P. Da Col -; ed attende una nuova nostra istanza, ch’egli presenterà al Emo. Card. Prefetto della S.C. per far cessare il “Dilata” sul nostro affare ecc.”. L’istanza viene redatta, firmata dai padri di Venezia, inviata a Lendinara perché fosse firmata anche da quelli, e quindi inviata a Roma al caro Mons. Giuseppe Ghisellini, divenuto in pratica da tempo per semplice amicizia “procuratore generale” dell’Istituto a Roma.
Il 15 agosto 1889 il diario riporta: “L’amico D. Ghisellini accompagna una lettera dell’Emo. Card. Prefetto della S. Congr. de’ V. e R. al nostro Emo. Patriarca riguardante la decisione emessa nell’ultimo Congresso (Congresso dei Cardinali) pel nostro affare, perchè ci sia ufficialmente comunicata”. E il 16 seguente: “Questa mattina diedi alle ven. mani dell’Emo. Patriarca la lettera suindicata dell’Emo. Card. Prefetto, ed oggi stesso me ne fu spedita copia dalla Rma. Curia Patr.e. In detta lettera ci viene dichiarato perentoriamente il da farsi per avere l’approvazione delle nostre Costituzioni”.
Dato che il preposito Da Col e i definitori Casara, Sapori, Giovanni Chiereghin e Bassi erano riuniti in capitolo definitoriale fin dal 14 agosto, il preposito il giorno 19 continuò il capitolo, per sé concluso quella mattina, e “Dietro la lettera comunicata ci dall’Emo. Patriarca si raccolsero i Padri Capitolari qui presenti; si discussero e si votarono i punti da introdurre nel nuovo Schema delle Costituzioni, che si farà di preparare al più presto possibile”.
Detto schema, cioè la nuova versione, fu presentata al patriarca il 17 settembre 1889, e il cancelliere la rimise a Roma il giorno stesso, con una accompagnatoria “commendatizia autografa” del patriarca.
Il 3 aprile 1890 don Ghisellini anticipa ai padri, riservatamente, il voto positivo dato allo schema delle costituzioni dalla S. Congregazione. Ma le cose non erano ancora finite: “Quando il nostro affare delle Regole si riteneva che tra pochi giorni fosse definito, fu chiamato il Ghisellini a fornire stampate, in copie dodici circa il nostro nuovo regolamento manoscritto per distribuirlo ai Consultori – Gli risposi il giorno stesso che ne faccia pur subito stampare le copie occorrenti per detti Consultori che gli saranno da noi, come di dovere, rimborsate le £ 150 occorrenti”. Quanta pazienza era necessaria! E quanta costanza anche da parte di don Ghisellini! Questi ne inviò due copie per conoscenza al preposito il 10 luglio 1890, e si può immaginare l’effetto che avrà fatto vedere le regole stampate, anche se non ancora approvate.
Il caro e benemerito don Ghisellini morì a Roma verso la fine del 1890, ma il processo per l’approvazione delle regole avanzava sia pure con il passo dell’eternità romana e, occorre dire, per altro verso e in scala più modesta, l’eternità veneziana dei Cavanis.
Il 6 agosto 1891 intanto si celebrava a Venezia il capitolo provinciale (4-9 agosto 1891), e P. Giuseppe da Col venne ancora eletto preposito. Nel capitolo tra l’altro si discute, con risultati dilatori, e alla fine negativi, sulla possibilità di accettare l’invito di ritornare ad aprire la casa di Possagno, come si è visto sopra.
Pochi giorni dopo giungeva finalmente il sospirato decreto di approvazione. Infatti, il 14 agosto 1891, alla vigilia dell’Assunzione, sotto Leone XIII, la sacra Congregazione dei vescovi e regolari approvò in via definitiva la 1ª parte (emendata) e la 2ª parte (completamente nuova) delle nostre costituzioni. La prima parte era già stata approvata nel 1836 e pubblicata nel 1837. Ma per una decisione della stessa Congregazione romana si era dovuta aggiungere una modifica importante relativa ai voti perpetui semplici, che sostituivano i cosiddetti voti locali. Seguì la pubblicazione della seconda parte delle costituzioni sulla struttura della direzione dell’Istituto. Le due parti furono ripubblicate e stampate assieme in volume unico, di cui rimangono alcune copie in AICV.
Così narra P. Da Col nel diario: “Questa mattina venne in persona il M. Rdo. D. Antonio Marchiori a portarci il manoscritto delle nostre Costituzioni modificato dalla S. Congregazione di Vescovi e Regolari, e munito del ven.o Pontificio Decreto di approvazione, in data 14 del corr.e vigilia dell’Assunzione della Madonna – Sieno grazie, e benedizioni di tutto il cuore al Signore, alla cara nostra Madre Maria, a tutti i Santi protettori, particolarmente a S. G. Calas.o”.
Si conclude così il lunghissimo processo durato circa 40 anni per la redazione e l’approvazione soprattutto della II parte delle Costituzioni, riguardanti la struttura della Congregazione, il suo governo, i capitoli, la formazione; lavoro che non era stato svolto dai fondatori nel 1835-38, ed era stato iniziato da P. Casara nei primi anni ’50 del XIX secolo.
L’8 dicembre 1891 si ottenne dalla Curia patriarcale la licenza di stampare le nuove regole, a partire dal manoscritto approvato a Roma.
La questione delle costituzioni non era però ancora terminata, perché i padri non sembravano mai soddisfatti della nuova formulazione imposta dalla S. Sede. Troviamo nel diario, in data 7 novembre 1893: “Oggi fu presentata a questa Rma. Curia [patriarcale] l’istanza all’Emo. Card. Prefetto della S. Congregazione dei Vescovi, e dei Regolari, implorando favorevole risposta intorno ad alcuni punti delle nostre Costituzioni, e oggi stesso dal m.o rev.o Cancelliere fu spedita a Roma. Il giorno successivo P. Da Col scrisse a mons. Sarto a Mantova per avere una raccomandazione in proposito presso il Prefetto della Congregazione; il vescovo confermò per lettera di aver inviato la sua raccomandazione.
La risposta della S. Congregazione giunse, tramite la cancelleria patriarcale, il 14 maggio successivo.
Già il 19 agosto si inizia a mettere in pratica il prescritto delle nuove regole, e si approva la professione temporanea triennale “dei tre novizi chierici [Giacomo] Ballarin, [Augusto] Tormene e [Francesco Saverio] Zanon e del laico [Angelo] Furian, stabilita pel giorno il 13 del p.v. novembre, festa di S. Stanislao Kostka, e da farsi privatamente, riservando la pubblicità per la professione perpetua”. La professione si compì “a porte chiuse, coll’intervento soltanto di alcuni più prossimi parenti”; quella dei “chierici” la mattina in chiesa di S. Agnese, quella del laico la sera nell’Oratorio domestico, come di [infausto, NdA] costume.
Nei mesi da giugno a settembre 1892 il preposito e suo consiglio o capitolo definitoriale sono occupati in una fitta corrispondenza, accompagnata da visite, coll’arciprete e con le autorità comunali di Possagno, per una eventuale riapertura del Collegio. Se ne parla, cosa rara di quei tempi, nel verbale del capitolo definitoriale de 1° luglio 1892, prendendo la seguente decisione: “Ove siano ammisibili le condizioni, che venissero proposte, la Congregazione con uno dei suoi sacerdoti fornito di titolo legale aprirà in Possagno il Collegio-convitto dall’ottobre del 93-94, per alunni della Iª classe ginnasiale, ammettendo anche, se si presentassero, giovanetti di classi elementari, i quali dovrebbero concorrere alle scuole del Comune”. Dell’argomento della riapertura della casa di Possagno si parla pure ampiamente nei verbali del 16 e del 24 luglio successivo e del 30 agosto. Quest’ultimo verbale è accompagnato (anzi contiene, essendo un foglio da protocollo doppio) varie bozze di preliminari di contratto con il comune di Possagno.
Nel mese di agosto vari padri visitano quella borgata e prendono accordi concreti, mentre si stanno già effettuando lavori di restauro dell’ambiente. Il ritorno a Possagno dei padri Cavanis accadde, come si sa, in modo anticipato sul previsto il 10 ottobre 1892. Si veda in proposito il capitolo sulla casa di Possagno.
L’11 marzo 1893 P. Da Col festeggia privatamente e il 20 marzo solennemente il 50° anniversario della sua ordinazione presbiterale.
Il 23 giugno 1893 si celebrò una festa straordinariamente solenne per commemorare il terzo centenario della morte preziosa di S. Luigi Gonzaga. Attraverso le offerte degli allievi di Venezia, s’inviò a Castiglione delle Stiviere (la cittadina natale del santo, in provincia di Mantova) un cuore votivo d’argento con i nomi di tutti gli alunni, compresi quelli che frequentavano la scuola di Lendinara.
Il 1893 fu anche un anno di dolori, e possiamo comprendere quanto ne abbia sofferto la comunità leggendo quanto scrive P. Da Col, preposito, il giorno 13 agosto 1893 da Venezia: “Scrivo al P. Rossi a Possagno, incominciando la lettera con le parole dette in seduta definitoriale dal nostro P. Vicario [Casara]: ‘piace al Signore di vederci umiliati e colpiti da gravi tribolazioni’, alludendo alle circostanze nelle quali qui ci troviamo. Il P. Francesco Cilligot partito per non ritornar più, ed il povero P. Ghezzo ridotto a tale per pazzia religiosa da dover esser domani trasportato al manicomio di S. Servolo. Ecc.”.
Una curiosa e interessante notizia si trova nel diario il 5 maggio 1894: “Dal Santuario di Pompei. Il sig.r Avv. Bartolo Longo dichiara ricevuta la mia raccomandazione e di aver fatto quanto ci sta a cuore per implorare dalla Madonna quello che tanto si desidera”.
Per obbedire alle prescrizioni della Congregazione dei vescovi e regolari, tutti i religiosi dell’Istituto (tranne i più giovani, ancora all’inizio della loro vita religiosa e ancora in formazione) il 31 maggio 1894 rinnovarono la loro professione temporanea come professione perpetua.
L’8 agosto 1894 iniziò il secondo capitolo generale ordinario, nel quale, già il primo giorno, fu rieletto preposito generale per un terzo mandato P. Giuseppe Da Col. L’11 seguente la comunità di Venezia elesse lo stesso preposito come suo rettore o superiore locale. La terza elezione di P. Da Col come preposito fu approvata dalla S. Sede, ossia dalla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari il 31 agosto, e la curia patriarcale, in ritardo (marcato da un “!” nel diario), ripassa detto decreto al preposito soltanto in ottobre avanzato.
Il padre Gianmaria Spalmach, già ordinato prete, e i seminaristi Augusto Tormene e Francesco Zanon furono i primi che, una volta finito il triennio di professione temporanea, si unirono all’Istituto con la professione semplice ma perpetua, secondo le nuove costituzioni nella seconda parte, il 15 novembre 1894. Il diario di Congregazione, nelle pagine scritte in quest’anno 1894, ci presenta, come sempre in questi ultimi decenni del XIX secolo, una situazione poco rosea in fatto di giovani impegnati nella formazione iniziale: oltre ai due seminaristi teologi di cui sopra, e un certo chierico Giacomo Ballarin, impegnato purtroppo a lungo nel servizio militare e che poi lascerà la Congregazione senza raggiungere né la professione perpetua né gli ordini sacri, risultano solo tre aspiranti a Possagno e forse qualche novizio a Venezia.
Nel 1895 si presenta al governo della Congregazione il dilemma, veramente difficile da risolvere nella reale estrema ristrettezza di personale dell’Istituto, se mantenere aperta la casa di Lendinara e allora dover lasciare a Possagno da solo, a condurre il Collegio Canova, il relativamente giovane P. Vincenzo Rossi (aveva allora 33 anni), oppure se decidersi a chiudere Lendinara per rinforzare la presenza a Possagno. La casa di Lendinara era cara, soprattutto per essere stata aperta dai fondatori e per l’impegno assunto da questi stessi. Tuttavia, come si sa, l’Istituto si decise per la seconda possibilità o secundum cornu del dilemma. Così è stata registrata la decisione nel verbale del capitolo definitoriale del 29 agosto 1895: “Stando le cose in questi termini, due sole sono le proposte che il Preposito potea presentare al Definitorio:
La scelta non potea essere dubia (sic). Non avrebbero esitato neppure i Fondatori stessi. È vero che promisero all’ignoto benefattore di restare a Lendinara malgrado ogni opposizione: ma qui si tratta non già di cedere a contrarietà di malevoli, ma di ritirarsi sol perché mancano gli individui.
Per ora quindi resterà a Lendinara il solo P. Gretter col fratello laico Pietro Sighel. Il P. Bassi col fratello Clemente andrà a Possagno.
Dolorosa è certamente da una parte questa determinazione; dall’altra però i sottoscritti si confortano colla speranza di aver fatto ciò che dalle circostanze appariva più conforme alla Volontà del Signore.
Vorrà il Signore che ritorniamo a Lendinara? Come ha fatto a Possagno disporrà le cose in modo che ci apparisca chiaro il suo Volere, ed il seguito sarà per noi un dovere, ed un indicibile conforto”.
Numerosi scritti di questi anni dell’allora monsignor Giuseppe Sarto (più tardi, Papa San Pio X) dimostrano che questi aveva una grande stima di P. Da Col, come si può notare nelle sei lettere del santo padre al nostro, conservate nell’archivio personale di P. Da Col, nell’AICV.
Nel 1896, in questo clima di amicizia, il card. Patriarca Giuseppe Sarto ordina due preti dei nostri, Augusto Tormene e Francesco Saverio Zanon, nella chiesa di S. Agnese.
Nello stesso anno, una breve frase nell’unico breve verbale di una riunione di capitolo definitoriale di quest’anno, del 31 agosto 1896, ci informa della situazione delle vocazioni e dei seminari, dopo le recenti ordinazioni presbiterali, che rimane molto debole: “… ci verranno da Possagno tre giovani studenti, forniti della licenza ginnasiale, altri due o tre aspiranti verranno accolti in quella casa per la prima prova. Che il Signore benedica quel vivaio pel nostro Istituto, e dissipi ogni nuvoletta che mai potesse levarsi minacciosa sul suo orizzonte!” Ci sono dunque in quest’anno scolastico 1896-97 soltanto cinque o sei aspiranti, dati come probabili, e, a quanto pare, nessun studente teologo!
La situazione rimane dunque piatta; e ciò è valido anche per quanto riguarda l’attività di governo; in questi anni 1895-98 il definitorio si riunisce soltanto una volta all’anno (e non sempre. Del 1999 non risultano verbali delle riunioni del capitolo definitoriale) praticamente non si formano anno per anno le comunità, ma si lascia tutto com’è, salvo quando una comunità diminuisce di una unità a causa di un decesso. Così commenta in proposito il verbale della riunione del definitorio del 3 settembre 1897: “Il primo motivo per cui dopo il Generale si tiene il capitolo definitoriale, è ad singulas familias Congregationis constituendas. Pur troppo finchè il Signore vuole che siamo tam pusillus grex, è facile questo compito dei Definitori”.
La Congregazione sulla fine del 1894 ebbe il piacere e la gioia di avere a Venezia, nominato arcivescovo e patriarca (15 giugno 1893), Mons. Giuseppe Melchiorre Sarto, vecchio amico dell’Istituto da tutta una vita, come prete e monsignore a Treviso e poi come vescovo di Mantova. Era rimasto sempre in contatto con i padri e li aveva aiutati in molte occasioni, come si è visto qua e là. La sua presa di possesso della cattedra episcopale di Venezia fu molto ritardata; infatti il governo del regno d’Italia rifiutò a lungo il proprio exequatur, cioè il suo consenso, dichiarando che la nomina del patriarca di Venezia spettava al Re d’Italia e suggerendo pure che il vescovo di Mantova era stato scelto come patriarca di Venezia su pressione del governo dell’Impero austro-ungarico. Mons. Sarto dovette quindi aspettare addirittura 18 mesi prima di poter assumere la guida pastorale del patriarcato di Venezia. Nel frattempo, forse anche per motivo polemico, egli ricevette la berretta cardinalizia nel concistoro del 12 giugno 1893.
Il diario della Congregazione ricorda in data 14 settembre 1894 la cordiale risposta ricevuta dal Sarto ai complimenti affettuosi inviatigli per posta dal preposito Da Col in occasione dell’ “exequatur”; la sua presa di possesso “corporale” è registrata, in anticipo di qualche giorno, il 17 novembre 1894; e poi si ricorda lungamente la visita privata resa al patriarca Sarto da parte del preposito Da Col e di altri padri, per le congratulazioni personali il 13 dicembre: “Oggi alcuni di noi si recarono a prestare omaggio speciale al nostro Eminentiss.o Patriarca a nome di tutta la Congregazione, dopo le publiche dovute dimostrazioni di riverenza ed esultanza fattegli, al suo arrivo in Venezia, ed il giorno in cui prese possesso in S. Marco. – Gli abbiamo oggi presentato un bel quadro rappresentante in lavoro a matita assai bene riuscito, e tratto da una fotografia l’Effigie del benedetto P. Tito Fusarini, leggendogli la dedica, nella quale sono ricordate le relazioni dello stesso P. Tito col giovanetto Giuseppe Sarto ora insignito della dignità Cardinalizia, ecc. – Ci accolse, e conversò con noi l’Eminentissimo con singolare bontà; protestò più volte che non potevamo fargli regalo più gradito, e ce ne ringraziò colla maggiore espansione di cuore, impartendoci la Pastorale Benedizione, e prometendo di venire quanto più presto potrà a visitarci”.
Il Patriarca Sarto rimarrà a Venezia fino alla fine di luglio 1903, quando si recò a Roma al conclave che lo avrebbe eletto papa.
Intanto, fece la sua prima visita all’Istituto Cavanis, come promesso, il 17 dicembre 1894: “Oggi nel dopo pranzo venne improvvisamente l’Eminentiss.o Patriarca. Colla sua usata bontà, e famigliarmente come Padre in famiglia, si intrattenne con la nostra Comunità, esprimendo con ciascuno di nostri anziani, e coi giovani chierici e novizj parole di paterno affetto; e, impartita la Pastorale benedizione, ci lasciò ricolmi di gioia, e riconoscenza”.
Nell’ottobre 1895 la situazione degli aspiranti Cavanis migliorata: A Possagno ce ne sono sette: Pancino, [Giovanni] Rizzardo, Calotto, [Giovanni] D’Ambrosi, Valcanover, Echer, Massarotto. Di questi, persevereranno in Istituto soltanto Giovanni Rizzardo e Giovanni D’Ambrosi.
A Lendinara intanto la casa si stava gradualmente chiudendo, e si stavano cedendo gratuitamente mobili e oggetti vari alle comunità religiose locali, come si è detto sopra.
Negli anni 1891-1901 si parla frequentemente di un certo Giacomo Ballarin: come seminarista Cavanis dal 1891 al 1998; come congregato e prete dell’Istituto di Venezia dal 1898 all’anno scolastico 1900-01. Poi non se ne parla ulteriormente. Dopo lunghe vicende del suo lungo servizio militare obbligatorio, e dei suoi studi all’università di Padova, condotti sotto l’autorità militare, e dopo essere rientrato in comunità nel 1896 e aver cambiato l’uniforme militare con l’abito religioso, e dopo aver avuto qualche difficoltà ad ottenere il permesso di essere ammesso alla professione religiosa, emise di fatto la professione religiosa perpetua nell’Istituto a Venezia l’11 ottobre 1896. Fu ordinato suddiacono a Venezia dal patriarca Sarto il 19 dicembre 1896, diacono dallo stesso, pure in S. Agnese il 13 marzo 1897; poi prete dalla stesso patriarca e sempre a S. Agnese il 17 aprile 1897. La sua uscita dalla Congregazione, su sua richiesta, avvenne il 16 luglio 1901, sebbene si trovi nella lista dei religiosi della comunità di Venezia 1901-02. Tutto il carteggio relativo alla sua situazione di ribelle, e poi della sua uscita di Congregazione, che all’epoca costituì un grave scandalo e dette un grande dolore ai confratelli, di trova nel fascicolo 1901, busta Curia 16, dei carteggi della curia generalizia nell’AICV.
Il preposito generale P. Da Col ricevette un’istanza da Imola (oggi comune della città metropolitana di Bologna in Emilia) per una fondazione dell’Istituto, di cui non si fa nulla, dopo sentito in capitolo definitoriale.
Nell’agosto 1897 si celebrò il 3° capitolo generale ordinario a Venezia. P. Da Col scrive così nel diario di Congregazione: “Questa mattina coll’assistenza della Comunità celebrai alle ore 8 in S. Agnese la S. Messa per la Congregazione. Alle 9 si raccolsero nell’Oratorio grande [attuale Aula magna] il Preposito coi PP. Casara, Bassi, Giovanni Chiereghin, Larese, Dalla Venezia, e [Carlo] Simeoni Discreto di questa Famiglia, e si compirono gli atti richiesti dalle Costituzioni, risultando io miserabile eletto a Preposito pel quarto triennio, dipendentemente però dall’approvazione della S. Sede, alla quale per mezzo di questa Rma. Curia Patr.e si spedisce subito il relativo processo verbale”. Il 4 agosto la comunità di Venezia elegge P. Da Col anche come rettore della casa.
Nel 1900 terminava il quarto e ultimo mandato triennale del buon P. Giuseppe Da Col. Aveva scritto personalmente e con costanza il diario della Congregazione. La sua scrittura dalle linee alternativamente fini o molto grosse è inconfondibile. Negli ultimi anni la calligrafia era diventata tremolante data la sua età. Nel capitolo generale del 1900 era stato sostituito nel governo della congregazione dal P. Giovani Chiereghin.
P. Francesco Saverio Zanon scriveva di Giuseppe Da Col: «Uomo dalla vita santissima, austero nella figura, molto dolce pur nell’autorevolezza paterna, conserva la più profonda riverenza e il più tenero affetto verso i fondatori durante tutta la sua vita». Nel suo libro «Padri educatori» lo stesso P. Zanon lo ricorda come suo professore di dogmatica e di diritto canonico, nello studio teologico interno dell’Istituto Cavanis a Venezia, durante gli anni del suo mandato in qualità di preposito generale, ma lo ricorda soprattutto come superiore e vero padre nei suoi primi anni di vita religiosa. Scrive ancora di lui: «Rivedo ancora nell’archivio della Congregazione con affetto riverente i suoi scritti con la grafia tremolante data dalla sua vecchiaia; tra gli altri i libretti dove aveva trascritto le preghiere devote ispirate dalla sua anima pia, candida e mite celata sotto un aspetto austero. E mi sembra di sentire ancora la sua voce paterna durante i sermoni ai ragazzi e nelle esortazioni alla comunità; ciò a dimostrare il lungo apostolato intrapreso sotto la guida dei nostri padri fondatori sempre presenti nella memoria e finché le forze glielo consentirono.»
Negli anni 1900-1902 P. Giovanni Chiereghin nel diario di Congregazione scrive molto frequentemente, e con molto affetto e stima, della salute decadente del venerato padre. Il 17 dicembre 1902 mattina scrive che ricevette l’Estrema unzione e la benedizione pontificia. Si avvicinava la fine.
P. Giuseppe Da Col morì a Venezia il 17 dicembre 1902. La gente di Possagno chiese e ottenne di seppellirlo a Possagno il 21 dicembre 1902, dove riposa nella cappella del clero e dell’Istituto Cavanis, nel cimitero comunale. Nella riunione del definitorio del 13 gennaio 1903 si elesse P. Francesco Bolech a definitore in luogo del P. Da Col.
P. Da Col, quando lasciò il governo della Congregazione nel 1900, all’inizio del nuovo secolo, la lasciò in una situazione di estrema debolezza. Prendendo come esempio l’anno scolastico 1900-01, la comunità di Venezia era piuttosto debole, con dieci religiosi presbiteri, un fratello, quattro seminaristi teologi; la comunità di Possagno, che aveva ricominciato la presenza in quel paese da poco, contava con due religiosi preti, un fratello e un solo aspirante. La comunità di Lendinara era stata recentemente chiusa (1896). In tutto, l’Istituto contava con due case e con ~ 14 religiosi professi perpetui. La debolezza non consisteva solo nel piccolo numero dei religiosi e anche più nel piccolissimo numero – quasi nullo – di seminaristi, ma anche nella povertà di idee nuove e di iniziative. Una situazione abbastanza desolante.
4. L’era del cardinal Sarto, patriarca di Venezia
Giuseppe Melchiorre Sarto nacque il 2 giugno 1835 a Riese (oggi chiamata Riese Pio X), un paesino in provincia di Treviso in Veneto. Seguendo la sua vocazione, e a differenza di molti papi, percorse tutte le fasi della vita pastorale: seminarista a Treviso, poi a Padova, vicario a Salzano (TV), curato a Tombolo (TV), arciprete nello stesso borgo, famoso per le fiere del bestiame, vescovo di Mantova in Lombardia, poi arcivescovo e patriarca di Venezia (15 giugno 1893- 4 agosto 1903), cardinale, e infine Papa (4 agosto 1903-20 agosto 1914), con il nome di Pio, decimo nella serie di papi con questo nome, forse per sottolineare la continuità con Pio IX piuttosto che con Leone XIII. La sua lunga esperienza nel percorso pastorale di base faceva facilmente prevedere quale fosse la caratteristica del suo pontificato: fu principalmente un pastore piuttosto che un diplomatico come lo era stato il suo predecessore. Con dei vantaggi e degli svantaggi come vedremo.
Durante il suo patriarcato a Venezia Giuseppe Sarto fu veramente un pastore molto amato dalla sua gente, soprattutto dai poveri, cui sarà affezionato date le sue modeste origini mai dimenticate. Il grido della gente, soprattutto delle donne, era un grido dal sapore evangelico: «Benedetto lui e sua mamma!», che si sentiva per le calli di Venezia e nel piccolo territorio del margine lagurare (molto più piccolo che al presente, dopo il 1926) della diocesi di S. Marco durante le sue frequenti visite pastorali, formali e informali.
Durante gli anni a Venezia, il patriarca, che già conosceva molto bene e apprezzava l’Istituto Cavanis per la sua attività diocesana a Treviso, e venerava P. Casara, dimostrò un amore particolare per il nostro Istituto e per la nostra comunità di Venezia, che frequentava spesso anche aldilà delle occasioni pastorali formali, talvolta venendo la sera a giocare a carte e a bere un bicchiere con i padri. Stimava particolarmente P. Sebastiano Casara. L’istituto conserva nei suoi archivi storici numerose lettere e documenti di Pio X (patriarca e papa) e delle reliquie pregevoli di questo santo.
Al momento di partire da Venezia per partecipare al conclave, il 26 luglio 1903, salendo sulla gondola che l’avrebbe portato alla stazione ferroviaria, gridò al popolo preoccupato di perdere il suo pastore: «Vivo o morto, ritornerò!». Non era preoccupato ed era sicuro di ritornare: da un lato non credeva proprio di essere eletto e ciò del resto ciò era davvero improbabile; d’altro canto il risultato di questo conclave fu il più imprevedibile del secolo.
Ma non tornò più a Venezia da vivo; e allora il 12 aprile 1959 il Papa Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli), che era stato a sua volta patriarca di Venezia, acconsentì che il suo corpo di santo venerato tornasse a Venezia, aiutandolo in qualche maniera a tener fede alla promessa fatta. La festa fu grande a Venezia e nella Basilica d’oro di S, Marco e non vi parteciparono solo veneziani, ma anche gli abitanti di Riese (chiamato oramai Riese-Pio X), di Salzano, di Tombolo, di Mantova e molta altra gente.
Tra i numerosi fedeli presenti nella basilica cattedrale di S. Marco, con molti padri e fratelli Cavanis delle comunità del Veneto, c’erano anche cinque novizi Cavanis. Ciò era un caso raro a quei tempi perché il noviziato era lontano, a Possagno sul Col Draga, e i novizi non ne uscivano mai. Tuttavia si fece un’eccezione per la visita di Pio X. Tra questi novizi, c’erano P. Diego Spadotto e P. Giuseppe Leonardi, autore di questo libro.
Box: il corredo per entrare nella comunità Cavanis nell’Ottocento
Presentiamo due casi:
Vincenzo Brizzi, Bolognese (Dicembre 1850) | Francesco Bolech, Tirolese | ||
Fazzoletti colorati Camicie Camiccini Calze Gilet Cappello Paltò Calzoni da estate Mutande Maglia Fazzoletto da collo Scarpe | 6 3 2 p[aio]. 1 1 1 1 p. 2 1 1 1 p. 1 | Brache di panno Giacchetta di panno Soprabito Gilè di panno Calze di lana bianche D°[etto] di bombagio Mutande di intima Camicie Fazzoletti in colore D°. bianco D°. da collo di seta Ombrella di bombagio Scarpe paja Cappello Gacchia di lana | paia n°2 1 1 2 1 colorite 1 2 5 2 1 1 1 1 1 1 |
Moneta per provvedimento del letto, ed altro | |||
Napoleoni d’oro 20 A£ 480,– Svanziche 4 4 Centesimi 69 69 Altre Svanziche 4 4 Centesimi 69 69 Totale A£ A£ 289:38 244:10 122: 5 13 A£ 856:18 | Napoleone 1 ½ A£ 36. — Effettive 13, 89 |
Come si vede, erano corredi piuttosto modesti, da povera gente. Impressiona la scarsità di biancheria intima, che nell’interno profondo (campagna o montagna), forse non si usava molto.
In genere si chiedeva alla famiglia il pagamento di una somma iniziale per provvedere al letto e ad altri pochi mobili indispensabili. Pochi potevano provvedere a questa spesa, e spesso si accettavano lo stesso. Si chiedeva poi alla famiglia (o a qualche tutore o protettore o parroco) una “dozzina” mensile modesta, che variava naturalmente con il tempo e con la valuta. Si nota la grande differenza di possibilità economiche nei due casi sopra, nella tabella. Troppe volte, purtroppo, si dovevano rifiutare degli aspiranti per mancanza di spazio (per il letto), per quasi tutto l’Ottocento, almeno fino a quando la comunità visse nella piccola “casetta” e, nei tempi di vacche magre, così frequenti nell’Istituto, anche per mancanza di denaro, della famiglia e/o dell’Istituto.
5. I principali discepoli e compagni dei fondatori
“1Facciamo ora l’elogio di uomini illustri,
dei padri nostri nelle loro generazioni.
2Il Signore li ha resi molto gloriosi:
la sua grandezza è da sempre.”
(Sir 44,1)
P. Francesco Saverio Zanon scrive: «Questa storia [della Congregazione] contiene una tradizione che risale ai fondatori, ma che è continuata grazie anche all’influenza dei nostri maestri che hanno vissuto con i padri e che hanno assorbito fortunatamente il loro spirito e i loro metodi». Ne cita cinque che aveva conosciuto personalmente e che facevano come da ponte tra lui e i fondatori: Sebastiano Casara, Giuseppe Da Col, Giuseppe Bassi, Giuseppe Rovigo, Giovanni Chiereghin.
Parleremo di loro e d’altri che non abbiamo avuto la fortuna di conoscere personalmente, ma che restano per noi, dopo i due venerabili fratelli, dei punti di riferimento evidenti. Di coloro che sono stati prepositi dopo P. Antonio, come i padri Casara, Traiber, Sapori, Da Col, si è parlato sopra. Di P. Giovanni Chiereghin si parlerà all’inizio della serie dei prepositi del XX secolo.
6.1 Diacono don Angelo Battesti
Angelo era nato il 17 gennaio 1807 a Guagno, un villaggio sito in zona montuosa della diocesi di Ajaccio, circa 42 km in linea d’aria a NE di Ajaccio, nella parte settentrionale della Corsica meridionale o meglio Corsica del Sud, attualmente nell’arrondissement di Ajaccio, Cantone di Sevi-Sorru-Cinarca. Oggi (2020) questo villaggio ha solo 159 abitanti, avendone persi parecchi anche negli ultimi anni. Al tempo di Angelo Battesti doveva essere pure un villaggio piccolo e allora abbastanza abbandonato e un po’ primitivo.
Sentendo in sé la vocazione sacerdotale e religiosa, riuscì a portarsi a Venezia, assieme al cugino Giovanni Luca Pinelli, e a ricorrere all’aiuto di un suo zio paterno, don Antonio Battesti che da molti anni vi era domiciliato, come prefetto nel Regio Liceo-Convitto S. Caterina (oggi Liceo Marco Foscarini). Non occorre dire che l’impresa fu difficile, sia per ottenere il passaporto, in età soggetta alla coscrizione militare, sia nel provvedersi del denaro per il lungo viaggio (di 500 miglia, annota P. Marco) e il mantenimento, sia ancora perché l’abate Battesti non conosceva il nipote e non era stato avvisato del suo arrivo; fu lo zio del Pinelli, che conosceva il nipote e conosceva anche l’Istituto Cavanis, a raccomandare il giovane Angelo alle cure dei fratelli Cavanis. Questi all’inizio erano restii ad accogliere e poi a tenere con sé, mantenere ed educare a loro spese un giovane sconosciuto e straniero; ma rimasero commossi e impressionati dalla semplicità e dai sentimenti umani e cristiani del giovane, come pure dal coraggio che aveva dimostrato nell’organizzare e condurre un viaggio del genere.
Entrò dunque Angelo Battesti nella comunità della casetta il 19 ottobre (o forse novembre) 1825, a 18 anni. Debole in italiano, parlando la lingua còrsa (lingua del gruppo italiano, simile al toscano medioevale), ignorava totalmente il latino. Già giovanotto, dovette mettersi in classe con ragazzini. Fu dura per lui, ma ce la mise tutta.
Incerto all’inizio, nella preghiera e nella meditazione si decise per lo stato ecclesiastico. Vestì l’abito clericale nell’Oratorio, pubblicamente, il 27 agosto 1830; non vestì solo la talare, ma si rivestì dell’abito interiore ed esteriore di ecclesiastico e di Cavanis. P. Marco ricorda lungamente alcune sue caratteristiche: l’umiltà, l’obbedienza, la sottomissione, non facile per lui che era di sangue caldo, il tono piacevole che aveva con tutti e soprattutto con i più umili, come gli inservienti e i fanciulli; la vera e soda pietà; il distacco dalla patria e al tempo spesso la passione missionaria che lo portava a impegnarsi perché fossero inviati missionari in quell’isola, a quella gente, come diceva, dotata ancora di feroci costumi; la mansuetudine, la docilità, l’instancabile pazienza; e soprattutto lo zelo dimostrato da subito per l’educazione dei ragazzi e dei bambini. Un vero Cavanis, insomma. Prese lezioni di calligrafia e di aritmetica per diventare abile nell’insegnamento nelle elementari inferiori; e lo avrebbe fatto se non fosse stato assalito da una crudele malattia.
Ottenuta dal vescovo di Ajaccio – da cui ancora dipendeva – la dispensa per gli interstizi, il 2 aprile 1831 ricevette il lettorato (e probabilmente l’ostiariato); l’8 maggio 1831 l’esorcistato e l’accolitato; il 28 maggio 1831 ebbe il suddiaconato; il 24 settembre della stesso anno fu ordinato diacono. L’ordinazione presbiterale era fissata per le Tempora di dicembre. Purtroppo in autunno si manifestò la tisi, prima come una stanchezza, un languore, una tosse frequente; poi una febbre violenta. I medici, che fino a quel punto pensavano che Angelo esagerasse la sua situazione e gli davano speranza, a un certo momento capirono che in realtà era finita. Angelo, quando comprese ciò che l’aspettava, pregò un chierico suo collega che lo assisteva di recitare con lui il Te Deum. Ricevette con devozione gli ultimi sacramenti e poi entrò in un tranquillo sopore e spirò placidamente, il 9 gennaio 1832, mentre la comunità riunita recitava il Proficiscere, anima christiana. La morte di questo giovane molto caro fece una grande impressione nella giovane comunità Cavanis, anche perché era il primo congregato a morire, e in tal giovane età. Tanta speranza di avere in lui un nuovo sacerdote veniva frustrata, e ci si confortava solo nel pensiero di avere un avvocato in cielo.
Aveva portato con sé alcuni libri. Ne ho trovati, con commozione, qualcuno, con il suo surrogato di “ex libris” scritto a mano, nella biblioteca dell’Istituto di Venezia, nel settore C.
6.2 Seminarista Giuseppe Scarella
“Dimorò solo due anni con noi; morì nel fiore dell’età, ardente del desiderio dell’eterna beatitudine, a Vicenza, donde proveniva.”
Era nato appunto a Vicenza (in città o nella provincia) il 10 aprile 1803. Entrò da noi il 19 luglio 1831, morì il il 15 Novembre 1833.
Come per gli altri otto giovani leviti e sacerdoti antichi della Congregazione, defunti prematuramente, aggiungeremo una sintesi di quanto ne dice P. Marco Cavanis, soprattutto in ciò che tocca dati concreti e in alcuni altri documenti, e rimandiamo, per una lettura più completa, alla relazione di P. Marco sulla sua vita e sula sua morte.
P. Marco aveva saputo di Giuseppe Scarella il 16 giugno 1831 e lo avrebbe visto ben presto di persona, a Vicenza. Scrive al fratello Antonio, da questa città: “Finalmente, il P. Stefano Canton ci dirige presentemente un buon giovane il quale ha già passato il corso ginnasiale, ed è provveduto dell’occorrente al suo vitto e di quel che bisogna al suo patrimonio. Egli accompagnato dall’ottimo P. Preposito, probabilmente il superiore locale dei Filippini, si porta domani a Venezia a condurvelo per far prova: voi lo vedrete dunque prima che io arrivi; io debbo vederlo in oggi dopo il pranzo di cui sarò favorito nella casa dei Filippini”.
Nelle “Memorie”, il 19 luglio 1831, P. Marco annota: “In questo giorno entrò nella casa della Congregazione il giovane vicentino Giuseppe Scarella. Senz’aver nessuna notizia di lui uno dei Direttori [P. Marco] recatosi nel dì 14 Giugno prossimo passato a Vicenza, trovò con molta sorpresa ch’era egli determinato a dedicarsi al nostro Istituto, e stava sul punto di trasferirsi a Venezia per conoscere l’Opera davvicino e stabilire definitivamente ogni cosa. Le notizie avute in addietro da P. Stefano Canton Filippino suo Direttore [spirituale?] riguardo al nostro Stabilimento, e quelle che gli furon date posteriormente nella conferenza tenuta col padre dell’Istituto [P. Marco] lo infiammaron di un desiderio ardentissimo di aggregarvisi. Molto più si accese di brama nei pochi giorni in cui si trattenne a Venezia nella nostra comunità, ove tutto gli piacque e si sentì confermar nella vocazione. Partì dalla casa con dispiacere, costretto dalla necessità di dar termine ad alcuni importanti affari, e disporre ogni cosa per entrare tranquillo nell’Istituto. Nella sua breve dimora in Vicenza scrisse due lettere in data 12 e 15 Luglio piene di sentimento, le quali edificarono assai facendo conoscere un cuor tutto pieno di generoso distacco dalle cose tutte del mondo, e di fortezza nel compiere la concepita risoluzione. Benchè si trattasse infatti di abbandonare la patria e i parenti, ed un commodo stato che potea egli godere attesa una non tenua eredità fatta recentemente, ed un onorevole impiego presso di una ricca famiglia che gli era offerto; e benchè inoltre pel suo non ordinario talento e buona coltura potesse promettersi un’aura di grande favore nel secolo; pure in queste sue lettere protestava di essere impaziente di abbandonare ogni cosa, e di essere risoluto, per troncar qualunque indugio, di partir improvvisamente senza prender congedo da chicchessia. Come si espresse di fare così pur fece, e in questo giorno privandosi anche dell’innocente soddisfazione di dare l’ultimo addio ai suoi genitori (li quali già prima si erano mostrati contenti della presa risoluzione) con un eroico distacco dalla carne e dal sangue si portò in volo pieno d’intrepidezza e di giubilo al sospirato ritiro”.
Sulle caratteristiche di Giuseppe Scarella, nella citata biografia-necrologio che ne fa P. Marco Cavanis, si trova anche la notizia che Giuseppe si dedicava alla poesia e componeva poemi. P. Marco scrive infatti che Giuseppe “erasi reso caro alle più colte persone colla onesta condotta, colle gentili maniere e colla leggiadria di poetiche composizioni nelle quali risultava assai applaudito”. Dallo stesso testo si viene a sapere anche che era entrato in Istituto “alquanto adulto in età”: aveva, infatti, 28 anni e qualche mese, al momento del suo ingresso. Aveva frequentato l’Oratorio dei Filippini a Vicenza, ed è proprio questo ambiente che lo incentivò ad entrare nel nostro Istituto, con il quale c’era evidentemente conoscenza e amicizia, anche se non conosciamo da altre fonti il P. Stefano Canton che lo presentò ai fondatori.
I padri dell’Istituto evidentemente apprezzarono e stimarono subito Giuseppe Scarella, perché poco più di un mese dopo l’ingresso, il 27 agosto 1831, egli fu ammesso alla sua vestizione dell’abito ecclesiastico nella festa del patrono dell’Istituto S. Giuseppe Calasanzio. Si sa molto poco di concreto sulla vita che condusse questo giovane confratello nell’anno e mezzo circa che passò in Istituto.
La lunghissima lettera in cui P. Marco traccia la sua biografia e il suo necrologio si dedica a tracciare il suo progresso spirituale con “fioretti” molto dettagliati, ma non ci dà né date né dati. Si apprende tuttavia che aveva due serie di attività: gli studi e l’insegnamento.
Quanto agli studi, dato che all’ingresso in Istituto aveva soltanto gli studi ginnasiali, nonostante l’età avanzata, si deve immaginare che completasse quegli studi con quelli liceali, magari svolti domesticamente, sotto la guida di uno dei padri, in vista di presentarsi come privato agli esami. Non si ha traccia di suoi eventuali studi filosofici né teologici, e non ce ne sarebbe stato il tempo.
Quanto all’insegnamento, P. Marco scrive: “Fu osservato più volte far forza con gran vigore a se stesso e vincere ad ogni costo le ripugnanze della ritrosa natura; quindi malgrado l’assiduo impegno agli studj, sostenea con pace l’incarico d’istruire in certi determinati giorni alcuni fanciulli ad esso affidati;…”. Sembra di capire che si trattasse di ripetizioni o di doposcuola, di cui era incaricato. Si parla anche di altri uffici: sembra che avesse tra l’altro quello di guardarobiere, qualche servizio di camera ai confratelli.
Questa biografia-necrologio scritta da P. Marco a e per i confratelli, anche più che le altre otto, esagera un po’ i toni, scivolando nel genere letterario del puro panegirico, e del panegirico ottocentesco. Questo testo sembra tolto da una delle tante biografie edificanti antiche, sul tipo di quelle di S. Luigi Gonzaga e di S. Giovanni Berchmans, S. Gabriele dell’Addolorata o S. Giuseppe da Copertino. Di questi libri era piena allora, come lo è ancora oggi, la biblioteca dell’Istituto Cavanis di Venezia, e a quel tempo in tutti i noviziati e nelle altre case di formazione e le case religiose in genere. Era su questa letteratura biografica, che si formavano i giovani religiosi, aspirando a picchi di mortificazione, di rinuncia a se stessi e di integralismo spirituale assoluto, anche di una certa rigidità con se e con gli altri, con una certa intolleranza verso chi non volasse in quell’aria alta e rarefatta. Una vita arrovellata, anche tenuto conto dell’epoca; una vita della quale, a volte si ha seriamente una specie di nostalgia.
Uno stile di vita come quella descritta da P. Marco per Giuseppe Scarella, vita santa ma assolutamente insalubre a livello fisico e psicologico, può ben dar Provvidenza è di ottener i fini con i mezzi pur ordinarii, e col concorso delle cause seconde. Finché resteremo qui con questa Casa angusta, bassa, melanconica, giudicata per insalubre, sussisterà un fortissimo ostacolo anche per l’avvenire all’aumento degli operaj. Ricordavo già jeri stesso un nuovo caso di chi, sentendosi inclinato ad unirsi con noi, ne fu distolto per questo motivo, e ne dimise il pensiero. E di questi casi ne conosciamo ben varii, e chi sa quanti ne avvennero, senza che nulla mai ne sapessimo. Non ci esponiamo dunque a pericolo di tentar Dio, pretendendo una grazia, che fino ad ora non piaquegli di accordarci, aspettando una specie di miracolo, di cui non veggo necessità‹.›”conto dell’alto tasso di mortalità giovanile della comunità della “casetta”, come pure dell’alto tasso di desistenze dal seminario sito nella casetta e di rinunce a entrare in Istituto da parte di giovani che ne avevano pur sentito la vocazione. Anche lo stesso P. Marco Cavanis, in una nota apposta a questa biografia, sembra avere dei dubbi sulla bontà del metodo per divenire “santi subito”, poiché egli stesso mette in guardia i giovani confratelli dall’evitare gli eccessi della mortificazione e dell’austerità e soprattutto dal prendere iniziative in questo campo con “indiscreto fervore” senza il permesso del direttore spirituale.
P. Sebastiano Casara, già dal tempo dei primi anni dei suoi mandati di governo, quando era sui 45 anni e conosceva bene le condizioni di vita e la morte di quei suoi giovani confratelli, si lamentava dell’eccessiva austerità, mortificazione e della povertà estrema della vita nella “casetta”. Si veda per esempio il seguente testo: “Non dimentichiamo però che la condotta ordinaria della
Di Giuseppe Scarella sappiamo poi soltanto che dovette lasciare la comunità di Venezia per ricuperare la salute presso amici a Padova e poi in famiglia a Vicenza. Ciò sembra molto strano, dato che normalmente i congregati ammalati, anche aspiranti o postulanti, e tale lo era lo Scarella, erano assistiti in casa della comunità, di giorno e di notte, con molta cura e amore; e sembra anche contrastare del tutto con lo slancio di distacco dalla famiglia, dagli amici e dalla patria mostrato da Giuseppe agli inizi. In ogni caso, P. Marco esprime il dispiacere di aver perso l’ultima fase (alcuni mesi) della vita e della malattia dello Scarella, ma non sembra aver fatto nulla per impedire questa strana partenza e assenza. E il giovane morì lontano dai Cavanis, che ne ebbero solo delle notizie e poi la lettera che ne comunicava la morte e qualche magro cenno su come questa era avvenuta.
Giuseppe Scarella era creduto da P. Marco (in viaggio) essere ancora a Venezia in Istituto il 17 settembre 1833, ammalato ma in fase di apparente miglioramento. Sembra tuttavia che fosse già a Padova il 18 settembre. Il 24 ottobre 1833 P. Antonio scrive al fratello da Montagnana (Padova) in modo abbastanza criptico, raccomandandogli in apertura di non far leggere a nessuno la lettera. Dice: “A Padova mi aspettano i due giovani, ed avranno bisogno di soldi per partire, giacché poi finalmente hanno fatto quanto basta per provvedere alla lor salute, e Scarella probabilmente avrà più bisogno della sua cella che della campagna. Silenzio! Il medico lo dichiara incurabile, e decisivo tra poco tempo”. Ancora P. Antonio, sempre da Montagnana, il 24 ottobre scrive al fratello “Io sono imbarazzatissimo sulla condotta che dee tenersi riguardo allo Scarella e a Giocomelli. Pel primo non ho notizie per lettere da varj giorni, ma Casara mi disse che le cose van male. Del secondo ho avuto jeri l‘occlusa lettera che asai rattrista. Come si fa a riceverli nuovamente, se questi tornano in casa per morire? Notate ancora la qualità della malattia. Esige molti riguardi e porta molta pena, molta tristezza e lungo e faticoso servigio. Sovrasta infine con sicurezza il dolor della perdita, e la grave responsabilità colle rispettive famiglie. Quanto allo Scarella non ho scritto niente, perchè non ho avuto lettera; …”.
Nelle “Memorie”, il 19 novembre 1833, P. Marco scrive: “Pervenne in oggi una lettera del p. Stefano Canton Filippino in Vicenza col triste annunzio della morte colà seguita nel giorno 15 corrente dell’ottimo nostro giovane Giuseppe Scarella. Dopo un lungo corso di tempo dacché avea mostrato un’inferma salute, e dopo la villeggiatura fatta in Padova per procurarne il miglioramento, passò a Vincenza sua patria, ed ivi chiuse in pace i suoi giorni. Tale morì qual visse fra noi tutto distaccato da se medesimo, e pieno della più soda e fervorosa pietà, munito dei SS. Sacramenti, e rassegnatissimo alla divine disposizioni. La di lui perdita è riuscita a tutti dolorosissima, e col maggior sentimento tutti si unirono a prestar a quell’anima benedetta li consueti religiosi suffragj, con assai lieta speranza che sia per essere nostro grande avvocato nel Cielo”.
Giuseppe Scarella, uscito dall’Istituto Cavanis, era stato ospite per un mese o due dell’ “ottimo sacerdote D. Luigi Maran” di Padova.
Uscendo dal genere letterario agiografico e, secondo me, un po’ apocalittico di questa biografia-necrologio, si trovano in seguito alcune annotazioni nelle Memorie meno entusiaste e più concrete, di tutt’altro genere letterario: 1) l’annotazione di ricevuta di una lettera del fratello di Giuseppe Scarella, Davide, che chiede una lista dei mobili del fratello, in modo di poter mandare a ritirarli; 2) l’annotazione di spedizione di una lettera del 26 novembre allo stesso, da parte di P. Marco: “Lettera nostra che rimette a Davidde Scarella la nota desiderata, e lo prega insieme d’interessarsi per far avere all’Istituto il pagamento di un grosso credito sulla convenuta dozzina”; 3) “Lettera di Davide Scarella che dirige un uomo di barca per ricuperare i mobili del suo fratello Giuseppe ed assicura che sarà preso in considerazione il credito dell’Istituto”. 4) Lettera del Sig.r Angelo Marchioretto che assicura non esservi alcun debito sulla dozzina del controscritto Scarella; 5) lettera [di p. Marco (sembra) al fratello di Giuseppe Scarella del 2 dicembre 1833] che rimette l’elenco di mobili consegnati al padron di barca Nardo, promette spedirne alcuni altri quando siano raccolti e si riserva a pareggiare i conti colla famiglia quando si abbia riconosciuta con esattezza ogni partita”; 6) “Fu recata questo giorno da un vicentino una lettera in data 29 novembre decorso del Sig.r Angelo Marchioretto il quale ricerca più precisi dettagli sul credito che si professa dall’Istituto riguardo alla dozzina del suo alunno defonto Giuseppe Scarella, non trovando egli che apparisca alcun debito”; e sarebbe lungo continuare a riferire della lite abbastanza squallida con la famiglia Scarella e il suo rappresentante Marchioretto.
Ancora qualche parola sul metodo di formazione e di vita spirituale proposto ai giovani Cavanis, e a tutti gli altri seminaristi, quasi con certezza, nell’Ottocento, nella prima metà del novecento e fino almeno al Concilio Vaticano II:
“Se non ché, pur questa speranza viveva in me dicendo: Che sai? Forsi te potresti mutar di core, maior miracoli di questi se hanno visti. Pur, vedendo el mio cor indurato, non steva senza molestia.
Poi el Sabato Sancto andato a riconciliarme a San Sebastiano, parlai un bon pezo con un padre religioso pieno di santità, il qual infra i vari ragionamenti, quasi se avesse saputo la mia molestia, me cominciò a ragionar che la via da la salute era più ampia di quel che molti se persuadeno. Et qui, non me conoscendo altrimente, me disse molte parole.
Partito io de lì cominciai fra me medesimo pensar qual fosse quella felicità et qual fosse la condition nostra. Et compresi veramente che se io fessi tute le penitentie possibile et molto più anchora, non serìa bastante ad una gran zonta, non dico meritar quella felicità, ma satisfar a le colpe passate.
Il che avendo visto quella infinita bontà, quel amor che sempre infinitamente arde et tanto ne ama nui vermicelli, quanto lo intellecto nostro non puol capir, avendo solum per la sua bontà et non per altro fati nui di niente et alzati a tanta alteza che potemo esser participi di quella felicità, di la qual lui è in sì sempre felice, et vedendo, oltra l’original peccato, tanti altri nostri peccati, a li quali se non fusse satisfacto con penitentia et dolore, non era conveniente a quella summa iustitia di admetterne a quella suprema Hierusalem, volse, constrecto quasi da quella ferventissime charità, mandar el suo Unigenito, el qual per la sua passion satisfacesse per tutti collori, i quali el vorranno per capo et vorranno esser membri di quel corpo dil qual Cristo è capo. Et benché tutti non possi haver tanta gratia di esser membri propinqui al capo, pur tuti coloro che saranno connexi a questo corpo per influxo di tal virtù de la satisfation che ha fato el capo nostro, potrà con pocca fatiga sperar di satisfar i suo’ peccati. Solum fatigar se dovemo in unirse con questo nostro capo con fede con speranza et con quel poccho di amor che potemo. Ché quanto a la satisfaction di i peccati fati et in i quali la fragilità humana casca, la passion sua è stà sufficiente et più che bastante”.
6.3 Seminarista Bartolomeo Giacomelli
Bartolomeo (o Bartolommeo, come lo chiama P. Marco) era nato ad Altivole in provincia e diocesi di Treviso, il 10 aprile 1809. Si era dedicato alla pittura, e anzi si era spostato a Venezia per frequentarvi l’Accademia delle Belle Arti, nella quale aveva già raggiunto “il plauso e i premj”. Non ci si poteva aspettare probabilmente una vocazione religiosa di là; e difatti P. Marco fa notare questa improbabilità. Ma ciò che sembra impossibile agli uomini, è possibile a Dio. Aveva conosciuto l’Istituto Cavanis da un suo collega, tale Rizieri Calcinardi e in breve cominciò lui stesso a frequentare l’oratorio e l’orto e ad amare l’Istituto. Sentì chiaramente, dopo pochi mesi la chiamata ad entrare nell’Istituto e dovette superare non pochi ostacoli, soprattutto quello di dover abbandonare una carriera promettente. Si espresse con l’amico Calcinardi dicendo tra l’altro, come motivo fondamentale: “Io voglio salvare l’anima mia”.
Entrò nella comunità della “casetta” il 14 febbraio 1829, a circa 20 anni, vestì l’abito clericale il 25 agosto dello stesso anno, nella festa di S. Giuseppe Calasanzio, “giorno in cui si sogliono fare le vestizioni dei nostri alunni”; ricevette la tonsura dal Patriarca Jacopo Monico l’8 dicembre 1830, in occasione della prima visita pastorale all’oratorio Cavanis; qui si fermò il suo cammino nei vari gradi previsti per la sua vita ecclesiastica, per via della sua malferma salute e perché il percorso degli studi liceali e poi filosofici e teologici sarebbe stato molto lungo. P. Marco si dilunga a ricordare le sue virtù: l’umiltà, la povertà, l’obbedienza, la carità, lo spirito di servizio, di mortificazione, di rassegnazione davanti alla malattia e alla morte prematura. Gli venne affidato dai fondatori l’incarico di assistente del prefetto dei convittori, ragazzi che in quei primi tempi la comunità Cavanis riceveva in casa; poi l’incarico di assistente del sacerdote responsabile della camerata dei seminaristi Cavanis; era inoltre sagrestano e incaricato dell’assistenza dei ragazzi che si preparavano alla confessione.
Una sua particolare caratteristica che P. Marco sottolinea, era il suo grande amore per il nascente Istituto: “I suoi pensieri, le sue parole e le continue sue occupazioni sempre davano contrassegni di questo amore. Se vegliava la notte, ideava fabbriche e chiese per l’Istituto; se viaggiava facea conoscere che avealo fermo nella sua mente, dicendo tratto tratto ai compagni: qui starebbe assai bene una casa dell’Istituto. Questi pensieri affettuosi esprimevali nelle lettere che scrivea amorosissime ai Superiori e ai fratelli nel tempo in cui per consiglio dei medici era costretto fermarsi a respirare l’aria nativa nella paterna sua casa. Questi apparivano dall’industria colla quale si affaticava nell’immaginare progetti atti a promuovere una miglior disciplina nelle scuole e negli Oratorj, e nel produrre disegni di edifizj, d’immagini e di ornamenti di altari, impiegando con ogni studio i talenti e i precetti dell’arte nei quali era molto perito. Corrispondenti ai pensieri erano l’espressioni del labbro dalle quali pur traspariva il medesimo sentimento, or col parlare dell’Istituto con ogni stima ed affetto, or coll’opporsi animoso a coloro che n’erano male impressi, or col ripetere l’ardente brama che nutriva nel cuore del suo maggiore incremento; e quando coll’infiammare altri giovani nel far gran conto dei primi semi che vedea svilupparsi in essi di vocazione a tal ministero, e quando col prendere tanta lena nel confortare un novello alunno fin dal letto medesimo della morte, ch’egli stesso intenerito protesta sembrargli di aver udito la voce stessa di un angelo. E siccome era vivo e sincero lo spirito che lo facea parlare in tal guisa, così seppe reggere e darne prova coll’opere faticose. Quindi, come si è detto, non vi fu uffizio difficile e laborioso ch’egli non assumesse e non esercitasse con fervida alacrità; e più volte al ricorrere le principali solennità si occupò a fare poetiche composizioni, le quali a lui da poco dedicato agli studj costavano una non lieve fatica”. Tra l’altro manteneva i contatti coi suoi ex-compagni dell’Accademia delle Belle Arti cercando di indirizzarli a frequentare l’ambiente Cavanis.
Sembra fosse anche un po’ esagerato nel suo zelo, secondo racconta P. Marco: “Seppe egli ancora nel palazzo di un nobile della cui pietà poteva affidarsi, toglier lo scandalo di alcune pitture indecenti che ivi correvano inosservate, tutte stracciandole senz’aspettar nemmeno di consultarne il padrone”.
La malattia, che era tisi polmonare, si aggravò e lo portò a soffrire moltissimo, sia per la malattia in sé, che lo consumava, sia per i rimedi del tempo, i cauteri particolarmente, come accenna P. Marco. Soffriva con pazienza, senza lamentarsi, senza farlo pesare agli altri. Nulla poté la medicina ottocentesca, e il giovane Bartolomeo morì circondato dai confratelli e confortato dalla preghiera e dai sacramenti il 3 febbraio 1834.
La biografia di questo caro seminarista fu la prima in ordine di tempo scritta e inviata (10 marzo 1834) ai confratelli da P. Marco, anche se altri giovani membri dell’Istituto erano morti in precedenza. Il fondatore junior infatti scrisse questa, e in seguito continuò nell’impresa, rirendendo in mano e sviluppando biografie-necrologio dei giovani morti precedentemente. Anche questo è significativo per dire del grande affetto che il giovane “Bortolo” aveva suscitato in P. Marco e nella comunità.
6.4 Chierico Francesco Minozzi
Si tratta di uno dei nove giovani religiosi Cavanis morti in giovane età, per i quali P. Marco scrisse quelle dolcissime lettere di elogio funebre e di consolazione ai confratelli, che hanno il tono a volte dolciastro del panegirico, a volte troppo sentimentali, ma che fanno riflettere molto.
Francesco Minozzi nacque il 4 novembre 1814 a Piove di Sacco (provincia e diocesi di Padova). Entrò a far parte dell’Istituto, entrando nella casetta il 3 novembre 1825; come narra P. Marco nel suo lungo elogio funebre. Ne era entrato “che riusciva caro a principio pelle sue doti non ordinarie dell’ingegno e del cuore, porgeva però motivo di giusto rincrescimento l’osservare il suo spirito dissipato e tutto rivolto ad ambiziosi progetti di far comparsa nel mondo”.
“Uno zelante Diacono”, senza dubbio il diacono Matteo Voltolini, l’unico diacono che ci fosse in casa, e anche il primo diacono in assoluto dell’Istituto Cavanis, come narra P. Marco, lo chiamò a sé, lo fece riflettere, lo fece rivolgersi al Signore nel silenzio e nella meditazione, e riuscì, in modo quasi prodigioso, a trasformare, con la grazia di Dio, l’animo e il cuore del giovinetto, che da quel giorno si convertì. Varie difficoltà lo fecero soffrire, e assieme a lui ai superiori: il padre del ragazzo non voleva dare il suo consenso alla vocazione del giovane, dato che anche il fratello maggiore, Angelo, era entrato nell’Istituto, e inoltre non pareva possibile al padre mantenere anche lui negli studi e nella vita seminaristica; il vescovo di Padova poi, da cui il giovane dipendeva, non voleva dare inizialmente il suo assenso, dato anche che a quel tempo il seminario di Padova era quasi vuoto, per mancanza di giovani che volessero e fossero chiamati a diventare sacerdoti. Furono due anni di lotte, interne ed esterne, come nota P. Marco. Gli si permise, dopo molte insistenze, via via, di vestire la talare, di ricevere i primi ordini minori; ma sempre con l’obbligo di ritornare poi a casa e in diocesi. E Francesco rimaneva fermo di voler entrare nell’istituto Cavanis, non accettava di rientrare in diocesi, a costo di riununciare, cosa che gli risultava molto grave, alla vestizione (“le sospirate divise del Santuario”), alla tonsura e agli ordini.
Giunse finalmente il 4 gennaio 1831, quando il vescovo di Padova, per intercessione del Patriarca Jacopo Monico di Venezia, cedette e gli permise di rimanere a Venezia e in Istituto, e di dargli quindi le dimissorie.
Ricevette allora l’abito ecclesiastico (sei anni dopo l’entrata nella casetta), il 27 agosto 1831. Ebbe la tonsura il 22 settembre 1832 e i primi due ordini minori dell’ostiariato e lettorato nelle tempora di autunno il 21 settembre 1833. P. Marco nota che non era solo l’abito che aveva vestito, ma anche lo spirito proprio dell’istituto Cavanis; ne descrive infatti la sua attività di apprendista educatore e insegnante nelle scuole con parole commoventi, e come sempre, in questi elogi funebri di P. Marco, con parole di tipo in qualche modo agiografico.
Francesco si impegnava a fondo, nonostante “la fragile complessione e la sempre più inferma salute gli dovessero rendere più laborioso il travaglio”. E qui si annuncia già il dramma non lontano dal compiersi; mentre si continua a descrivere le sue virtù e la sua pietà straordinario.
Francesco è segnalato nella comunità di Venezia fino al marzo 1834, e particolarmente si trova menzionato nella lista dei religiosi Cavanis, come seminarista, del 1830. Il 3 marzo 1834 partì da Venezia, accompagnato da P. Marco Cavanis, assieme al P. Matteo Voltolini, il chierico Angelo Miani e tre aspiranti, per formare la prima comunità di Lendinara, di cui si può ben considerare uno dei fondatori. Si può immaginare il suo entusiasmo per essere stato scelto per questa nuova impresa della Congregazione.
In realtà, lo si mandava a Lendinara soprattutto perché la sua salute stava peggiorando, e si sperava che l’aria della campagna, non molto lontano dalla sua propria patria che era nella bassa padovana, potesse giovargli. Effettivamente, come racconta P. Marco nel documento citato, la sua salute fisica migliorò; ma in modo del tutto imprevisto, la sua vocazione soffrì di una nuova crisi: comunicò infatti ai superiori – stupefatti – che aveva l’intenzione di uscire dall’istituto e di recarsi a Padova per continuare gli studi teologici, allegando motivi di salute – anche se stava molto meglio – e poi altri pretesti.
I superiori decisero, dopo essersi impegnati a lungo a farlo ragionare e a ritornare alle sue aspirazioni iniziali, di lasciarlo libero, e lo fecero ricondurre a Padova il 27 settembre 1834. Al tempo stesso, P. Marco (non dice di essere stato lui, ma non c’è ne è dubbio) si sentì ispirato, in una notte insonne, di recarsi a Padova per incontrarsi con il P. Matteo Voltolini, e ritornare con lui a Venezia, probabilmente per confortarlo. E invece, contro le previsioni, a Padova si trovò anche con Francesco Minozzi che, visto il Padre, volle fermarsi con lui e parlargli. P. Marco “ebbe la inaspettata consolazione di vederlo docile alle sue voci e di sentirlo esprimere il desiderio di esser condotto a Venezia per sottomettersi alla obbedienza e dipendere dai suoi cenni. Così egli fece, e con esito sì consolante che sol bastarono pochi giorni a rasserenarlo del tutto ed a ricomporgli l’animo sì fortemente turbato, in modo di protestarsi tranquillo nella intrapresa carriera, e ben persuaso esser tale la sua vocazione”.
A questo punto P. Marco scrive la seguente riflessione: “Or ci conviene dichiarar il motivo per cui si è da noi narrato un avvenimento che ad altri sembrar potrebbe dover passarsi sotto silenzio, onde non offuscar lo splendore di tante belle virtù che resero sì edificante la vita del carissimo giovanetto defonto. Premessa pertanto la riflessione giustissima che l’ingenuo candore con cui si narra il giovanile trascorso viene ad accreditar maggiormente ciò che si dice in sua lode, avvertite, o fratelli, che principalmente ci siamo indotti a ciò fare, per trarne un troppo importante ed utile ammaestramento. Questo è l’attendere d’ora innanzi ancor più a temer di noi stessi, a non fidarsi del concepito fervore, a viver umili e sempre grandemente solleciti di raccomandarci con vivo affetto al Signore. Qui se existimat stare, videat ne cadat (I Cor, 10, 12)”.
E P. Marco continua, con un insegnamento ancora molto valido oggi per tutti: “Chi sembrava più fermo nella sua vocazione di questo giovane, il quale tante prove di sua costanza diede fin dal principio, e continuò per lungo tempo a manifestare un tenerissimo attaccamento verso del Pio Istituto? Pure l’abbiam veduto scuotersi d’improvviso e vacillare così che già stava per porre il piede fuori del sacro asilo. Se poi consideriamo in qual modo l’incauto figlio restò preso nel laccio della tentazione nemica, la quale ormai stava per prevalere sopra di lui, ne sorge da questa considerazione, o fratelli, un altro importantissimo documento. Egli colpito dal turbine della interiore procella non avvertì di ricorrere ai proprj Padri cui la Provvidenza divina lo avea affidato e dai quali principalmente dovea aspettarsi il lume e la direzione opportuna, ma contentandosi di consigliare con altri tenne sempre chiuso il suo cuore al superiore che tenea in Lendinara; ed al Padre commune e fondatore dell’Istituto in Venezia [il P. Anton’Angelo, N.d.A.], che ogni dimostrazione gli avea pur dato di aver un animo prudente, disinteressato, amoroso, si restrinse a communicare per lettera la risoluzione già presa, senza prima curarsi d’interpellarne il parere. Ed ecco che Dio permise ch’ei cadesse in inganno; e ben ei diede apertamente a conoscere che avea la mente offuscata ed illusa, adducendo or una or un’altra causa dell’improvviso suo cangiamento, e poi confessando più volte dopo d’essere rientrato in se stesso, che avea preso un abbaglio troppo per lui decisivo, e rendendo grazie fin colle lacrime alla divina Bontà, che impedito aveva il gran passo”.
Per concludere brevemente, il buon giovane ritornò “all’ovile” e visse con gioia in comunità, dando ottimo esempio a tutti. P. Marco rimarca che questa nuova fase fu purtroppo breve, anche se edificante, perché l’11 agosto 1835 Francesco si ammalò di nuovo e questa volta si mise a letto e, dopo breve malattia finale di soltanto quattro giorni, la morte lo colse il 14 agosto 1835, alla vigilia della solennità dell’Assunzione di Maria. P. Marco arriva a paragonarlo, per lo straordinario aspetto della sua vita e delle sue virtù, manifestate particolarmente nell’ultima malattia e nella morte, a quelle di giovani santi, che entravano nel normale patrimonio di vite esemplari proposte fino ai miei tempi ai novizi e ai giovani seminaristi in genere, ma che egli non usa negli elogi funebri di altri giovani religiosi Cavanis: non forse “si arrivò a trovare impossibile di darne idea conveniente, e nel vivo senso di tenerezza che cagionò una tal morte ebbesi a dire che ricordava sul letto delle sue estreme agonie il bel morire dei Berchmans, dei Kostka, dei Gonzaga?”
6.5 Fratel Francesco Dall’Agnola
Di lui, il Necrologio di congregazione dice soltanto: “8 ottobre 1836. Francesco Dall’Agnola, di Grigno, diocesi di Trento, fu iscritto nel numero dei Fratelli laici. Avendo compiuto in modo esemplare i doveri religiosi, compì il corso della sua vita nel bacio del Signore a Venezia.” Il necrologio è molto secco e non dice di lui quasi niente. Eppure doveva essere amato in congregazione, se P. Marco comincia la sua lettera di annuncio della morte con la frase: L’amarissima perdita che abbiamo fatto recentemente nell’ottimo giovane Francesco Dall’Agnola addetto al servigio della Casa dell’Istituto, mentre ci ricolmò di tristezza, ci lasciò ancor confortati colla più lieta e ferma speranza che abbia egli chiuso i suoi giorni felicemente colla morte del giusto, attesa la esemplarissima vita da lui condotta, di cui ne daremo a voi qualche saggio, onde farvi partecipare del dolce nostro conforto, mentre dobbiamo col triste annunzio rendervi a parte del vivo nostro dolore”.
Francesco Dall’Agnola, chiamato Checo, era trentino, nato il 7 ottobre 1801 a Grigno di Valsugana, a quel tempo in Tirolo, sotto l’Impero austriaco, oggi in Provincia e Arcidiocesi di Trento, in Valsugana, vicino al confine con il Veneto. La data di nascita ci mostra che era uno dei più antichi tra i Cavanis. Lo troviamo a Venezia, come aspirante. postulante e novizio fratello almeno dal 1832 al 1837. Di lui sappiamo pochissimo, a parte quello che racconta P. Marco Cavanis in una delle sue lettere biografiche necrologiche che annunciano e valorizzano la vita e la morte di religiosi giovani.
Secondo racconta P. Marco, la sua famiglia era molto povera, ma molto religiosa; e il bambino Francesco era nato con una grande passione per la preghiera, sicché era difficile staccarlo e fargliela interrompere. Fin da ragazzino era stato preso a lavoro, come domestico a Grigno, da una famiglia molto religiosa e buona, che lo aveva mantenuto in un ambiente di fede, e inoltre la padrona aveva insegnato al servitorello a leggere e a scrivere, cosa rara a quei tempi. Francesco poteva quindi seguire la messa con i messalini che la stessa signora gli forniva.
Sembra sia entrato in Istituto ancora piuttosto giovanetto, ma non abbiamo la data della sua entrata. Non ce la dà neppure P. Marco. Tuttavia, egli osserva che fu quasi una fortuna più grande per l’Istituto di aver trovato il giovane, che per il giovane di aver trovato l’Istituto. Ne esalta l’intensità, la continuità, il fervore della sua preghiera, che faceva durante il lavoro e con maggiore concentrazione quando trovava un intervallo in cui dedicarsi espressamente alla preghiera. Così pure Francesco era desideroso di imparare tutto ciò che veniva dalla parola di Dio e dalle istruzioni catechistiche che si offrivano ai fratelli: “Assai gustava di parlare e di discorrere delle cose di Dio e udirsi leggere buoni libri di religioso argomento”.
E tuttavia, sapeva che non era un monaco dedito soltanto alla preghiera e compiva bene tutti i suoi uffizi: e qui P. Marco ricorda esattamente, con una lista, quali erano i suoi uffici: “spenditore, cuoco, ortolano e infermiero”. In quest’ultimo compito, era molto esperto e soprattutto totalmente dedito, senza paura del pericolo: “Colpito del vajuolo un giovane convittore, e sparsasi la costernazione nella intera Comunità, egli accorse prontissimo con ammirabile alacrità e, trasportatolo in parte rimota dell’abitato, con lui si chiuse volonteroso e giulivo a prestargli dì e notte la necessaria assistenza per lungo corso di tempo (…) lo esponesse a quel notabile crollo di salute che realmente ne risentì”.
Non fu questo l’unico caso, ma la sua carità lo spingeva ad assistere anche gli ammalati più contagiosi di altre malattie, come prosegue riferendo il fondatore nella sua lettera. Era davvero un eroe! “La carità di Francesco a tutti volle prestare assiduo l’ajuto finché li vide spirare nelle sue braccia…”.
Aveva insomma “un cuor (…) sì maschio di soda e maschia virtù…”. Un giorno tra l’altro, vedendo un “artiere” cadere nel canale della Giudecca, sebbene non sapesse nuotare e il bordo fosse scivoloso, come è tuttora, si stese per dargli la mano e recuperarlo. In un altro caso riuscì ingegnosamente a svegliare senza farlo cadere un muratore che, stanco, si era addormentato su una pericolosa impalcatura di fronte all’Istituto, con pericolo di vita per se stesso”. “Anima grande!”.
P. Marco ricorda come tante fatiche e tanti rischi, e malattie trasmessegli da altri indebolirono la sua complessione robusta. E qui verrebbe da chiedersi perché mai la comunità lo abbia sottomesso a tanto lavoro e a tanti rischi o perché, nonostante il suo eroismo, non gli avesse imposto dei limiti; d’altra parte il Signore Gesù che toccava i lebbrosi e san Francesco che li abbracciava, e san Luigi Gonzaga che trasportava sulle spalle gli appestati (e ne morì), e tanti altri esempi anche recenti, in Africa per esempio, ci indicano appunto il cammino della santità che non ha limiti.
Spirò nel Signore l’8 ottobre 1836, a 35 anni. La comunità lo pianse e lo ammirò. Non ne sapevamo più niente, ma possiamo ricordarlo tra i grandi e i santi della nostra congregazione.
6.6 Seminarista Antonio Spessa
“Di Altivole, diocesi di Treviso, per il grandissimo desiderio che lo infiammava, iscritto giuridicamente tra i nostri quasi moribondo, “divenuto perfetto in breve, compì le opere di una lunga vita”. Così il necrologio ufficiale.
Antonio Spessa nasce il 6 settembre 1817 ad Altivole, nel distretto di Asolo, in provincia di Treviso, da una famiglia piuttosto povera. Nel 22 dicembre 1831 entra come aspirante nelle Scuole di Carità di Venezia, dove compie il percorso di studi fino al ginnasio. Il 27 agosto 1834, nella solennità di S. Giuseppe Calasanzio, veste l’abito ecclesiastico, cioè la talare, e tra il 1837 e il 1838, a 20 anni, si trova a Lendinara per svolgere il periodo di noviziato e, al tempo stesso, se si ascolta la lettera/necrologio di P. Marco, anche il corso di filosofia a partire appunto dal novembre 1837.
P. Marco (con P. Antonio che firma) descrive le virtù angeliche di questo giovane consacrato al Signore, alla Chiesa e all’educazione della gioventù; come pure le capacità che aveva di incantare i bambini e i giovani nella catechesi e nelle esortazioni, le poche volte che ebbe occasione di parlare loro. Ma tante belle speranze dovevano andare perse. “Una lenta tisi sì fortemente lo colse, che vana riuscì ogni cura, inutile ogni rimedio per espugnarla, e si vide costretto a bere, come suol dirsi, a sorsi a sorsi la morte”. I mesi di sofferenza e di pazienza e di coraggio – e anche di profonda tristezza della comunità e dei due venerabili fratelli, è descritta in modo commosso e molto realistico da P. Marco nella lettera suddetta. Moribondo, fu in qualche modo consolato da P. Marco, che oltre a dargli i sacramenti, gli comunicò che finalmente la chiesa di S. Agnese era stata ricevuta dalla Congregazione, avendo vinto la resistenza del francese Sig. Charmet (vedi sopra).
Il 21 settembre 1839, P. Antonio gli permise di emettere i voti sul letto di morte, perché era ancora novizio e “lo aggregò nel numero dei Fratelli. Ebbe l’infermo la grazia di sentirsi lena bastante per recitare la lunga Professione di Fede, e la formula della Espressione dei Voti, e tutto fece con pace, e con assai tenera divozione; e commozione assai viva dei circostanti.”. Due mesi dopo circa morì di tisi, il 18 novembre 1839, alle ore 19 pomeridiane, a soli ventidue anni. Antonio fu il primo dei congregati a morire, giovanissimo, dopo l’erezione canonica dell’Istituto.
6.7 P. Angelo Minozzi
Il necrologio di Congregazione lo ricorda così: “Di Piove di Sacco, diocesi di Padova, sacerdote professo, angelo di nome e di costumi, a ventott’anni, il 21 febbraio 1840 passò da questa vita nel bacio del Signore, a Padova, presso i Figli di S. Giovanni di Dio, dove era stato mandato per convalescenza”. Ne parla, molto più lungamente, e soprattutto con più cuore, P. Marco nella sua lettera di comunicazione ai confratelli di Lendinara – e a noi -, lettera da cui prenderemo molti dati sul giovane prete Cavanis
Era nato effettivamente a Piove di Sacco, nel 1812 (manca una data più accurata). La famiglia si era trasferita a Venezia, e il piccolo Angelo aveva frequentato le scuole nell’Istituto. Vi si era fortemente legato, di anima e cuore, ed era entrato nella comunità della Casetta, come aspirante, il 14 luglio 1825 a circa 17 anni. La comunità Cavanis lo educò, lo preparò alla vita ecclesiastica, gli formò – con quanta spesa e difficoltà – un patrimonio ecclesiastico, ed egli poté vestire la talare ed entrare nel clero il 27 agosto 1827. P. Marco, nella sua lettera annota che se grande era stato l’impegno e anche la spesa da parte dell’Istituto, “fu assai maggiore il conforto che ne ritrasse per l’ottimo riuscimento del caro alunno”.
Si sa che fu ordinato diacono il 25 marzo 1837, nelle tempora di primavera, e che era già stato ordinato prete (nel 1837 o meno probabilmente nella prima metà del 1838) all’epoca dell’erezione canonica della congregazione. In quella occasione, il 15 luglio 1838 egli vestì l’abito della congregazione, tra i primi, e vi fu “ancora formalmente aggregato colla espressione dei sacri Voti nel giorn 15 luglio”. Lo si trova iscritto nella comunità di Venezia quando si compilò la lista dei membri della comunità Cavanis del dicembre 1838. Si dice, in quest’ultima, che era “Incaricato di vari servizi”, il che vuol dire, nell’uso abituale di questo tipo di documenti, che non era insegnante “ordinario” nelle scuole dell’Istituto. Si occupava soprattutto alla catechesi e all’istruzione dei bambini e ragazzi più poveri, miserabili e sfrenati, che per qualche motivo non si riusciva ad introdurre nella scuola regolare. Con pazienza infinita riusciva ad attirarli a qualche incontro, istruzione, momento di preghiera e a far loro un po’ di bene. Lo fece per 15 mesi consecutivi. Dava istruzione anche a persone “rozze ed adulte”.
Nella sua lettera P. Marco ne parla come di un giovane santo, descrivendone le virtù, la devozione, la preghiera, l’amore per la liturgia, lo spirito di servizio, l’umiltà, la castità, l’obbedienza, il desiderio di raccoglimento e di meditazione. Citando S. Girolamo in una sua lettera in lode dell’ecclesiastico Nepoziano, dice di questo giovane levita Angelo, che era perfetto in ogni virtù, come se si fosse applicato solo a ciascuna di quelle: “In ogni virtù risplendea in tal guisa, come se in quella soltanto si esercitasse”. Era in qualche modo, continua P. Marco, specialista di trattare santamente le cose sante.
È segnalato nella comunità di Venezia fino al marzo 1834, e particolarmente si trova menzionato nelle liste dei religiosi Cavanis, come seminarista, del 1830 e come prete in quella dei sacerdoti Cavanis a Venezia, del 1838. Si ha notizia di un suo passaggio per Lendinara (dalla lettera di P. Marco), senza che si possa fissarne le date. In quella città, scrive P. Marco, si trovò a soffrire di nostalgia della comunità di Venezia, che aveva una vita più di carattere conventuale e dove era più facile la preghiera e il raccoglimento. Era però senz’altro a Venezia nel 1838 e fino all’anno successivo 1839, quando fu necessario verso la metà dell’anno inviarlo fuori Venezia perché, come i medici costumavano dire all’epoca, l’aria di Venezia era esiziale per chi fosse malato di tisi, e questa pare fosse la sua malattia, sebbere non se ne parli. Fu inviato allora a Padova, all’ospedale del Padri di San Giovanni di Dio. Questi scrivevano a volte ai padri a Venezia, lodando la sua pazienza e sottomissione alla volontà di Dio, ma anche la sua difficoltà a rimanere separato dalla sua comunità religiosa. Del resto, scrive P. Marco, il P. Pietro Delaj, membro dell’Istituto Cavanis, lo assisteva lì a Padova con grande carità. Come è proprio del genere letterario di queste lettere di P. Marco, egli si dilunga a descrivere le pene provocate in parte dalla malattie, ma più ancora – si ha l’impressione – dai metodi della medicina e della chirurgia dell’epoca, tra salassi e raschiamenti e perforazioni e rimedi amarissimi e quant’altro.
P. Angelo Minozzi morì come si è detto a Padova il 22 febbraio 1840. Aveva scritto ai suoi padri e in particolare a P. Marco: “stia tranquillo che io sono in tutto rassegnato alla volontà del Signore, e che per quanto senta ardente la brama di volarmene al loro seno, sono poi anche disposto a starmene sulla mia croce”.
6.8 Chierico Giovanni Giovannini
Giovanni Battista Giovannini era nato nell’aprile 1810 sull’altipiano di Piné, senza che si precisi il paese esatto (ci sono difatti vari paesi in questo altipiano), in Diocesi di Trento. Uno dei primi Cavanis passando da quello parti, come ricorda P. Marco, gli aveva parlato dell’Istituto ed egli, anche se in qualche modo tardivamente, aveva fatto richiesta di entrare nelle Scuole di Carità a 22 anni, ed entrò di fatto il 13 novembre 1832. Tuttavia aveva chiesto di entrarvi per “meglio proseguire i suoi studj, e non per animo di dedicarsi alla pia Istituzione”.
“Entrò egli dunque nella nostra casa (…) privo di vocazione, mancante affatto dei mezzi di sussistenza e senz’aver nemmeno il vantaggio che porta la prima età giovanile a piegarsi senza molta fatica alla disciplina. Pure col progresso del tempo spiegò assai fervorosa la vocazione, videsi provveduto con inaspettate risorse, e fu così esatto nella osservanza, ch’era di fervido eccitamento ai compagni.” Gradualmente infatti sentì la chiamata a dedicarsi alla vita consacrata e al servizio della gioventù nelle Scuole di Carità, ne fu accolto, e anzi la Congregazione si assunse il carico delle spese della sua sussistenza, dei suoi studi e financo della costituzione del suo patrimonio ecclesiastico.
Fu l’imperatrice e regina Maria Anna Carolina Pia, evidentemente su richiesta di P. Marco, a inviargli la generosa offerta di Austriache Lire seimila a questo fine, il 7 maggio 1838.
Nel frattempo Giovanni fin dal 27 agosto 1833 aveva vestito l’abito clericale, aveva poi ricevuto la tonsura e i quattro ordini minori il 17 dicembre 1836 e si preparava per il suddiaconato.
Aveva un carattere molto forte, che avrebbe potuto indurlo a resistere alla disciplina domestica e all’obbedienza, e al tempo stesso, purtroppo, era debole di salute, e ciò avrebbe potuto indurlo a sottrarsi al lavoro, agli orari, agli impegni comunitari e pastorali. Reagì tuttavia a queste difficoltà della sua personalità e fu conosciuto per l’esemplarità della sua vita e del suo comportamento. P. Marco, nella lettera commemorativa, ne tesse le lodi e ne fa praticamente il panegirico, nello stile appunto dell’elogio funebre ottocentesco. La lettura di quel testo, inquadrata nello spirito e nello stile dell’epoca, è sommamente edificante.
“Ecco quale ottimo alunno si preparasse alla nuova Congregazione, di cui tra i primi vestì le sacre divise nel giorno 15 luglio 1838, che ne precedette la pubblica istituzione. Tutto faceva in lui presagire la più consolante riuscita”.
Tra l’altro, scrive P. Marco, “fu egli instancabile nel percorrere diligentemente ogni classe e di Lettere e di Scienze, quantunque molto pesante riuscisse alla sua debole complessione e troppo inferma salute il corso delle filosofiche e delle teologiche discipline, non essendo permesso di farne domestica scuola, ma dovendo i nostri studenti recarsi giornalmente alle Cattedre del Patriarcal Seminario (…) pel corso di quattro anni non interrotti, due dei quali impiegò nello studio della Filosofia e due in quello della Teologia”.
Si noti che, probabilmente durante il secondo anno di filosofia o il primo di teologia, il chierico Giovanni Giovannini scrisse a P. Marco e al P. Casara che si trovavano a Milano, per dare notizie e chiede al Padre di procurargli a Milano un’opera del Rosmini. Dopo aver parlato del possibile acquisto di un’opera di omiletica in vari volumi, scrive così: “E la Filosofia del Rosmini, le potrebbe venir donata da alcuno? Se ciò avvenisse, la prenda, ch’è buona.” La lettera è del 27 maggio 1838, e fu scritta – senza probabilmente che il Giovannini lo sapesse – nove giorni prima dell’incontro di P. Marco col Rosmini. Questo breve testo ci fa sentire nel Giovannini un amore per i libri e per lo studio, e forse anche una propensione per la linea rosminiana di filosofia e teologia. È possibile del resto che Giovannini avesse visto o intravisto personalmente l’abate Rosmini, quando questi aveva visitato l’Istituto Cavanis di Venezia il 29 novembre 1832, ben pochi giorni dopo l’arrivo a Venezia del giovane candidato studente – avvenuto il 13 novembre 1832, come si è detto sopra –, e che ne fosse rimasto positivamente impressionato.
Il Giovannini si sottomise anche all’esame di abilitazione per ricevere “la Patente di Maestro anche solo delle classi grammaticali” e poter quindi servire nel ministero proprio dell’Istituto quanto meglio gli fosse stato possibile.
Di lui troviamo varie lettere o postille a lettere altrui al P. Marco in viaggio, nel 5° volume dell’epistolario.
Gli studi e la situazione in cui a quel tempo la casa era organizzata, data anche la sua debole costituzione fisica, lo ridussero in cattive condizioni di salute e le penose cure mediche non ottennero grande risultato. Fu inviato dai superiori a Lendinara, probabilmente dopo il 10 novembre 1839, perché si sperava che l’aria di campagna gli desse sollievo tuttavia il suo stato di salute peggiorò molto fino a far prevedere che fosse prossimo alla morte. In queste condizioni, il nostro “fece giunger [ai superiori] la istanza di poter esprimere i sacri Voti e di esser costà formalmente aggregato alla sua diletta Congregazione, disponendo però il Signore che avesse sibbene il merito ma non la consolazione del mistico sacrifizio, prevenendosi dalla morte la favorevol risposta che si era pure con gran prontezza inviata”.
Nella grave malattia e fino alla morte, sopravvenuta il 13 gennaio 1841 a Lendinara, aveva dato segno di una edificante pazienza e sottomissione alla divina volontà; aveva pregato il Signore e soprattutto Maria SS.ma con pie giaculatorie, aveva dimostrato una grande commozione nel baciare il crocifisso e aveva chiesto lui stesso di ricevere gli ultimi sacramenti e poi che gli fossero lette le preghiere per i moribondi. Per ricevere il Viatico aveva voluto scendere dal letto e mettersi in ginocchio, sebbene fosse morente
P. Marco scrive: “tanto più grave cordoglio ne ha risentito il cuor nostro quanto eran più liete le speranze ormai concepite sopra di lui, e quanto n’era più prossimo l’adempimento. Ma poiché così è piaciuto al Signore, a noi conviene adorare le sue supreme disposizioni, umiliarci sotto alla mano divina che ci percuote, e studiarci di profittar degli esempj di ben soda pietà che ci diede il caro defonto.”.
Giovanni Giovannini, che P. Marco spesso chiamava affettuosamente Giannini, aveva lasciato un semente nella sua famiglia: lui era mancato alla Congregazione con la sua morte prematura, a soli 30 anni e 9 mesi; ma entrerà più tardi in Congregazione un suo pronipote, Basilio Martinelli, più tardi Venerabile, che era nipote, per via materna, di una sorella di Giovanni Giovannini.
6.9 Fratel Domenico Ducati
È passato in silenzio e umiltà questo nostro giovane fratello, presto scomparso e poco conosciuto nella nostra Congregazione, anche se tutti gli anni preghiamo per lui nel giorno del suo anniversario. Il necrologio di Congregazione dice di lui: “Nostro laico professo, distinto per l’obbedienza e per l’amore alla Vergine e alla perfezione religiosa, morì piamente a Venezia il 31 ottobre 1843, all’età di venti otto anni”.
È l’ultimo dei nove confratelli morti giovani di cui P. Marco stese, ogni volta con commozione, una lunga biografia, o necrologio, quasi un panegirico, una “Memoria” come diceva lui stesso, scritto come al solito da P. Marco con stile leggermente agiografico. La sua biografia la troviamo nel VI volume dell’Epistolario alle pagine 301-305.
Era nato a Trento (comunque in Trentino) il 20 giugno 1815, l’anno del Congresso di Vienna, ed era entrato in Istituto come aspirante fratello laico il 14 settembre 1838, pochi mesi dopo l’erezione canonica dell’Istituto, a 23 anni. Passò in Congregazione solo cinque anni. Vestì l’abito dell’Istituto il 22 dicembre 1838 e cominciò il noviziato, poco più di tre mesi dopo il suo ingresso, il che dice che aveva fatto fin dall’inizio un’ottima impressione. Emise la professione religiosa il 27 settembre 1843, quando era già gravemente ammalato e in pericolo di vita.
Data la sua gracile complessione e la sua salute malferma, non poteva svolgere lavori gravosi. Attendeva alla portineria, assisteva i congregati infermi, passava allora il tempo di queste lunghe veglie notturne nella preghiera davanti al crocifisso, rivolgendo la preghiera soprattutto per i bambini e giovani delle scuole; preparava immagini da distribuire loro, rilegava e riparava libri di devozione e di preghiere, assisteva gli scolari negli oratori e nelle ricreazioni e, nella spirito della “sopraveglieanza Cavanis”, ne osservava con amore il temperamento e il comportamento e ne parlava con i loro maestri, aiutandoli così nel loro compito.
Era così devoto della Madonna, che non solo la pregava personalmente, ma insisteva con coraggio e determinazione, a volte in forma ingenua e insistente, che ne parlassero di più nei loro sermoni; e cospargeva la casa di immagini di lei.
Era ammalato di tisi polmonare. P. Marco dice che nella sua ultima malattia si preoccupava più per il disturbo che dava ai confratelli che lo assistevano che per la sua propria situazione. Spirò dolcemente, senza quasi che si potesse accorgersi del momento della sua morte, che avvenne a Venezia, il dopo pranzo del 31 ottobre del 1843, alle 3 e mezza. Non ci è dato di conoscere in quale delle due case che l’Istituto aveva allora, Venezia e Lendinara, sia vissuto. È probabile che abbia passato a Venezia gli anni della sua formazione. P. Marco però accenna al fatto che aveva un direttore spirituale di Lendinara, quindi questo dato rimane per ora incerto. Con certezza è morto a Venezia.
Vale la pena di leggere la sua biografia scritta da P. Marco, per propria edificazione.
6.10 Fratel Filippo Sartori
Di questo umile e silenzioso fratello sappiamo pochissimo. Filippo era di Pergine, diocesi di Trento, entrò in Istituto come postulante il 22 aprile 1842. Vestì l’abito dei Cavanis il 12 aprile 1844
Doveva essere gracile e di salute instabile. P. Marco, da Venezia, nel novembre 1843 dà disposizioni a P. Giuseppe Rovigo che si trovava in villeggiatura con altri e tra gli altri Fra Filippo, in “questo deserto”, cioè molto probabilmente a Tarù di Mestre, sul prossimo ritorno del primo gruppo di villeggianti Cavanis. E aggiunge “Considerando poi che Filippo si trova forse in bisogno di maggiore riposo, vuol che vi aggiunga che quando l’aria e la ricreazione gli giovi, lo lascia stare a piè fermo [cioè in villeggiatura a Tarù] e trattenersi in campagna col nuovo drappello che occuperà il vostro posto”.
Lo troviamo dunque a Venezia, dalla sua entrata all’autunno del 1847; poi a Lendinara, impegnato soprattutto nella cucina, come cuoco per i padri e per i convittori, dal 1847 al 1852. Qui Filippo era rimasto da solo a custodire la casa, quando i Fondatori “chiamarono per consultazioni” e poi trattennero a Venezia i due padri Tita Traiber e Giuseppe Marchiori, durante il principale litigio con il sig. Francesco Marchiori, e fu incaricato di fornire i documenti necessari per la lite affidata all’avvocato Giovanni Ferro. Ciò vuol dire tra l’altro che fra Filippo era alfabetizzato e che conosceva bene il piccolo archivio domestico. I due padri, a nome di P. Marco o sotto sua dettatura, scrivono all’avvocato: “Qualora poi abbisognasse, Pregiatissimo Sig.re, di cognizioni relative a tale vertenza, il Sig.r Avvocato [Sante] Ganassini, cui sono ben note le cose nostre, potrà soddisfar pienamente alle necessarie di lei ricerche; ed il converso di codesta Casa Fr. Filippo Sartori potrà somministrarle le carte che fossero all’uopo occorrenti”. Per via della stessa pratica, andata a buon fine, si viene a sapere che fra Filippo aveva già in mano le chiavi del detto granaio che erano rimaste come copia (forse abusiva) in mano del Marchiori.
All’inizio del 1852 il fratello Filippo Sartori risulta gravemente ammalato a Lendinara e viene sostituito dal fratel Luigi Armanini “robusto e laborioso”, come si legge in una lettera del P. Marco al P. Traiber rettore di quella casa, del 17.2.1852. Si trasferì allora fra Filippo alla casa di Venezia, l’unica altra casa Cavanis a quell’epoca, e vi sarebbe rimasto probabilmente fino alla guarigione, e poi sarebbe ritornato a Lendinara. Ma non abbiamo altro registro di questo fatto. Il necrologio di Congregazione dice però che morì piamente il 3 marzo 1857 nella casa della Congregazione a Lendinara.
6.11 Fra Giovanni Avi
“Di Pergine, diocesi di Trento, fratello laico professo, amante del lavoro e caro a tutti per la giovialità, morì piamente a Possagno nella casa della Congregazione” l’8 gennaio 1863”. Questo soltanto sappiamo di questo pio e caro fratello, dal laconico ma affettuoso testo del necrologio di Congregazione. Dei 20 anni che passò in Congregazione come fratello laico, possiamo ricavare solo qualche dato in più.
Giovanni era nato il 17 luglio 1821, ed era entrato in Congregazione a Venezia, il 2 febbraio 1843; avendo senza dubbio conosciuto l’Istituto Cavanis da qualche suo compaesano già membro dello stesso, oppure da qualche perginese in contatto con l’istituto. Non si esclude che il nome di Pergine sia generico, e che il fratello fosse del vicino altipiano di Piné, dove il cognome Avi è comune. Aveva ricevuto l’abito dei Cavanis il 4 dicembre 1844.
I dati seguenti provengono dalle varie tabelle e da altri testi di questo libro.
Lo troviamo a Venezia con sicurezza dal 1847 al 1859; ma con certezza c’era rimasto anche nei primi anni di vita in Congregazione per la sua formazione compiuta a Venezia; e inoltre parte da Venezia per Possagno, come diremo, nel novembre 1860; d’altra parte non risulta mai nelle tabelle della comunità di Lendinara. Sembra dunque probabile che abbia vissuto a Venezia, occupato in servizi vari di casa, come dice una tabella del 12 novembre 1856, dalla sua entrata in Istituto nel 1843 fino al novembre 1860; visse poi certamente a Possagno dalla fine del 1860 fino alla morte, nel dicembre 1863.
A Venezia fu, con il chierico Giovanni Fanton, “bidello” o “ostiario”, come si diceva allora, all’esterno delle porte dell’aula capitolare durante il 2° capitolo ordinario provinciale, del 1858. Era stimato allora, come persona di fiducia.
Era stato a Possagno, probabilmente per un periodo di vacanza, assieme al P. Giuseppe Rovigo, già nel settembre 1858, subito dopo del capitolo citato sopra, approfittando del viaggio del P. Rovigo; e nel viaggio di andata il 20 settembre 1858 fu coinvolto nel pericoloso incidente di cui scrive P. Da Col nel diario di Possagno: “tra Cornuda (comune in provincia di Treviso) a Unigo (Onigo, frazione del comune di Pederobba in provincia di Treviso) per essersi distaccata una ruota della carrozza, cadendo nell’atto stesso a terra quegli che guidava il cavallo, che per un buon tratto corse spaventato precipitosamente finché un movimento di loro che entro la carrozza invocavano Gesù Giuseppe e Maria fece piegare la carrozza stessa, nel qual punto, rottisi i fornimenti (finimenti) del cavallo, n’andò a sua posta, ed essi restarono fermi sulla via perfettamente, grazie all’amorosissima divina Provvidenza, illesi”. Questo viaggio deve essere certamente rimasto impresso nella sua memoria!
Andò poi a Possagno assieme a P. Casara, che portava con sé anche due novizi, che andavano a compiervi il noviziato, nel primo anno in cui questo si compiva a Possagno; tra i due novizi, tutti e due orfani veneziani, c’erano quel sant’uomo di fra Giacometto Barbaro, e un altro, un tale Augusto Ferrari che poi non continuò la formazione e uscì. P. Casara aveva portato con sé fratel Giovanni Avi per tagliare e cucire sul posto le vesti, cioè l’abito religioso per la vestizione dei due nuovi novizi. Ciò significa che una delle sue competenze professionali c’era anche quella di sarto. Rimase poi in quella casa.
Della sua ulteriore presenza a Possagno non abbiamo altri dati, salvo il fatto che, dopo breve malattia, come dice il necrologio, vi morì piamente, l’8 gennaio 1863 e il suo nome consta nella lapide con i nomi dei religiosi Cavanis nel cimitero di Possagno. Sembra tuttavia difficile pensare che il suo corpo giaccia nella cappella, perché fu soltanto ben più tardi, nel 1921, che “si erano comprati otto loculi nel sacello per gli ecclesiastici nel cimitero stesso di Possagno, e si propose e approvò che vi fossero deposte, accanto alla salma del P. Santacattarina, quelle “dei nostri Padri: [Domenico] Piva, Da Col, Bassi, Fanton (che ora stanno nella cella) e quella del giovanetto aspirante Carlo Trevisan”. Non si parla dunque qua di fratel Giovanni Avi.
6.12 Fra Pietro Rossi
Di questo nostro confratello estremamente caro, il necrologio della Congregazione scrive soltanto questo: “2 agosto 1870 – Pietro Rossi – Di Venezia, ammesso tra i nostri dal mille ottocento venti due, consunto da malattie incontrò placida morte a Lendinara, nella casa della Congregazione. R.I.P.”.
Pietro Rossi era dunque veneziano, nato il 25 ottobre 1797, era figlio di Felice Rossi, ed era stato ammesso ventiquattrenne in Congregazione, che era ancora di livello diocesano, due anni dopo la costituzione della comunità nella “casetta”, il 1° agosto 1822. Questa data probabilmente corrisponde solo alla sua ammissione nella casetta come aspirante. È ancora presente in comunità nel 1823, iscritto tra i fratelli nell’“Elenco degl’Individui aspiranti alla nuova Eccl.ca Congregazione delle Scuole di Carità”, con la seguente dicitura: “Pietro Rossi del fu Felice, veneto, Laico servente, di anni 26”.
Vestì l’abito Cavanis, circa sedici anni dopo la sua entrata nella comunità, lo stesso giorno degli altri religiosi della casa di Venezia, il 15 luglio 1838 in occasione della erezione canonica che si effettuerà il giorno dopo, al pomeriggio con gli altri fratelli laici, in forma privata, in occasione della erezione canonica che si effettuerà il giorno dopo, il 16 luglio, festa della Madonna del Carmine. Non conosciamo ancora la data della sua professione religiosa, ma è probabile che questa sia avvenuta nel 1841 o poco dopo.
Sappiamo che ordinariamente il suo servizio in comunità era quello di cuoco, ed è chiamato “Pietro cuoco”, anche se non evitava altri servizi; un’altra lettera, questa del P. Casara a P. Antonio, rivolge saluti a “Pietro con tutti gli altri di cucina”; ed era un buon cuoco, ambito dalle comunità a preferenza di altri.
Lo troviamo senza dubbio a Venezia, che era allora l’unica casa della Congregazione, dal 1822 ai primi mesi del 1834; andò a Lendinara pochi giorni dopo il 26 febbraio 1834 con il confratello laico più giovane Giovanni Dall’Agnola, prima che ci arrivassero i padri o meglio il P. Matteo Voltolini con due chierici e tre aspiranti il 3 marzo successivo, per accompagnare il trasloco dei mobili e altri oggetti e materiali che dovevano servire per l’apertura di quella casa. I due portavano con sé una lettera di presentazione di P. Marco per il sig. Francesco Marchiori, il presunto agente del “benefattore occulto” di Lendinara. La lettera iniziava così, facendo riferimento al fratel Pietro Rossi come “agente” principale: “Il latore della presente, Pietro Rossi, col suo compagno Giovanni Dall’Agnola … incaricati di accompagnare i mobili da collocarsi nella nuova casa di Lendinara ecc.” Vi rimase senza interruzione fino al 1838 o 1839, quando passò a Venezia, dove rimase almeno fino al 1848 ma probabilmente fino al 1855. Nel novembre 1839 risulta essere però a Lendinara, forse in vacanza o convalescenza. Analogamente nel 1840. Come succede troppo spesso, nelle liste delle comunità, e “naturalmente” nelle firme dei verbali dei capitoli, mancano i nomi dei fratelli laici.
Nel 1855-56 passa a Lendinara ed è segnalato in questa casa nel 1863 e poi dal 1866 fino alla morte. Mancano dati sulla sua localizzazione negli anni non citati sopra. Pare che non sia mai appartenuto alla comunità della casa di Possagno, fondata nel 1857.
P. Marco, P. Antonio e a volte i giovani confratelli non mancano di salutare Pietro nominalmente, tra gli altri, alla fine delle loro lettere. In quelle più antiche è chiamato da P. Marco, forse scherzosamente, il “famulo Pietro”; dopo la vestizione, nel 1838, passa ad essere Fra o Fr. Pietro; spesso soltanto Pietro, se non si dovesse per chiarezza chiamarlo anche con il cognome. Nelle liste ufficiali è classificato come Laico inserviente. Curiosa la frase di P. Antonio Cavanis a P. Giovanni Paoli del 15 novembre 1924: “Saluti distinti dati con un bacio ai figli [= gli aspiranti, i giovani] della “casetta” compreso Pietro e il piavolo.”
Altre numerose lettere aggiungono dati sul suo stato di salute, spesso abbastanza cagionevole, ma che non gli impedì di svolgere i suoi compiti: “Pietro cuoco è stato egli pur ammalato da forte reuma, e ora sembra rimettersi finalmente. È sorto dal letto non solo, ma dalla camera ancora.” Padre Antonio scrive a P. Marco, il 13 ottobre 1837: “P.S. A Pietro mando un particolare saluto e gli raccomando pazienza e coraggio e piena tranquillità nel suo male per bene suo e per conforto di chi lo assiste con tutta la carità.” Nella lettera di P. Antonio a P. Marco, dell’11 giugno 1838, Pietro risulta ancora ammalato. Il chierico Alessandro Scarella scrive a P. Antonio: “La prego di .. congratularsi per me … col caro Fra Pietro per la ricuperata salute.” Ancora, nel 1845, P. Marco scrive a Casara: “ congratulandomi del miglioramento di … Fr. Pietro.” P. Marco scrive a P. Spernich, il 22 dicembre 1945: “Abbiamo sentito ancora con molta consolazione che il nostro caro fratel Pietro prende vigore.” Purtroppo definitivamente non era così: “ Fra Pietro ch’è sibbene guarito, ma che tuttora si sente debole, e non potrà mai sperarsi vigoroso e robusto.” P. Marco chiede allora che ritorni a Venezia. Sembra però che ci siano stati dei miglioramenti in seguito, perché dopo questa data non si sente più parlare della salute o della malattia del fratello, che vivrà ancora circa 25 anni. Il necrologio della Congregazione tuttavia come si è visto sopra, dice che: “consunto da malattie incontrò placida morte.”
Troviamo il nostro fratel Pietro anche in villeggiatura a Tarù, modesto villaggio perilagunare attualmente inglobato nella città di Mestre, assieme ai confratelli più giovani; e in vacanza a Lendinara. Qui P. Marco si dirige al “Triunvirato dei Villeggianti in Lendinara” e scrive: “Caro Pietro e […] vi saluto di cuore.”
Lo troviamo anche in viaggio con P. Marco, con grande gioia, a Padova, poi da Lendinara, in seguito a Villafranca – per esaminare la possibilità di una fondazione nuova –, poi a Verona, e infine a Venezia. Il 19 giugno 1840, P. Marco scrive a P. Antonio da Verona: “…soddisfo ai doveri di Fr. Pietro, che si è ricreato assai dopo la tribolazione dei giorni scorsi al vedersi la bella Verona.”
Dopo questo viaggio, fatto assieme a P. Marco Cavanis, fra Pietro scrive una letterina al P. Anton’Angelo, con qualche sbaglio di ortografia e qualche difetto di sintassi, ma dimostrando di saper scrivere, cosa non scontata a quel tempo per un fratello laico e in genere per la gente del popolo. La letterina è molto bella: “Padre amorosissimo, È ben sì giusto dovere che ancor io esprimi per la prima volta da che son partito da Venezia li sentimenti del mio povero cuore. Mi creda o padre che io elgi sono grato e gratissimo. Anche l’amoroso padre viccario [P. Marco Antonio] mi ha molto ricreato per viaggio, e tutto senza merito mio. Grazie, grazie. [Fra Pietro Rossi].” Sul tema, P. Antonio scrive a P. Matteo Voltolini: “I soliti affettuosi saluti…a Pietro, di cui ho aggradito assai l’affettuosa lettera.”
Morì il 2 agosto 1870 a Lendinara. P. Giovanni Chiereghin scrive nel diario di Congregazione, 32 anni più tardi, che Fra Pietro Rossi era una delle “pietre fondamentali del nostro Istituto”! Come si dice più sotto a proposito del P. Pietro Spernich, la sua tomba non si era potuta localizzare nel 1902, e le sue ossa sono state purtroppo disperse. Ma la sua memoria è in benedizione.
6.13 P. Pietro Spernich
Nato a Venezia l’11 settembre 1798, figlio di un operaio dell’Arsenale di Venezia, Pietro stesso era registrato all’Arsenale nella lista del “sindacato” come calafato, ma non svolgeva di fatto quel lavoro, da quando aveva deciso di entrare nell’Istituto. Il fatto di essere membro di questa categoria di operai specializzati, dediti ad un lavoro importante per la marina militare (veneziana fino ad un anno prima della sua nascita, all’epoca invece austriaca) lo rendeva quasi automaticamente libero dalla coscrizione militare.
Entrò in contatto con l’Istituto nel 1817, facendo richiesta per essere ammesso, diventando uno dei primi compagni e discepoli dei fondatori. Bisogna dire ancora di più; in realtà fu lui il primo religioso Cavanis ad abitare nella casupola che c’era a fianco dell’orto dell’opera Cavanis, con il maestro delle scuole dell’Istituto, don Pietro Loria, e i giovani Domenico Todesco e Giovanni Greco, dal 14 maggio 1817, tre anni prima dell’inaugurazione della prima vera comunità Cavanis. Fu uno dei primi cinque membri al momento di entrare nella “casetta” il 27 agosto 1820, festa di S. Giuseppe Calasanzio. Questi membri, la comunità storica e primitiva, erano P. Anton’Angelo, i chierici Matteo Voltolini, Angelo Cerchieri e lui, Spernich, oltre al fratello laico Pietro Zalivani.
P. Giovanni Chiereghin osserva che in Istituto Pietro non demordeva mai, “costante e assolutamente incrollabile, fra fastidi, angosce, incertezze di ogni tipo; vide nei primi tre anni andarsene numerosi preti molto degni ai quali era stata affidata la formazione dei giovani che volevano entrare in Istituto; vide andarsene i suoi due compagni, Cerchieri et Toscani, di certo; fu spesso tentato e invitato ad andarsene anche lui; ma restò sempre lo stesso”.
Una delle situazioni d’angoscia per lui fu quando, anche se il suo nome si trovava ancora nelle liste degli operai dell’Arsenale, nel periodo della sua formazione nella «casetta», ci fu il rischio nel 1821 che fosse chiamato alle armi, dato che non lavorava di fatto all’Arsenale, ma la volontà divina e le preghiere della comunità fecero sì che venisse esonerato il 24 marzo 1821, la sera prima della festa dell’Annunciazione di Maria.
È interessante leggere un gruppo di lettere giovanili del 1825 che il chierico Spernich, a quel tempo al primo anno di teologia, inviò a P. Marco, rimasto a Venezia, scritte quando era in vacanza in campagna, più precisamente a Mirano, vicino a Venezia, con P. Antonio e un gruppo di suoi colleghi seminaristi. Queste lettere più di altre ci rappresentano e ci fanno capire il suo carattere gioioso, la sua disponibilità ad accettare gli scherzi e le battute dei confratelli, ma anche quanto fosse obbediente e semplice di cuore.
Queste lettere ci rivelano, pur a questo punto teoricamente avanzato della sua formazione, la sua maniera caratteristica di scrivere che non seguiva sempre la grammatica, la sintassi e anche l’ortografia di quei tempi. La sua prosa era un miscuglio faceto d’italiano (antico, ovviamente), di dialetto veneziano, di espressioni appartenenti all’intercalare tipico del clima gioioso della “casetta”, e di latino scherzosamente maccheronico. Scrive a P. Marco, o, come diceva scherzando, Pré Marco, con uno stile estremamente informale e affettuoso, familiare e pieno di confidenza filiale.
In comunità, ancora giovane, lo si chiamava “il vecchio”, dato che era il più anziano dei seminaristi, essendo nato nel XVIII secolo (1798), come i fondatori, mentre tutti gli altri erano del XIX secolo. Lo si chiamava anche sbèzzola o sbèzoléta, ciò che in veneziano vuol dire «mento sporgente»; chi osserva la sua foto si renderà conto del perché. Lui stesso si firma così nelle suddette lettere, segno che accettava di buon grado questi nomignoli.
Il diario della Congregazione il 12 settembre 1827 ricorda che fu autorizzato dal patriarca Jacopo Monico (da poco entrato nella diocesi di Venezia), con gli altri chierici più anziani dell’istituto Matteo Voltolini, Angelo Cerchieri e Giovanni Battista Toscani (questi ultimi due lasciarono in seguito l’Istituto), a continuare a vivere nella comunità della «casetta», anche se non si trattava ancora di una comunità religiosa riconosciuta. Erano al terzo anno di teologia.
Ricevette gli ordini minori dell’esorcistato e dell’accolitato dal patriarca Pyrker il 17 dicembre 1825 nella chiesa del seminario patriarcale; fu ordinato suddiacono il 5 aprile 1828, diacono il 20 settembre dello stesso anno e prete il 19 settembre 1829; fu inviato alla casa di Lendinara nel 1837, dove rimase sino alla morte.
A proposito del suo invio a Lendinara, P. Giovanni Chiereghin racconta un aneddoto come prova della sua virtù, della sua obbedienza e del suo senso di appartenenza all’Istituto: tre anni dopo la fondazione della seconda casa dell’Istituto, quindi nel 1837, i fondatori decisero che era ora di tener fede all’accordo preso con il signor Francesco Marchiori, «fondatore» laico della casa, di mettere a disposizione tre preti Cavanis; sino ad allora c’era solo P. Matteo Voltolini, con l’aiuto eventuale e temporaneo di qualche seminarista o fratello laico. Nessuno sapeva chi sarebbe stato inviato e tutti si chiedevano: «Sarò io?», ma i due fratelli fondatori non dicevano nulla. C’era desiderio e curiosità e l’attesa era grande. P. Spernich, veneziano, già arsenalotto, e molto legato ai fondatori e alla casa-madre, era sicuro che non sarebbe stato lui ad essere mandato a Lendinara.
Un giorno, la sera prima della partenza, fu riunita la comunità. P. Antonio tenne un discorso e presto si annunciarono i nomi dei tre padri che dovevano partire; il primo nome fu quello del P. Matteo Voltolini, che era già a Lendinara dall’inizio della casa nel 1834; poi P. Antonio annunciò il secondo nome «Padre Pietro Spernich!». Il povero Spernich rimase fulminato, sorpreso e deluso; ma disse solo un monosillabo molto veneziano: «Ciò!», un’espressione che suggeriva la sua sorpresa e che corrisponde più o meno a «Perbacco!». Non disse più nulla, non si lamentò, preparò il suo bagaglio e il giorno dopo partì per Lendinara obbedendo, e ci restò fino alla morte. Il terzo padre era P. Giovanni BattistaTraiber.
A Lendinara Spernich fu rettore soltanto un anno (1839-40), di solito fu religioso semplice, subordinato a P. Matteo Voltolini, a Traiber, a Bassi, e Brizzi; nel caso degli ultimi due padri, i suoi superiori erano più giovani di lui dal punto di vista anagrafico e di appartenenza alla Congregazione; ma obbedì a tutti senza alcuna distinzione, a pieno e con amore come un bambino. E si prodigava con tutta la piccola comunità, semplice e buono con tutti; lasciava che scherzassero con lui, che lo si prendesse in giro, senza offendersi, contribuendo così a mantenere un clima di serenità e di gioia fra i confratelli.
Come gli altri membri della comunità di Lendinara, che non avevano potuto partecipare alle celebrazioni della vestizione, della professione religiosa e dell’erezione canonica della Congregazione, celebrate a Venezia, indossò l’abito dell’Istituto a Venezia il 4 ottobre 1838 ed emise la professione il 29 dello stesso mese. Entrò a Lendinara come nuovo superiore locale. Con i confratelli di questa casa soffrì parecchio per le vessazioni e le strane esigenze del benefattore (uomo buono ma piuttosto eccentrico) che aveva “fondato” la casa e la scuola, il sig. Francesco Marchiori.
Successivamente, dovette sopportare sempre con molta pazienza e bontà le vicissitudini di tre guerre (le prime tre Guerre di Indipendenza d’Italia) e, dopo il 1866, la soppressione della Congregazione e la confisca degli edifici e dei beni immobili dell’Istituto; e ancora la persecuzione sistematica da parte degli anticlericali, nemici della chiesa e dell’Istituto.
Era un uomo semplice e dolce dalla bontà singolare, di grande pietà, amato da tutti.
Ebbe il torto, proprio per la sua bontà e semplicità, di accogliere nella scuola di Lendinara, nel 1839, e poi, dopo un periodo di sospensione, una seconda volta un tale Alberto Mario, un ragazzo di 14 anni già debosciato. Costui, dopo molti anni, diventato un noto politico liberale, militante del risorgimento italiano, scrittore e attivo anticlericale, tornato a Lendinara dopo un lungo periodo di guerre e di esilio, causerà molti problemi e sofferenze alla comunità Cavanis di questa città, come già detto in precedenza. Nonostante la sua grande antipatia verso i preti in generale e i Cavanis in particolare, conservava però stima per P. Spernich.
Questi lasciò una buona e lunga testimonianza scritta, probabilmente del 1861, sulle virtù dei padri fondatori, e in questo testo li chiamò esplicitamente santi.
Morì a Lendinara il 28 maggio 1872, a 74 anni, non di malattia, ma semplicemente perché le forze lo abbandonarono. Nella messa funebre l’officiante sviluppò il tema: «Vir simplex ac timens Deum». Si può considerare come uno dei più santi tra i confratelli Cavanis. Fu seppellito in Lendinara, e, quando i padri, nel 1902, cercarono di esumare le ossa dei confratelli seppelliti a Lendinara, trovarono bensì le ossa dei padri Vincenzo Brizzi e Nicolò Morelli, ma non quelle di P. Spernich e di fra Pietro Rossi. Il testo del diario della Congregazione dice esattamente così: “Domenica /19/ [1902] Scrive il P. Larese da Lendinara di aver avuto finalmente la consolazione di trovare le ossa dei confratelli P. Brizzi, e P. Morelli. Certo più pieno sarebbe stato il nostro gaudio se avessero trovato anche le ossa del Padre Spernich e del laico fratello Pietro Rossi, pietre fondamentali del nostro Istituto, ma dopo tanti anni e non avendo punto pensato a questo trasporto, si dovette abbandonare ogni speranza. Le ossa furono trasportate nel nuovo cimitero, e riposeranno nella Cappella fino a lunedì mattina in cui si farà l’esequie. Qui stasera reciteremo un notturno con le laudi dei defunti, domani la prima messa in chiesa sarà applicata per essi”.
6.14 P. Matteo Voltolini
Originario della provincia e dell’arcidiocesi di Trento, dal paese di Grigno in Valsugana, a quel tempo Tirolo meridionale, nato nel 1800, fu uno dei primi compagni e collaboratori dei fondatori, e fu prezioso per loro. Il 15 agosto 1820 indossò la talare ecclesiastica; pochi giorni dopo fu uno dei cinque membri della prima comunità Cavanis, nel momento in cui questa entrava nella «casetta» il 27 agosto 1820. Il diario della Congregazione il 31 ottobre 1821 ci informa che Matteo in questa data contribuì a rallegrare la comunità, al suo rientro da un viaggio a Grigno, dove era andato a risolvere dei problemi relativi all’obbligo e alla coscrizione militare, da cui era risultato esente.
Il 3 aprile 1824 egli ricevette i quattro ordini minori nella città di Chioggia; il diario il 12 settembre 1827 ricorda ancora che fu autorizzato dal patriarca Monico, con gli altri chierici più anziani dell’Istituto, Pietro Spernich, Angelo Cerchieri e Giovanni Battista Toscani, a continuare a vivere nella comunità della «casetta». Erano allora al terzo anno di teologia.
Il 23 settembre 1826 fu ordinato suddiacono a Ponte di Brenta (diocesi di Padova), dal vescovo di Chioggia, grazie al permesso del vescovo di Padova, benché fosse diocesano di Trento e abitasse a Venezia. P. Marco commenta, nel diario della Congregazione, il 19 novembre 1826: «Fu il primo dei seminaristi alunni della nascente Congregazione che era stata promosso agli Ordini Sacri; prima, ci si aspettavano forti difficoltà e amarezze prima di avere una tale e sospirata consolazione.». In realtà le cose furono davvero difficili e complicate. Per averne un’idea, vale la pena di leggere integralmente le pagine 507-509 del primo volume dell’Epistolario; il gioco vale davvero la candela!
Fu ordinato diacono il 5 aprile 1828; prete il 20 settembre 1828, e fu il primo giovane compagno dei venerabili fratelli che arrivò all’ordine presbiteriale e quella giornata diede loro questa grande gioia.
Nel 1830 (2-25 giugno 1830) partecipò al viaggio di P. Marco a Trento, come compagno, anche perché era originario dell’arcidiocesi di Trento.
Fu il primo superiore della comunità di Lendinara. Fece la sua vestizione religiosa indossando l’abito dell’Istituto il 4 ottobre 1838 nella cappella della comunità di Venezia ed emise la professione religiosa nell’oratorio delle scuole (la cappella grande, oggi aula magna delle scuole) il 29 ottobre, con gli altri membri della comunità di Lendinara che riuscirono a recarsi a Venezia solo un po’ dopo le celebrazioni dell’erezione canonica dell’Istituto (15-16 luglio 1838), perché avevano atteso le vacanze autunnali per recarsi a Venezia.
In ottobre 1939 fu trasferito nella casa di Venezia.
Dopo aver lavorato instancabile per la casa e la scuola di Lendinara e di Venezia, nel 1846 chiese a P. Antonio di ritirarsi dall’Istituto perché la sua salute era totalmente compromessa dall’eccesso di lavoro e dai sacrifici fatti. Ne uscì e tornò a Grigno di Valsugana, il paese dove era nato; e poi, a quanto sembra, a Lavarone, presso il fratello che vi era parroco. Si constatò che il motivo della sua uscita dall’Istituto era valida perché non recuperò mai la salute e morì l’anno dopo, il 15 giugno 1847. Aveva allora solo 47 anni. Tutti lo ricordarono a Grigno «per una reputazione di grande pietà».
P. Marcantonio, nel primo volume delle Memorie della Congregazione, a pag. 127 del volume stesso (e a pag. 144 della trascrizione commentata), scrive così, in modo diverso e probabilmente più esatto, nonostante la possibilità dell’esistenza di voci diverse, dato il sistema di comunicazione dell’epoca: “15 Giugno 1847 – Seguì in questo giorno la morte del buon Sacerdote D. Matteo Voltolini, in Lavarone ov’erasi ritirato presso il fratello Parroco, dopo d’esser sortito dalla nostra Congregazione. Dopo tanta edificazione sparsa fra mezzo a noi, colla sua pietà e con il suo zelo veramente istancabile, si mantenne ancora colà così esemplare nei suoi costumi, che il suddetto Parroco con lettera 19. corrente riferisce essersi all’annunzio della sua morte tosto sparsa la voce: è morto un Santo, è morto un Santo”.
P. Matteo lasciò un ricordo fraterno, di ammirazione e di amore anche nella nostra Congregazione, dove è commemorato tra gli altri membri della Congregazione nel necrologio ufficiale.
6.15 I padri Angelo Cerchieri e Giovanni Battista Toscani; e Pietro Zalivani
Si può ricordare qui anche P. Angelo Cerchieri, che fu uno dei primi cinque membri della comunità Cavanis, all’ingresso nella «casetta» il 27 agosto 1820 e ancora il laico Pietro Zalivani. Esattamente un anno dopo, nella stessa festa di S. Giuseppe Calasanzio, indossò l’abito ecclesiastico per grazia speciale del patriarca Pyrker, che fece un’eccezione alla regola per la nuova comunità, su richiesta dei fondatori.
Giovanni Battista Toscani era stato allievo delle Scuole di Carità dal 1816, accolto e ospitato gratuitamente e paternamente perché davvero povero; entrò anch’egli nella comunità della “casetta” il 31 ottobre 1821, è dunque anche lui uno dei primi compagni de fondatori. Il suo ingresso nella comunità fu seguito da un avvenimento provvidenziale che aiutò i fondatori a ottenere il mobilio e tutto il necessario per la camera di un nuovo membro della comunità che non possedeva nessun corredo.
Ambedue, Cerchieri e Toscani, furono autorizzati dal patriarca Monico, nel 1827, con gli altri chierici più anziani dell’Istituto, a continuare a vivere nella comunità della “casetta”. Erano al terzo anno di teologia. Il patriarca Pyrker, il 7 febbraio 1823, rifiutò di concedere la tonsura ai due seminaristi, perché la Congregazione non era stata ancora eretta canonicamente. Ma lo stesso patriarca conferì la tonsura, l’ostiariato e il lettorato ai due chierici il 17 dicembre 1825 nella chiesa del seminario patriarcale. I due furono ordinati suddiaconi il 5 aprile 1828, diaconi il 20 settembre dello stesso anno, e preti nell’Istituto Cavanis, il 19 settembre 1829, assieme al P. Spernich
I due tuttavia lasciarono la Congregazione assai presto. P. Angelo Cerchieri diventerà don Cerchieri, a quanto pare prima del dicembre 1830, e sarà successivamente parroco alla parrocchia di S. Silvestro a Venezia, rimanendo sempre amico dell’Istituto, e presente, con grande numero dei suoi parrocchiani, al funerale di P. Antonio nel 1858. Morirà nel luglio 1873.
P. Giovanni Battista Toscani rimase membro dell’Istituto fino al 21 ottobre 1832 quando ne uscì. Rimase senza dubbio prete diocesano di Venezia. Non è tuttavia del numero dei confratelli ricordato nel necrologio ufficiale.
Don Toscani donò in seguito all’Istituto, in segno di riconoscenza e di affetto, una quantità di opere, alcune delle quali importanti, per la biblioteca, per esempio un’opera in 24 volumi, edizione rilegata: Giacinto di Montargon. Il dizionario apostolico per uso dei Parrochi e predicatori e di tutti quelli destinati al sacerdozio. Giuseppe Antonelli Tip. ed Ed., Venezia, 1833-1835. L’opera, come gli altri libri, si trova ancora nella nostra biblioteca (2020), nel settore del deposito minore, a pianterreno, settore B. Sulla pagina di guardia all’inizio di ogni volume c’è incollata un’etichetta stampata in cui dichiara il dono all’Istituto e chiede un requiem eternam per sé. È probabile che il dono sia stato fatto molti anni dopo il 1835. Il cartellino, stampato, reca la seguente dicitura: “Dono del Rev.mo D. Gio. Batt. Toscani alla Congregazione delle Scuole di Carità. Requiem etc.”
In biblioteca inoltre è stato trovato, tra le pagine di un libro ottocentesco, un programma di un ottavario di S. Giuseppe, dal 2 all’8 maggio (purtroppo non c’è menzione dell’anno), celebrato nella Chiesa di S. Maria Gloriosa dei Frari, in preparazione alla festa del patrocinio di S. Giuseppe, in cui le prime due serate consecutive avevano come oratore don Giovanni Battista Toscani; le quattro serate successive don Angelo Cerchieri; le due ultime di nuovo don Toscani.
Ricordiamo qui ancora il laico, probabilmente aspirante fratello laico, Pietro Zalivani, uno dei primi quattro della Casetta”. Era un giovane montanaro bellunese, della Valle di Zoldo, Zoldano quindi, come P. Giovanni Battista Traiber; vi era nato nel 1789 e era passato a Venezia.
Il suo nome appare, per la prima volta, nell’elenco di coloro che, il 15 agosto 1804 diedero inizio alla Compagnia di S. Luigi nel palazzo dei Cavanis alle Zattere, e Pietro vi entra in questa occasione come novizio nella Compagnia suddetta. Con lui c’è anche il fratello maggiore Gio-Batta Zalivani, che poi sarà citato più spesso nel diario e nell’Epistolario, diventerà prete, essendo ordinato tale nella chiesetta dell’Istituto Femminile alle Eremite; ma non entrerà nell’Istituto Cavanis. Rimarrà però in rapporto di amicizia con i padri.
Nell’elenco di cui sopra, Pietro Zalivani è l’ultimo, non per ordine alfabetico, come si potrebbe aspettarsi, cominciando il suo cognome per Z; ma probabilmente perché era giovanissimo; doveva avere 14 anni. Forse è l’ultimo anche perché era “di bassa condizione”.
Non risulta dai documenti che fosse membro della Congregazione Mariana, ma è molto probabile che lo fosse, come del resto lo era suo fratello Giovanni Battista.
Entrambi i fratelli Zalivani si distinsero subito per il loro impegno nell’ambito della pia associazione – finché questa durò – e della frequentazione assidua dell’Istituto Cavanis: “… li due fratelli Zalivani in assai fresca età e senza veruna sopraveglianza né di padre né di madre né di altri maggiori mostrarono tanto impegno per intervenire alla solita conferenza, che dovendo far prima un loro interesse affrettarono il passo con tanta celerità che vi giunsero tutti grondanti di sudore ed accesi in volto come fiamma”. Pietro aveva allora 15 anni.
Di Pietro Zalivani si parla di nuovo nel 1814, 10 anni dopo, quando aveva circa 25 anni; egli partecipa agli esercizi spirituali, organizzati dai fondatori, con altri 17 giovani, tra cui Andrea Salsi e Pietro Spernich, dall’11 al 15 ottobre 1814, nell’Oratorio delle Scuole, in una attività spirituale.
Mentre Giovanni Battista si avviava al clero diocesano, suo fratello minore Pietro si aggregò inizialmente ai Cavanis, come membro della comunità, non come candidato chierico, ma come “servente”, il che probabilmente si può interpretare come candidato fratello laico o, come si diceva, frate converso. Nella relazione delle Memorie per l’inizio della comunità della casetta infatti si dice: “27 Agosto – Ricorrendo in questo giorno la festa del nostro principal Protettore S. Giuseppe Calasanzio, si cominciò ad abitare la Casa ch’erasi preparata alla nuova Congregazione. Vi entrò il più anziano de’ Direttori dovendo l’altro restarsi a tener cura della madre ottuagenaria e vi si unirono il chierico Pietro Spernich, Matteo Voltolini, ed Angelo Cerchieri, e in qualità di servente il giovane Pietro Zalivani, tutti con animo di appartenere al nuovo Istituto. La nuova Casa erasi prima benedetta dal nostro Parroco, e Dio Signore si degni di farla sempre fiorire colla sua santa benedizione.”
Sembra dunque che anche Pietro Zalivani, oltre ai tre chierici, avesse in animo di appartenere al nuovo Istituto; non solo di lavorarvi come servente. Tuttavia la sua presenza nella casetta deve essere stata molto breve, per scelta sua o per scelta dei superiori, non sappiamo. Sembra più probabile la prima opzione. Rimase in Istituto almeno fino al settembre successivo all’inizio della comunità riunita nella “casetta”, P. Marco scrive infatti in quel mese che “li Sacerdoti Fratelli de Cavanis rassegnano:
a) Che si è allestita una parte del locale assegnato alla nuova Congregazione di Sacerdoti onde poter dare qualche cominciamento alla istituzione medesima.
b) Che il suddetto locale si è cominciato ad abitare da pochi giorni, essendosi uniti agl’istitutori fratelli tre giovani già decisi di appartenere alla novella Congregazione, e forniti di ottime disposizioni per riuscirvi assai bene, e sono il chierico Pietro Spernich veneto di anni 21, Matteo Voltolini tirolese di anni 20 ed Angelo Cerchieri veneto di anni 19; ai quali si è pure aggiunto un altro in qualità di servente, il qual si chiama Pietro Zalivani nativo di Zoldo nel Bellunese dell’età di anni 31. Li suddetti giovani alunni non hanno presentemente alcuna incombenza [specifica, N.d.A.], ma solo vanno addestrandosi nei varj uffizj dell’Istituto cui bramano appartenere; sicché in ora si attende solo ad apparecchiare ogni cosa, onde alla venuta che si spera prossima del nuovo Prelato, possa ritrovar tutto disposto per farne colla sua autorità la canonica erezione.”
Senza dubbio Pietro Zalivani non perseverò nella via intrapresa. Partì quasi subito dalla casetta e dalla comunità. Non si trova cenno della sua uscita ma non ce n’è dubbio. Infatti P. Marco lo incontrò casualmente e con molta sorpresa a Treviso, dove si trovava di passaggio, già due anni dopo, nell’ottobre 1822: “Con mia somma sorpresa – scrive – ho dato del muso dentro al nostro spiritosissimo Zalivani, il quale si è pensato di far due passi da casa sua fin colà per trovar bottega da collocarsi senza saper se vi fosse. Di fatto non v’era; e si è veduto così svanire sgraziatamente questo bel colpo d’ingegno, messo in opera, com’ei disse, sull’esempio glorioso degli avi suoi i quali andavano anch’essi fuor di paese a trovar il pane e il trovarono, e si è poi scordato, il bambino, che adesso è un’altra stagione e non sono più i tempi che diconsi della nonna.
“Non avendo trovato lavoro a Treviso “il giorno 16 novembre [Pietro Zalivani] si presentò improvvisamente nella casetta, mentre tutti erano a pranzo”.
Di lui non ci sono altre notizie. Si può anche notare che non c’è traccia di lui nel libro di matricola della comunità, né per l’entrata che per l’uscita; il libro comincia proprio con la data del 27 agosto 1820, cioè con l’apertura della comunità della casetta; ma non fanno cenno a lui. È stato comunque dei primi dei nostri e ha servito la prima comunità come e quanto ha potuto.
Il 1° libro di Memorie della Congregazione (1838-1850) di mano del P. Marco, parla in seguito della morte del fratello don Giovanni, molto prematura: il 13 luglio 1841 P. Marco infatti annota: “Lettera di Nicolò Zalivani che partecipando la morte del Fratello D. Gio. Batta. Ricerca il saldo del di lui credito per conto del Vitalizio che aveva con noi convenuto.”. Documenti su tale vitalizio stabilito tra il Gio. Batta Zalivani e l’Istituto si trovano nella cartella 1838 dei carteggi di Curia, fondo Curia, b. 4. Ne risulta che don Gio. Batta Zalivani abitava a Forno di Zoldo, presso la parrocchia (Pieve o Matrice) di San Floriano. In seguito si trova ancora un cenno alla famiglia Zalivani, più esattamente a tale Nicolò Zalivani di Zoldo, che forse era il padre di don Gio. Batta. e di Pietro Zalivani, o come alternativa, un altro fratello. Il 21 settembre 1841 P. Marco scrive nelle suddette Memorie: “Lettera a Nicolò Zalivani che indica il debito che ci resta per conto del vitalizio del suo defonto Fratello, e stabilisce il modo di soddisfarlo.” (Ibidem). Altre notizie su Pietro tuttavia non si trovano.
6.16 P. Giovanni Luigi Paoli
Giovanni Luigi Paoli, in genere chiamato semplicemente P. Giovanni Paoli o P. Paoli, nacque a Venezia il 25 marzo 1808. Entrò in Istituto il 31 luglio1824 e il suo ingresso fu talmente eccezionale da essere raccontato con dovizia di particolari da P. Marco nelle memorie dell’Istituto. Questo giovane sentiva la vocazione e aveva il desiderio di farsi prete. Sostenuto dalla madre si preparava e studiava. Dopo la morte della madre, rimasto orfano e molto povero, dovette abbandonare gli studi e fu impiegato da suo zio come commesso nel suo negozio di biadaiolo. Lo zio non voleva sentir parlare di vocazione religiosa e tanto meno di spese di corredo o di mobilio, e non intendeva creargli il patrimonio ecclesiastico necessario affinché il nipote potesse dar seguito alla sua vocazione. Lo zio litigava spesso con sua moglie, perché questa appoggiava il nipote nel suo progetto di farsi prete e nelle sue scelte.
Un giorno, lo zio andò a trovare un suo amico, don Pietro Ortis, che era da poco impiegato come insegnante alle elementari al Cavanis, e per caso gli parlò del fastidio che la moglie gli arrecava con la sua insistenza. Don Ortis allora lo convinse ad aiutare il nipote facendolo entrare all’Istituto Cavanis. Fu talmente convincente che non solo lo zio acconsentì sostenendo tutte le spese, ma decise anche di fargli dono del patrimonio ecclesiastico necessario. Paoli allora accettò con piacere di fare domanda ai padri fondatori e fu accettato, dato che le referenze chieste e ottenute dai padri erano molto buone. Fu uno dei primi discepoli e compagni dei Fondatori, dopo Voltolini, Spernich e Traiber.
Vestì l’abito ecclesiastico il 27 agosto 1824 con Giovanni Battista Traiber, durante la festa di S. Giuseppe Calasanzio.
L’11 novembre 1827 fu ricordato per il suo discorso in un triduo dedicato agli angeli custodi; ricevette la tonsura ecclesiastica il 17 dicembre 1825 nella chiesa del seminario patriarcale, dal patriarca Pyrker; e alcuni degli ordini minori il 20 settembre 1828; fu ordinato suddiacono nella basilica della Salute a Venezia il 18 agosto 1830; diacono il 2 aprile 1831; e prete nel 1832. Fu uno dei quattro sacerdoti che misero l’abito della Congregazione ed emisero i voti semplici, il 15 luglio 1838, assieme con il fondatore iunior padre Marco. Anche per questo viene chiamato qua e là “compagno dei Fondatori”.
Nel settembre 1839 andò a Lendinara per riposarsi e recuperare in salute, in forma provvisoria, ma fu ben presto destinato a questa casa, come rettore o come prefetto delle scuole. Il cambiamento da Venezia a Lendinara fu difficile per lui; ma la sua obbedienza immediata e generosa gli valsero due bellissime lettere di P. Antonio. Il 29 dicembre 1839 P. Marco gli scrive dandogli di passaggio buone notizie sulla salute del papà di P. Paoli, che era ancora vivo; sua madre invece doveva già essere morta. Alla fine dell’anno 1839-40 fu richiamato a Venezia, dove sembra rimanesse, come prima di quest’anno scolastico, per tutta la vita, con l’eccezione del 1853-54, passato pure a Lendinara. Visiterà alcune volte Lendinara, o ci starà per qualche tempo, ma per convalescenza o per villeggiatura.
Si dedicò per quarant’anni alla scuola (come professore di grammatica e retorica) e insegnò anche morale, dogmatica, biblica, greco biblico ed ebraico ai seminaristi teologi Cavanis. Ricoprì più volte le principali cariche della Congregazione: fu definitore (fu anzi del primo gruppo di definitori, ossia del consiglio generale, della Congregazione) dal 1855 al 1861 e poi di nuovo dal 1876 al 1881; vicario generale de 1856 al 1861; fu anche maestro dei novizi. Sostituì P. Marco in qualità di procuratore, quando questi dovette rinunciare a questa attività per l’età e le malattie. Lavorò alla riforma delle costituzioni e alla confezione della loro II parte, con P. Casara, almeno in preparazione del capitolo del 1861.
Il Paoli lasciò poi la scuola a causa di una cecità quasi totale. Durante la sua vita si dedicò alla predicazione con passione e stile.. Era evidentemente un uomo di grande cultura.
Quando non poté più dedicarsi alla scuola, continuò ad essere educatore Cavanis predicando ai bambini e ai giovani, specialmente ai bambini poveri assistiti dall’associazione di S. Vincenzo de’ Paoli. Predicava anche agli adulti; aveva un modo di predicare fondato sulla parola di Dio, che tutti ascoltavano volentieri e che dava un buon risultato spirituale anche se, contrariamente alla abitudini dell’epoca, le sue prediche erano quasi del tutto sprovviste della retorica tradizionale, spesso superficiale e vuota.
Lasciò un importante documento che costituiva la sua testimonianza personale sulla vita, le virtù e il pensiero dei fondatori, soprattutto su P. Antonio, con qualche riferimento a P. Marco; su quest’ultimo scrisse un documento, una specie di florilegio, che intitolò: «Documenti morali tratti da alcune lettere del P. Marcantonio Cavanis».
Tra l’altro, ricorda in questo documento il giorno in cui, ancora seminarista, un collega, Giuseppe Barbaro, fonte di grandi speranze per i padri, uscì dalla Congregazione (il 16 maggio 1825): era il primo seminarista Cavanis a uscire dall’Istituto! P. Antonio riunì tutti i seminaristi (erano cinque) e disse loro «Volete andarvene anche voi? Perché non è l’Istituto che ha bisogno di voi; siete voi ad aver bisogno di restare nell’Istituto se è il Signore che vi ha chiamati qui.»
P. Paoli morì a Venezia il 24 maggio 1886, due giorni dopo la morte di P. Antonio Fontana. Furono due giorni di tristezza per la comunità di Venezia e per la Congregazione.
Così lo ricorda P. Sapori nel diario di Congregazione, nel giorno della sua morte: “Questa mattina, mentre ci disponevamo a rendere gli ultimi onori al desideratissimo P. Fontana, la morte recideva il filo di un’altra vita a noi assai cara. Confortato dagli estremi sacramenti spirava piamente nel Signore il P. Giovanni Paoli. Fu uno dei quattro primi compagni dei fondatori, i quali ebbero la sorte di vestire l’abito ed emettere i voti semplici la vigilia del giorno fausto, nel quale fu canonicamente eretta la nostra Congregazione. (…) fu catechista del patronato dei figli del popolo, annesso alla Congregazione di S. Vincenzo de’ Paoli, che per qualche tempo tenne sue adunanze nel locale delle nostre Scuole. Umiliati nella polvere, baciamo la mano del Padre divino che ci affligge, confortati dalla dolce speranza d’aver conquistato nel Cielo un nuovo intercessore, che non lascerà certo di pregare pel bene dell’Istituto, nel quale passò quasi tutta la sua vita”.
Anche se questo religioso Cavanis si chiamava indubbiamente “Paoli” di cognome, viene chiamato quasi sempre “Pauli” nelle liste annuali, sia quelle inviate alla Congregazione municipale, sia quelle dei commensali per la festa di S. Giuseppe Calasanzio. Da notare che il secondo nome di battesimo, Luigi, non era quasi mai utilizzato nella vita normale, fuori dei certificati e altri documenti ufficiali.
6.17 P. Alessandro Scarella
Nato a Vicenza il 13 aprile 1813, figlio di un falegname, faceva lo stesso lavoro del padre. Aveva ricevuto una buona educazione cristiana in famiglia e aveva frequentato l’oratorio dei padri Filippini. Conobbe la Congregazione durante un viaggio di uno dei nostri a Vicenza e ancor più quando si recò a Venezia per assistere alla vestizione di un suo cugino seminarista dei Cavanis, Giuseppe Scarella, sentì la vocazione e aderì entrando in Istituto il 2 novembre 1831. Indossò l’abito della Congregazione con i confratelli il giorno precedente all’erezione canonica. Emise la sua professione dei voti il 1° febbraio 1843, essendo già stato in precedenza ordinato sacerdote.
Inviato all’inizio a Lendinara, sin dalla nascita di questa casa, ancora seminarista, vi fu educatore e anche insegnante, ma, per quanto riguarda quest’ultima mansione, fu spesso solo un supplente, non essendo molto capace a mantenere la disciplina; si occupava perciò principalmente di diversi servizi pratici, ciò perché aveva esperienza di falegnameria, di carpenteria e anche di architettura. Lavorava lui stesso e/o come capomastro del cantiere, sia per la costruzione della piccola chiesa dell’Istituto a Lendinara, dove visse qualche anno (“la chiesa elegante” di S. Giuseppe Calasanzio), sia nella manutenzione e nel restauro della chiesa di S. Agnese a Venezia, inclusi i lavori più impegnativi, come la costruzione della facciata neoclassica della nuova chiesa.
Rientrato a Venezia, alla casa-madre, si dedicò agli studi filosofici e teologici, e fu istituito nei quattro ordini minori l’8 agosto 1841; divenne suddiacono il 18 settembre 1841; diacono nel settembre 1842; fu ordinato prete prima del 17 giugno 1844, più esattamente il 24 settembre 1942. Fu prete sagrista della chiesa di S. Agnese per diversi anni.
Era molto amato dai fondatori e lui li ricambiava amando con tutto il suo cuore sia loro, sia l’Istituto sia ancora i bimbi.
Nel 1844 cominciò ad ammalarsi mentre era ancora a Lendinara e continuò a soffrirne a Venezia. Nelle lettere ai due venerabili fratelli ne parla spesso con preoccupazione.
Nel 1849, durante i mesi estivi, fu inviato su consiglio del medico della comunità, ma contrariamente a quanto pensava P. Marco, in campagna, a Tarù, non lontano da Venezia; ma lo riportarono a casa a Venezia alla fine di ottobre o inizio di novembre, già moribondo.
Fu assistito durante tutta la sua malattia con grande amore (e anche con molta tristezza) dai fondatori e dagli altri confratelli, e fu confortato con i santi sacramenti e con la preghiera e l’assistenza affettuosa della comunità. Morì a soli trentasei anni, il 25 novembre 1849. Era la data che lui stesso aveva previsto. La morte fu dovuta a “tisi tracheale”.
Ci si ricorda in Congregazione del suo fervore angelico nella celebrazione eucaristica, della sua obbedienza, soprattutto delle angosce dello spirito che dovette provare in una fase della sua vita, soprattutto dopo la sua ordinazione presbiterale; e la piena sottomissione alla volontà divina nella lunga e dolorosa malattia che lo condusse alla morte.
Sulle sue virtù e sull’ultima parte della sua vita, si può leggere con edificazione la testimonianza di P Giovanni Chiereghin, che a sua volta riprende un racconto di P. Frigiolini. Questi lo aveva assistito durante la fase finale della sua malattia. Giovanni Chiereghin cita come fonte la «lettera di un confratello», ma sfortunatamente non dà la posizione in archivio di questi ultimi documenti.
6.18 Padre Vittorio Frigiolini
Si tratta del secondo preposito generale della Congregazione delle Scuole di Carità. Sebbene sia entrato un po’ tardi nella vita della Congregazione e dei nostri venerabili fondatori, e nonostante se ne sia andato troppo presto, è stato sempre molto stimato e amato al punto da essere scelto come successore di P. Antonio al governo della Congregazione. La sua breve vita, singolare tanto quanto il suo ingresso in Congregazione, meritano di essere raccontate più lungamente del solito, e più di quanto si sia fatto sopra, narrando del suo periodo di vita in congregazione e del suo brevissimo mandato. Vittorio Genesio Frigiolini nacque a Varallo (oggi Varallo Valsesia), nella diocesi di Novara, ma attalmente nella provincia di Vercelli, in Piemonte, il 6 ottobre 1818, da una famiglia molto cristiana e benestante; suo padre infatti era notaio.
La storia della sua infanzia e della sua gioventù, la si ritrova in un libretto scritto da P. Giuseppe Da Col, che ha il sapore di un tipico racconto agiografico, sull’infanzia e la giovinezza dei santi. Nella sua biografia dei fondatori, P. Francesco Saverio Zanon, sin dall’inizio del capitolo che gli dedica, l’associa ai «grandi servi di Dio». Viene descritto come un bambino e un giovanotto semplice, buono, assai umile e modesto, obbediente e mite, amorevole e dolce, capace di domare l’impetuosità del suo carattere. La sua occupazione preferita (come per molti vocazionati di ieri e d’oggi) era quella di prendersi cura di un minuscolo altare che aveva a casa sua e più tardi di servire la messa e altre celebrazioni come chierichetto nella chiesa parrocchiale.
I suoi genitori, per qualche motivo a me sconosciuto, lo inviarono con sua sorella Antonietta dal nonno paterno; Vittorio si occupò del buon vecchiarello con un rispetto ed un’obbedienza davvero singolari, dandogli tutte le cure possibili fino a quando il nonno morì. Anche in questa fase della sua vita fu saggio, modesto e amorevole.
Aveva un amico adolescente, un certo Geronimo Mazzola, che entrò nell’ordine dei gesuiti e vi morì poco dopo a soli 18 anni. Quando questi abitava ancora a Varallo, prima di entrare in convento, vivevano insieme la loro vita cristiana con intensità, facendo a gara in bontà, pietà e frequenza nei sacramenti. Vittorio si dette conto più chiaramente della sua vocazione a diciassette anni partecipando ad una missione popolare predicata a Varallo. Poco dopo, in accordo con il vescovo, indossò l’abito ecclesiastico, frequentò il corso di filosofia al seminario di Gozzano, nella sua diocesi.
Lo ritroviamo a studiare teologia a Novara nel 1837. I suoi genitori gli inviarono alcuni parenti per suggerirgli di lasciare il seminario su due piedi e di tornare in famiglia abbandonando la sua vocazione; Vittorio rifiutò fermamente, manifestando il suo desiderio irremovibile di continuare a servire il Signore e la chiesa; lo fece con un fervore e una fermezza che impressionarono fortemente i suoi familiari.
Era un buonissimo seminarista e, consacrato prete dal suo vescovo quattro anni dopo (il 18 settembre 1841), fu esemplare e tutto dedicato alle cose di Dio, del vangelo, del regno di Dio e dimostrò un particolare propensione per l’insegnamento dei bambini e dei giovani. Il suo vescovo lo inviò, come primo compito pastorale, come vicario, alla parrocchia del villaggio di Sabbia, in montagna, sulle Alpi, dove il parroco, vecchio e malato, aveva bisogno d’aiuto. Don Vittorio fece bene sin dall’inizio e ben presto si fece amare dai suoi parrocchiani, soprattutto perché iniziò a celebrare la messa e i santi sacramenti al mattino presto in questo ambiente agricolo, riuscendo a far sì che aumentasse il numero dei fedeli che frequentavano la santa messa ogni giorno. Istituì anche una confraternita laica intitolata ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria.
P. Da Col scrive che a Sabbia il giovane prete era gentile, amabile e umile con tutti; che si comportava come se i suoi parrocchiani fossero suoi parenti e in poco tempo tutti gli erano affezionati come fossero familiari, tutti miti, amorevoli e obbedienti. Aveva un occhio di riguardo speciale per i poveri, gli umili, gli ignoranti, coloro che erano stati segnati dalle prove della vita ed era particolarmente disponibile andando a trovarli spesso. Li confortava, insegnava loro la parola di Dio e li aiutava materialmente. Si prendeva cura specialmente dei malati: li assisteva con amore quando soffrivano, dava loro il conforto dei sacramenti e della preghiera. Accordava ai defunti poveri l’onore di un bel funerale, in un’epoca in cui i “livelli” di funerali (e naturalmente la tariffa relativa) erano legati alle classi sociali e alle possibilità finanziarie delle famiglie dei defunti.
Nel paese non aveva troppi impegni; per cui si dedicava agli studi teologici, pastorali, alla preghiera, alla quale dedicava molte ore, anche la notte. Ma interrompeva subito gli studi e la preghiera diurna e notturna se qualcuno aveva bisogno di lui e lo chiamava o gli faceva visita.
Era amorevole e aperto con tutti, ma allo stesso tempo era modesto e riservato, in particolare molto casto. Si dice che le donne del paese, delle contadine, sapevano che contro l’usanza locale, non dovevano entrare a piedi nudi in chiesa o nella casa parrocchiale. Lui stesso indossava sempre la talare, nonostante gli usi di molti preti dell’epoca, suscitando lo stupore ammirato dei colleghi e del popolo; ma diceva che amava la sua veste ecclesiastica e che gli era persino più comoda, così – diceva lui – poteva mettersi, sotto, degli abiti vecchi e poveri e rattoppati senza preoccuparsi dell’aspetto esteriore.
Era tanto devoto alla Madonna e consigliava a tutti di recitare il santo rosario. Nella sua parrocchia lo recitava con i suoi fedeli tutte le sere, celebrava diverse novene prima delle festività principali della Madonna. Durante gli ultimi giorni di carnevale invitava i fedeli a partecipare alle funzioni sacre destinate alla Vergine addolorata al fine di santificare questi giorni di sbandamento spesso dominati da bagordi e piaceri della carne. Il tempo di quaresima era per lui molto speciale; lo onorava con i sacrifici personali, la predica ai fedeli quasi ogni giorno e la devozione a Cristo crocifisso. Insegnava ai fedeli dei canti religiosi, soprattutto delle «laudi» cantate alla Vergine Maria, e invitava i parrocchiani a cantare questi cantici religiosi quando andavano al lavoro nei campi o alcuni erano strutturati anche come canti da lavoro.
Era un buon prete, secondo quanto è stato detto, molto stimato dai suoi parrocchiani e dai suoi superiori, per esempio dal vicario generale della diocesi di Novara, di cui si hanno due lettere, dove tesse le lodi del giovane don Vittorio; avrebbe potuto continuare così per tutta la vita. Tuttavia il desiderio di una santità più grande lo spingeva a dedicarsi sempre di più al Signore: desiderava ritirarsi in un Istituto ed essere un religioso. Pregò a lungo il Signore affinché lo ispirasse chiaramente invocando l’intercessione della Madonna. Pensava già di entrare nella Compagnia di Gesù, l’ordine dei gesuiti.
Nell’ottobre 1844 tuttavia (all’epoca aveva 26 anni), gli capitò di leggere in un giornale di Milano per il clero, l’ Amico Cattolico, un articolo scritto da P. Marco sull’Istituto Cavanis. Il nostro fondatore junior aveva in effetti l’abitudine di scrivere degli articoli sull’Istituto per i giornali e le riviste cattoliche, sperando così di favorire l’ingresso di giovani o anche di qualche prete nel suo Istituto. E questa volta il metodo funzionò!
Don Vittorio non era abbonato a questo giornale e quel numero d’ottobre gli era capitato in mano per caso: lo interpretò come un segno della provvidenza divina.
Come succede di solito in questi casi, era diviso tra l’idea, quasi definitiva, di entrare nella Compagnia di Gesù e la nuova conoscenza dell’Istituto di Venezia. Presagiva delle forti riserve da parte del padre e della sua famiglia in generale (sua madre era già morta). Ma fu un colpo di fulmine. Si risolse a scrivere ben presto ai fondatori, lo fece il 12 novembre 1844, chiedendo di entrare il prima possibile nella comunità Cavanis, manifestando tra le altre cose la sua «santa impazienza» di essere accettato. P. Marco gli rispose quattro giorni più tardi prendendolo in prova con gioia. Gli diceva che «era necessario che avesse la benedizione del suo vescovo», che d’altronde P. Marco conosceva personalmente e a cui aveva fatto visita di recente. P. Marco conosceva altrettanto bene il vicario generale della diocesi, monsignor Scavini. Don Vittorio doveva dotarsi anche della lettera di dimissioni della curia generalizia con tutte le informazioni necessarie sulla sua vita e sulla sua dottrina. Ci furono altre lettere.
Lasciò la parrocchia per andare a Novara senza spiegare a nessuno il motivo della sua partenza; soltanto, organizzò in parrocchia una grande festa della Vergine Maria prima di partire; qui c’erano tutti i fedeli e i cari bambini nella piccola chiesa parrocchiale che cantavano le lodi di Maria. Partì due giorni dopo, in pieno inverno, a piedi per i sentieri di montagna, camminando sulla neve fresca e molto alta con la sua talare e il suo bastone da pellegrino o montanaro e il suo piccolo bagaglio dove aveva portato con sé lo stretto necessario, per evitare di dare spiegazioni.
Il libretto di P. Giuseppe Da Col racconta un’avventura successa durante il viaggio: a una svolta vide un grosso cane che sembrava aggressivo, forse idrofobo, e che veniva dritto verso di lui, forse per assalirlo. Il sentiero che si svolgeva tra alte mura di neve non permetteva di girare né a destra né a sinistra. Quando sembrava che non ci fossero vie di scampo, vide all’improvviso il grosso cane pericoloso indietreggiare spontaneamente, entrare nella neve lateralmente e in poco tempo sparire. Attribuì anche questo evento come un segno favorevole della Divina Provvidenza per il suo viaggio.
Fece visita alla sua famiglia a Varallo per breve tempo, disse che andava a Novara per un affare urgente, ma non parlò della sua intenzione di entrare fra i religiosi a Venezia. Gli avrebbero impedito di partire. Confessava successivamente che questa separazione gli aveva provocato un conflitto interiore molto forte. A Novara ebbe il permesso del suo vescovo, monsignor Giacomo Gentile dei marchesi Felice, che lo incoraggiò nella sua decisione. Il vicario generale gli diede tutti i documenti necessari e una bella lettera di presentazione per P. Marco. Da Novara andò direttamente a Venezia, senza deviazioni. Non avrebbe mai più visto la sua terra natale.
Arrivò a Venezia il 19 dicembre 1844. Fu accolto molto bene dai due fratelli Cavanis e da tutta la comunità, con una grande gioia. Sin dall’inizio, in effetti, si mostrò allegro, umile, del tutto disponibile, obbediente, silenzioso, dolce nelle relazioni con la comunità. Il fatto stesso di venire quasi senza bagaglio, senza libri e altri oggetti personali, stava ad indicare il suo senso di distacco e di povertà, virtù tanto amate e coltivate dai fondatori e dalla nostra comunità. I padri dicevano fosse nato a immagine e somiglianza per la nostra Congregazione e che avrebbe già potuto indossare l’abito. Si mostrò sin dall’inizio amorevole con i bambini, ancor più con i più piccoli, i più ignoranti e i più poveri, secondo quanto faceva nella parrocchia di montanari. Era un padre amorevole che li istruiva alle verità della fede e nella devozione alla Vergine Maria. Entrò al noviziato e fu novizio, benché i superiori non ritenessero di fargli osservare tutte le regole dei novizi, dato che era già prete d’età matura; ma fu sempre estremamente umile, obbediente, disponibile a ricevere degli insegnamenti come se fosse ancora adolescente.
Fu un prodigio d’acculturazione, prima che questo termine fosse impiegato, e apprese rapidamente il dialetto veneziano per farsi capire e comprendere meglio, e presto riuscì a parlarlo perfettamente. Fu un modello di religioso e di Cavanis. Diventò confessore e direttore spirituale dei bambini e ragazzi delle scuole e talvolta professore, benché avesse difficoltà a far mantenere la disciplina. A poco a poco imparò a mescolare dolcezza e fermezza di modo tale da potersi sostituire ad altri insegnanti, ma non fu mai insegnante di cattedra. Indossò l’abito Cavanis il 28 settembre, come ci ricorda P. Marco in una lettera a P. Vittorio lo stesso giorno e mese nel 1851; ma non si sa l’anno; certamente prima della prima professione e dunque le sole due date possibili sono il 28 settembre 1845 o il 28 settembre 1846.
Fece professione dei voti semplici il 13 novembre 1846, due anni dopo il suo arrivo in Congregazione. Era adesso un Cavanis. Lo stesso giorno inviò una lettera ammirevole ad uno dei suoi amici; fa parecchi riferimenti biblici in essa ed esprime la sua estrema dedizione alla volontà di Dio e alla Congregazione.
Nel 1848 era così stimato dai fondatori, sia per il suo spirito Cavanis, sia per la sua prudenza sia ancora per la sua capacità, che P. Antonio, d’accordo con P. Marco, preparò un documento (10 dicembre 1848) e lo consegnò in custodia a suo fratello Marco, dove dichiarava che il suo successore in caso di morte o inabilità sarebbe stato P. Vittorio. Il documento era scritto da P. Marco (P. Antonio aveva a quei tempi settantasei anni ed era completamente cieco); era firmato da P. Antonio e controfirmato da Marco, con apposto poi il sigillo della Congregazione.
P. Giovanni Chiereghin scrisse che il compito principale affidato a P. Vittorio era quello di direttore spirituale dell’Istituto femminile. Ciò spiega anche la sua presenza eroica presso le suore Cavanis e le ragazze della casa delle “Eremite” o “Romite” durante l’assedio di Venezia. Come detto sopra, durante questo assedio e il bombardamento di Venezia da parte dell’esercito austriaco e dalla flotta, ebbe il coraggio di restare con il fratello laico Giovanni Cherubin, che aveva il compito d’ufficiale di contatto, nel nostro Istituto femminile delle Romite, per officiarvi la messa e per proteggere e incoraggiare la comunità, sfidando le bombe austriache. L’Istituto femminile era, infatti, più vicino alle postazioni dell’artiglieria austriaca in terraferma, soprattutto quelle dei forti S. Giuliano e di Marghera, e le bombe arrivavano dal 30 luglio al 10 agosto. Furono colpite diverse case e strade (fondamenta) attorno all’Istituto femminile, ma pare che le bombe che caddero tra le cinta del convento finirono per conficcarsi nel chiostro e nei giardini.
Nel novembre 1850 P. Marco, già vecchio e molto affaticato, effettuò il suo ultimo viaggio a Milano. In questa occasione si fece accompagnare da P. Vittorio.
Secondo quanto spiegato sopra, nel 1852 padre Vittorio Frigiolini divenne preposito generale (il suo mandato durò dal 6 luglio 1852 al 21 ottobre 1852), in circostanze un po’ complicate ma egli assunse subito il compito importante. Sfortunatamente si ammalò all’improvviso di congestione intestinale, forse, è possibile ipotizzare che si trattasse di peritonite, con terribili dolori al ventre, il mattino del 16 ottobre 1852, e morì prematuramente il 21 ottobre seguente, dopo cinque giorni di dolorosa malattia e infine di agonia, affrontate con santa pazienza, grande fede e accettazione del dolore, annunciando per giunta il giorno della sua morte. La malattia, per l’esattezza storica, viene definita “enterite” nell’atto di morte del comune della Regia Città di Venezia, firmata oltre che dal commesso municipale, dal medico curante dott. Desiderio e dal P. Sebastiano Casara.
Per la comunità e per i fondatori, furono dei giorni di dolore e di tristezza. Una grande speranza venne a mancare. Il racconto dettagliato della sua sofferenza e della sua morte santa è davvero una lettura impressionante. Aveva solo 34 anni quando morì.
Secondo quanto detto sopra, è evidente che essendo preposito, con un mandato tanto breve, tragicamente conclusosi in poco più di tre mesi, P. Vittorio non ebbe molta influenza sulla vita della Congregazione. Tuttavia la sua presenza nella nostra Congregazione per otto anni e qualche mese fu come una brezza soave, fresca ed edificante. Un nuovo percorso di apriva, con la cessione del governo della Congregazione da parte del venerabile P. Antonio e con l’elezione/nomina del secondo preposito.
Ci si potrebbe domandare quale sarebbe stata la situazione della Congregazione nelle sue mani. Forse il fatto che era giovane, straniero, un piemontese, avrebbe dato un’apertura più grande all’Istituto; forse gli avrebbe dato una piega diversa. Ma si tratta solo di futuribili.
Si è detto di lui, citando il libro della Sapienza: «Consummatus in brevi, explevit tempora multa». La sua memoria è in benedizione.
6.19 P. Eugenio Leva
Eugenio Leva nacque a Crema il 23 dicembre 1817; entrò nella “casetta” dell’Istituto il 30 marzo 1841; lo troviamo seminarista a Venezia nel 1847-48, nel seguente gruppo di chierici: Giovanni Francesco Mihator, Eugenio Leva, Paolo Chiozzotto, Antonio Fontana, Giuseppe Bassi. Tolto Paolo Chiozzotto, di cui poco o nulla sappiamo, e che comunque usc’ di congregazione il 4 settembre 1850, tutti gli altri perseverarono in Congregazione fino alla fine.
Non troviamo finora dati sicuri sulla sua vestizione e sulla sua professione religiosa (quella temporanea naturalmente; non si emetteva allora la perpetua); questi due eventi dovettero compiersi tra il 1842 e il 1846.
Eugenio Leva ricevette la tonsura e i quattro ordini minori tutti insieme il 19 dicembre 1846. Era ancora chierico nell’anno scolastico 1947-48, più esattamente il 12 novembre 1848. Viene chiesto che riceva il suddiaconato al card. Patriarca Jacopo Monico il 4 dicembre 1849, e lo riceve il 22 dello stesso mese. Ne viene chiesta l’ordinazione diaconale il 4 marzo 1850. Il 21 settembre dello stesso anno è ordinato prete dal patriarca Monico. L’anno successivo, il P. Marco chiede con lettera dell’8 marzo 1851 al cardinal patriarca l’autorizzazione a predicare e istruire in ambedue gli istituti, maschile e femminile, ottenendone l’assenso.
Si ammala ben presto, nel 1852, o forse era già ammalato da chierico, soffriva di problemi al cuore, e passa un tempo a Lendinara, su consiglio del medico, per giovarsi del clima della campagna. Poco più tardi si lamenta della sua situazione di salute il P. Marco, scrivendo a monsignor Angelo Pedralli di Firenze: “…un altro pur Sacerdote ed ottimo, il quale ha già ricevuto l’Estrema Unzione, ed è in continuo pericolo prossimo di morire…”. Morirà, di fatto, tre mesi dopo.
Sacerdote professo distinto per giovialità, per amore agli esercizi di pietà e per la cura dei fanciulli, rese piamente l’anima a Dio a Venezia il 5 maggio 1853, a 35 anni d’età, 4 mesi e 15 giorni.
6.20 P. Domenico Luigi Piva
Di Castagné, presso Pergine, diocesi e provincia di Trento, dove era nato il 30 gennaio 1842; era entrato in Istituto il 4 novembre 1857. Deve con ogni probabilità aver vestito l’abito religioso Cavanis nel 1860; visse l’esperienza del noviziato a Possagno, in collegio naturalmente; ed emise la prima professione a fine novembre o inizio dicembre 1862, stando alle varie carte, relative alla sua approvazione da parte degli esaminatori e della comunità.
Lo troviamo a Possagno, accompagnato in quel paese da P. Casara, preposito, nel novembre 1860, assieme ad altri novizi e chierici, ma come assistente del vicerettore del collegio e della comunità P. Nicolò Morelli.. Il rettore naturalmente era P. Da Col, che però si occupava più della parrocchia.
Il 17 dicembre 1864 fu ordinato prete, assieme al P. Francesco Bolech, a Venezia, dal Patriarca Giuseppe Trevisanato.
Lo troviamo a Lendinara negli anni 1864-65. Deve essere stato trasferito a Possagno, probabilmente per tentare di salvarne la situazione precaria di salute all’inizio del 1865.
“In età ancor giovane coronò a Possagno la sua innocentissima vita con una morte piissima nel giorno lietissimo della Risurrezione del Signore, il 16 aprile 1865”, come troviamo annotato in stile agiografico nel necrologio della Congregazione.
Fu sepolto in terra nel cimitero di Possagno; ma nel 1921 si erano comprati otto loculi nel sacello per gli ecclesiastici nel cimitero stesso di Possagno, e si propose e approvò che vi fossero deposte, accanto alla salma del P. Santacattarina, quelle “dei nostri Padri: [Domenico] Piva, Da Col, Bassi, Fanton (che ora stanno nella cella) e quella del giovanetto aspirante Carlo Trevisan”.
6.21 P. Giovanni Francesco Mihator
Giovanni Francesco Mihator era nato a Venezia il 26 febbraio 1821. Era rimasto orfano ancora da adolescente ma aveva avuto fortuna e il conte Francesco Revedin, veneziano anche lui, l’aveva preso in affido e lo raccomandò ai venerabili fratelli Cavanis perché l’educassero. Entrò nella “casetta”, cioè visse con la nostra comunità anche se non era seminarista, il 4 gennaio 1832, cosa piuttosto rara per le abitudini dei fondatori. Probabilmente avevano visto in lui un possibile candidato.
Lentamente la vocazione si fece sentire e domandò di entrare in Congregazione. Indossò l’abito Cavanis il 27 agosto 1839, un anno dopo l’erezione canonica. La sua professione religiosa temporanea (non si faceva a quel tempo la perpetua) deve essere stata emessa nel 1840, ma non abbiamo trovato dati sicuri al riguardo.
Ricevette la tonsura, l’ostiariato e il lettorato l’8 agosto 1841. Ricevette poi l’esorcistato e l’accolitato dal patriarca cardinal Monico il 19 dicembre 1846, il suddiaconato il 22 dicembre 1849, il diaconato il 16 marzo 1850 nella cappella del patriarchio, e il presbiterato il 30 marzo 1850 o qualche giorno prima. Ebbe tutte queste ordinazioni dal card. Patriarca Jacopo Monico, a Venezia.
Aveva una calligrafia molto bella, così P. Marco lo impiegò come suo segretario per diversi anni, durante il periodo della sua formazione. Oltre alla bella scrittura, aveva anche una bella intelligenza, e ne fanno prova le pagelle del corso di teologia effettuato per il primo anno di teologia (e probabilmente anche del quarto) nel seminario Patriarcale, e nello studium teologico della Congregazione, per il secondo e terzo anno, che presentano in tutte le cattedre, il massimo voto. Del resto anche le pagelle delle elementari, del ginnasio e del corso di filosofia, presentano voti molto elevati, spesso massimi.
Soffriva in salute e un po’ per questo, un po’ per una crisi spirituale, uscì dalla Congregazione il 28 febbraio 1849. La sua vocazione era autentica e il suo cuore restava vicino all’Istituto e ai suoi padri. L’epistolario ci mostra che restò in contatto con P. Marco, e sembra dal certificato di riammissione nella diocesi di Venezia e in Congregazione, emesso e firmato dal patriarca Giovanni Pietro Aurelio Mutti, che lo stesso Mihator avesse passato almeno un anno nel seminario patriarcale, studiando. Nel 1851 però abitava a Bologna nel convento dei padri domenicani. C’è però un dato differente che proviene dall’Elenco degl’Individui ecc. cit, al n° 59: una ota scritta in fretta e in piccolo carattere a matita da P. Casara, dice “passò ai riformati francescani”. Circa quattro anni dopo l’uscita, però, decise di rientrare in Congregazione e lo fece in occasione del funerale di P. Marco, il 14 ottobre 1853. L’11 novembre 1853 era stato annunciato a Lendinara il suo arrivo; fu vestito dell’abito per la seconda volta l’8 gennaio 1854, e aggregato con la professione religiosa, per la seconda volta, per mano del P. Giovanni Battista Traiber, delegato a ciò dal Preposito P. Casara, il dì 24 agosto dello stesso anno. Sarà a Lendinara soltanto dal novembre 1853 al 21 ottobre 1854, poi sarà richiamato a Venezia.
Fu sempre debole e malato. Restò fedele alla scelta e alla vocazione sino alla morte che arrivò precocemente, a Venezia, il 29 novembre 1877, a 56 anni.
Monsignor Giuseppe Ambrosi lo celebra così nel suo poema: «Il caro aspetto del Mihator, che, sempre sorridente / agitando il suo bianco fazzoletto, / si godeva scherzare tra la gente: / sacrista in chiesa ognor con lieto viso, / oggi è primo sacrista in Paradiso. »
6.22 P. Giuseppe Rovigo
Giuseppe Rovigo nacque il 5 novembre 1817 a Grigno (Valsugana, provincia e arcidiocesi di Trento; ai tempi della sua nascita, la regione si chiamava Tirolo italiano); entrò in Istituto molto presto e molto giovane, il 1° (o 5) novembre 1828, a undici anni. Vestì la talare ecclesiastica il 23 agosto 1834. Ricevette la tonsura e l’ordine minore dell’ostiariato il 23 settembre 1837. Indossò l’abito il 15 luglio 1838, il giorno prima dell’erezione canonica dell’Istituto, con gli altri compagni e con P. Marco; emise la sua professione dei voti il 1° febbraio 1843.
Fu tonsurato e istituito nell’ordine dell’ostiariato il 23 settembre 1837e negli ultimi tre ordini minori (lettorato, esorcistato, accolitato) l’8 agosto 1841 e ricevette il suddiaconato il 18 settembre 1841, nello stesso giorno di Giuseppe Da Col.
Negli studi filosofici e teologici si era distinto per l’ottimo profitto: con risultati sempre di “prima classe” in filosofia, in tutte le materie, e in teologia sempre “di prima”, spesso “con eminenza”.
P. Marco, in una lettera da Vienna, propone che i due nuovi suddiaconi esercitassero il ministero in occasione delle due messe celebrate per i funerali di papa Pio VII e per il patriarca Milesi. Fu consacrato diacono a Venezia il 26 marzo 1842 e prete il 24 settembre 1842.
Nel 1858 lo ritroviamo a Possagno, da dove scrive una bellissima lettera a P. Casara, preposito generale, in occasione della morte di P. Antonio. Tuttavia trascorse gran parte della sua vita a Venezia.
Professore di lettere antiche, latino in particolare, studiava con passione gli autori classici per trasmetterne la conoscenza, il gusto e la passione ai giovani allievi, ma anche per suo diletto personale; diceva che, leggendo il suo preferito, Virgilio, si crucciava interiormente perché questo grande scrittore che egli amava non aveva avuto il bene più importante, la religione dell’amore.
Fu anche prefetto delle nostre scuole a Venezia e superiore locale ed esercitò altre cariche: «Parlava poco, ma era provvisto di straordinaria saggezza, prudenza senza malizia, moderato in tutto il suo agire, onesto nei sentimenti; fu il vero modello di educatore calasanziano, come volevano che fossimo i nostri padri fondatori».
P. Francesco Saverio Zanon ricorda in modo commovente e molto vivo il suo primo incontro con questo padre tipicamente Cavanis, che era allora “prefetto” delle scuole di Venezia, il giorno in cui suo padre lo portò ad iscriversi alle scuole dell’Istituto quando aveva 10 anni, nel 1883. Vale la pena di riportare qui l’aneddoto: «Mio papà mi portò a iscrivermi con il mio fratellino Vito. Era prefetto delle scuole P. Giuseppe Rovigo e la direzione era allora una stanzetta modesta, la metà di quella attuale. P. Rovigo si rallegrava dell’ex-allievo con la sua abituale pacatezza e accolse paternamente i bambini. (…) Sono i primi ricordi di un ambiente pacifico che mi accoglieva e che, d’accordo con i miei genitori, mi impartiva un’educazione cristiana».
P. Zanon continua così: «Di Giuseppe Rovigo, la buona e cara immagine paterna è legata, come già detto nelle prime pagine, all’inizio della mia educazione in Istituto e mi ricorda, quando me ne ricordo, gli stratagemmi pii che ideavano i miei maestri per farmi stare buono, mentre a scuola si sviluppavano serenamente le energie dello spirito. Mi ricordo della devozione con cui il padre rettore [Rovigo] recitava in oratorio il rosario e allo stesso tempo controllava con occhio vigile tutta la chiesa guardando se noi pregavamo tutti.
Me lo vedo ancora intonare nelle feste il notturno della Madonna che cantavamo a quei tempi per continuare le pratiche pie della Congregazione mariana. Dopo, circondato da alcuni dei ragazzi preparati a questo ufficio e che gli restavano vicini, cantava le strofe devote di S. Alfonso, alle quali rispondevamo con il ritornello.
Ma lo vedo anche sorvegliare la disciplina e l’ordine d’ingresso e d’uscita da scuola degli studenti, e far visita alle classi interrogando con fare paterno gli alunni, dicendo sempre qualche buona parola.»
Era del tutto dedito all’educazione dei giovani a scuola; si preparava sempre le lezioni che doveva impartire, lavorava molto nella correzione dei compiti; si sacrificava in questo ministero Cavanis, fino ad ammalarsi. P. Giovanni Chiereghin, parlando di lui, ricorda una frase del nostro antico rito di professione religiosa, che sfortunatamente abbiamo soppresso attorno al 1971: «Scias te ad juventutem erudiendam mancipari». Vedeva questa formula, tipica della nostra spiritualità e del nostro carisma, perfettamente realizzata nella vita e nel lavoro di educatore e d’insegnante di P. Rovigo, veramente al servizio dei giovani; e l’autore già citato sviluppa a lungo questo il tema dell’educazione Cavanis. In breve, egli commenta, prendendo come modello P. Rovigo, che gioia e allegria del religioso Cavanis derivano dal suo sacrificio per l’educazione dei giovani, che è il fine ultimo a cui miriamo, la conclusione più desiderata dopo tutte le nostre fatiche.
Chi fa voto d’insegnare, diceva S. Giuseppe Calasanzio, ha fatto implicitamente voto di studiare. Fedele a questa regola, P. Rovigo studiava durante tutto il suo tempo libero. Si preparava alla scuola, secondo quanto detto, ma studiava anche una lingua straniera, commentava i classici, metteva a confronto i testi di diversi autori, faceva delle ricerche filologiche. Dopo queste considerazioni, P. Giovanni Chiereghin conclude dicendo che P. Rovigo era davvero un figlio dei fondatori.
Aggiunge ancora una frase molto interessante: dice che bisogna immaginarlo mentre ha a che fare con i bambini come un angelo d’amore fra altri angeli negli oratori, un angelo paziente a scuola anche con i bimbi più piccoli dove ce n’era più bisogno; alla ricreazione, l’angelo prudente.
P. Giuseppe Rovigo fu maestro dei novizi, esaminatore, definitore (ovvero consigliere generale); lasciò una breve testimonianza scritta sulla vita, le virtù e il pensiero dei fondatori.
Arrivò a celebrare il 50° di ordinazione presbiterale a S. Agnese il 5 ottobre 1892, assistito all’altare dal P. Ghezzo e fu una grande festa per tutta la comunità.
Nel 1884 fu colpito da una malattia ma, seppur malato, aiutandosi col bastone, voleva ancora far parte dell’ambiente scolastico, che aveva frequentato per quasi 60 anni, soprattutto durante le ricreazioni. Arrivò a celebrare il 50o anniversario della sua ordinazione presbiteriale, il 5 ottobre 1892. In questa occasione, uno dei confratelli gli rivolse queste parole: «Ai nostri giovani e a coloro che verranno dopo di loro, che il Signore voglia ben concederci una vita sempre operosa per il bene dei giovani, affinché alla fine di una giornata si possa dire di loro quanto si dice di P. Rovigo: ‘Sono stati davvero “i figli dei santi fratelli Cavanis”.
Soprattutto dopo la sua malattia, mentre aspettava la fine, era solito prepararsi molto spesso alla morte, con devozione.
Il 27 ottobre 1892 fu colpito da apoplessia. Morì, senza riprendere conoscenza, il 31 ottobre 1892.
Così narra la sua ultima malattia e la morte P. Da Col nel diario a partire dal il 27 ottobre 1892: “Questa mattina il caro nostro P. Rovigo celebrò come al solito la S. Messa. Senza indizio alcuno di straordinaria sofferenza, ed all’un’ora circa pomeridiana, si alzava per recarsi alla mensa comune, quando cadde colpito da apoplessia, che lo privò affatto dall’uso della lingua e forse in parte almeno della mente, di cui non diede contrassegno alcuno, malgrado i prestati rimedj, per il che parve, quasi appena colpito, già entrato in agonia.
Si notificò subito nel pomeriggio la dolorosa disgrazia al fratello dimorante in Grigno, ed ai nostri di Lendinara e di Possagno.
Ricordo, adorando e benedicendo le disposizioni sempre amorose del Signore, che l’amatiss.o mio confratello, al quale fin dall’anno 1832 fui collega nel nostro Istituto, e condiscepolo, fu chiamato, come il fa argomentare il suo stato, a ricevere, forse tra poche ore, il premio delle sua rare virtù, e del fervore della pietà, con cui si veniva disponendo al gra[n] passo, mentre io vivo, dopo che il p.p. Lunedì 24 del corr. ottobre avrei potuto rimaner vittima d’una caduta nel ritornarmene a casa, e veggo un tratto di Provvidenza, che mi eccita a tenermi, a somiglianza dell’egregio confratello, preparato, coll’impiegar bene, la Dio mercè, finchè mi basti la vita, fiat, fiat”.
Il 31 ottobre, P. Da Col scrive ancora, dopo la morte del confratello: “Dopo lunga, e penosissima agonia, senza però dare alcun segno di cognizione, pienamente tranquillo, facendo sempre fino all’ultimo istante ripetere a tutti che concorrevano a visitarlo “ecco il Giusto morente” questa sera alle ore otto il benedetto nostro P. Rovigo esalò l’anima bella, che vuolsi sperar fermamente disposta ad unirsi tra breve ai Beati del Paradiso”. Segue un breve resoconto del funerale, dei commenti della stampa locale, delle lettere di condoglianza e di stima ricevute.
Mons. Giuseppe Ambrosi, in un poema commemorativo, lo chiama «anima cara».
6.23 Fratel Francesco Luteri
Della diocesi di Trento, più precisamente di Tierno, frazione di Mori, nato il 18 novembre 1821, fratello laico, era entrato in Istituto a Venezia il 22 febbraio 1860. È chiamato Lutteri, con due “tt” nel DP, nel DC e spesso altrove, in errore. Per la verità, lui stesso si firma Lutteri in una sua rara lettera, del settembre 1869. Tuttavia è chiamato Luteri nei documenti ufficiali, per esempio nei necrologi di Congregazione, antichi e attuali. Per esempio, è chiamato Luteri nella lettera testimoniale dell’arcivescovo di Trento ma, nella stessa cartella, Lutteri in documento notarile relativo a una sua eredità.
Compì il suo noviziato inizialmente a Venezia, poi a Possagno nel nuovo noviziato, raggiungendo in quel paese gli altri novizi che erano candidati al sacerdozio, nel marzo 1861. Vestì l’abito dell’Istituto il 7 giugno 1861. Probabilmente avrebbe dovuto emettere la professione religiosa nel 1864, dato che il noviziato dei fratelli a quel tempo durava tre anni; sembra tuttavia che l’abbia emessa nel 1865.
Lo troviamo a Possagno dal 1868 al 1877, in situazioni differenti. Infatti, nel 1869, al momento in cui la comunità Cavanis del collegio Canova abbandonò il paese a seguito della soppressione della Congregazione, dell’incameramento dei beni, e di tutte le vicende sgradevoli che seguirono il 19 ottobre 1869, il preposito P. Casara gli chiese se era disposto a rimanere a Possagno con il P. Da Col in parrocchia; accettò, con la condizione di essere richiamato a Venezia se più tardi lo desiderasse. È particolarmente bello trovare e leggere la sua lettera originale, con la sua cara, rozza e grossa scrittura. Normalmente i religiosi non ponevano e non pongono condizioni siffatte, ma in questo caso si trattava di una situazione particolare e nuova, che usciva dalle condizioni previste nelle Costituzioni, dato che si trattava anche di lasciare l’abito religioso. Un fratello laico poi, a differenza di P. Da Col che con la nuova situazione lasciava sì l’abito della Congregazione soppressa, ma passava a vestire la talare e altri ammennicoli propri dei parroci, Francesco passava a vestire l’abito civile, il che senza dubbio gli dispiaceva e lo umiliava.
Rimase tuttavia a Possagno, in parrocchia, per compagnia e per formare comunità con P. Da Col, e come “servente”, fino al 1877, quando richiese e ottenne di ritornare a Venezia ed era stato sostituito a Possagno da un aspirante fratello, tale Antonio Dalboni.
Da Venezia passa quasi subito a Lendinara. Nel 1885 risulta essere a Lendinara, e P. Sapori, pro-rettore, dà notizia a P. Casara che Luteri era stato colpito da una leggera paralisi alla faccia.
Il necrologio della Congregazione commenta che era un uomo semplice, caro a tutti, sempre in attività. Morì piamente a Venezia il 14 giugno 1894, all’età di settanta tre anni. La memoria di quest’uomo pio, silenzioso e obbediente sia in benedizione.
Così ricorda la sua ultima malattia e la sua morte P. Giuseppe Da Col nel Diario di Congregazione in data 14 giugno 1894: “La scorsa notte, dopo di aver passato il giorno in comunità, ed in uno stato abbastanza buono, che gli permise di accostarsi in Chiesa alla Santa Comunione, fu assalito più fortemente del solito dal suo male di cuore. Visitato dal nostro medico Dottor Carli fu dichiarato in pericolo tale, da doverglisi amministrare questa mattina i Santissimi Sacramenti, ed impartirgli l’Assoluzione Pontificia. Accompagnò egli tutto coi più vivi sentimenti di fede, e di fervorosa pietà, ripetendo e prima e dopo durante il giorno i medesimi sentimenti, e frequentissime giaculatorie, e chiedendo perdono a tutti in generale, ed in particolare a ciascuno, che gli si avvicinava al suo letto, senza mai dare in lamenti pel suo male, e per la continua pena pel catarro, che minacciava di soffocarlo. Dietro la terza visita fattagli dal medico la sera, si temeva, pur troppo, che non potesse passare la notte. E, infatti, alle ore 23, dopo brevissima convulsione, confortato colle ultime frasi per gli agonizzanti, ma quasi senza agonia, placidissimamente spirò nel bacio del Signore”. Il funerale si tenne in S. Agnese il 16 giugno 1894 e la salma fu tumulata nel reparto ecclesiastici, del cimitero di S. Michele .
6.24 P. Narciso Emanuele Gretter
In tre righe, così lo ricorda il necrologio di Congregazione: “Sacerdote professo, della diocesi di Trento, benemerito dell’Istituto sia a Possagno che a Lendinara, benefattore di tutti, chiamato il “Padre buono”, consunto da acerbissimi dolori, come aveva chiesto a Dio morì piamente nel Signore il 3 maggio 1896, alla età di cinquanta anni”.
Narciso era nato a Castagné (di Pergine, Trento) l’8 gennaio 1842. Il 12 novembre 1860 entra in Istituto e lo troviamo novizio a Possagno, assieme a due altri “tirolesi” ossia trentini, e a due veneziani, nel noviziato da poco eretto in quel paese; all’inizio nell’edificio stesso del collegio, poi ben presto in una casetta apposita. Vestì l’abito della Congregazione, sembra il 15 dicembre 1860, nell’ottava dell’Immacolata, nel giorno stesso dell’inaugurazione del nuovo noviziato a Possagno. Emise i voti religiosi sulla fine del novembre 1862, a Possagno. Dopo la pubblicazione delle regole nel 1894, emise anche i voti perpetui, il 31 maggio 1894.
Ricevette la tonsura ecclesiastica il 15 aprile 1865, i primi due ordini minori il 15 aprile 1865, i secondi due il 6 agosto dello stesso anno, il suddiaconato il 19 dicembre 1868, il diaconato il 27 marzo 1869 e infine gli furono imposte le mani per l’ordinazione presbiterale il 22 maggio 1869.
Rimase a Possagno e quando il 10 ottobre 1869 la comunità Cavanis si sciolse e lasciò Possagno, P. Giuseppe Da Col rimase come si sa a Possagno come parroco “restando tuttavia congregato” e gli fu lasciato in compagnia il P. Narciso Gretter, anche lui in libertà di accettare questa proposta e con la stessa condizione di rimanere congregato; perché potesse sostenere la scuola dei piccoli (le elementari). Fu anche economo della scuola e, forse, della parrocchia. Nel 1969-70, per esempio, il P. Gretter sosteneva la prima elementare inferiore con circa 50 alunni. Nel 1875 Gretter era ancora a Possagno con il P. Da Col e fratel Francesco Luteri, ma aveva dei problemi in famiglia e, dopo la malattia e morte del padre, chiese di poter rimanere in famiglia per due anni, cosa che la struttura e le regole della Congregazione a quel tempo permettevano: ma la crisi appare superata e un mese dopo P. Gretter si tranquillizzò e rimase obbedientemente a Possagno. Dobbiamo essere grati a questi tre religiosi, e tra gli altri a P. Narciso, per aver ostinatamente (ci si permetta il termine) e coraggiosamente mantenuto la presenza Cavanis a Possagno!
A fine agosto 1880 P. Da Col, parroco, abbandona la sua parrocchia per ordine del preposito P: Casara, lasciando a Possagno il P. Gretter (con il fratello laico Antonio Dalboni) nelle “brighe” che sorgeranno “quando sarà manifesta la cosa”, cioè l’abbandono di Possagno da parte dei padri. Il 13 gennaio 1881 P. Narciso Gretter e fratel Dalboni lasciano anche loro Possagno, dopo aver risolto le ultime questioni della casa e della scuola e ritornano a Venezia, per poi passare a risiedere a Lendinara.
P. Gretter resterà a Lendinara dal 1881 fino alla morte, e fino alla fine di quella casa, nel maggio 1896. Nel 15 novembre 1884 “P. Gretter insegna le materie della primaria superiore a qualche ragazzo che non è obbligato ad andare nella scuola communale (sic)”; il 1° novembre 1885 P. Gretter ha la 2ª elementare;
La nuova comunità di Lendinara nel 1887-88 comprendeva, oltre a P. Sapori, solo i padri Giuseppe Bassi e Narciso Gretter, un fratello laico e il seminarista Giovanni Spalmach. Il diario di comunità di Lendinara era stato abbandonato da P. Sapori, gravemente ammalato, e si ricomincia solo il 13 ottobre 1889, in fogli sciolti allegati ad diario, con la scrittura del P. Narciso Gretter. Ha una bella calligrafia, ma scrive di rado e con un contenuto e uno stile piuttosto malinconico, il che si puà anche capire e compatire, data la situazione ambientale. Il pro-rettore P. Sapori, anziano e malato, gliene aveva affidato l’incarico. Il 31 maggio 1894, P. Narciso, con gli altri membri della comunità di Lendinara che avevano compiuto più di tre anni di professione, pronuncia i voti perpetui secondo le nuove costituzioni del 1891.
Il preposito e il consiglio avevano deciso il 29 agosto 1895 di chiudere la casa di Lendinara. P. Giuseppe Bassi viene trasferito a Possagno assieme al fratello Clemente Del Castagné il 24 settembre. Resta a Lendinara P. Narciso. Egli doveva restare solo durante l’anno scolastico in corso, fino a chiudere la casa, ma dato che si ammalò, di una malattia sempre più grave, ricevette tante visite dai confratelli delle altre case per confortarlo prima di tutto e poi per assisterlo.
La malattia, o meglio le malattie di P. Gretter continuarono a peggiorare durante tutto l’anno. Gli fanno visita il preposito, il vicario P. Casara, il vescovo diocesano d’Adria, e, con molta difficoltà, gli si trova e si invia al suo capezzale il fratello Clemente Del Castagné per assisterlo. Quando si decise esecutivamente di chiudere del tutto la casa, P. Gretter probabilmente non si poteva trasportare a Venezia, anche se c’erano pareri diversi. Soltanto per questo la casa non venne chiusa prima: si attendeva con pena la morte del caro P. Narciso.
I diari di Lendinara e il diario di Congregazione sul finire del 1895 e i primi mesi del 1896 sono pieni di dettagli sul progressivo aggravarsi della salute del povero P. Narciso. Non si capisce bene quale malattia avesse; doveva essere un’infezione generale, forse una setticemia, che gli provocava gonfiori e bubboni in tutto il corpo, e il “cerusico”, come scrive spesso P. Da Col nel diario nei primi mesi del 1896, doveva operargli frequenti e dolorosissimi tagli e incisioni in varie parti del corpo. Si veda per esempio il 22 febbraio 1896: “[P. Larese] confermò quanto scrisse nelle ultime lettere, ed aggiunse che il Cerusico sarebbe per fare al povero paziente qualche altro taglio; ora non ha cuore di parlargliene, mentre purtroppo rimarrebbe tuttavia disperata la guarigione, rimanendo sussistente la causa prima del male. Peraltro(?) il che noi pure non crediamo che sia da molestarlo inutilmente ancor più”.
Una notizia curiosa: “Il P. Larese scrive dell’atto di vendita già compiuto dal caro P. Narciso colla più sentita sua compiacenza pel bene della Congregazione, e ne partecipa lo stato di gran patimento, ma sempre di grande pazienza, e rassegnazione”. L’atto di vendita doveva essere fittizio; infatti, i beni della Congregazione, non avendo essa personalità giuridica, come tutti gli altri istituti religiosi, dal 1867 fino ai Patti Lateranensi (1929), erano intestati a congregati di fiducia; in vista della morte imminente del P. Narciso, i beni intestati a lui dovevano passare, in forma fittizia di vendita (invece che di testamento) ad altro membro della Congregazione.
P. Narciso morì il 3 maggio 1896, a Lendinara. Il diario ne dà stranamente una relazione molto breve, dopo innumerevoli note sulla sua situazione di salute sempre più disastrosa: “Telegramma da Lendinara – Si annunzia per telegrafo da Lendinara la santa morte avvenuta questa mattina del nostro carissimo P. Gretter – Si celebrò subito per esso l’unica Messa che restava da celebrare; si celebreranno senza ritardo le altre tutte di regola, il maggior numero qui, ed una parte dai confratelli sac.[erdoti] di Possagno”. Il funerale si celebrò a Lendinara il 5 maggio, in forma purtroppo molto semplice, data l’assenza della comunità ormai non più esistente; pare fossero presenti, dei nostri, solo il P. Larese e fratel Pietro Sighel, che lo aveva assistito fino all’ultimo. Senza dubbio si celebrarono le corrispondenti esequie a Venezia.
Era stato sepolto naturalmente nel cimitero (vecchio) di Lendinara. Il 18 gennaio 1910, tuttavia P. Vincenzo Rossi, “il preposito, con Don Pietro Rover parroco di Bonisiol[o], presenziarono il trasporto delle ossa dei PP. Domenico Sapori e Narciso Gretter dal luogo ov’erano stati tumulati in Lendinara, al sepolcreto speciale della Congregazione” . Purtroppo, come si spiega meglio nella biografia del P. Vincenzo Brizzi, non si sa dove e cosa sia questo “sepolcreto speciale della Congregazione”. Le sue spoglie si devono quindi considerare disperse.
6.25 P. Pietro Maderò
Pietro Maderò – questo meritevole confratello pochissimo conosciuto nell’Istituto – nacque a Portogruaro, bella città antica, in diocesi di Concordia Sagittaria, oggi in provincia di Venezia, il 2 agosto 1773, e quindi era praticamente coetaneo dei due fondatori. Fu sacerdote diocesano, con ogni probabilità parroco, ed era anche canonico onorario della cattedrale della sua diocesi. Nell’ottobre 1838 entrò in contatto con la Congregazione, proponendo di lasciare alla stessa i suoi beni e di entrare nella comunità, di cui da tre mesi si era compiuta l’erezione canonica.
P. Marco nelle Memorie della Congregazione, in data 14 giugno 1839 scrive: «Il Rdo D. Pietro Maderò di Portogruaro, che fin dall’ottobre dell’anno scorso aveva offerto spontaneamente tutt’i suoi beni alla nuova Cong.ne, cui bramava di ascriversi, significa di esser prossimo a trasferirvisi, e ricerca il beneplacito dei Superiori sulle disposizioni da prendersi riguardo ai beni medesimi».
Seguì tutto un lungo carteggio, sia tra P. Marco e don Maderò, sia di ambedue con il vescovo di Concordia, Mons. Carlo Fontanini, sia con intermediari, soprattutto per quanto riguardava la donazione dei beni, che per vari motivi non sembravano tuttavia realizzabili in denaro e/o trasferibili alla Congregazione.
Interessante la lettera di P. Marco al vescovo Fontanini:
“11 marzo 1840
Mons.r Ill.mo e Rmo
Giunti ormai al sacro tempo Quaresimale era io ben certo che non sarebbe venuto ad unirsi a noi il Rmo Sig.r Can.co Maderò finché non fosse passata la S. Pasqua, troppo essendo disdicevole e inconveniente l’abbandonar la Parrocchia nel maggior uopo. Fu quindi assai generosa la degnazione di V.S. Ill.ma e Rma che coll’ossequiato foglio l0 corr.e volle direttamente farmene un cenno. Stia pure adesso il buon Canonico a travagliare in codesta vigna lieto e tranquillo; noi sarem per accoglierlo a cuore aperto quando piaccia al Signore d’inviarlo alla nostra Comunità. In tale opportuna occasione mi fa un dover di accertare V.S. Ill.ma e Rma che quantunque ci sia molto caro l’acquisto del suddetto esemplarissimo Sacerdote, pure siccome non ci abbiamo messo niente del nostro per indurlo ad ascriversi alla nuova Eccl.ca Cong.ne, così pure ci rimettiamo tranquilli a quel tempo in cui piaccia a Dio ch’egli possa effettuare la vocazione, bramando sol che si adempia la divina adorabile Volontà. Rendo intanto li più ossequiosi ringraziamenti a V.S. Ill.ma e Rma che si è degnata con tanta bontà di onorarmi, e baciandole riverente le sacre mani ec.”
Il 16 dicembre 1839 P. Marco scrive: “Oggi si stipulò una legal Convenzione col Rmo D. Pietro Maderò, colla quale egli cede le sue sostanze alla nostra Congregazione a cui brama di appartenere; ed è questo il primo Sacerdote che ne domanda l’ingresso”.
Ci fu un certo ritardo, sia per evitare che il canonico abbandonasse all’improvviso il suo gregge, sia per qualche problema di salute, oltre che per le difficoltà di sistemare le sue cose; in ogni caso, egli era già molto anziano, di circa 67 anni, quando entrò in Congregazione, il 14 giugno 1840.
Fu vestito dell’abito della Congregazione il 16 luglio 1840.
Nonostante le ricerche incessanti da parte di P. Marco di sacerdoti che volessero unirsi all’Istituto, don Maderò fu il primo, e uno dei soli tre sacerdoti diocesani che entrarono in Congregazione e vi rimasero fino alla morte, nonostante l’estrema povertà della “casetta”, nella quale don Pietro (o P. Pietro) visse per circa 12 anni con molta virtù. Insegnò nelle nostre scuole come catechista ginnasiale dal 1840-1841 e almeno fino al 1850, o comunque fino a poco prima della morte, che sopravvenne l’11 settembre 1852. Fu molto amato dai nostri; si trovano sempre saluti cordialissimi da parte dei padri in viaggio, in trasferta, in villeggiatura, per il nostro, e viceversa.
Il diario della Congregazione, compilato dal 1850 da P. Sebastiano Casara, riporta l’11 settembre 1852: “11. Oggi, giorno di sabbato, è morto piamente, assistito dal P. Preposito, il buon vecchio D. Pietro Maderò, già Canonico onorario della Cattedrale di Concordia, venuto in Congregazione il 14 giugno del 1840, e vestito poi del nostro Abito, benché in seguito, attesa la sua età e i suoi incomodi, non siasi mai sentito di professare.” Aveva 79 anni.
Il suo nome è presente nella data dell’anniversario nella lista dei religiosi defunti nel libretto delle preces dell’Istituto; la sua biografia, senza dubbio troppo breve, quasi un po’ imbarazzata, nel necrologio della Congregazione dice soltanto: “Pietro nob. Maderò. Sacerdote rivestito del nostro abito, rese l’anima a Dio all’età di settanta nove anni, in Comunione con Santa Madre Chiesa. R.I.P.”.
Nei documenti dell’Epistolario e delle Memorie e Diario, lo si trova citato in genere con il titolo di “don”, a volte con il titolo di “P.” o “Padre”, una volta con ambedue i titoli in due luoghi nello stesso documento. Ma quasi sempre è chiamato “don”, come anche nell’annuncio della morte nel diario citato sopra. Nelle scuole e nelle altre attività dell’Istituto aattuava soprattutto come catechista, senza contare le attività liturgiche.
A proposito di don (poi Padre) Pietro Maderò, è importante pubblicare qui la seguente lettera del preposito P. Antonio al patriarca Jacopo Monico, del 2 marzo 1842. In data 28 febbraio il Patriarca aveva comunicato ai Cavanis che il governo chiedeva loro con quale decreto avessero ottenuto il permesso di dar l’abito della Congregazione a don Giuseppe Zambelli, a don Pietro Maderò e al giovane Paolo Chiozzotto. Con la presente il P. Antonio risponde che la Congregazione è riconosciuta dallo Stato e che quindi nel caso non occorre alcun decreto particolare.
La lettera rivela non solo l’esatta posizione giuridica del Maderò, ma anche e soprattutto la Congregazione Cavanis così come la vedevano i fondatori, non solo all’inizio, ma anche nel 1842, cioè quasi 4 anni dopo l’erezione canonica e cinque anni dopo l’approvazione e la pubblicazione delle Costituzioni del 1837. Senza dubbio però non era questa la visione della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari…
“Eminenza Rma
È già noto a Vra Emza Rma che la Congregazione delle Scuole di Carità è un’unione di Ecclesiastici Secolari e non una Comunità Regolare; la qual cosa fu pure significata alla I. R. Corte ed all’Ecc.so Governo, ch’ebbero fra le lor mani l’Apostolico Breve 21 giugno 1836, con cui canonicamente fu istituita la Cong.ne medesima come un corpo di Sacerdoti Secolari uniti insieme col vincolo della commun vocazione e della disciplina uniforme, ma però liberi in ogni tempo a sortire.
Quindi siccome l’abito clericale si veste senza previo ricorso e decreto dell’I. R. Governo, così anche l’abito della Cong.ne, ch’è veste propria di Ecclesiastici Secolari, si è creduto di poter accordarlo liberamente ai nominati Zambelli, Maderò e Chiozzotto, e non possono però citarsi Decreti governativi su tal proposito, perché non si è fatta per tal motivo veruna istanza.
Non si lascia poi di soggiungere esser questa una Comunità che non gravita in modo alcuno né sull’Erario né sulla Cassa della Comune, mentre pel sistema introdotto tutti li suoi Sacerdoti si mantengono da se stessi somministrando alla Casa i mezzi del proprio sostentamento; sicché non può entrar in dubbio l’Autorità Superiore che accrescendosi il numero degl’individui, verun peso si accresca alle Casse erariali o comunali, a cui si ha per massima ferma di non mai domandare anche il minimo provvedimento, benché si affatichi indefessamente a pubblico bene.
Con ciò venendo esaurite le ossequiate commissioni di Vra Emza Rma 28 febbrajo decorso N° 200, nutre insieme l’infrascritto P. Preposito la riverente fiducia che non sia per incorrere alcuna taccia la condotta da lui tenuta finora, essendo questa conforme al metodo in corso riguardo alla vestizione di Chierici secolari.
2 Marzo 1842.”
6.26 P. Vincenzo Brizzi
Vincenzo Brizzi nacque a Bosco della Pieve o a Casio, più probabilmente Castel di Casio paese detto anche Pieve di Casio, una “pieve” situata vicino a Porretta Terme, in provincia e nell’arcidiocesi di Bologna, l’11 aprile 1833. Spronato e consigliato soprattutto da sua madre, donna pia, si presentò all’Istituto Cavanis a Venezia per essere accolto come postulante (aspirante novizio), assieme al cugino Angelo Brizzi, il 9 dicembre 1850, e vi fece tre mesi di prova. Dopo questo periodo, P. Marco, anche a nome di suo fratello maggiore, scrisse al card. Jacopo Monico, patriarca di Venezia, chiedendo che i due giovani fossero accolti entrambi nel clero del patriarcato. Li descrive così: «Avendo dimostrato la loro vita esemplare e ogni altra dote conveniente e opportuna, confermata da documenti autentici, hanno manifestato segni molto consolanti di una felice riuscita, per la loro condotta religiosa e per l’applicazione diligente negli studi.” Il patriarca scrisse di proprio pugno di voler accordare la richiesta dei fondatori in basso alla pagina. Questa lettera suggerisce che indossarono l’abito poco dopo questa data. P. Giovanni Chiereghin ricorda che Vincenzo fu uno degli ultimi aspiranti o postulanti chierici del nostro Istituto a ricevere l’abito dalle mani di P. Marcantonio che «sino a quel momento riusciva a restare in piedi e non dava a nessun altro quella gioia derivante da queste care funzioni familiari ».
I due cugini sono ancora nella comunità Cavanis il 14 ottobre 1851; i due «godono di ottima salute e sono molto contenti». Angelo Brizzi uscì dall’Istituto, e non vi sono sue tracce dopo questa data, ma Vincenzo resterà sino alla morte, dopo 25 anni di vita religiosa nell’Istituto.
I due giovani erano senza dubbio parenti del dottor Bartolomeo Brizzi di Vergato, paese vicino a Roffegno (Bologna) e di suo figlio l’arciprete Zefirino Brizzi, che tra gli altri aspiranti raccomandò a P. Marco il giovane aspirante Domenico Sapori, più tardi professo e prete Cavanis, e poi anche preposito generale. Il dottore Bartolomeo Brizzi era forse il padre di Angelo e lo zio di Vincenzo.
Il 13 giugno 1853 Vincenzo Brizzi (così come gli altri seminaristi, Giovanni Fontana, Giuseppe Bassi e i fratelli laici Avi, Facchinelli e Cherubin) compì la prima aggregazione pubblica all’Istituto, cioè fece la sua prima professione.
P. Casara, preposito, lo inviò a Lendinara, ancora seminarista, domenica 11 settembre 1853, in compagnia di P. Giovanni Paoli e del padre Giuseppe Bassi. Sembra che Brizzi avesse trascorso un periodo problematico di salute prima di questa partenza. Risulta membro della comunità di Lendinara dal 1853 al 1857. Ricevette, ancora a Venezia, gli ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 26 dicembre 1852; l’esorcistato e l’accolitato il 23 aprile 1854. Ebbe il diaconato il 13 gennaio 1856 e fu ordinato prete il 17 maggio 1856. Dopo il 1857 rimase a Venezia alcuni anni. Rientrò a Lendinara nel settembre del 1863, e diventò rettore di quella casa nell’autunno del 1864, ivi trascorrendo dodici anni molto difficili mentre ricopriva questa funzione: gli anni della persecuzione più dura durante i quali mostrò un’equità ed una forza particolari in mezzo a molteplici difficoltà. All’inizio del 1867 si ammalò e il 1o febbraio stava quasi per morire per poi tuttavia recuperarsi.
Sia P. Brizzi che poi P. Giovanni Battista Larese furono i due membri e rettori della casa di Lendinara che vi soffrirono di più dimostrando però più capacità e coraggio nella persecuzione. Per quanto riguarda P. Brizzi, bisogna dire che fu lui che trasferì la comunità espulsa dall’edificio originario, sito nel territorio della parrocchia di S. Sofia, alla dimora provvisoria del «convento» di S. Giuseppe e che comprò e organizzò la nuova casa e le nuove scuole vicino alla chiesa parrocchiale di S. Biagio.
P. Giovanni Chiereghin racconta di lui che, votato all’insegnamento sin da giovane, era dotato di uno spirito pronto, profondo e versatile, capace di apprendere e di padroneggiare diversi campi: per esempio la fisica, la matematica, la meccanica, la filosofia, riuscendo ad eccellere in ciascuno di questi campi. Parla anche delle virtù di P. Vincenzo: la sete di progresso nella vita spirituale, l’umiltà, la modestia, la capacità di valorizzare i consigli e la volontà degli altri piuttosto che i suoi, l’osservazione rigida delle regole, la fermezza di spirito, la piena rassegnazione nelle avversità e la capacità straordinaria nell’essere educatore, insegnante, prete. P. Brizzi, secondo una tradizione più propria ai padri Cavanis a Lendinara, che dei confratelli di Venezia, si proponeva anima e corpo per predicare agli adulti e alle missioni popolari, attività che a loro avviso rientravano nel terzo munus dei Cavanis: il ministero degli esercizi spirituali.
Nonostante il genere letterario piuttosto agiografico del libro di P. Giovanni Chiereghin, è evidente che questo confratello aveva dei grandi meriti e delle solide virtù, che la Congregazione lo amava molto e che riponeva su di lui grandi aspettative.
Si può dunque comprendere come la sua malattia e la morte prematura vennero accettate con difficoltà. Morì a 43 anni fra le lacrime amare dei fedeli di Lendinara e dei confratelli, il 13 gennaio 1876. Un necrologio conservato tra i documenti degli Archivi di Lendinara, lo definisce fra i molti aggettivi usati quale, «Tetragono inconcusso imperterrito». Anche troppo probabilmente: a Lendinara era stato piuttosto duro con gli avversari, a giudizio di P. Da Col, e un po’ più di diplomazia non avrebbe guastato. Così sembra di capire da una dichiarazione del Da Col durante un capitolo definitoriale del 1883: “lodò le qualità personali del P. Larese, accennò alla stima generale, che gode in paese. A giudizio di molti – continuò il Da Col – le cose non sarebbero andate così a rovescio, se il rettore di quella famiglia avesse sempre cercato, come il Larese, di non urtare troppo vivamente i nostri avversari”.
L’elogio funebre fu pronunciato da P. Giovanni Battista Larese, che si rifiutò di far scrivere il suo nome al momento della pubblicazione dell’elogio. Soltanto dopo, nel 1879, quando don Gaetano Brizzi, parroco della diocesi di Bologna e parente di Vincenzo, ne pubblicò un’altra edizione, P. Larese accettò che si scrivesse il suo nome e scrisse anche una lettera/prefazione. P. Casara ne aveva autorizzato la pubblicazione.
6.27 Fratel Luigi Tommaso Armanini
Lo stesso anno di P. Vincenzo Brizzi, il 21 luglio 1851, entrò in Congregazione a 32 anni il giovane Luigi Tommaso. Il 1851 fu un anno ricco di vocazioni per l’Istituto, per grande conforto di P. Marco Cavanis, che cominciava a sentirsi davvero vecchio e malato, prossimo alla morte, e di suo fratello P. Antonio.
Luigi Armanini nacque il 9 febbraio 1819, nel villaggio di Stenico, nella parte italiana del Tirolo, attualmente un comune della vallata delle Giudicarie, nel Trentino occidentale.
Fra Luigi vestì l’abito dei Cavanis nel 1852, il suo noviziato, forse per motivo della sua salute gravemente compromessa, durò, pare, 5 anni anziché 3, come era di regola per i fratelli fino al 1894; avrebbe dunque emesso i voti, a quanto sembra anche dagli esami finali che furono solti sulla sua vocazione e sull’opportunità di ammetterlo ai voti, nell’estate del 1857.
Durante la sua formazione e in seguito si mostrò sempre molto obbediente, attivo, amante della preghiera e dei sacramenti, incline alla mortificazione e a soffrire. Ecco perché, assegnato alla casa di Lendinara, continuava a lavorare duramente negli orti e nei campi della comunità benché avesse dei forti dolori alla gamba destra. Difficile capire che malattia avesse; forse si trattava di un’infezione alla gamba che a poco a poco si estese a tutto il corpo. La malattia peggiorò e quando si decise a parlarne con i suoi superiori era già troppo tardi per curarlo con efficacia.
Assegnato a Venezia, trascorse diversi mesi, allettato o in poltrona per poi restare sempre allettato con terribili dolori alla gamba; riuscì a guarire parzialmente, ma la gamba destra si era accorciata e non era più funzionante, così si aiutava con le stampelle. In questo periodo, nonostante i forti dolori, era ancora dedito al lavoro: rilegava i libri della biblioteca e faceva corone del rosario, ma si dedicava anche ai lavori domestici della comunità; trovava comunque il tempo per pregare a lungo davanti al Santissimo Sacramento. Arrivò quel giorno in cui il suo grande coraggio e la sua pazienza eroica non bastarono più. Allettato definitivamente, non si alzò più fino alla morte.
È interessante leggere nella descrizione che ne fa P. Giovanni Chiereghin, il racconto tragico della malattia e dei metodi della medicina di quell’epoca. Una volta che l’infezione gli aveva raggiunto il petto, il medico gli aveva fatto quattro fori nel torace per fare uscire il pus, ma non fu sufficiente e il povero fratello doveva espellerlo dalla bocca con dei terribili sforzi ripetuti di tosse. Quando non ebbe più forza per tossire e sputare, si soffocò. Aveva vissuto questi ultimi mesi di sofferenza terribile con la più grande pazienza, senza lamentarsi mai e accettando questa croce con fede. Diede un esempio straordinario di coraggio, di resistenza e di speranza ai confratelli che l’amavano, l’ammiravano e lo prendevano da esempio. Prima di ricevere il viatico per due volte, volle entrambe le volte fare atto di pubblico pentimento chiedendo perdono per i suoi peccati; e aveva dichiarato di voler morire nella santa Chiesa cattolica apostolica romana, unito a Papa Pio IX, vicario di Gesù Cristo.
Morì a Venezia il 6 ottobre 1870, alle 15.30, all’età di 51 anni e otto mesi.
6.28 P. Giuseppe Marchiori
Nato a Venezia il 5 luglio 1814, da una famiglia povera di lavoratori, conosciuta per le doti dei suoi componenti: lavoro e risparmio che permisero loro di mantenere i figli con dignità e decoro. Giuseppe era il maggiore di una coppia di gemelli; l’altro gemello divenne un fratello laico molto pio dei Francescani osservanti. Aveva anche due sorelle. Poco dopo i sei anni, i due furono accolti alle scuole elementari dell’Istituto Cavanis. Giuseppe fu amato e stimato per la sua bontà e i suoi risultati scolastici. Dopo le elementari, frequentò anche i sei anni del ginnasio, poi entrò in comunità il 1° marzo 1828 e continuò con gli studi filosofici e teologici al seminario patriarcale di Venezia assieme con altri seminaristi suoi compagni Cavanis. Ancora ragazzino, P. Anton’Angelo gli aveva detto che sarebbe entrato un giorno in istituto; e entrò nella “casetta” e in comunità il primo marzo 1828, a 14 anni e fu ordinato diacono il 25 marzo 1837 assieme con don Sebastiano Casara; divenne prete il 23 settembre 1837, emise la professione dei voti assieme con P. Marco e con gli altri “anziani”, nel luglio 1838, fu dunque uno dei più antichi membri della Congregazione.
Nello stesso anno fu compagno di P. Marco nel suo secondo viaggio a Vienna, la capitale dell’impero austriaco (13.2-6 aprile 1838). P. Marco l’aveva portato con lui affinché potesse ringraziare l’imperatrice-madre Carolina Augusta che aveva donato il suo patrimonio ecclesiastico. Durante il lungo viaggio, Giuseppe scriveva, per conto e sotto la direzione di P. Marco, il diario di viaggio, dove il Padre aggiunse l’ultima riga. Da Vienna scrisse anche una bella lettera a P. Antonio, nella quale descrive perfettamente le virtù dei nostri fondatori.
Fu molto amico con P. Casara, con il quale intrattenne una frequente e interessante corrispondenza. Religioso esemplare, era molto pio, celebrava messa con grande fervore e, scrive P. Giovanni Chiereghin, con abbondanza di lacrime, tanto quanto nella celebrazione della sua prima messa nel 1837.
Visse per molti anni, in due periodi successivi nella casa di Venezia, dove fu vicario, ma visse e si adoperò ancor più per lo sviluppo della casa di Lendinara. Fu di esempio ambedue le case compiendo la funzione educatrice e scolastica. A Venezia ebbe merito speciale per il suo impegno nell’acquisto e nei primi lavori di riforma della chiesa di S. Agnese, nel cui cantiere fu il direttore dei lavori; era inoltre particolarmente abile nell’ottenere contributi e offerte soprattutto in questa occasione. La stessa abilità di farsi amare e di ottenere elemosine per l’Istituto la mostrò anche a Lendinara.
Tornato a Venezia, non solo fu nominato vicario, ma fu anche eletto definitore, cioè consigliere provinciale. Si occupava amorevolmente e diligentemente anche del ramo femminile dell’Istituto in cui fu confessore e direttore spirituale di tutte le suore e della maggior parte delle ragazze. Dimostrò una grande gentilezza, benevolenza e pazienza in tutti i compiti e gli incarichi che svolse, con il risultato che era amato e benvoluto da tutti; ma P. Giovanni Chiereghin fa notare che la gente non sapeva che per natura aveva un carattere estremamente focoso e bilioso, e che la sua gentilezza era frutto di un grande sforzo di virtù cristiana.
Si era ammalato a novembre del 1856, ma la comunità aveva l’impressione si trattasse di una lieve indisposizione; si pregò e in particolare si sa che si fece pregare la Madonna per lui nel santuario di Piné, dove aveva trascorso un breve periodo di vacanza in autunno; ma non ci si preoccupava troppo. Tuttavia, dopo una breve agonia, morì il 13 dicembre 1856, ancora piuttosto giovane, a quarantadue anni e quattro mesi.
Su P. Marchiori, vedi anche il libricino con biografia, di Scolari F.
6.29 P. Antonio Fontana
Antonio Fontana era nato a Stenico, più esattamente, come risulta dal certificato di battesimo, a S. Lorenzo in Banale, chiamato anche Prato in S. Lorenzo, bellissimo paesello ai piedi delle Dolomiti del Brenta, una delle porte del Parco Naturale Adamello-Brenta, in Tirolo (oggi Trentino) il 20 luglio 1824. Era entrato in Istituto il 16 agosto 1846. Aveva indossato l’abito della Congregazione il 24 maggio 1848 ed emesso la professione religiosa il 13 giugno 1853. Già il 26 dicembre 1852 aveva ricevuto la tonsura e i quattro ordini minori. Tutta la sua formazione iniziale si era svolta nella casa di Venezia. Era stato ordinato diacono il 10 giugno 1854 e prete il 19 settembre 1854.
Lo troviamo quasi sempre a Venezia, con l’eccezione dell’anno scolastico 1854-55, che passò impegnato nella scuola elementare a Lendinara.
Durante i trentatre anni della sua vita in Istituto si dedicò all’educazione dei giovani, e particolarmente come maestro dei bambini delle elementari, in genere nelle elementari interiori (I e II). Egli amava profondamente la scuola e in generale stare con i bambini e i giovani in oratorio, in cappella e alla ricreazione. Amava i bambini e ne era ricambiato. Le fatiche scolastiche lo provarono nella salute e dovette ritirarsi; ma non tralasciò mai di essere presente negli ambienti scolastici in primis nei momenti di preghiera e durante le ricreazioni; e si faceva vedere in tutte le occasioni in qualità di padre dei giovani.
P. Sapori scrive di lui: “Tutta la sua vita in Congregazione fu impiegata con esemplare edificazione in pro dei teneri giovanetti, verso dei quali mostrossi sempre infiammato di fervido amore. La Scuola era la sua delizia; il trovarsi in mezzo ai fanciulli nell’Oratorio, nelle ricreazioni il suo maggior conforto. Ed era veramente singolare il modo con cui sapeva guadagnarsene l’animo e meritarsene la stima anche allora che doveva punire”.
Fu uomo buono, semplice e dolce; di quei tipi d’uomo che rifuggono lodi e onori: come risultato, si parla poco di lui nei documenti e nella letteratura dell’Istituto. Monsignor Giuseppe Ambrosi scrive nel suo poema commemorativo: « Padre Fontana non possiamo qui dimenticare, / che con pazienza quasi sovrumana / insegnava in seconda elementare, / e, padre veramente degli scolari, / si fece amar anche dai più somari ».
Morì soavemente a Venezia il 22 maggio 1886, verso le otto di sera, due giorni soltanto prima della morte del confratello P. Giovanni Paoli. Fu molto compianto dai confratelli e dagli allievi ed ex-allievi.
6.30 Fra Francesco Avi
Di questo nostro prezioso fratello, il necrologio di Congregazione dice soltanto: “Fratello laico, consunto da malattia in due mesi, spirò placidamente l’anima baciando negli ultimi istanti l’immagine di Cristo. R.I.P.”, e ne annuncia la data di morte. Si rimane con l’impressione che in Congregazione fra Francesco fosse soltanto defunto. I dati seguenti provengono dalle varie tabelle e da altri testi di questo libro.
Era nato il 10 giugno 1830 a Pergine in Tirolo, arcidiocesi e ora provincia di Trento, in Valsugana, o meglio valle del Fersina. Era entrato in Congregazione l’11 aprile 1850, aveva emesso i voti religiosi il 13 giugno 1853, dopo i tre anni di prassi del noviziato per i fratelli.
Con dati non del tutto completi, cioè con qualche lacuna, lo troviamo con ogni probabilità a Venezia dal 1850 al 1856; a Lendinara dal 1856 al 1858, con l’ufficio principale di cuoco di comunità (funzione che eserciterà per tutta la vita, finché la salute lo assisterà, cioè fino al 3 settembre 1886); a Venezia probabilmente dal 1858, certamente fino al 1883; ma nel 1880 era stato inviato temporaneamente a Lendinara, il 26 luglio, per assistere come compagno e infermiere il P. Nicolò Morelli, ammalato, che morirà però pochi giorni dopo, il 31 luglio 1883; lo troviamo di nuovo a Lendinara dall’autunno 1883 al 1886; il 3 settembre di quest’anno, ormai ammalato da tempo e a questo punto incapacitato a svolgere il suo ufficio di cuoco, viene trasferito a Venezia. Qui muore pochi mesi dopo, il 1° dicembre 1886.
Così lo ricorda P. Sapori, preposito, nel diario di Congregazione: “Stamane fra le dieci e le undici spirava dolcemente nel Signore il carissimo nostro fratello Laico Francesco Avi. Era venuto nell’Istituto l’anno 1852; ed i trentaquattro anni, che vi passò, furono anni di vita veramente religiosa. Sempre pronto all’obbedienza, sempre contento delle disposizioni dei Superiori, sempre esatto nell’osservanza. Lo scorso settembre era stato chiamato a Venezia nella speranza che si potesse ristabilire un poco in salute; ma il Signore disponeva così perché compisse la sua carriera religiosa dove l’aveva cominciata. Sul letto de’ suoi dolori di giorno in giorno andò perfezionando la preziosa sua corona. Volle ripetutamente essere avvalorato col SS. Viatico, e dopo due mesi d’acerbe sofferenze, baciato l’imagine del Crocifisso, placidamente si addormentava nel Signore. E noi dolenti, ma rassegnati alla Volontà divina, non meno che edificati dall’esempio del desideratissimo Confratello, non possiamo che ripetere: Moriatur anima mea morte justorum. L’Avi era l’ultimo dei fratelli Laici, i quali ebbero la sorte di formarsi sul vivo esemplare dei Venerandi nostri Fondatori”.
6.31 P. Tito Fusarini
Nato il 6 dicembre 1812, era originario di Mestre, a quei tempi in diocesi di Treviso, oggi nel patriarcato e nella provincia di Venezia. Era figlio di Domenico e di Luigia Morosini. Fu cappellano, curato e parroco, del clero diocesano, della diocesi di Treviso; parroco per undici anni nel paese di Riese (ora chiamato Riese-Pio X, in provincia e diocesi di Treviso). Era anche direttore spirituale e professore di omiletica (Sacra Eloquenza, si trova scritto) al seminario maggiore di Treviso e consigliere al tribunale ecclesiastico matrimoniale della stessa diocesi. A Riese conobbe Giuseppe Melchior Sarto, un povero bimbo che dimostrava grande interesse per le cose di Dio e anche per gli studi. Giuseppe faceva a piedi ogni giorno diversi chilometri tra andata e ritorno, senza scarpe per non consumarle, per frequentare la scuola in una cittadina assai distante, Castelfranco. Il parroco don Tito orientò il bambino Giuseppe alla vocazione presbiteriale, lo aiutò materialmente negli studi prima a Castelfranco, poi sembra sicuro che intercedesse presso il Patriarca Jacopo Monico (anche lui nativo di Riese) per fargli avere un posto gratuito al seminario di Padova. Questo bambino diventato prete, parroco, vescovo di Mantova, patriarca di Venezia, venne eletto Papa il 4 agosto 1903, con il nome di Pio X, il papa che la chiesa dichiarò in seguito santo Pio X.
Don Tito lascerà più tardi il ministero di parroco, per la grave malattia che cominciò ad affliggerlo, probabilmente già la tisi, come si dirà più sotto, e divenne padre spirituale del seminario diocesano. Desiderava però già da 16 anni di entrare in un Istituto regolare e di lasciare il secolo quando entrò in contatto epistolare con P. Sebastiano Casara e, dopo un breve scambio di lettere, fece il suo ingresso in Congregazione a 45 anni, anzi più esattamente quando gli mancava poco a compiere i 45 anni il 23 agosto 1857, nell’Istituto Cavanis, che egli all’inizio credeva erroneamente fosse una casa dell’ordine degli Scolopi, e desiderava comunque essere figlio del glorioso S. Giuseppe Calasanzio. Vi fu accolto a braccia aperte, sempre con grande manifesta simpatia e stima. Vestì l’abito dell’Istituto nel novembre 1857; fece un solo anno di noviziato (1857-58), perché, essendo già sacerdote, e conoscendo bene il diritto canonico, sapeva che in questa condizione poteva ottenere questo “sconto”; e infatti si conserva la sua richiesta, del 14 febbraio 1859, la risposta positiva del Prefetto della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, e l’autorizzazione del Papa Pio IX al patriarca di Venezia a decidere se concedere l’indulto. Il patriarca, che era Angelo Ramazzotti, ricevuto il rescritto pontificio il 12 febbraio 1859, approvò la riduzione del noviziato a un solo anno il 25 febbraio 1859; don Tito professò i voti poco dopo, in data 11 marzo 1859, in chiesa di S. Agnese, davanti a tutta la scolaresca riunita, tra il giubilo generale. Fu ben presto eletto vicario, dal 1861 della casa di Venezia e della Congregazione poco dopo essere entrato in Congregazione, probabilmente perché era esperto in diritto canonico, e vi rimase fino alla morte, e come “procuratore” come si diceva allora, cioè come economo generale, si occupò dei conti della casa e forse della Congregazione; fu inoltre attivo nel ministero delle confessioni, con grande beneficio per l’Istituto. Il 7 gennaio 1873 ricevette la patente di autorizzazione all’insegnamento elementare dal Regno d’Italia, Provveditorato agli studi, il che vuol dire che voleva veramente fare scuola, non soltanto essere vicario, procuratore ed economo e confessore, ma dedicarsi all’educazione della gioventù. Consumato da un male che lo affliggeva già dai 25 anni, la tisi, con ogni evidenza, morì il 16 dicembre del 1877, confortato dai sacramenti, dopo aver vissuto in Congregazione un po’ più di 20 anni, come osserva P. Casara.
6.32 P. Nicolò Morelli
Il necrologio della Congregazione ci dà di questo religioso soltanto poche righe, piuttosto imprecise e anzi inesatte: “Della diocesi di Trento, sacerdote novizio, si addormentò placidamente nel Signore a Lendinara, dove era stato mandato per soggiornarvi qualche tempo”.
Di lui realmente non sappiamo molto, e i dati del necrologio sono in buona parte errati. Non era affatto novizio quando morì, ma sacerdote professo. La sua storia era stata la seguente: Il P. Morelli, congregato dal 7 agosto 1855 al 1864, dopo un lungo periodo di assenza di tredici anni dalla Congregazione (1864-1877), durante la quale era rimasto prete nel clero diocesano di Trento (assenza più o meno giustificata dalle regole del 1837, per motivi di poca salute sua e di povertà della famiglia), era ritornato spontaneamente in seno alla Congregazione il 18 settembre 1877, a Possagno, e il preposito intendeva chiedere alla S. Sede che questo “figlio prodigo” potesse riprendere la vita religiosa senza dover rifare il noviziato. Consultatosi con un suo amico, il Guardiano Generale dei Frati minori conventuali, seppe che non era necessario fargli rifare il noviziato (era ben conosciuto dalla Congregazione e la conosceva bene) ma, dato il tipo dei nostri voti, che erano definiti ancora “voti locali” (cioè validi solo fino a quando uno apparteneva alla comunità di quel luogo), doveva essere ammesso semplicemente a rinnovare i voti.
Il Morelli dunque era nato a “Canezza nel Tirolo Italiano”, quasi certamente Canezza frazione di Pergine in Valsugana, nell’arcidiocesi e oggi provincia di Trento, il 28 novembre 1821. Era entrato in Istituto il 7 agosto 1855, era stato rivestito dell’abito dell’Istituto il 16 settembre dello stesso anno, risulta novizio il 12 novembre 1856, aveva emesso la professione dei voti temporanei il 28 novembre 1857 e naturalmente non quelli perpetui, il cui uso entrò in Congregazione solo nel 1891. Fu senza dubbio ordinato prete (e ricevette prima tonsura e ordini minori e maggiori): ma non conosciamo le date relative, neanche quelle dell’ordinazione presbiterale. Non è sicuro se abbia ricevuto gli ordini in Congregazione, prima della sua uscita nel 1864, o, cosa più probabile, tenendo conto delle date, in diocesi di Trento; il che spiegherebbe che non ci siano conosciute le dare delle varie ordinazioni.
Lo troviamo nella casa di Venezia dal 1856 al 1860; a Possagno, come vicerettore dal 1860 al 1864; qui sembra abbia avuto problemi di relazione con gli altri (pochi) membri della comunità. Seguono gli anni in cui, dopo essere uscito regolarmente dalla Congregazione, fu prete diocesano nell’arcidiocesi nativa di Trento. Nel 1877 rientra in Congregazione ed è accolto con gioia, rinnova i voti, senza ripetere il noviziato, e dal 1877 alla morte lo troviamo a Lendinara, forse però a Venezia nell’ultimo anno di vita, prima di recarsi per motivi di salute a curarsi, senza successo, a Lendinara.
P. Casara scrive il 26 luglio 1880: “Il p. Morelli, andato da varii giorni a Lendinara non bene in salute, vi si ammalò, e il P. Larese mi scrive essere urgente che gli mandi qualcuno in assistenza. Vi mando il P. Paoli col fr. Francesco Avi, scrivendo al P. Larese che sia questo per compagno al p. Morelli, subito che il medico lo creda in grado di poter andare in Tirolo a rimettersi – Avuto, oggi stesso, lettera scritta iersera dal p. Larese con tristi notizie. Il p. Morelli è molto aggravato, e non senza pericolo. Si tratta di tifoidea. Rescrivo dunque subito al p. Larese in relazione, avvisandolo anche essere necessario cautele, perché non contragga il male chi assiste l’ammalato. Parli di ciò col medico, ecc.” E il 28 luglio: “Ebbi notizie ieri ed oggi del p. Morelli. È molto aggravato e in pericolo. Ieri fu comunicato per Viatico, in una mezz’ora che ebbe libero da sonnolenza. Disse egli stesso con gran sentimento il Confiteor e il Domine non sum dignus. Conobbe (riconobbe, dunque era cosciente) i due andati di qua (n°309), e saluta tutti. Non è perduta ancora ogni speranza (29 luglio).” Il 30 luglio: “Il p. Morelli si aggrava. Ieri alle 5 pom[eridiane] ebbe l’estrema Unzione, e oggi ha quasi continuo singulto. È presente a sè stesso, è tranquillo, prega quasi sempre, ci manda i suoi saluti.” Il 31: “Il p. Nicolò ieri dopopranzo era aggravatissimo, col singulto continuo, e come in letargo. Un momento solo si scosse, disse una giaculatoria e baciò il Crocifisso. Passò la notte nello stesso stato, e la mattina alle 5 ½ era prossimo a entrare in agonia.” Venne poi il momento della morte, avvenuta il 31 luglio 1880.
Così nel parlava il giorno dopo P. Casara nel diario: “Ier sera verso le ore 9 il buon p. Nicolò Morelli placidamente spirava, ricevuti a tempo in piena serenità di mente e fervida pietà i ss. Sacramenti. (omissis). Era di spirito veramente ecclesiastico, di grande umiltà, e di cuore non ordinariamente ampio e fervido. Fu impiegato qui nel fare scuola i primi anni, e poi fu mandato a Possagno, dove stette fino al novembre del 1864, quando per salute assai rovinata ed anche per circostanze di famiglia ritornò in patria: sempre però col desiderio di ritirarsi in qualche Comunità. E ne fece anche la prova, senza potervi riuscire, fra i Carmelitani scalzi a Treviso, e fra i Certosini a Pavia. Conservò tuttavia sempre grande affetto alla Congregazione, nella quale desiderò ritornare, pregò di essere ricevuto di nuovo, lietissimo vi ritornò, e vi si trovava benissimo. Non essendo più in grado di sostenere il peso della scuola, e nemmeno di assistere alcuno ascoltando Confessioni, si occupava assistendo in Sacristia, ed in opere anche di servizio in Casa, ed impiegava buon tempo in orazione – Avendo dovuto chiamar a Venezia il P. Bolech, perchè non restassero in solo due Sacerdoti a Lendinara, vi mandai il P. Morelli, che vi andò anche assai volentieri. Che non istesse bene lo si vedeva, ed anche per questo li feci volentieri cambiar aria, con intenzione che andasse poi a respirare l’aria natia, e prendere delle acque minerali in Piné. Ma egli aveva dissimulato troppo le sue sofferenze! Andato a Lendinara il dì 9 luglio p. p., poté sostenervi appena otto giorni. Fermatosi a letto, il suo male fu tosto riconosciuto grave, e il fu tanto che dopo soli dieci giorni morì. Diede grande edificazione nella sua decombenza per la sua pazienza e pietà e per la perfetta sua rassegnazione alla volontà divina. Ei ci lasciò con la più fondata speranza che lo avremo amorosisimo in cielo, se tanto ci fu amoroso qui in terra”.
6.33 Fratel Giacomo Barbaro (Fratel Giacometto)
Nacque a Venezia, probabilmente nel 1844, e rimasto orfano, fu accolto nel 1850 in un orfanotrofio a 6 anni. Entrò in istituto nell’autunno del 1860 come aspirante fratello laico, mise l’abito l’8 dicembre 1860, fece il noviziato e la professione religiosa a Possagno il 15 dicembre 1863. Era piuttosto basso e in istituto lo chiamavano «Giacometto». Nei primi anni lavorava come sarto della comunità. Dato che era malato e anche debole agli occhi, non poté dedicarsi più a questa attività e venne impiegato in lavori più leggeri e soprattutto ad occuparsi della disciplina dei bambini, cosa rara per un fratello laico a quei tempi. Era anche catechista e preparava i bambini per le confessioni, li sorvegliava alla ricreazione e in oratorio e ancora, quando c’era bisogno, preparava i bimbi alla prima comunione e alla cresima, li seguiva e li preparava per la confessione, faceva sorveglianza alla ricreazione e all’oratorio, e se c’era bisogno suppliva gli insegnanti nella scuola elementare. P. Chiereghin dice che era meraviglioso vedere 60 o 70 bambini (tale era allora il numero dei bambini in ogni classe) silenziosi, tranquilli, contenti, che lo ascoltavano, lui che era laico, basso, mingherlino e che aveva difficoltà anche per parlare. Durante il suo ultimo anno di vita, sostituì per sette mesi l’insegnante di prima che era malato. Aveva davvero il dono di buon educatore Cavanis.
Il caro religioso morì di tubercolosi il mattino del 17 settembre del 1882, all’età di 58 anni circa.
P. Chiereghin conclude questo capitolo, l’ultimo del suo libro, con questa frase: “Noi abbiamo perduto un gioiello, un lavoratore molto utile e troppo prezioso. Che adesso vegli su di noi dal Paradiso”.
Così anche noi oggi possiamo sperare e pregare lui, e tanti tra i nostri antichi confratelli.
Mons. Giuseppe Ambrosi scrive di lui: «Un’altra anima bella e con ragione, / chi non ricorda, Padre Giacometto? / La santa Infanzia fu la sua missione, / e, per riuscire santo inver perfetto, / l’incarico sostenne in tutti i tuoni/ di sorvegliante delle confessioni.».
6.34 P. Giovanni Maria Spalmach
Giovanni (Maria) Spalmach era nato a Venezia il 30 luglio 1868. Lo troviamo seminarista a Lendinara, dal 1886. Nell’anno seguente, si ottiene dal preposito di mantenere ancora un anno «il buon giovane», l’aspirante «Giovanni Spalmach studente di VII, che dimostra un vivido impegno nell’educazione dei giovani; aiuta molto nella dottrina cristiana e a scuola». Purtroppo il seminarista non godeva di buona salute. Il 2 agosto 1889 P. Da Col scrive nel Diario: “Tre lettere da Lendinara, dei PP. Bassi, Sapori e del giovane Spalmach che riguardano (…) la salute dello stesso giovane, e la sua brama di vestire il nostro santo abito. Lo ricevette, dalle mani del P. Sebastiano Casara alla festa della Maternità di Maria, il 13 ottobre 1889. P. Casara si trovava per altro motivo nella cittadina polesana e sostituì il preposito in questa felice circostanza, essendone stato incaricato dallo stesso. P. Giuseppe Bassi, residente a Lendinara, fu incaricato come maestro dei novizi ad hoc per il giovane rivestito dell’abito. La cattiva salute del confratello fu dimostrata anche dal fatto che, venuto da Lendinara a Venezia “per la perizia come coscritto”, “fu dichiarato inabile per la milizia e gli venne rilasciato il relativo documento”.
Il 13 novembre 1891 Spalmach emise la sua professione religiosa triennale a Lendinana, nella chiesetta di S. Giuseppe Calasanzio, nelle mani del preposito P. Da Col.
Dopo aver ricevuto, sempre a Lendinara, la tonsura e gli ordini minori il sabato antecedente il giorno 21 dicembre 1891, cioè il 19 dicembre 1891, fu ordinato suddiacono il 12 marzo 1892 dal vescovo diocesano di Adria (Rovigo) mons. Antonio Polin a S. Apollinare, in occasione di una visita pastorale. Ricevette l’ordinazione diaconale il 2 aprile 1892 dallo stesso vescovo a Badia Polesine (Rovigo) e l’ordinazione presbiterale l’ 11 giugno, sempre del 1892, nella cattedrale d’Adria. A Lendinara naturalmente si celebrò solennemente il 12 giugno la prima messa di P. Giovanni Spalmach, che aveva compiuto i suoi studi proprio a Lendinara, durante almeno 6 anni. Grande gioia della comunità e commozione «dei buoni» della città.
Il 15 novembre 1894 il P. Spalmach e i seminaristi Augusto Tormene e Francesco S. Zanon furono i primi che, una volta finito il triennio di professione temporanea, si unirono all’Istituto con la professione perpetua, secondo le nuove costituzioni (1891) nella loro seconda parte.
Benché sempre cagionevole di salute, attese a Lendinara all’educazione dei ragazzi. Distinto per la semplicità, per la pietà, per la fortezza d’animo nel sopportare i dolori della malattia, da cui era colpito, ci viene presentato morente a Venezia, dove era venuto a passare l’ultima malattia, anche perché la casa di Lendinara stava chiudendo definitivamente i battenti, dalla fine del 1885 all’inizio del 1896. A Lendinara ci restava solamente il P. Narciso Gretter, morente anche lui, Padre Gianmaria si addormentò, infatti, piamente nel Signore, a Venezia, il 2 gennaio 1896, “per celebrare in cielo la solennità dell’ottava di S. Giovanni Evangelista”.
Così ne scrive P. Giuseppe Da Col, preposito, nel diario della congregazione: “Morte beata del P. G. Spalmach – Anche questa mattina il suddetto carissimo confratello desiderò e fece la Santa Comunione, che lo confortò assai a soffrire le gravi angustie cagionategli dalla affannosissima respirazione ecc., colla tranquillità, e con frequentissime spontanee espressioni di confidenza e rassegnazione in Dio, del giusto che sta per incontrare la morte. E la morte ce lo rapì un’ora circa prima della fine di questo giorno precedente all’ottava dell’Evangelista S. Giovanni, del quale portava il nome. La nostra Congregazione, in modo singolare edificata dai santi di lui esempi di pietà, di senno, di zelo per l’educazione della gioventù, nel vivo dolore per averlo quaggiù perduto si consola colla più ferma speranza di averlo avvocato nel cielo”. Il funerale si tenne nella chiesa di S. Agnese, essendo presenti i confratelli, la scolaresca, il clero dei Gesuati e altri preti.
6.35 P. Giuseppe Bassi
Giuseppe nacque a Vigolo Vattaro, provincia e arcidiocesi di Trento, nel Tirolo italiano, l’11 aprile 1832. Entrò in Congregazione ancora adolescente a quindici anni il 15 settembre 1847. Si distinse presto principalmente per la formazione impartitagli dall’anziano dei fondatori.
Lo troviamo novizio a Venezia nel 1847-48; indossò l’abito della Congregazione il 7 maggio 1848; emise la sua professione religiosa il 15 giugno 1853. Aveva già avuto la tonsura e i primi due ordini minori il 26 dicembre 1852. Svolse gli studi teologici a Venezia nei primi anni ‘50. Ricevette l’esorcistato e l’accolitato il 23 aprile 1854, il diaconato il 23 dicembre dello stesso anno. Fu ordinato presbitero il 4 aprile 1855 a Venezia.
Lo troviamo a Lendinara dall’autunno del 1855 al 1860, dove insegnava almeno tedesco, essendo “tirolese”; a Possagno dal 1860 al 1862 (forse fino al 1864) e poi come pro-rettore dall’autunno 1864 al 1869; a Venezia, dopo due anni di lacuna, a Venezia dal 1871 al 1878, e poi di nuovo (dopo una lacuna di cinque anni senza dati, anni passati con ogni probabilità a Venezia) nel 1883-84; ancora a Lendinara dal 1984 al 1895, cioè fino al penultimo anno di questa casa; lì fu pro-rettore dal 1890 al 1895. In seguito fu probabilmente a Possagno dal 1896 alla morte nel 1905.
Pur non arrivando mai a essere eletto preposito generale, esercitò varie cariche della Congregazione: fu segretario del 2° capitolo provinciale ordinario del 14-16 settembre 1858; fu eletto definitore (succedendo allora a P. Casara) nel 3° capitolo provinciale straordinario del 29 settembre 1964; e da allora fu rieletto definitore nei capitoli del 1871, 1883 (quando fu anche eletto vicario della casa di Venezia), 1887, 1891, 1894, 1897, 1900. Nel complesso rimase definitore dal 1864 al 1905, cioè fino alla morte, senza interruzione, per 59 anni, essendo senza dubbio il definitore più longevo nella carica; fu vicario della Congregazione e della casa di Venezia dal 1877 al 1884. Nel 1887 soffrì lungamente “addolorato dalla sua erpete inveterata e maligna”.
P. Francesco Saverio Zanon, che lo aveva conosciuto personalmente, lo ricorda così: “Io non fui scolaro del P. G[iuseppe] Bassi che era vissuto per dodici anni col P. Antonio Angelo; godetti però della sua famigliarità in Congregazione per undici anni, a Venezia quando veniva per i Capitoli, e a Lendinara e a Possagno. Veramente santo uomo, di mitezza, prudenza, amabilità straordinaria. Dotto nella filologia latina e nella greca rendeva piacevolissimo il suo insegnamento tenendo nella scuola una disciplina soave e spontanea che otteneva senza il minimo sforzo. Bastava una parola, un atteggiamento un po’ serio, per correggere qualche esuberanza dei discepoli che egli amava come aveva imparato dei suoi Padri, e che poi conservavano di lui ricordo affettuoso e imperituro. Di tutto questo fui testimonio fin che visse, e ne sono testimoni tuttora i pochi suoi allievi oggi superstiti.
Fino al giorno che precedette la sua morte quasi improvvisa, questo degno figlio dei fratelli Cavanis aveva fatto la sua scuola, e nel libriccino del mese del S. Cuore di Gesù fu trovato il segno proprio alla data del suo transito all’eternità.
Quanti tesori dì sapienza cristiana egli aveva versato nelle anime dei suoi allievi! I pochi cenni dell’orazione funebre fattagli dal suo discepolo D. Emilio Silvestri e di altre piccole pubblicazioni ne possono dare un’idea. Nella sua carriera mortale, si può dire che era stato eccellente nell’insegnare bonitatem et disciplinam et scientiam: con la parola e con l’esempio delle sue virtù.”
Un’altra fonte dice di lui: “Sembrava incarnare straordinariamente tutte le virtù, in particolare quella della pazienza. Dotato di incredibile amorevolezza, attirava a sé qualsiasi anima”.
P. Zanon nota che P. Bassi e P. Giovanni Chiereghin avevano dei caratteri completamente diversi; ma si volevano bene con tutto il cuore, lavoravano assieme ed erano «uniti nella concordia della santa carità religiosa, ricevuta dal prezioso magistero dei fratelli Cavanis». Di passaggio, si potrebbe osservare di P. Bassi e P. Giovanni Chiereghin che erano anch’essi divenuti un cuore solo e un’anima sola, pur essendo molto diversi, e che si poteva applicare anche a loro due, ciò che dicevano di sé i fondatori, cioè che erano, “due teste e un solo cuore come l’aquila austriaca».
Dal sabato 9 maggio 1903 la sua salute risultava molto debole e con seri problemi, ma la situazione volge al meglio nel prosieguo del mese.
Sino al giorno che precedette la sua morte quasi improvvisa, questo degno figlio dei fratelli Cavanis aveva fatto la sua scuola e nel suo libretto di devozione «Il mese del Sacro Cuore di Gesù» si trovò un segno in corrispondenza esatta alla data della sua morte».
Con P. Casara intrattenne una grande amicizia, così come una corrispondenza frequentissima e molto interessante, tra le altre cose, su tematiche inerenti alla matematica e alla geometria. Si dedicò con assiduità e con molto merito all’educazione dei giovani fino al giorno prima della sua morte che avvenne all’improvviso a Possagno, il 3 giugno 1905, dopo aver vissuto in Congregazione quasi sessant’anni, e quand’era nel suo settantaquattresimo anno di vita.
Sulla sua morte, scrive P. Vincenzo Rossi, preposito, nel diario: “Giunge luttuosissimo telegramma da Possagno recante la notizia, che getta la costernazione nei nostri cuori della quasi improvvisa morte del dolcissimo P. Giuseppe Bassi, gemma preziosa della nostra Congregazione. Il giorno stesso precedente aveva fatto scuola nelle ore antimeridiane. Si stende subito un avviso di partecipazione, che viene inserito nel giornale “La Difesa” e se ne spediscono poi varie copie. Il preposito piangente parte subito per Possagno”. E ancora: “Commoventissimi funerali a Possagno nel tempio Canoviano gremito di popolo che ben mostrò la stima grandissima che avea del caro defunto”.
6.36 P. Giovanni Battista Larese
Di P. Larese e delle sue eroiche lotte si è molto parlato nel capitolo inerente alla casa di Lendinara. Il necrologio di Congregazione scrive di lui semplicemente così: “Vicario della nostra casa di Venezia dopo quaranta tre anni di vita tra noi, avendo ricoperto le più importanti cariche sia a Lendinara che a Venezia, sempre dedito alla scuola, nella domenica nella quale aveva stabilito di recarsi a Possagno fu costretto a letto, e al venerdì [15 luglio 1904], al primo mattino, tra il pianto dei confratelli, volò ai piedi della Madre Maria. R.I.P.”
Giovanni Battista Larese era nato a Venezia, nella parrocchia di S. Felice a Cannaregio, il 17 marzo 1845 e, rimasto orfano, era stato raccolto in un orfanotrofio, dove era stato compagno di Giacomo (Giacometto) Barbaro, più tardi fratello laico nella Congregazione Cavanis.
Entrato in noviziato dei Cavanis a Possagno nel 1860, fece in quel paese nella nostra comunità locale la vestizione il 16 novembre 1861, emise la prima professione religiosa il 16 novembre 1863; e in seguito senza dubbio emise privatamente la professione perpetua, dopo la pubblicazione delle regole de 1894.
Passò, ancora seminarista, alla casa di Lendinara nel 1865, e cominciò, ben presto, a compilare il diario di quella comunità, con la sua splendida calligrafia, a partire dal 1866, ricostruendo all’inizio le sette pagine che erano state “censurate” e tagliate, in occasione del periodo della III guerra d’Indipendenza; rimase a Lendinara fino almeno al 1867, ma probabilmente fino al 1872.
Ricevette in una sola volta (caso abbastanza raro) la tonsura e i quattro ordini minori a Venezia il 19 settembre 1868; il suddiaconato, pure a Venezia, dal Patriarca Giuseppe Luigi Trevisanato, il 18 settembre 1869; il diaconato a Venezia il 17 novembre 1869, ambedue dal patriarca a Venezia; e infine il presbiterato a Padova il 18 dicembre dello stesso anno. Continuava però a risiedere a Lendinara.
Lo troviamo a Venezia dal 1872 al 1874; poi di nuovo a Lendinara, questa volta come pro-rettore, dal 1874 al 1884; ancora e definitivamente a Venezia dall’autunno 1884 alla morte, sopravvenuta nel luglio 1904. A Lendinara, almeno, insegnava alle elementari superiori, ma probabilmente anche nel ginnasio. A Venezia non è noto in quale ordine di scuole e quale materia insegnasse. Si sa però che, almeno nel 1893, insegnava nel ginnasio ma, dopo che P. Francesco Cilligot lasciò la Congregazione proprio in quell’anno, e la comunità si trovò in imbarazzo, P Larese accettò umilmente di passare a insegnare nelle classi elementari inferiori, suscitando l’ammirazione dei confratelli e dei superiori.
Fu eletto terzo consigliere generale (o definitore) nel capitolo del 6 agosto 1891, rieletto 3° o 4° definitore, secondo i mandati, nel 1894, 1897 e 1900; fu nominato dal P. Giovanni Chiereghin, che era preposito generale, vicario della casa di Venezia e “procuratore”, ossia economo di quella casa e probabilmente anche economo generale nell’agosto 1900, e rimase tale fino alla morte. Divenne primo definitore e vicario nel 1902, a seguito della morte del P. Giuseppe Da Col, che sostituì.
Durante il consiglio definitoriale (1° settembre 1883), successivo al Capitolo provinciale del 1883, P. Giuseppe Da Col, che era stato per tre anni membro della comunità di Lendinara e ne sarà in seguito il rettore, dando relazione al preposito e ai definitori su quella casa, “lodò le qualità personali del P. Larese, accennò alla stima generale, che gode in paese. A giudizio di molti – continuò il Da Col – le cose non sarebbero andate così a rovescio, se il rettore di quella famiglia avesse sempre cercato, come il Larese, di non urtare troppo vivamente i nostri avversari. Disse non essere state infruttuose le osservazioni del Preposito nell’ultima visita, tenersi ora più regolarmente le Scuole, avvenire assai di raro che il rettore se ne allontani in tempo di lezione, ed anche allora costrettovi dal suo dovere di Capo della famiglia”. Questa lunga dichiarazione, che dovrebbe essere letta integralmente, da un lato, come si è visto, loda entusiasticamente l’operato di P. Larese nella sua abilità, dimostrata nella difficile situazione politica del tempo a Lendinara; ma fa anche capire che P. Larese dedicava troppo tempo alle confessioni e alla predicazione, assentandosi molte volte dalla casa e dalla scuola anche durante il tempo di lezioni.
Nel maggio 1896 P. Larese andò a Lendinara per conchiudere gli ultimi affari di quella casa, dopo la morte del Padre Narciso Gretter e la chiusura formale della casa.
Di P. Larese bisogna ricordare anche il suo prezioso archivio personale, confluito in AICV: contiene tra l’altro un pacco segnato come “Scritti relativi alla corrispondenza del P. Casara col P. Larese rettore della Casa di Lendinara”. Tale pacco, di 953 carte, contiene anche 367 lettere di P. Casara.
Dopo il ventennio (1884-1904) trascorso serenamente a Venezia, la vita del sempre sorridente P. Larese, che era vicario generale in quel mandato, stava avviandosi alla fine e si parla qualche volta dei suoi acciacchi nel diario di Congregazione del 1903 e 1904. La sua morte tuttavia giunse quasi di sorpresa, a Venezia, il 15 luglio 1904. Così ne parla P. Giovanni Chiereghin: “Il Signore è proprio il padrone delle nostre vite. Umilmente quindi ripetiamo col Seniore di nostri Santi Fondatori: Fiat, laudetur, etc. Chi l’avrebbe mai immaginato? Il P. Larese è volato al Cielo a godere il premio, mentre noi speravamo che continuasse ancora ad acquistarsi meriti pel Paradiso. La sera del giovedì (jeri) il medico gli fece un abbondante salasso; speravamo che questo dovesse migliorare le condizioni dell’infermo (!), invece, cominciata la notte, l’infermo principiò subito ad essere agitato per modo che sulle 12 si dovette chiamare il medico, il quale capì subito che l’infermo peggiorava. Con un amore singolare gli fu attorno e tentò tutti i mezzi suggeriti dall’arte, ma tutto fu inutile. Il Signore avea stabilito di chiamarlo al premio. Sulle cinque [del mattino] spirò dolcemente l’anima sua, lasciando i confratelli immersi nel dolore e sbalorditi per la sua quasi improvvisa partenza. Il Signore gli doni l’eterno riposo.
A conforto di tale sventura ci serve il pensiero che morì alla vigilia del Carmine, festa per noi principalissima. Così si è provato una volta di più che tutte le cose nostre per Maria”.
Si celebrò in S. Agnese il 16 luglio alle ore 11 il funerale del “desideratissimo P. Vicario. Il concorso numeroso sì del clero sì delle persone rispettabili del laicato mostrò la benevolenza generale e intima verso l’Istituto, nonchè la stima verso il defunto. Si vuole ricordare specialmente Sua Ecc. il Patriarca che mandò il suo Segretario a rappresentarlo: il Rdo. Jeremich vice rettore del Seminario con larga rappresentanza di chierici; e il clero dei Gesuati sempre eguale ed affettuoso nelle sue manifestazioni di stima all’Istituto.” Ma non basta: il diario annota che “Mons. Pescini scrive che il S. Padre [Pio X] rimase profondamente commosso e gli diede l’incarico di farci pervenire le più vive condoglianze assicurandoci ch’egli unirà i suoi ai comuni suffragi di tanti e tanti ammiratori dell’illustre e benemerito defunto”.
Basti solo aggiungere qui quanto scritto su di lui in simpatici versi da mons. Giuseppe Ambrosi: P. Larese « … che non sapea che cosa fosse fiele, / sempre seren nell’anima contenta / che effondeva con tutti latte e miele, / sempre paterno nel suo bel sorriso, / che brillerà perenne in Paradiso».
6.37 Fratel Giovanni Cherubin
Giovanni Cherubin era nato a Cavazzale, diocesi di Vicenza, il 15 aprile 1808. Entrò in Congregazione già da adulto, a 40 anni, il 31 gennaio 1848. Era ancora in prova quando scoppiò a Venezia la rivoluzione iniziata il 17 marzo 1848, che produsse la gloriosa benché effimera Repubblica di S. Marco. Era dovuto uscire dalla comunità e andare ad abitare in una residenza privata dal 5 al 17 aprile, per evitare che non ci fosse in casa Cavanis uno «straniero», siccome era di Vicenza, durante i giorni delle sommosse popolari.
Durante l’assedio della città serenissima di Venezia Fratel Giovanni Cherubin accompagnò coraggiosamente il giovane P. Vittorio Frigiolini, e andò ad abitare con lui nel nostro Istituto femminile alle Romite, per accompagnare spiritualmente le suore, le ragazze e le maestre del ramo femminile dell’Istituto, proteggerle e incoraggiarle, affrontando le bombe austriache che cadevano più numerose in questo quartiere rispetto al quartiere dell’Istituto maschile. Fratel Giovanni Cherubin aveva il compito di “ufficiale di contatto” tra le due comunità Cavanis (tre in realtà durante l’assedio perché numerosi religiosi si erano rifugiati al seminario patriarcale, ancora più lontano dalle basi dell’artiglieria austriaca). Il suo compito era quello di spostarsi da un Istituto ad un altro e al seminario, compito che era di certo il più pericoloso durante il bombardamento continuo; le suore soprattutto, i confratelli e le ragazze dell’Istituto femminile ammiravano il suo coraggio e la sua generosità, mettendo a rischio la sua vita.
P. Marco annota accanto alla sua riga nel libro di matricola di sua mano, in massima parte, in cui annotava l’entrata e l’uscita dei membri della comunità dell’Istituto, ma anche altri ospiti che rimanevano lungamente: “Sortita – 1848 . 5 . Aprile – Tornato li 17 detto“. E a fianco, in margine destro: “NB: Dovè uscire, benché contro sua voglia, per le apprensioni (preoccupazioni) dei due Padri, timorosi di [?] politici, per lo stato di rivoluzione in che era la città”. Bisogna ricordare che il fratello era “straniero”, perché vicentino; forse questo il motivo era dovuto sparire per un po’. Si noti che questa sua breve assenza di dodici giorni non contraddice la sua presenza in città, perché l’assedio cominciò all’inizio del 1849.
Era prezioso per la comunità dato il suo mestiere di carpentiere e muratore e perché era molto efficiente quando dirigeva e controllava il lavoro degli operai impiegati in Istituto per diversi lavori. Era anche uomo di grande pietà e virtù, sosteneva il confratello con la sua estrema umiltà, la bontà, lo spirito di perseveranza nel rispetto delle regole e della preghiera.
Soffriva di cuore, e si sentiva spesso così male che gli dava l’impressione di morire. Prendeva delle pillole che gli davano un po’ di sollievo. Poco prima di morire, si rese conto prima degli altri che stava per arrivare la sua ora, si confessò fuori dal giorno in cui era solito farlo, si preparò spiritualmente e benché continuasse a lavorare aspettava quel momento. La sera del suo ultimo attacco, chiamò i confratelli, che tentarono invano di soccorrerlo. Pronunciò tali parole: «Arrivo Signore, sto arrivando!» e morì dolcemente.
Sorella morte l’aveva colto a Venezia, in casa madre, il 29 maggio 1877; era il più anziano dei fratelli laici, al momento aveva compiuto 69 anni e 29 di vita in Congregazione. «E noi abbiamo perso un tesoro!» commentava P. Giovanni Chiereghin.
6.38 Padre Andrea Berlese
Si trova di rado citato P. Andrea Berlese, nato il 2 maggio 1820 a S. Lorenzo Campomolendino (O Campomolino?), località o frazione sita nella diocesi di Ceneda. Era entrato in congregazione il 31 dicembre 1859, già adulto; vestì l’abito della congregazione il 15 aprile 1860; compì il noviziato nel 1860-62; professò i voti nel marzo o aprile 1862; la professione perpetua la emise, assieme ai confratelli, con l’entrata in vigore del nuovo codice della costituzioni, il 15 maggio 1894.
La sua formazione l’aveva compiuta in buona parte durante la breve fase del primo noviziato e seminario Cavanis a Possagno. Lo troviamo lì effettivamente nel 1860-61 come novizio; e poi, come professo in formazione, vivente in seminario, ancora il 1° novembre 1864.
Nel frattempo, aveva ricevuto la tonsura ecclesiastica il 20 dicembre 1862; nella stessa data e occasione anche i quattro ordini minori, È ignota la data del suo suddiaconato, probabilmente ricevuto nel 1863; ricevette invece il diaconato il 30 ottobre 1864 e il presbiterato il 15 aprile 1865.
In seguito, dopo l’ordinazione presbiterale, è attestata la sua presenza a Venezia nel 1965-66 e poi in tutto il resto della sua vita, dal 1868 al 1897. Non risulta mai la sua presenza a Lendinara, sebbene ci possa aver passato brevi periodi di villeggiatura, di visita o di convalescenza, come si usava, ma non ce ne risulta registro.
Dai superiori gli era stata affidata la prima elementare, che non aveva ancora finito l’anno di noviziato, e si dedicò a questo umile ma prezioso ministero per quasi 25 anni, con una sorta di umile ma importante specializzazione.
Giunge anche per lui la vecchiaia. Afflitto da numerose malattie, morì a 77 anni il 5 aprile 1897, il giorno di S. Vincenzo Ferrer, che aveva invocato per avere una buona morte essendone molto devoto.
Ecco ciò che dice nel suo poema mons. Giuseppe Ambrosi che scriveva di lui. «Padre Andrea che, esempio di pazienza straordinario, / la sua vita santissima traeva / modesto a insegnare l’abecedario / e dopo cena non un’ora sola / stava a pulir le penne per la scuola.» Era stata, la sua, una umilissima e preziosa vita, consumata nell’educazione dell’infanzia, nel migliore stile dei religiosi Cavanis.
6.39 P. Francesco Bolech
Nato a Miola di Piné, diocesi di Trento, allora Tirolo italiano, il 28 dicembre 1831, entrò in istituto il 15 agosto o più probabilmente, come consta dal lbro di matricola di congregazione, il 10 novembre, comunque nell’anno 1856. Non possediamo dati, per ora, sulle fasi della sua formazione (che in parte visse a Venezia, dal 1856 al 1861, in parte visse a Possagno, nel piccolo seminario locale nel periodo 1861-64) e della professione temporanea. Ricevette la sacra tonsura il 10 novembre 1869; i secondi ordini minori, esorcistato e accolitato, il 21 ottobre 1864; ricevette il diaconato il 30 ottobre 1864. Fu ordinato prete il 17 dicembre 1864 assieme a Giovanni Ghezzo e a Domenico Piva, a Venezia, dal Patriarca Giuseppe Trevisanato.
Egli celebrò la prima messa solenne il giorno di S. Stefano [26 dicembre 1864] nella nostra chiesa di S. Giuseppe Calasanzio a Lendinara. In questa città è probabile sia stato e abbia operato dal 1864 al ’67, sebbene non se ne trovi per ora traccia sicura.
Dal 1867 al 1869 è a Possagno; dal ’69 al ’72 a Lendinara, dove tra l’altro insegnava tedesco nelle scuole; dal ’72 al ’75 a Venezia; dal 1875 al 1881 è a Lendinara, dove come si sa ebbe a soffrire personalmente persecuzioni perché “tirolese” e quindi suddito austriaco, dato che il Veneto ormai apparteneva all’Italia; ma soprattutto perché sacerdote e Cavanis, come si può leggere più diffusamente nella storia della casa di Lendinara; dal 1881 alla morte, nel 1907, è a Venezia.
Fu 3° consigliere generale o, come si diceva allora, definitore, dal 13 gennaio 1903 (quando fu eletto tale, in forma straordinaria, per sostituire il defunto P. Da Col) al 1907. Fu spesso esaminatore dei seminaristi, e a Venezia fu spesso e volentieri appassionato bibliotecario.
Si dice nel necrologio che fu uno splendido esempio di tutte le virtù. Oltre all’insegnamento, a Venezia, a Lendinara e a Possagno, si dedicò soprattutto al ministero importantissimo e utile della confessione dei bambini e ragazzi. Morì a Venezia a 76 anni, il 28 febbraio 1907.
6.40 P. Giovanni Battista Fanton
Il necrologio della Congregazione dice brevemente di questo confratello, i cui dati sono difficilmente ritrovabili nei documenti: “Nostro sacerdote professo, nato a Venezia, addetto per più di cinquanta anni alle nostre scuole, specialmente come insegnante di lettere; oltre a questo attese per molti anni consecutivi con grande diligenza alla cura del culto. Munito debitamente dei sacramenti della Chiesa, quando ormai già da molto si era perduta ogni speranza della sua vita, morì nel bacio del Signore, a Possagno nella casa della Congregazione.” È un necrologio che è anche un elogio, ma manca purtroppo di date e di riferimenti alle sue cariche.
Da notare che poche volte si trova citato nei documenti con il nome completo di Giovanni Battista, in genere è solo P. Giovanni Fanton o P. Fanton.
Giovanni Battista Fanton era nato a Venezia il 20 luglio 1836. Entrò in Istituto il 16 luglio 1856. In antecedenza era entrato dai Frati Minori osservanti della Provincia di Venezia, ed era stato novizio per venti mesi, “ma non potendo per poca salute e gracilità di complessione, resistere ai rigori dell’Istituto, dietro consiglio del medico, dovette spogliare il S.[acro] Abito”. Fu accettato ugualmente dai Cavanis e dette un ottimo risultato nell’Istituto.
Nel mese di maggio del 1858, poco dopo la morte di P. Antonio, lo ritroviamo giovane e malato, ancora postulante o più probabilmente novizio, nella comunità di Lendinara. P. Giovanni Battista Traiber, rettore di questa casa, lo accompagnò a Venezia lo stesso mese per farlo curare; Fanton ritornerà a Lendinara, guarito e dopo aver fatto la professione religiosa a Venezia il 20 ottobre dello stesso anno. Ricevette la tonsura e i quattro ordini minori l’8 settembre 1859; il suddiaconato il 3 marzo 1860; il diaconato il 7 aprile 1860; è ordinato prete il 2 giugno 1860, con dispensa della santa Sede perché gli mancava l’ “età conciliare”, ossia l’età minima prescritta dal Concilio di Trento, per un mese e diciotto giorni. Questo fatto fa pensare che fosse nato nel 1837.
Sembra essere rimasto nella comunità di Lendinara durante tutta la sua formazione ed è probabile che abbia ricevuto gli ordini ad Adria o in ogni caso dal vescovo diocesano d’Adria.
P. Fanton fu trasferito dalla casa di Venezia ancora a Lendinara nell’autunno del 1864 (di certo prima dell’inizio dell’anno scolastico 1864-65); ma l’anno seguente, nella stessa stagione, fu ancora una volta assegnato alla casa e alle scuole di Venezia.
Alla morte di P. Sebastiano Casara il 9 aprile 1898, questi era definitore generale e fu sostituito nella sua carica dal P. Giovanni Fanton, eletto tale dal definitorio il 23 aprile 1898. Rimase però definitore solo alla fine del triennio 1897-1900.
Fu eletto di nuovo definitore nel 1904, e rimase in questa carica fino al 1908, data della sua morte; fu 1° definitore o consigliere e quindi anche vicario generale dal 1907 al 1908.
Era a Possagno quando morì dopo una lunga malattia il primo febbraio 1908. Aveva insegnato ed educato intere generazioni di giovani nelle nostre scuole durante 50 anni soprattutto come insegnante di lettere; si era occupato diligentemente anche della liturgia e del culto.
Di lui, monsignor Giuseppe Ambrosi scrive in versi: « E del Fanton non ci ricorderemo, / della sua inarrivabile allegria ? / Qua ritornando non lo vedremo / beato nella nostra compagnia? / Nella funzione piangeva coi fanciulli, / capo e maestro poi nei lor trastulli.»
Mi ricordo ancora che P. Alessandro Vianello, allora mio maestro al seminario ai tempi della mia formazione propedeutica (1959-1960), lo citava spesso lodandolo.
7. Biografie dei religiosi Cavanis del XX secolo
“Ricordatevi dei vostri capi,
i quali vi hanno annunciato la parola di Dio.
Considerando attentamente
l’esito finale della loro vita,
imitatene la fede.”
(Eb 13,7)
Queste sono biografie di praticamente tutti i religiosi Cavanis defunti nel secolo XX. Sono state costruite da innumerevoli fonti, molte volte ma non sempre citate, per non appesantire troppo il testo. Sono state disposte in ordine cronologico progressivo crescente, secondo la data del loro passaggio alla casa del Padre. Molte biografie sono completamente nuove, nel senso che sostituiscono le poche righe che si trovano, in molti casi, soprattutto per i più antichi, nel necrologio di Congregazione. Sono differenti il genere letterario e quindi anche il tono: le biografie presentate nel necrologio sono quasi sempre automaticamente laudative secondo formule tipiche di questo genere letterario; e molte (troppe), soprattutto nei decenni ’70-’90, seguono uno schema fisso. Qui si è cercato – come del resto nelle biografie dei padri vissuti e defunti nel secolo XIX – di trattare le persone e i loro caratteri a tutto tondo, con pregi e difetti. Si è anche concretizzato e quantificato il loro vissuto, citando date, numero di anni passati in ogni casa, attività diverse e così via. Si sono anche ricostruite, con non poco lavoro, le loro fasi giovanili in Congregazione, con le tappe di studi, le date delle professioni, degli ordini minori o dei ministeri e degli ordini maggiori.
Con poche eccezioni, non si presentano qui le biografie dei religiosi che hanno lasciato la Congregazione o che sono stati dimessi; e questi sono stati ben più numerosi nel secolo XX che nel secolo XIX. Si troveranno tuttavia i loro dati e i segni della loro presenza e attività in Congregazione e nelle case; si potrà trovare facilmente il loro nome e cognome con il sistema di ricerca. Non se ne sono scritte però le loro biografie, non per un ingiusto giudizio negativo su di loro – chi può giudicare, se non il Signore? – ma perché era già un lavoro immenso, di parecchi anni, quello di costruire le biografie dei circa 200 religiosi che hanno perseverato in Congregazione fino alla morte. Scrivere anche quelle dei religiosi usciti di Congregazione avrebbe praticamente raddoppiato il lavoro.
7.1 P. Giovanni Tomaso Ghezzo
“Di Chioggia, nostro sacerdote professo; uomo di somma pietà e osservanza delle regole, impegnatissimo nell’esercizio delle scuole, strappatoci, ancora in pieno vigore fisico, da un’irrimediabile infermità mentale, passò da questa vita, nel sessantesimo quarto anno di età, nell’ospedale di S. Servolo a Venezia, dove, vivendo in spirito tra i nostri, aveva soggiornato per quasi dodici anni.”
Fin qui il laconico ricordo che ne fa il necrologio della Congregazione, secondo lo stile antico di questo libretto.
Giovanni era nato in realtà, più che a Chioggia, a S. Pietro in Volta in diocesi di Chioggia, ma in comune di Venezia, nell’isola di Pellestrina, l’11 dicembre 1841, da una famiglia caduta nell’estrema miseria. La madre, vedova, aveva soltanto lui e un altro figlio, sottomesso al servizio militare.
Il suo nome completo era Giovanni Tommaso, più spesso scritto nei documenti Giovanni Tomaso. Entrato nell’Istituto il 24 maggio 1858, nonostante fosse molto cagionevole di salute, già da giovane; si celebrò la sua vestizione, a quanto pare, nel 1860 ed emise i voti verso la fine del 1861.
Ricevette gli ordini minori l’8 settembre 1864, il diaconato il 30 ottobre 1864, a Feltre, con dispensa per l’interstizio. Fu ordinato prete il 17 dicembre 1864 ancora a Feltre, con altri due preti nostri, P. Francesco Bolech e P. Domenico Piva.
Lo troviamo nella casa di Lendinara (1963), ancora diacono, per un breve periodo, forse un anno, fino all’ordinazione presbiterale; a Venezia dal 1865-66; poi lungamente a Lendinara dal 1866 al 1874; di nuovo a Venezia dal 1874 al 1977 e dal 1983 al 1892.
Nel 1866 P. Giovanni Tomaso diede forse un primo segno di quello che sarebbe stato il grande problema della sua vita – e della comunità: la sua pazzia -. L’11 settembre 1866, poco dopo l’ordinazione presbiterale (avvenuta come si diceva il 17 dicembre 1864) uscì di Congregazione e volle ritornare ad aiutare la sua famiglia molto povera, anche se il P. Traiber, preposito lo aveva assicurato che la Congregazione la avrebbe aiutata in tutti i modi. P. Casara, che nel frattempo era di nuovo stato eletto preposito, ne scrisse al parroco di S. Pietro in Volta, la parrocchia dove abitava la famiglia Ghezzo e lo stesso P. Giovanni Tomaso, parlando di “certe voci che circolano”. La cosa non è molto chiara. In ogni caso, P. Ghezzo risulta rientrato in Congregazione, e fin da prima del 20 gennaio 1867 si trova a Lendinara, senza che si sappia bene come si sono concluse le cose. Si riprese la vita normale.
Nel 1885 P. Ghezzo fu nominato maestro dei novizi. Dal 1892 fu scelto per pro-rettore della piccola comunità che riapriva il collegio di Possagno, il che fa pensare che non avesse fino a quel punto, almeno dopo il 1867, dato segni di pazzia. Manca il registro della sua presenza negli anni dal 1878 al 1882.
Ammalatosi di grave malattia mentale, fu ricoverato il 14 agosto 1893 e fino alla morte all’isola lagunare di S. Servolo, a volte chiamata più formalmente di S. Servilio nel diario della Congregazione, nella quale isola si trovava il manicomio maschile; quello femminile era situato nell’isola di S. Clemente. Si può immaginare quanto abbia sofferto il povero malato, sia per la separazione dall’Istituto, che amava, sia per i metodi di cura in uso a quel tempo. E si può capire quanto ne abbia sofferto la comunità leggendo quanto scrive P. Da Col, preposito, il giorno 13 agosto 1893 da Venezia: “Scrivo al P. Rossi a Possagno, incominciando la lettera con le parole dette in seduta definitoriale dal nostro P. Vicario [Casara]: ‘piace al Signore di vederci umiliati e colpiti da gravi tribolazioni’, alludendo alle circostanze nelle quali qui ci troviamo. Il P. Ciligot partito per non ritornar più, e il povero P. Ghezzo ridotto a tale per pazzia religiosa da dover esser domani trasportato al manicomio di S. Servolo. Dopo un avvicendarsi di parecchi giorni di gravi angustie, invincibili a tutte le più efficaci e caritatevoli riflessioni, e di brevi intervalli di apparente tranquillità, diede il cariss.o confratello in atti, quasi da disperato, che se non ebbero le più terribili conseguenze il dovemmo attribuire a grazia specialissima del Signore. Dietro al giudizio dei medici si dovette predisporre quanto si richieda per essere ricevuto dai Fatebenefratelli in isola [di S. Servolo], non essendo del caso il consegnarlo qui nella loro Casa di Salute, e non convenendo assolutamente per più ragioni di porlo nella Sala di osservazione in questo Civico Ospitale”. L’uscita dal servizio attivo del P. Ghezzo, che era stato recentemente nominato pro-rettore del collegio Canova nella nuova fase di presenza Cavanis a Possagno, creava anche dei gravi problemi di personale, oltre all’umiliazione e a tutto il resto.
P. Da Col continua il 14 agosto 1893: “Nei modi dovuti fu predisposto oggi il carissimo P. Ghezzo a recarsi presso i Fatebenefratelli a S. Servolo, adducendo il bisogno di una cura, che non potrebbe avere qui. Alle ore 1 pom. era pronta la gondola ed accompagnato dal P. Fanton, e dal fratello Cavaldoro vi si recò abbastanza tranquillo. Fu ricevuto amorevolmente dalla carità di quei RR. Padri già di tutto informati; ma pei nostri, specialmente pel povero P. Ghezzo dovette essere di straziante dolore il distacco per lui quasi improvviso.- Preghiamo con gran fede la Madonna e speriamo”. E il 15: “Sia benedetta la Madonna! Eravamo ansiosi aspettando oggi notizia del nostro carissimo Ghezzo, per mezzo del Signor Ferdinando Fanton che doveva recarsi ai Fatebenefratelli de’ quali è amico, a S. Servolo. Venne questa sera a confortarci grandemente colla relazione, che l’amato confratello fin dalle prime diede saggi della sua ammirabile docilità proveniente da quel sodo spirito religioso che avea sempre manifestato in Congregazione, ma in modo speciale in questi primi giorni delle sue sofferenze, nel trattare particolarmente col P. Vicario [Casara], e con me. – “Bisogna obbedire” disse al custode, che con bella maniera lo eccitò a prendere per cautela il busto di forza; e poi nel deporre le vesti di prete e congregato, per indossare l’abito secolaresco.- Fu veduto anche di lontano dallo stesso Fanton, quando passeggiava tranquillo per la terrazza ascoltando la Banda del luogo, che suonava dal giardino. Il P. Superiore Minoretti disse al Fanton di non poter per ora, come ben s’intende, alcun giudizio, né dare speranze ecc. – Ben sentiamo il dovere, ed il grande conforto di sperare, qualche grazia singolare della Madonna, vedendone i consolanti preludj nella pietà e devozione, sempre e massime in questa occasione manifestata dall’amato confratello verso di Lei solito a chiamare la sua Mamma bella, e nelle circostanze di questo suo tramutamento”.
Il 25 settembre le cose peggiorano: “Oggi venne il Dottor Brajon, medico del manicomio di S. Servolo, che con gentile premura ci tiene informati dello stato del povero nostro P. Ghezzo. Pur troppo questa volta dovete dirci che da qualche giorno è agitatissimo, a segno da doverlo tenere legato a letto, e ch’egli spesso nella sua pazzia religiosa dichiara di sentirsi spinto a finire, se potesse, … Deh! ci consoli il Signore, se gli piace; nella nostra vivissima afflizione per l’amatissimo confratello”.
Sebbene malato mentalmente, il confratello aveva momenti di lucidità, nei quali mostrava tutto il suo amore per l’Istituto che aveva servito lungamente tra difficoltà, sofferenze e persecuzioni. Il 1° maggio 1902, nell’occasione del centenario dell’Istituto, che si sarebbe celebrato solennemente il giorno seguente, troviamo questa annotazione di P. Giovanni Chiereghin nel diario di Congregazione: “Il carissimo P. Ghezzo dirigge (sic) dall’isola di S. Servilio quattro versi di numero, ma equivalenti a un lungo poema, nei quali esprime nel modo più toccante il suo affetto all’Istituto. Noi continuiamo a sperare, ed a pregare il Signore che, per la mediazione della Vergine del Carmelo, in vista dei meriti dei nostri Fondatori, ci conceda con quella grazia, per la quale lo abbiamo tanto pregato in questi giorni, e continueremo a pregarlo in avvenire. In questo punto il Preposito risponde al caro Confratello”.
L’originale di questa letterina è stato ritrovato in archivio, e i versi commoventi meritano di essere qui riprodotti:
Alla mia prediletta Congregazione,
Che compie di cent’anni il primo giro,
Io mando dall’intimo del cor un sospiro,
Un bacio, un plauso e una ovazione.
1° Maggio 1902
Il Confratello P. Giovanni Ghezzo
P. Giovanni Ghezzo morì il 6 marzo 1905, e fu pianto dai nostri che lo avevano amato. P. Vincenzo Rossi, preposito, scrive nel diario: “Muore a S. Servolo il povero P. G. Ghezzo. Il 9 il Preposito accompagnò la salma lagrimata a S. Agnese dove fu celebrato il funerale”.
7.2 Fratel Pietro Sighel
Di Miola di Piné, diocesi di Trento, dove era nato il 9 settembre 1835, entrò nella comunità il 16 ottobre 1862 a 27 anni come fratello laico, vestì l’abito il 25 luglio 1863, emise la professione religiosa temporanea poco dopo il 26 ottobre 1866, visse in Congregazione quarantatré anni e diede ai confratelli luminosi esempi di semplicità e pietà.
Di lui conosciamo molto poco. Si ignora quasi tutto della sua formazione e dei primi anni della vita religiosa. Emise i voti perpetui qualche giorno prima del 16 gennaio 1895, a seguito dell’approvazione pontificia delle regole del 1891. Dalle tabelle di questo libro, e quindi da fonti varie, Fra Pietro risulta nelle seguenti case e date: dal 1872 al 1876 a Lendinara; dal 1877 al 1878 a Venezia; dopo un’ampia lacuna, nell’anno 1885-86 ancora a Venezia; dal 1886 al 1889 di nuovo a Lendinara, come cuoco; vi era stato inviato il 3 settembre 1886 a sostituire fra Francesco Avi, sempre ammalato e ormai incapacitato come cuoco. C’è poi una lacuna di dati per il periodo 1889 al 1903; da quest’anno alla sua morte apparteneva alla comunità di Venezia.
Essendosi recato nella casa dei suoi per far visita al fratello moribondo, egli stesso, di malferma salute, venuto in fin di vita si addormentò piissimamente nel Signore il 4 aprile 1905, nel settantesimo anno di età. Si era trattato di una cosa fulminea: P. Vincenzo Rossi, preposito, scrive nel diario la domenica 2 aprile 1905: “Sabato [1° aprile] è partito Fra Pietro Sighel per Miola (Trentino) a salutare un fratello moribondo. Il 4 aprile: “Martedì (4) arriva una lettera – è giunto felicemente, il fratello migliora un po’. Nel pomeriggio giunge un telegramma Fra Pietro Sighel agonizzante. Il Preposito telegrafò chiedendo notizie”. Il 5 aprile poi P. Vincenzo scrive nel diario: “Alla sera alle 11 il Preposito partiva per Miola di Piné ad assistere ai funerali di fra Pietro Sighel, di cui era giunta purtroppo la notizia della morte poche ore prima. Il confratello era morto il 4 precedente alle alle 3 e ½, dopo ricevuti i conforti religiosi.
7.3 Fratel Clemente Dal Castagné
Clemente nacque a Torcegno, diocesi di Trento, in Valsugana, a quel tempo nel Tirolo italiano, il 27 giugno 1854. Era entrato nell’Istituto come fratello laico nel 1886, più esattamente il 29 gennaio; vestì l’abito dell’Istituto il 2 luglio 1886; il diario registra periodicamente, ogni trimestre, i nove risultati positivi degli “esami” compiuti dagli esaminatori eletti in comunità, come per tutti i novizi laici. Il 3 gennaio 1889, in conseguenza di uno di questi esami, si viene a sapere dal diario che fra Clemente era un ottimo religioso, ma che aveva dei problemi di salute: “Si parlò prima intorno alle sue sofferenze fisiche, conforme alla relazione del P. Maestro sud.o. Si stabilì che, non potendo molto occuparsi in cucina attorno al fuoco, si venga addestrando, almeno qualche ora, in luogo del fratello Cavaldoro nell’uffizio di Sagrestano. (…). La votazione gli fu pienamente favorevole”.
Emise i voti temporanei il 16 luglio 1889, nella festa della Madonna del Carmine; i perpetui qualche giorno prima del 16 gennaio 1895, a seguito dell’approvazione pontificia delle regole del 1891. Lo troviamo nel 1893-94 a Lendinara; a Venezia poco prima della morte. Mancano dati, per ora, sulla sua localizzazione negli altri anni. Avendo trascorsi appena sedici anni della nostra vita religiosa, spirò piamente nel Signore l’8 luglio 1902, consunto da inguaribile malattia, confortato dai Sacramenti, a quarant’otto anni di età. P. Giovanni Chiereghin scrive di lui nel diario: “Alle ore 18 il carissimo confratello, dopo un’agonia abbastanza penosa, spirò nel bacio del Signore; e noi, nel dolore della sua dipartita, abbiamo un indicibile conforto nella speranza di avere nel cielo un nuovo confratello, il quale dopo di averci edificati coll’esempio delle sue religiose virtù per sedici anni, ora colle sue preghiere insieme cogli altri confratelli, qui in statu salvationis sunt, attirerà sulla nostra Congregazione quelle speciali benedizioni di cui ha tanto bisogno.” E ancora, due giorni dopo: “Stamane si fece il funerale del desideratissimo F. Clemente. Riuscì modesto come a religiosi si conviene, ma decoroso quanto mai. Il clero dei Gesuati accorse tutto ad aiutarci; degli scolari pochi furono i presenti perché non si ebbe tempo di avvertirli. Il P. Fanton ne accompagnò il cadavere (sic!) al camposanto”.
Nel 2018 e poi ancora nel 2019, alcuni lontani pronipoti, che abitano ancora a Torcegno, sono entrati in contatto con questo archivio generale per aver notizie del loro pro-pro zio, e riprendere contatto con l’Istituto.
7.4 Fratel Giovanni Cavaldoro
Nato a Venezia il 26 maggio 1857, entrò in comunità come fratello laico il 3 gennaio 1876. Il suo nome completo era Giovanni Maria. Vestì l’abito dell’Istituto il 14 (o il 24) agosto 1881. Nell’amore dei confratelli, a questo solo sempre attese, di non smettere mai di faticare, benché di debole salute. Purificato da tutti i sacramenti spirò placidamente il 10 febbraio 1910 a Venezia, nella casa della Congregazione, all’età di cinquantatré anni.
Di questo confratello abbiamo pochissime notizie oltre a quelle date sopra; lo troviamo a Possagno nel 1879, ma a causa di malattia fu inviato a Venezia, dove poteva essere meglio curato, da P. Da Col e lì ricevuto con carità fraterna; fu novizio nel 1881-83; vestì l’abito della Congregazione domenica 24 (o il 14?) agosto 1881; emise la professione temporanea, finito il noviziato triennale (allora e fino al 1894), il 15 agosto 1884; e la perpetua a Venezia il 24 dicembre 1894, nella Vigilia del Natale, dopo la pia pratica degli “ufficietti” alla culla del Bambino Gesù. Lo troviamo, dopo una notevole lacuna di dati, a Venezia nel 1903-04. Il 20 giugno 1903 è a letto per “febbri reumatiche gastriche”, che poi sono definite polmonite, e peggiorano in pleurite, con pericolo di una caduta nella tubercolosi. “Il dopopranzo [del 25 giugno 1903] sulle 3 ½ i medici levarono al Cavaldoro il liquido che s’era formato nella pleura. L’operazione durò un’ora, ed il carissimo infermo nella sua gracilità e debolezza diede prova di fortezza non comune. Non ebbe neppur un leggier svenimento”. Durante il mese di luglio, il caro fra Giovanni continuò tra letto e lettuccio. P. Vincenzo Rossi, nel diario di Congregazione, scrive, circa due anni dopo: “Lo stesso dì [del funerale del P. Giuseppe Bassi, quod vide], al dopopranzo, assistiamo al triste esodo di Fra Giovani Cavaldoro, trasportato all’Ospitale civile (camera apposita) per una seria operazione in una gamba. Il giorno 1 era già stato fatto un consulto col professor Velo”. E in seguito, il 6 giugno 1905: “Il fratel Cavaldoro subì una difficile operazione; gli hanno scarnificato la gamba, tagliato ossa; riuscirà colla gamba accorciata e disarticolata. Ci giungono poi notizie che soffre acerbissimi dolori. In complesso però c’è qualche filo di speranza”.
Così scrive di lui e della sua morte, avvenuta a Venezia, il P. Vincenzo Rossi, preposito generale il 10 febbraio 1910: “Dopo pochi giorni di non penosa malattia, sopravvenuta a lunghi e penosi disturbi, si spegneva dolcemente nel Signore alle ore 11.30 ant. Fra Giovanni Cavaldoro, operoso fratello laico specialmente in quanto riguardo (sic) il decoro della casa di Dio. La sera innanzi presenti i Padri e i fratelli, ricevette il S. Viatico, e la mattina alle 9 Estrema Unzione rimanendo presente a se stesso fino alle ore 11 (sic) circa”.
7.5 P. Enrico Calza
Nato a Mantova il 23 agosto 1879 da Pompeo Calza e Bianca Vezzani, nostro sacerdote professo, pare si sia presentato all’Istituto come aspirante il 16 luglio 1895. Era scolaro delle scuole di Carità a Venezia; non è sicuro però se si tratti di lui, o di un omonimo, perché si ha soltanto il suo cognome. Un dato più sicuro lo abbiamo il 9 ottobre 1896: “I genitori del postulante Enrico Calza rilasciano il loro pieno consenso per l’ingresso del figlio nell’Istituto, e la dichiarazione di rinuncia, ecc., riuscendone felicemente la prova di vocazione”.
La famiglia era evidentemente ben conosciuta in ambiente ecclesiale, perché, mancando un suo certificato di cresima al momento della sua entrata in Congregazione, il padrino di cresima e parente Attilio Vezzani ebbe la sua dichiarazione giurata, sul fatto che il figlioccio Enrico aveva ricevuto la cresima il 12 aprile 1888 nella basilica di S. Zeno a Verona, controfirmata dal Patriarca di Venezia Card. Giuseppe Sarto, che era stato prima vescovo di Mantova. Il Patriarca scrive: “Il sottoscritto, che conosce a fondo il Signor Vezzani Attilio dichiara, esser più che sufficiente l’attestazione di lui per credere, che il giovane Calza Enrico di Pompeo e di Vezzani Bianca ha ricevuto il Sacramento della Cresima. Venezia, lì 4 Decembre 1896. + Card Giuseppe Sarto Patriarca”. Non poteva esserci migliore testimonianza e raccomandazione! Il patriarca rilasciò del resto, il giorno seguente, un certificato formale, su un formulario compilato all’uopo.
Vestì l’abito dell’Istituto il 20 dicembre 1896 in S. Agnese a Venezia e assieme al suo compagno di noviziato Giovanni Rizzardo emise la professione temporanea in S. Agnese il 21 dicembre 1897 e la professione perpetua il 23 dicembre 1900.
Ricevette la tonsura e i primi due ordini minori il 23 dicembre 1899 dal cardinal Sarto; i secondi due dallo stesso patriarca l’8 aprile 1901; sempre a Venezia fu ordinato suddiacono il 3 agosto 1902 dallo stesso, poi diacono nel 1903, e ancora a Venezia fu ordinato presbitero il 26 luglio 1903.
Fu nominato maestro dei novizi dal preposito P. Vincenzo Rossi e dal suo consiglio il 10 agosto 1904, subito dopo il capitolo generale dell’agosto 1904, ma dovette attendere la dispensa d’età dalla S. Sede, perché era troppo giovane per assumere questa carica. La dispensa giunse il 16 agosto successivo. Svolse per un sessennio il suo compito di solerte maestro dei novizi, senza dubbio a Venezia (1904-1910), dove si trovava, come diacono, almeno dal 1903. Fu riconfermato maestro dei novizi il 19 luglio 1910, dal capitolo generale in corso in quell’anno e mese. Rassegnò però le dimissioni da questa carica il 19 aprile 1911 e fu allora sostituito da P. Basilio Martinelli, in modo interino, fino al seguente capitolo generale.
P. Enrico avere presentato le dimissioni perché si sentiva male di salute, e chiese al preposito. P. Antonio di Venezia, di poter andare a Lourdes per implorare dall’intercessione della Madonna la guarigione. Ne ottenne il permesso e vi andò (per la seconda volta). Pare che partisse a fine maggio o inizio di giugno 1911. Non guarì tuttavia e riprese in qualche modo, come potè, la sua vita di comunità “non graziato dalla Madonna, ma un po’ rimesso e allegro”, ancora per un anno e qualche mese.
La sua malattia si rivelò in situazione terminale il 13 ottobre 1912, con ripetuti sbocchi di sangue. Il 14 ricevette, su sua richiesta, l’unzione degli infermi e chiese l’assistenza di un padre che lo assistesse la notte per aiutarlo a pregare e a prepararsi. Il 20 ottobre P. Calza, che teneva con sé per devozione uno zucchetto del papa Pio X, chiese al preposito che intercedesse con monsignor Pescini, segretario del papa, perché questi pregasse per lui. Il 22 ottobre giunse questa risposta: “Vaticano, lì 22 ottobre 1912. Monsignor Giuseppe Pescini, Cappellano segreto di Sua Santità ossequia il reverendissimo P. Antonio Dalla Venezia, e lo prega di significare al R. P. Calza che il S. Padre ben volentieri unisce le proprie preghiere a quelle di Lui per la grazia che implora; esortandolo però ad una piena fiducia nella bontà infinita del Signore, con sempre perfetta sommessione ai divini voleri”.
Lasciò grandi esempi di pietà e di pazienza nel sopportare i disagi di una malattia inesorabile, evidentemente la tisi, specialmente nell’ultima agonia. Si addormentò piamente nel Signore a Venezia, il 24 ottobre 1912, all’età di soli trentatré anni, confortato dai Sacramenti e da molte preghiere.
7.6 Seminarista Carlo Trevisan
Nato a Venezia, era allievo della nostra scuola di Venezia, e vi era stato promosso alla quinta ginnasiale nel giugno 1917. Decise di entrare nel seminario dell’Istituto, ottenne finalmente e con difficoltà il permesso dai genitori, che pure erano cristiani praticanti, e vi fu accolto, pieno di felicità, tra i probandi, il 16 luglio 1917, festa della Madonna del Monte Carmelo. Giovanetto di vivace ingegno, adorno d’innocenza di costumi e di straordinaria pietà, volò al cielo a Possagno nella casa della Congregazione, dove era in vacanza con i nostri novizi, corroborato dai Sacramenti, dopo breve e inesorabile malattia, a quattordici anni, ma già cresciuto di meriti per desiderio della vita religiosa. Il giorno della sua morte fu il 10 ottobre 1917.
Così narra la sua fulminea malattia e la sua morte P. Tormene nel diario della Congregazione: “30 sett. – Domenica – Oggi tornarono da Possagno a Venezia i PP. Borghese e Busellato. Dalla famiglia di Venezia restarono ancora a Possagno il P. Preposito con P. Maestro e Noviziato essendo da qualche giorno gravemente ammalato l’aspirante Carlo Trevisan. (…) 3 Ottobre – Merc. Il P. Preposito venne a Venezia per avvisare la famiglia Trevisan delle gravi condizioni di Carletto. Papà e mamma andarono subito a Possagno. (…) 7 Ottobre + – Domenica – Il padre preposito ritornò dopo pranzo a Possagno per visitare l’ammalato Asp. Carlo Trevisan che trovò gravissimo. 10 Ottobre. Mercordì – Dopo giorni di trepidazioni e speranze, malgrado consulti e cure assidue dei Medici, Genitori e Padri di Possagno, stamattina alle 5 ½ il caro Aspirante Carlo Trevisan volò al Cielo. Avea ricevuto fin da Domenica tutti i conforti religiosi e morì tranquillo, rassegnato, sorridente: avea previsto e predetto che sarebbe andato in Cielo, e benché tutti gli mostrassero speranze che sarebbe guarito, rispondeva sempre: “Se piacerà al Signore, se no andrò in Paradiso” – Era fra noi dal 16 luglio scorso: fin dal primo giorno scrisse nel suo Diario propositi generosi di santa vita religiosa mostrando d’aver pienamente compreso il valore della Vocazione e i suoi obblighi, mostrando anche in ciò la bella sua intelligenza superiore alla tenera età di 14 anni. Lottò assai coi suoi genitori estremamente affettuosi per poter entrare nell’Istituto: la sua tenera età, certi disturbi intestinali rimastigli dopo due serie malattie per cui la mamma giudicava indispensabile la sua cura materna, e la sua stessa serietà e intelligenza che lo rendevano carissimo a tutti, furono ragione di opposizione da parte dei suoi, benché religiosissimi, anzi esemplari. Ottenuto il sospirato permesso quest’anno, anziché l’anno venturo, dopo 5ª [ginnasiale], come era stata la prima e più larga concessione, volò giubilante all’Istituto. Passato il 19 col Noviziato a Possagno, si era rimesso in salute benissimo. Ammalatosi di dissenteria il 26 settembre, quando il 3 ottobre il padre preposito lo avvertì che avrebbe avvisato i suoi, si fece triste dicendo: “La mamma mi ha detto che se mi ammalo mi vuol subito a casa e non mi lascia più venire in Congregazione”. Il Preposito lo consolò con tante speranze, ma che cosa avrà detto quell’Angelo al Signore? Certo ha preferito la morte all’uscire di Congregazione, e di ciò diede durante la malattia indizi non dubbi. È dunque un Angioletto nostro ora che prega dal Cielo pel suo Istituto! Una biografia di lui sarà fatta nel “Nostro Foglietto” di Novembre pei “Figli di Maria” (la Congregazione Mariana) a cui apparteneva”.
Carlo “fu sepolto nel camposanto comune, ma forse sarà da trasportarlo coi PP. quando si farà il loro trasporto nei loculi della Cappella dove già riposa il benedetto P. Santacattarina. Così maestro e scolaro, durante queste vacanze, passarono a dormire vicini il sonno della morte a Possagno: saranno vigili custodi del Collegio”. Così avvenne più tardi, e Carletto riposa nel sacello dei religiosi Cavanis e del clero locale diocesano a Possagno.
Il suo nome consta, come quello dei religiosi, nei vari necrologi di Congregazione. Era rimasto tra noi, in Congregazione, solo 86 giorni, ma è ricordato con molto affetto, che si trasmette di generazione in generazione. Anche oggi, a un secolo dalla sua morte (1917-2017), lo sentiamo con commozione veramente dei nostri, e tra i nostri in paradiso.
7.7 Fra Bartolomeo (Bortolo) Fedel
Di questo caro confratello, chiamato sempre Bortolo negli scritti e documenti della Congregazione, il necrologio dice soltanto: “Di Miola di Piné, diocesi di Trento, nostro Fratello laico professo paziente nelle fatiche, industriosissimo, mite nei modi, carissimo a tutti, morì [il 19 Dicembre 1917 NdA] a Bologna nella casa della Congregazione dei Chierici regolari Barnabiti, dove, sovrastando il pericolo dell’invasione del nemico, era stato mandato momentaneamente dai superiori, dopo breve malattia, munito dei Sacramenti, aderendo pienamente alla volontà di Dio.”
Bartolomeo nacque a Miola di Piné il 24 agosto 1890; era cugino del P. “Amadeo” Fedel e nipote di P. Francesco Bolech, che era suo zio materno. Il suo nome completo di battesimo, come da atto originale del sacramento, era Bortolo, Giovanni Giacomo; figlio di Bortolo e di Bolech Maria. Era entrato in Istituto l’11 ottobre 1906; aveva vestito l’abito dell’Istituto il 20 novembre 1907, svolto il biennio di noviziato (1907-09) a Venezia, avendo come maestro P. Enrico Calza, e aveva emesso la professione temporanea a Venezia il 21 novembre 1909, nella festa della Presentazione di Maria e, a Venezia, della Madonna della Salute, nel pomeriggio, alle 17 e ¼, nell’oratorio dei piccoli, attuale (2017) aula magna delle scuole. Emise i voti perpetui il 23 aprile 1913.
La sua vita si complicò nel 1915, dall’inizio della prima guerra mondiale, ancora prima che l’Italia si schierasse. Varie volte nel diario, si parla del fatto che, come nativo del Trentino, quindi cittadino austriaco, doveva periodicamente presentarsi al consolato d’Austria per motivo di controllo e di coscrizione. Ora, con l’inizio della guerra, l’Austria aveva cominciato a richiamare tutti i giovani in età da servire nelle forze armate, anche se residenti all’estero e anche se religiosi. Era il caso di fra Bortolo. Risiedeva nella nostra casa di Possagno, ma fu richiamato, venne a Venezia, ma si decise con coraggio e fede nel Signore, e con la meditata approvazione del preposito, alla renitenza alla leva o, come si sarebbe detto più tardi, all’obiezione di coscienza. È interessante leggere integralmente questa pagina del diario:
“1 Febbraio [1915] – Lunedì – Alla sera giunse a Venezia da Possagno Fra Bortolo Fedel richiamato alla perizia presso l’I.R. Consolato Austro-Ungarico, benché a suo tempo dichiarato inabile, essendovi ora in Austria la leva in massa in causa della guerra. Considerata bene ogni cosa, e la sicurezza di essere fatto abile, e la sua vocazione e professione perpetua per cui già appartiene alla milizia della Chiesa, e la probabilità di una amnistia o per la cessazione della guerra, o per la cessione del Trentino, o per la morte non lontana di Francesco Giuseppe, si mostrò deciso a non presentarsi. Il Preposito però, pur inclinando anche lui, come pure gli altri Confratelli, a questa decisione, gli consigliò di rimandare al dì seguente la definitiva risoluzione.
2 Febbraio – Martedì – Festa della Purificazione di Maria SS. – Fra Bortolo, fatta la Comunione e pregata la Vergine, come pur fece il Preposito e i Padri perchè la decisione fosse secondo la Volontà di Dio e pel maggior bene del Fratello e dell’Istituto, manifestò assolutamente al Preposito la sua decisione di non presentarsi al Consolato, come avrebbe dovuto far oggi, secondo l’invito. Quindi colla corsa delle 14.35 ritornò a Possagno confidando in Dio pel presente e per l’avvenire. E Dio disponga tutto pel meglio, Egli che vide il motivo santo e generoso di questa deliberazione a vista umana pericolosa. Maria SS. protegga lui e noi!”
Dei tre motivi di amnistia, che Bortolo presentava come possibili e sui quali evidentemente si era ben informato, il primo era quello di una rapida conclusione della guerra; era una opinione molto diffusa a quel tempo, soprattutto in Italia, ma come si è visto, era molto mal fondata, perché la guerra durò altri tre anni interminabili; la seconda era basata sul fatto che in effetti la Germania stava insistendo presso l’Austria perché concedesse il Trentino all’Italia, se questa rimanesse neutrale, o se entrasse in guerra a fianco degli Imperi centrali; nel caso della cessione del Trentino all’Italia, fra Bortolo, divenuto italiano, non sarebbe più stato sottomesso alla coscrizione obbligatoria nelle forze armate austriache; in compenso, però, sarebbe stato sottomesso alla coscrizione nell’esercito italiano! Proprio in quel mese di febbraio 1915 e nel marzo successivo si stava discutendo a Roma e altrove di questa cessione a livello diplomatico. Il terzo motivo, la prossima morte di Francesco Giuseppe, imperatore dell’Austria-Ungheria, dipendeva dall’età molto avanzata di quest’ultimo: nato il 18 agosto 1830, Francesco Giuseppe aveva all’epoca di cui si parla 84 anni; sarebbe morto in effetti non molto dopo, il novembre dell’anno successivo, 1916.
La confidenza di fra Bortolo e dei suoi superiori in un’amnistia tuttavia non era molto ben riposta. L’Austria-Ungheria era molto severa verso i renitenti alla leva e i disertori, e la sua polizia aveva una memoria d’elefante. Per portare un esempio concreto, il bisnonno di che scrive, Dr. Pietro Leonardi, chimico e farmacista, trentino, irredentista, perseguitato dalla polizia austriaca, fuggito in modo drammatico dalla Val di Fiemme in Italia passando a piedi per le montagne innevate nel 1867, fu condannato in contumacia a vent’anni di fortezza, non fu mai perdonato né amnistiato, e tutti gli anni nella parrocchia di Cavalese l’arciprete dal pulpito chiamava il suo nome tra i refrattari alla leva, almeno fino al 15 settembre 1879, e anche quando egli aveva sorpassato l’età in cui generalmente si serve nell’esercito. Aveva allora 33 anni, essendo nato il 12 aprile 1846. Risiedendo a Venezia, egli potè ritornare a visitare i parenti in patria, a Cavalese, solo dopo la fine della guerra mondiale, nel 1919, 52 anni dopo l’inizio del suo esilio, dopo che l’Italia aveva vinto la grande guerra e che l’impero Austro-ungarico era stato distrutto.
Del resto, dopo l’ingresso dell’Italia in guerra contro l’impero austro-ungarico il 24 maggio successivo, anche fra Bortolo, come altri religiosi “tirolesi”, cominciò ad avere problemi non più dalla parte dell’Austria con la coscrizione obbligatoria, ma dall’Italia, in cui risiedeva come cittadino austriaco, quindi virtualmente nemico ed eventualmente pericoloso. Venne trasferito dai superiori a Bologna, ospite dei generosi padri Barnabiti. La corrispondenza e altra documentazione di carattere militare, sia da parte austriaca prima, sia da parte italiana poi è abbondante.
Le cose andarono così. A dicembre 1916, il preposito Tormene andò a prendere a Possagno fra Bortolo Fedel e tramite P. Vincenzo Rossi che lo accompagnò personalmente, cercò per lui un posto come residenza provvisoria in una casa religiosa fuori del Veneto, che correva pericolo di invasione austriaca; perché il fratello come trentino era suddito austro-ungarico e quindi in pericolo. P. Vincenzo Rossi cercò prima a Roma presso gli Scolopi, poi in varie case di altri istituti, infine lo sistemò provvisoriamente a Bologna presso i cappuccini, ma poi come sistemazione definitiva, fino alla fine della guerra (nell’intenzione e come progetto), sempre a Bologna presso la comunità dei PP. Barnabiti, grazie all’amicizia del rettore P. Fracassetti, che era stato ex-allievo dei Cavanis a Lendinara!
Era riuscito, con difficoltà data la situazione di guerra, e la sua situazione di cittadino austro-ungarico, a ritornare da Bologna a Venezia (in realtà, contro la speranza dei padri, e contro ciò che si trova nel diario, solo per una visita alla sua comunità, che si sarebbe interrotta dopo 88 giorni), l’11 agosto 1917. Doveva essere l’ultima sua visita. Infatti “7 Nov. Mercordì. Facendosi più allarmanti le voci, Fra Bortolo Fedel per le speciali sue condizioni nel caso di invasione (quod Deus avertat), partì per Bologna dopo l’adorazione. Se il Noviziato partirà per Budrio, [fra Bortolo] vi si unirà, se no, resterà ospite del buon P. Fracassetti al Coll.[egio] S. Luigi.”
Il Fratello non avrebbe più visto la sua amata comunità. Morì infatti a Bologna, imprevistamente, il 19 dicembre 1917, circa quattro mesi dopo.
Vale la pena di trascrivere integralmente quanto scrive di lui nel Diario della Congregazione, il giorno dopo della morte, il preposito P. Augusto Tormene, che era accorso a Bologna per visitarlo. Questo testo è un vero elogio funebre:
“20 dicembre [1917] – giovedì – Colla Iª corsa il Preposito andò a Bologna, ma troppo tardi. Il carissimo Fra Bortolo Fedel era già morto la sera precedente alle 19 ½. Mio Dio, che schianto al cuore! Il male si era aggravato improvvisamente determinando la peritonite, sospettata dai medici nei giorni precedenti, ma manifestatasi solo jeri, 19, mattina con dolori acutissimi. Ebbe subito tutti i Sacramenti e fu assistito con ogni cura fraterna da quei buoni PP. Barnabiti che gli volevano tanto bene per la sua grande pietà, semplicità, prontezza nel prestarsi a svariatissimi servizi essendo di ingegno molto versatile per cose manuali ingegnose, di molta resistenza alla fatica, ed anche capace di seria disciplina nell’Uffizio di Prefetto affidatogli dal P. Fracassetti e l’anno scorso e anche al presente. Disturbi intestinali ne ebbe anche in passato, non gravi però, ma forse da lui trascurati troppo. Questa volta essi si manifestarono in una forma più allarmante fin da principio, otto giorni fa, per cui sarebbe venuto subito a Venezia, come tentò, ma invano perchè scadutogli il permesso di soggiorno qui (vedi sue lettere). Caro figliuolo, vittima della guerra anche lui, indirettamente! Sentiva tanto, come ci fu riferito e appare anche dalle sue lettere, la nostalgia della sua Congregazione, questa volta più dell’anno scorso! La sua speciale condizione lo salvò dalla guerra, ma gli richiese sacrifici di spirito che possono aver influito anche nel fisico. Durante la malattia avea il pensiero sempre al suo Istituto dolente di esserne così lontano e temendo di morire senza veder nessuno: pregò il P. Fracassetti di scriver subito al Preposito, ma – come Dio dispose – tutto fu troppo tardi. E morì a 27 anni, lontano dall’Istituto, circondato sì da ogni più sollecita cura, ma non dei suoi cari Confratelli, egli che amò tanto l’Istituto, che per esso lavorò indefessamente e a Venezia e a Possagno, che dava di sé le più lusinghiere speranze di vita forte e lunga! Ma la SS.ma Volontà di Dio sia sempre adorata, amata, benedetta! Ora dal Cielo continuerà ad ajutar l’Istituto colla preghiera e di lassù proteggerà anche i suoi cari di famiglia di cui dallo scoppio della guerra nulla mai potè sapere, chissà con quanta tacita angoscia del suo animo sensibilissimo, temendo anche qualche guaio ai suoi per rappresaglia della sua mancata presentazione.
In memoria aeterna erit justus: lasciò nell’Istituto i più cari ricordi di Religioso buono, semplice, obediente, instancabile nella fatica, cordiale pel suo Istituto, a cui fu veramente Fedel. Anche a Bologna il Preposito udì un coro di lodi e di rimpianti. Requiescat in pace!”
Fra Bortolo Fedel dopo il funerale celebrato a Bologna il 21 dicembre 1917 nella chiesetta della comunità e scuola dei Barbabiti e presieduto dal preposito P. Tormene, fu poi seppellito nella tomba speciale dei padri Barnabiti nel cimitero di Bologna. Fu sepolto con l’abito Cavanis, e allo stesso tempo ricevette tutte le preghiere, le messe, gli onori dai Barnabiti, come se fosse uno di loro. Le sue spoglie non furono in seguito trasferite a Venezia e devono considerarsi perdute.
Molte lettere e cartoline di fratel Bortolo, di prima dell’entrata in Istituto, di dopo la partenza per Bologna, dei suoi viaggi di esule e delle sue traversie, sono conservate nella sua busta di documenti. A volte sono di difficile lettura, perché “non è forte in Italiano”, come scriveva di lui un suo parente, avendo frequentato solo le elementari inferiori; ma sono molto commoventi e piene di affetto. Fa impressione vederlo ricostruito da queste antiche carte, di più di un secolo fa ormai: vederlo peregrinare, aspettare treni (di quel tempo, e di tempo di guerra), di giorno e di notte nelle stazioni, essere avvicinato da militari e poliziotti sospettosi, dover ottenere certificati e salvacondotti; sempre con pazienza, con fede, con amore per la sua Congregazione, cui avrebbe meritato poter ritornare.
7.8 Fra Corrado Salvadori
Di questo novizio Cavanis, che era nato il 26 ottobre 1896 a Venezia e che aveva vestito l’abito dell’Istituto il 16 luglio 1913 nella cappella del Centenario, ed era morto in combattimento durante il tempo del suo noviziato, nella prima guerra mondiale, il necrologio di Congregazione dice brevemente:
“Corrado Salvadori della diocesi di Treviso, nostro novizio laico di amabile semplicità e pietà, compiuto il biennio del noviziato, ma per difetto di età non ancora professo, chiamato alle armi, durante un notturno assalto del nemico, colpito da una fucilata, come fu riferito, giunse alla fine della sua vita [il 27 maggio 1917]. Nella mattina stessa, ricorrendo la solennità della Pentecoste, come ardentemente aveva desiderato, essendosi comunicato, si dice abbia confidato a un suo compagno d’armi, che se avesse dovuto morire in quel giorno, sarebbe morto volentieri; la morte gli avrebbe procurato un grande premio.”
E non è poco! Tuttavia è interessante anche sapere che inizialmente apparteneva alla Sanità, e prestava servizio in ospedali militari, ma che alla fine del 1916 fu trasferito dalla Sanità alla Fanteria, e in questa occasione fu visitato dal P. Preposito Tormene, preoccupatissimo, e con buon motivo, perché ciò lo avrebbe condotto al fronte e, più tardi, alla morte in battaglia; e leggere quanto ne scrive lungamente il preposito P. Augusto Tormene nel diario della Congregazione, in data 12 ottobre 1918, giorno in cui era arrivata la notizia sicura della sua morte tragica al fronte.
“12 ott. – Sabato – Messa solenne con Esequie pel Novizio Corrado Salvadori.
Nella notte dal 27 (Pentecoste) al 28 maggio 1917 prese parte ad un’azione militare. Un suo compagno, Possa Francesco di Possagno, scrisse qualche giorno dopo ai suoi di casa e al P. Rettore del Collegio che in quella notte Corrado era stato colpito in pieno. Quando il P. Preposito andò il 24 luglio ’17 a visitare il Nov. Sold. Bolzonello Pellegrino a Cividale, trovò ivi anche il Cappellano Militare di Corrado che ripetè la notizia già data dal Comando Mil. che cioè Corrado era disperso, ma aggiunse anche che, date le circostanze dell’assalto, del luogo ove combattè la Compagnia di Corrado chiamata improvvisamente nel cuor della notte di rincalzo, e la ricacciata dell’avversario nelle sue trincee e il ritorno dei nostri alle proprie, non c’era da illudersi che sia stato fatto prigioniero, ma piuttosto purtroppo! caduto e rimasto lì nel terreno interposto fra le nostre e le trincee nemiche. Il dì dopo e per più giorni di seguito fu impossibile il ritorno su quel terreno per seppellire i cadaveri: poi si svolse altra azione d’altra Compagnia, e riesce quindi impossibile dar ulteriori notizie.
Il suo parroco di Torreselle dando all’Istituto notizia della probabile morte di Corrado, scriveva il 14 giugno: “Egli lo presentiva; mi avea scritto alcuni giorni prima domandandomi di pregare per lui e incaricandomi di consolare la sua famiglia. Il giorno di Pentecoste (27 maggio) aveva potuto ricevere i Santissimi Sacramenti, e ne fu tanto contento da potermi scrivere queste parole: “Se muoio mi aspetta un premio grande, e poi ‘Fiat Voluntas Tua!”.
Da altre notizie raccolte dal Preposito a Cividale si confermò che la mattina di Pentecoste aveva potuto ricevere i SS. Sacramenti che da parecchi giorni sospirava, come egli stesso scriveva allora al Preposito, e che anzi, ricevuta la S. Comunione, era quella mattina così contento da dir a un suo compagno: “Oggi, se anche morissi, morirei contento”.
E quale fosse la sua pietà, il suo spirito di rassegnazione, la sua Fede, il suo attaccamento all’Istituto, ne fanno testimonianza le copiose lettere e cartoline da lui scritte all’Istituto: l’ultima sua poi del 25-5 compendia tutti i suoi sentimenti ed è l’autoelogio di lui.
Era entrato nell’Istituto come Aspirante Fratello laico il 3 novembre 1912: ne aveva vestito l’abito il 16 luglio 1913, a 16 anni, 8 mesi e 21 giorni di età. Sembra tuttavia che, il diritto canonico precedente al CJC del 1917 richiedesse (almeno per i fratelli laici?) 21 anni come età minima per vestire l’abito e cominciare il noviziato. Per una svista giuridica dei suoi superiori, che avrebbe senza dubbio invalidato la vestizione, il noviziato e la professione, Corrado era entrato in noviziato in largo anticipo. Infatti, nella busta di documenti di Corrado Salvatori è conservato un indulto, in cui l’interessato (ma in realtà lo sbaglio era ovviamente della Congregazione) annuncia di essere stato “per errore, ammesso alla vestizione religiosa prima di compiere il ventesimo anno di età, e domanda umilmente alla S.V. la sanazione alla professione dei santi voti”. La sanazione gli viene concessa con indulto datato del 16 giugno 1915, ma per professare dovrà attendere di avere l’età canonica.
Egli aveva sempre compiuto lodevolmente il suo Noviziato di due anni, meritando sempre ottime Relazionida parte del Maestro dei Novizi e dai capitoli che si riunivano periodicamente per esaminare i novizi.
Nel 1915 avrebbe dovuto fare la professione triennale, ma non avendo ancora raggiunto l’età di ventuno anni prescritta dalla S. Sede, come si è spiegato sopra, dovette attendere e accettò con molta rassegnazione e virtù l’inaspettata mortificazione. Frattanto i Superiori avevano ottenuto da Roma che gli fosse validamente computato il biennio di noviziato. – Chiamato alle armi, partì il 7/12/1915. Fu quasi sempre unito o vicino al confratello novizio Bolzonello, meno l’ultimo tempo nel quale erano di Compagnia diversa e non si potevano vedere. – A Padova pel suo carattere mite, timido e facile a servizio altrui, finché fu come soldato di Sanità all’ospedale Arria in mezzo ai tubercolotici, pel troppo lavoro e veglie e servizi pericolosi e sostituzioni troppo frequenti a compagni che approfittavano della sua bontà per sottrarsi essi al lavoro, fece una malattia seria dalla quale uscì sospetto di tubercolosi. Passato poi alla Fanteria, con Bolzonello, benché riconosciuto inabile alle fatiche di guerra, dopo qualche mese di riposo fu mandato agli esercizi e quindi al fronte. La sua storia di vita militare è nelle sue lettere all’Istituto. Era di indole amabile, semplice, piissima: sarebbe stato un Fratello laico amantissimo del suo Istituto ed utile assai per la sua umiltà e docilità unita alla modesta operosità: ma il Signore dispose diversamente, e la Sua SS. Volontà sia benedetta! – Era nato il 26/10/1896.
Dopo la notizia della quasi sicura morte data al Preposito dal Cappelano Mil.re, furono celebrate a suo suffragio (vel pro Confratribus defunctis) le 12 Messe prescritte dalle Costituzioni. Persistendo il silenzio e formandosi ormai in noi la certezza della morte, alla distanza di oltre un anno, poiché ora è in vigore il Nuovo Codice di Diritto Canonico che pareggia nei diritti di suffragio i Novizi ai Professi (Can. 567§1), si giudicò doveroso celebrare a suo suffragio altre 24 Messe, con applicazione condizionata “vel pro Confratribus defunctis” se il caro Corrado fosse ancora vivo (così fosse!). Jersera alle 19 nell’Oratorio di Comunità recita dell’intero Ufficio dei Defunti. – Ogni sera per un mese se ne reciterà il Vespero, secondo le nostre consuetudini.”
Si è voluto riprodurre qui integralmente quanto scrive P. Tormene su Corrado Salvadori, anche se il testo è piuttosto prolisso, non solo a titolo di biografia, come per altri confratelli defunti, ma anche per aprire una finestra sulla situazione di dolorosa incertezza di tante famiglie e anche di tante comunità religiose durante la grande guerra (la grande carneficina, come si è detto) e del resto di tutte le guerre, di dover attendere per mesi e anni il ritorno del figlio – o, nel caso specifico, del caro confratello novizio – e di darlo magari per disperso e sperarlo vivo fino all’ultimo, mentre le sue ossa già biancheggiavano tra le pietraie di qualche cima o quota del Carso!
La relazione piena di sentimento del caro P. Tormene ci mette anche davanti alla mescolanza di sinceri affetti e sofferenze e di formalismo liturgico-giuridico di quell’epoca, prima e dopo la promulgazione del CIC del 1917. Al tempo stesso ci presenta con ogni evidenza la personalità del P. Augusto Tormene, che cercava i suoi, novizi o professi, laici o preti, non solo per corrispondenza ma di persona, sul campo, in prima linea e nelle retrovie, davvero come un padre e come un buon pastore.
Il nome di Corrado Salvadori si trova al secondo posto nella lapide ai caduti nell’androne della nostra scuola a Venezia.
7.9 P. Agostino Santacattarina
Nostro sacerdote professo perpetuo nacque a Venezia, nel sestiere di Castello e più precisamente nella parrocchia di S. Pietro di Castello, il 7 ottobre 1890. Vestì l’abito dell’istituto nel 1906; emise la prima professione, triennale, il 10 dicembre 1907, assieme al P. Enrico Perazzolli. Emisero ambedue, insieme, la professione perpetua l’11 dicembre 1910, nella chiesa di S. Agnese. Già tonsurato in antecedenza, Agostino il 12 marzo 1910 ricevette i quattro ordini minori nella chiesa dello Spirito Santo alle Zattere, ancora assieme a Enrico Perazzolli, che poi riceverà il suddiaconato da solo il 17 dicembre 1910 nella cappella privata del Patriarchio. Nella stessa cappella, ma più tardi, riceverà il suddiaconato P. Agostino il 23 dicembre 1911. Fu ordinato diacono il 21 dicembre 1912, nella stessa cappella dal cardinal patriarca Aristide Cavallari, e prete dallo stesso presule nella chiesa di S. Agnese, il 20 aprile 1913. Il patriarca Cavallari conosceva bene l’ordinato, perché da prete era stato parroco in una parrocchia di Castello, e aveva conosciuto la famiglia Santacattarina e il neo-ordinato da bambino.
P. Agostino rimase quasi certamente i cinque anni circa successivi all’ordinazione, prima della sua morte prematura, a Venezia in Casa madre. Manca tuttavia il suo nome, stranamente, nei documenti che hanno condotto a costruire la tabella della casa di Venezia proprio questi cinque anni; e manca anche dall’altra unica casa, quella di Possagno; casa che del resto era chiusa praticamente, durante la grande guerra. Doveva essere a Venezia. È presente a Venezia, in ogni caso nell’anno 1916-17, e si trovava a Possagno per recuperare la salute evidentemente peggiorata, quando fu colto dalla malattia e dalla morte. Degno di lode per l’amore alla pietà e all’osservanza religiosa, raggiunta quasi la laurea in belle lettere, si dedicò con grandissimo zelo all’educazione della gioventù. Colto a Possagno, dove era andato a giugno perché apparentemente ammalato, da malattia inguaribile, debitamente confortato dai Sacramenti si addormentò nel Signore all’età di ventisei anni, il 30 luglio 1917.
Così descrive l’avvenimento P. Tormene nel diario della Congregazione: “Sulla sera del 30 un telegramma urgente chiamava il Preposito a Possagno al letto del P. Santacattarina aggravatissimo. Partì colla prima corsa del 31, ma giunto sulla sera a Bassano ebbe notizia che P. Santacattarina era morto la notte del 30 alle ore 11.35 colpito da meningite tubercolare che ce lo tolse dopo soli cinque giorni di febbri con delirio. Era andato a Possagno subito dopo la chiusa dell’anno scolastico, perché da un mese deperiva a vista d’occhio. Malgrado le pronte cure e il miglioramento (si capisce apparente) che diceva di provare nelle due prime settimane di soggiorno a Possagno, il male scoppiò irrimediabile la terza settimana. Era di salute sempre molto malferma, ma una catastrofe così repentina non si poteva prevedere, anzi era stata stabilita la sua fermata a Possagno pel nuovo anno! Il Signore dispose che ci restasse sì, ma nella pace del cimitero di Possagno. Sia fatta la Volontà sempre adorabile e paterna di Dio », commenta P. Tormene, «chiniamo la fronte adorando e accettando tutto dalle sue mani santissime; Dominus dedit, Dominus abstulit, sit nomen Domini benedictum! Egli ama l’Istituto che è suo, ne conosce i bisogni, provvederà: lasciamo fare a Lui ».
Il funerale fu tenuto nel Tempio di Possagno, e poi un’esequie a Venezia in S. Agnese. Fu inumato inizialmente in terra nel cimitero di Possagno; ma nel 1921 quando si acquistarono otto loculi nel sacello per gli ecclesiastici (non ancora finito) nel cimitero stesso di Possagno, si propose e approvò che vi fossero deposte, accanto alla salma del P. Santacattarina, quella di altri nostri religiosi. P. Agostino fu quindi il primo a essere sepolto nella nuova cappella per i sacerdoti nel cimitero di Possagno.
7.10 Novizio Nazzareno De Piante
Di questo giovane seminarista Cavanis, morto in guerra, il necrologio di Congregazione dice brevemente:
“Nato a Aviano, diocesi di Concordia, caro a tutti in modo particolare per l’innocenza dei costumi e segni di pietà, appena indossata la veste clericale della nostra Congregazione, chiamato alle armi, dopo aver con straordinaria fiducia in Dio e sempre infiammato d’amore per la Congregazione sofferti i disagi della guerra, caduto in mano dei nemici, fu travolto dalle acque mentre attraversava il fiume e incontrò la morte a diciannove anni, il 27 luglio 1918.”
Vale la pena tuttavia di aggiungere alla sua biografia che era nato il 25 novembre 1899, che, dopo aver frequentato solo il corso ginnasiale, vestì l’abito della Congregazione con altri cinque postulanti ed entrò con loro in noviziato l’8 dicembre 1916, solennità dell’Immacolata; e il commento del preposito in questa occasione: “Forse mai nella storia dell’Istituto avvenne vestizione sì numerosa!”; e ancora ciò che scrive lo stesso P. Tormene 7 mesi dopo: “Il 26 [luglio 1917] il Preposito passò a Verona a visitare il Novizio soldato De Piante Nazareno. Ospitato dal Reverendissimo Arciprete di Sona con fraterno cordialità – per mezzo di esso il novizio poté avere parecchie ore di licenza il 27 e 28 e 29. Anche con questo buon figliuolo ore deliziose. Del suo buon spirito religioso, pietà edificante e amore al suo Istituto rimase ammirato anche il Revmo Arciprete che col Preposito lo volle ospite in Canonica”.
Il diario riporta notizie di Nazzareno il 18 novembre 1917: “Oggi giunge lettera di Nazareno De Piante in data 13 corr. –Era a due ore da Grisolera prossimo a passar in Iª linea al fuoco: scrive implorando preghiere, chiedendo perdono d’ogni mancanza, assicurando che va a fuoco con fede e calma rassegnazione. Quanta commozione leggendola! Vergine SS. proteggi questo povero figlioletto: conservalo al Tuo Istituto! Di Vianello e Bolzonello nessuna notizia ancora!”
Nazzareno riuscì a fare una capatina in Istituto a Venezia a gennaio 1918: “ 13 – Domenica – Alle 15 arrivò improvviso in licenza di quindici giorni il caro Novizio soldato De Piante Nazareno dal fronte sul Piave. Sta bene, ma che vitaccia! Sempre però la stessa tranquilla serenità e abbandono nelle mani di Dio. Anime innocenti sempre pronte e contente in Dio!” Di un’altra più breve visita di Nazzareno alla comunità a Venezia si parla il 9 marzo 1918.
Il 29 luglio 1918 P. Tormene scrive: “Solo oggi giunse una lettera del 23 [luglio] del Maggior Ricci che ci dà notizia che il nostro caro Nazareno De Piante è disperso. Ciò seppe direttamente dal Comando Supremo. Speriamo sia prigioniero”.
E il 5 agosto: “La posta ci portò stamattina la prima cartolina di De Piante Nazareno prigioniero. È in data I° luglio – stava bene di salute – non ancora mandato a destinazione, ma era in un luogo di concentramento dove sperava di veder presto qualcuno della sua famiglia. Doveva dunque esser ancora in Italia poiché molto probabilmente la sua famiglia è sempre ad Aviano”.
Purtroppo, più avanti, bisogna leggere un testo molto triste, dalla penna di P. Augusto Tormene nel diario di Congregazione, mesi dopo, l’8 novembre, già terminata la guerra:
“Altra corrispondenza giunse a mezzogiorno, ahimè, quanto dolorosa! Il nostro caro, amatissimo Nazzareno De Piante fatto prigioniero il 17 giugno ’18 sul Piave e tenuto ancora in Italia in attesa d’esser mandato in campo di concentramento, il 27 luglio fuggito dal posto di prigionia, annegò nel passare il Tagliamento! Così scrisse Borella che comandato di andare ad Aviano vide la famiglia dei PP. Zamattio e Menegoz e del professo Saveri (che stanno bene benchè prive di tutto) e il povero papà di Nazzareno … Che colpo al nostro cuore! Il caro figliuolo ci aveva scritto in data I luglio, una cartolina, l’unica, che giunse qua il 5 agosto, quand’egli era già morto! Come sia avvenuta la fuga, ancora non sappiamo, ma certo deve esservi stato spinto dai patimenti, dalla fame, dai compagni fuggiti con lui, e dalla speranza di raggiungere e salvarsi presso la sua famiglia che gli era abbastanza vicina.
Noi che conosciamo l’estrema timidezza sua, la sua anima bella, retta, uniformata pienamente alla Volontà di Dio, sofferente per amor di Lui d’ogni sacrificio (e ne ebbe, infatti, a soffrire d’ogni genere nel suo duro periodo di milizia e alle istituzioni e al fronte) non sappiamo pensare alla sua fuga senza intravvedere lo spettro della morte che doveva stare per coglierlo per fame o per patimenti! E Dio pose fine al suo santo soffrire: si, santo, perché Nazzareno era un piccolo Santo, che con ammirevole ingenuità e slancio dell’anima sempre unita a Dio, santificava tutti i suoi giorni, le sue azioni, le sue pene. Ne sono prova le sue lettere edificanti che scrisse numerose dalla caserma, dal campo, dalla trincea.
Noi lo aspettavamo ormai quasi con sicurezza e ci si era aperto il cuore alla fiducia sapendolo prigioniero ma sano! In questi giorni poi, vedendo già ritornare a Venezia prigionieri dall’Austria: e proprio oggi prima di mezzogiorno il Preposito ritornando all’Istituto pensava alla gioja se vi avesse già trovato Nazzareno! Ahimè! Tutt’altro. Sia fatta sempre e in tutto la Volontà di Dio Padre nostro! A noi il dolore, ma a Nazzareno la gioja, la pace, la felicità eterna nel Cielo, dove ha riposo e premio dal 27 luglio. Sì, da quello stesso giorno, si spera, perché quell’anima deve aver spiccato un volo al Cielo. Innocenza di costumi, coscienza timorata, paurosa anche dell’ombra del male, fedele alla sua vocazione con una esattezza quasi scrupolosa delle Regole, semplicità di bambino nei suoi pensieri ed affetti, sviscerato attaccamento al suo Istituto che nel doloroso periodo di lontananza formò il suo anelito continuo e la sua più grande gioja nelle brevi licenze, amore schietto per tutti e per ciascuno in particolare dell’Istituto, per cui era incapace di un giudizio temerario e d’una parola men che caritatevole; umiltà semplice, disinvolta, sincera; obbedienza cieca e talvolta affannosa e confusa; pietà sentita, spontanea, fervorosa, che gli fu sempre naturale e pronta, e nel periodo della milizia un vero bisogno dell’anima che gli traspariva dal volto in atteggiamenti edificanti durante la preghiera e la Comunione (come il Preposito poté ammirare a Sona dove fu a trovarlo il luglio del ’17); ilarità costante dell’aspetto, specchio dello spirito tranquillo, felice della sua vocazione, lieto coi compagni, grato coi Superiori d’ogni loro affabilità e attenzione di cui non andava in cerca, perché modesto, ma che visibilmente gustava in Domino; amore al dovere scolastico fino al sacrificio, lottando colle difficoltà che si presentavano alla sua intelligenza mediocre, riuscendone vincitore col merito di chi vede in tutto la Volontà di Dio e per lui è lieto di faticare con uro sentimento del dovere; queste belle doti e virtù erano il corredo del piccolo Santo che Dio ci donò per poco sulla terra, ma a cara memoria ed edificazione ed esempio più specialmente pel Noviziato, ed ora per sempre Angelo protettore ed intercessore nel Cielo.
Anche fra i suoi compagni di milizia e i suoi Cappellani militari e i Parrochi di Sona e Piombino Dese dove soggiornò con la sua Compagnia, lasciò ammirazione di sè per la bontà, la pietà, la tranquilla rassegnazione in quel santo martirio che fu per lui il penosissimo periodo di vita militare pieno di sofferenza, di pericoli, di vere agonie del corpo e dello spirito: mai da quella bocca un lamento, un’accusa, un’espressione di sdegno! Compatire, sopportare, offrire a Dio, aspirare al suo Noviziato, veder in tutto Dio, sempre Dio: ecco la sintesi delle sue lettere e delle sue conversazioni nell’Istituto durante le licenze.
Aveva solo diciannove anni (era nato il 25/11/1899). Era entrato nell’Istituto il 25-10-1911, e vestito l’abito religioso l’8/12/1916. Fu chiamato alle armi il 28 giugno 1917– O manibus date lilia plenis! Piccolo Santo, piccolo martire, prega per il tuo Istituto che hai amato così teneramente! Chiedi a Gesù che ne mandi altri che ti assomiglino!”
Il 15 settembre 1919, P. Tormene, recatosi ad Aviano a visitare la famiglia del chierico Vincenzo Saveri, la quale aveva gravemente sofferto durante l’invasione, soprattutto per la morte di tre delle figlie, sorelle del nostro chierico, aveva ricevuto di persona altre notizie sulla morte di Nazzareno. Egli, infatti, la sera di lunedì 15, era andato a visitare la “famiglia dell’indimenticabile angioletto Nazareno De Piante. Dalla famiglia seppe che fatto prigioniero sul Piave il 17 giugno 1918 fu condotto a Moggio (Udine). Arrivati a Sacile, alcuni suoi compagni di Aviano e dintorni fuggirono e ripararono alle case loro, e vi fu eccitato anche lui, ma si sentiva già sì debole che rinunziò al tentativo, temendo di non aver forza di resistere nella fuga. Da Moggio la tentò, non si sa se da solo o in compagnia, ma sembra solo. Nell’attraversare il Tagliamento, disgraziatamente si trovò in un punto dove è più larga e profonda la corrente, presso Trasaghis. Là fra le pile del ponte fu trovato cadavere il 27 luglio. Riconosciuto alla targhetta, mentre l’Autorità militare austriaca ne dava notizia alla Famiglia, ebbe funerale nella Chiesa di Trasaghis e sepoltura in quel cimitero col distintivo di una croce.”
Il nome di Nazzareno De Piante si trova al primo posto nella lapide ai caduti nell’androne dell’Istituto di Venezia.
7.11 P. Carlo Simeoni
Nostro sacerdote professo perpetuo, era nato a Borgo di Valsugana (Trento) il 4 settembre 1849, fu insegnante come maestro delle classi elementari per più di quaranta anni con grande pazienza, alacrità, diligenza e giovialità, esemplare modello di uomo religioso, chiamato all’ufficio di definitore, per lungo tempo afflitto e purificato dalla diuturna malattia, chiedendo egli stesso i sacramenti, in punto di morte, e da questi rafforzato, si addormentò nel bacio del Signore il 19 (o piuttosto 21) febbraio 1922.
Il suo corpo attende la beata risurrezione nel cimitero comunale di Venezia. Il 3 maggio 1942 le sue spoglie sono state traslate con quelle di altri confratelli nella cappella funeraria dell’Istituto nella chiesa di S. Cristoforo, nello stesso cimitero comunale di S. Michele in isola.
Entrò in Istituto il 30 ottobre 1868. Lo troviamo però tra i seminaristi nel piccolo seminario di Possagno, istituito nel 1860, dove era certamente negli anni 1868 e 1869 incompleto, e da dove, assieme ad altri seminaristi e confratelli, dovette portarsi a Venezia quando si chiuse la casa di Possagno, il 19 ottobre 1869. A Venezia vestì l’abito dell’Istituto il 14 dicembre 1872 ed emise i voti il 20 gennaio 1874 e non si sa dove ricevette la tonsura clericale il 30 maggio 1864.
Rimane con ogni probabilità a Venezia dopo il 1869; la sua presenza come seminarista a Venezia è sicura dal 1871 al 1874. Nell’autunno del 1874 passò, ancora seminarista, probabilmente già professo e tonsurato, a Lendinara, dove rimase dal 1874 al 1879.
Fu così ad Adria, diocesi nel cui territorio si trovava Lendinara, e da quel vescovo diocesano molto cordiale con l’Istituto Cavanis, mons. Emmanuele Kaubeck, che ricevette il suddiaconato il 19 settembre 1874, il diaconato il 20 febbraio 1875 e l’ordinazione presbiterale il 13 marzo della stesso anno. Nel 1894, con le nuove regole, deve aver pronunciato i voti perpetui assieme agli altri confratelli.
A Lendinara insegnò, come per tutta la vita, alle elementari. Aveva, infatti, il diploma o abilitazione per l’insegnamento nelle elementari inferiori. Tale abilitazione non gli fu riconosciuta nel 1877 (o piuttosto non fu riconosciuta per inimicizia verso l’Istituto Cavanis di Lendinara, dal provveditorato di Rovigo), con il pretesto che era “tirolese”, cioè trentino e quindi cittadino austro-ungarico. Ci fu una lunga serie di ricorsi, fino a Roma e al re, ma su questo si veda la storia della casa di Lendinara, nella sua seconda fase. A Lendinara ricevette probabilmente gli ordini minori, poi il diaconato (nel 1875 o 1876) e l’ordinazione presbiterale (nel 1877 o 1878).
Dopo il 1879 molto probabilmente è a Venezia (certamente dal 1891), dove continua a insegnare alle elementari, e la sua salute si va gradualmente indebolendo. Fu eletto discreto (cioè delegato) della comunità di Venezia per il capitolo generale del 1894. Come tale, P. Carlo Simeoni, con imbarazzo presentò al capitolo una lettera in cui comunicava che i membri della casa di Venezia non presentavano alcuna proposta, perché stanchi di presentare ai capitoli e ai visitatori proposte che non trovavano alcun riscontro. Il commento fu contestato da P. Casara.
Fu eletto ripetutamente definitore generale dal 1907 al 1920: quarto definitore nel periodo 1907 al 1909; primo definitore e vicario della Congregazione e della comunità di Venezia nel periodo 1909-1913; secondo definitore nel 1913-1917; terzo definitore nel 1917-1919.
Fu poi vicario della comunità di Venezia dal 1919 al 1922, cioè fino alla sua morte, avvenuta, come si è detto, il 19 febbraio 1922. Non era tuttavia anche vicario generale della Congregazione, perché in questi anni non era definitore; e vicario generale risulta essere P. Antonio Dalla Venezia negli anni 1920-1922 e P. Giovanni Rizzardo dal 1922 al 1925.
Il Diario di Congregazione al 19 febbraio 1922 registra che “Il P. Carlo Simeoni, da anni sofferente di bronchite cronica, fin da ieri ebbe un rincrudimento del suo male. Fu chiamato stamattina il medico, che ordinò alcuni rimedii e che non lo si lasciasse solo. Il caro padre nel tempo del nostro teatrino [era carnevale!] volle confessarsi, ricevere il Viatico, ed anche l’Estrema Unzione. Iddio lo conservi ancora!” E il giorno seguente: “Pur troppo il P. Carlo è morto! È morto da Santo domandando perdono a tutta la Comunità delle sue mancanze. Gli abbiamo raccomandato l’anima in camera, ed in Oratorio dopo il S. Rosario. Quanto avea patito col suo male cronico! Come ha fatto il suo Purgatorio quaggiù! – Il P. Vicario gli ha dato la Benedizione Papale”. Il diario in seguito svolge la lunga descrizione del funerale, celebrato il 21 febbraio 1922.
Il primo numero della nuova rivista Charitas, comunicando la sua morte, scrive “P. Carlo Simeoni, ultimo anello di congiunzione coi vecchi Padri che avevano appartenuto all’età dei Fondatori”.
7.12 P. Arturo Zanon
Nato a Venezia il 28 dicembre 1876, era fratello minore del P. Francesco Saverio. Il necrologio della Congregazione dice di lui: “Impegnato assiduamente agli esercizi di pietà colto da inesorabile malattia, dopo diuturni dolori, confortato dai Sacramenti, riposò nella pace del Signore, a quarantasei anni d’età, a Possagno nella casa della Congregazione, morendo il 7 maggio 1922. Il suo corpo fu sepolto nel cimitero locale nella cappella costruita per i sacerdoti.”.
Arturo era nato dunque a Venezia, e più esattamente nella parrocchia di S. Pietro di Castello, il 28 dicembre 1876; dopo gli studi ginnasiali e liceali, aveva compiuto studi universitari di matematica all’università di Padova dove si era laureato, e nel frattempo era stato assunto come professore (probabilmente della stessa materia) al collegio Canova di Possagno, dove risulta presente almeno nel 1901. Nella sua busta personale di documenti si trova un certificato di “Nomina ad assistente onorario gratuito” ossia “Assistente onorario del Regio Osservatorio di Catania ed Etneo” da parte della Regia Università degli Studi di Catania. Era insomma uno scienziato.
Più tardi era entrato nella Congregazione come aspirante il 2 luglio 1906, già adulto e professore; vestì l’abito dell’Istituto l’8 dicembre 1906, solennità dell’Immacolata; emise la professione temporanea il 17 luglio 1908 e la perpetua a S. Agnese a Venezia il 23 luglio 1911, durante un oratorio autunnale (dice il testo del diario, per abitudine, per significare un oratorio ad libitum, cioè non obbligatorio, come avveniva durante le grandi vacanze. Il testo dice “autunnale” perché anticamente le vacanze si facevano piuttosto in autunno che in estate; anche se in realtà nel novecento si trattava di stagione estiva), frequentato da pochi alunni, durante le grandi vacanze estive.
Arturo ricevette insieme la tonsura e i quattro ordini minori, in un’unica soluzione, il 19 dicembre 1908. Nella cappella del Patriarchio di Venezia ricevette dal Patriarca il suddiaconato, assieme a P. Agostino Santacattarina, il 23 dicembre 1911; il diaconato analogamente, e assieme al P. Enrico Perazzolli, il 6 aprile 1912. Fu infine ordinato presbitero nella basilica della Salute dal Patriarca Aristide Cavallari il 25 luglio 1912.
Si parla poco di lui nelle pagine del diario e negli altri documenti dell’Istituto. Certamente non ebbe lo spicco del fratello maggiore p. Francesco Saverio. Lo troviamo nella casa di Venezia dal 1914 al 1921; con ogni probabilità aveva ricevuto a Venezia tutta la sua formazione iniziale, e vi era stato da sacerdote anche dal 1912 al 1914, anche se non risulta dai documenti. In seguito lo troviamo a Possagno nel 1921-1922, anno, quest’ultimo, della sua morte.
Nel 1916 si era temuto che potesse essere chiamato alle armi, nel secondo anno di guerra, a 40 anni, dato che si chiamavano i suoi coetanei o “coscritti”, i nati del 1876. Per evitargli la ferma, fu nominato (formalmente e per benevolenza del Patriarca e della curia) cappellano di S. Pietro di Castello, la sua parrocchia di origine.
Nel capitolo generale del 1919. nella quinta sessione, del pomeriggio del 1° agosto, a partire dalla lettura della relazione del discreto di Venezia, “dolorosamente” unanime, il capitolo prende la decisione che il P. Arturo Zanon, che “produce danni sempre più gravi nell’organismo della scuola”, deve lasciare il ministero della scuola. E così fu fatto.
Nel 1921 svolse studi sulla copertura antica e sullatarsia affrescata nella parte alta delle pareti laterali della navata centrale nella chiesa di S. Agnese, allora nascosti dalla volta barocca.
Il diario, l’8 giugno 1920, ci fornisce un dato che ci spiega molti aspetti della sua presenza-assenza in Congregazione: “Stasera alle 22 parte per Solbiate Comasco P. Arturo Zanon che volle andare in quella Casa di Salute dei Fatebenefratelli d’intesa col Card. Patriarca a cui ricorse credendosi bisognoso di ritirarsi in un luogo di cura fuori dell’Istituto. Il Preposito, per minor male, si adattò alla proposta del Patriarca. Il povero Confratello forse da qualche anno ha perduto la vocazione, o è sotto l’influenza di neurostenia: però rimane Religioso dell’Istituto, benché a Solbiate vada a fungere da Cappellano in quella Casa di Salute senza termine di tempo. Il Signore ci benedica e ci risani!”. P. Arturo ritornò all’improvviso in comunità a Venezia l’8 (?) dicembre 1920, dopo varie lettere, in una delle quali quasi si congedava dalla Congregazione in modo definitivo. I superiori a novembre avevano ricevuto anche una lettera dal superiore della Casa di Salute di Solbiate, in cui questi invitava il preposito a richiamare in confratello in comunità. Evidentemente non lo sopportavano più. P. Arturo dunque ritornò, senza dare spiegazioni, e rimase chiuso e riservato con tutti come era prima di partire. A quanto pare rimase così fino alla sua morte prematura nel 1922. Di lui e della sua malattia si parla il 24 marzo 1922: “P. Zamattio scrive [da Possagno] che la mattina del 22 P. Arturo Zanon ha perduto affatto la conoscenza e fece stranezze”; e ancora il 6 aprile.
P. Arturo entrò in agonia un giorno o due prima del 5 maggio 1922 e morì l’8 seguente: 8 maggio 1922. In questa data, P. Antonio Dalla Venezia, superiore generale interino, annuncia nel diario: “Ci arriva un telegramma da Possagno annunziante la morte del P. Arturo Zanon. Ebbe un lungo decubito dal 22 marzo, che l’aveva reso, poverino! un cadavere spirante. Nel N. (sic) straordinario dell’Aurora, nell’occasione della Festa dell’Incoronazione della [Madonna della] Salute, avea in un erudito articolo inneggiato alla Vergine”. I funerali furono celebrati il 9 maggio.
7.13 P. Mario Miotello
Nato a Padova il 15 agosto 1899, nostro sacerdote professo perpetuo, carissimo a tutti, morto giovanissimo. Mario era entrato come convittore, da ragazzino, nel Collegio Canova di Possagno, e il 27 agosto 1916, diciassettenne, chiese di poter entrare come seminarista aspirante in Istituto. La sua richiesta venne accolta ed egli entrò di fatto nel probandato il 6 ottobre dello stesso anno, all’inizio dell’anno scolastico. Vestì l’abito dell’Istituto a Venezia, davanti alla scolaresca, il 21 novembre 1917 nel giorno della festa della Madonna della Salute, e così iniziò il suo noviziato. Questo fu interrotto brevemente dal richiamo al servizio militare – si era poi in tempo di guerra, la prima grande guerra mondiale -, ma rimase sotto le armi soltanto dal 18 maggio al 26 giugno (circa) 1918, quando per malattia fu dichiarato “rividibile” (sic), dopo essere passato per vari ospedali militari per pleurite e vari inghippi, e potè ritornare in comunità. Sembra che sia rimasto poi sempre gracile e debole.
Notevole il suo viaggio di ritorno a tappe in comunità: essendo stato rilasciato dall’esercito in prossimità di Alessandria, avutone il permesso del preposito, passò a salutare i confratelli a Tortona, con i quali passò due giorni; andò poi a Piacenza a trovare il confratello G.B. Piasentini, militare in quella città e con lui rimase un giorno; al ritorno passò per Padova e fu alla basilica del Santo per ringraziare S. Antonio, al quale evidentemente si era raccomandato per avere la grazia di rientrare in comunità; e raggiunse poi la comunità a Venezia per riprendere il suo noviziato il 2 luglio 1918 alle 18.30. Rifece il noviziato, che era stato interrotto, e professò i voti temporanei il 2 luglio 1919. Compiuti poi gli studi umanistici liceali – questi ultimi sostituiti positivamente da un esame suppletivo per ex-militari, sostenuto a Novi Ligure (Alessandria), con l’appoggio degli Orionini e di don Luigi Orione personalmente – e teologici a Venezia in Istituto, professò i voti perpetui il 2 luglio 1922; ricevette la tonsura a Venezia dal Card. Patriarca La Fontaine il 14 dicembre 1922; i primi due ordini minori, dalla stesso porporato il 21 dicembre 1922 e il 23 dicembre gli altri due ordini minori . Fu ordinato suddiacono a Venezia il 12 aprile 1924, sabato sitientes, assieme ai confratelli Pellegrino Bolzonello e Giovanni Battista Piasentini. Gli stessi tre religiosi furono ordinati diaconi nella chiesa di S. Salvador a Venezia il 14 giugno 1924.
Infine gli stessi ricevettero l’ordinazione presbiterale dal Patriarca La Fontaine il 22 giugno 1924, nella chiesa di S. Agnese.
P. Mario era particolarmente caro ai fanciulli che accoglieva con straordinaria dolcezza. Grande innamorato della Vergine, iscritto fin da ragazzo alla Congregazione Mariana di Possagno, avendo appena gustato i gaudii sacerdotali del sacro altare, consumato dalla tisi morì a Venezia, nell’ospedale di Sacca Sessola, il 7 ottobre 1924, avendo iniziato da poco il venticinquesimo anno di età.
Anche in ospedale, lasciò mirabili esempi di pazienza e di pietà verso Dio a tutti coloro che lo assistevano nella malattia, bramando ardentemente il Paradiso. Il Preposito, P. Zamattio, andato a trovarlo il 3 ottobre 1924, “lo trovò sempre gravissimo ed ebbe il conforto di dargli la S. Comunione. Le disposizioni di spirito del povero Padre sono edificanti: rassegnato in tutto alla Volontà di Dio, paziente, senza esigenze ha destato l’ammirazione delle Suore, infermieri e del P. Cappellano. Richiesto dal Preposito se desiderava guarire, rispose di sì per darsi tutto a Dio e far del bene alle anime…del resto accetterà quello che a Lui piace”.
Il giorno 7 ottobre P. Zamattio scrive: “Questa mattina alle 6 ¼ spirava la bell’anima del P. Mario Miotello. Ieri sera volle ricevere la S. Comunione e prima alla presenza della Madre sua, del P. Cappellano, della Superiora e degli infermieri volle fare una pubblica confessione, chiedendo perdono a tutti. Passò la notte abbastanza tranquillo, e si addormentò nel Signore, [il 7 ottobre 1924], assistito da due sacerdoti. Ha lasciato un grande vuoto in mezzo a noi, ma egli manterrà la promessa di pregare per la nostra povera Congregazione e attirerà sopra di essa grazie migliori che la sua guarigione da noi tanto desiderata e tanto implorata. Accolto convittore a Possagno nelle elementari, e percorso regolarmente i suoi studi, distinguendosi specialmente nella pietà, fu uno dei primi a far parte della Congregazione Mariana di Possagno”.
Un’altra fonte, il necrologio, dice, con due interessanti varianti, che, “rinnovati per devozione i voti, si addormentò piamente nel Signore nel giorno dedicato alla Vergine del Rosario, come era nato nel giorno della assunzione della Vergine al cielo”.
I funerali si tennero l’8 ottobre a S. Agnese. La sua salma fu sepolta nel campo per gli ecclesiastici e i religiosi nel cimitero civile di Venezia; circa diciotto anni dopo, nel 1942, le sue ossa furono raccolte, assieme a quelle di altri confratelli, e sistemate nella cappella funeraria dell’Istituto Cavanis nella Cappella di S. Cristoforo.
Da notare che, almeno nei momenti più critici, ma forse come sistema, ogni giorno uno dei padri andava a Secca Sessola a trovare i nostri ammalati. Era senza dubbio una missione preziosa, ma anche pericolosa, e senza dubbio molto generosa.
7.14 P. Michele Marini
Normalmente non diamo in questo libro, con rare eccezioni interessanti, la biografia dei religiosi che hanno lasciato la congregazione; ci sono già quasi 200 biografie nel libro, dei religiosi che hanno perseverato fino alla fine, e se si dovessero aggiungere tutte quelle dei confratelli che per un motivo o l’altro hanno lasciato l’Istituto, la cosa diventerebbe eccezionalmente ampia. Di P. Michele Marini, di cui si parlerà spesso qua e là, non si può dare una biografia completa, dato che ha lasciato la congregazione nel 1887 e non sappiamo praticamente niente di lui dopo la sua uscita, e anche perché nell’occasione della sua partenza definitiva ha portato con sé, naturalmente, molti suoi documenti, specialmente quelli relativi agli ordini minori e maggiori, le sue testimoniali e altri. Ci sembra però che sia utile dare una biografia di questi due religiosi, Michele Marini e Giuseppe Miorelli, che tanta parte, in bene e in male, hanno dato alla dinamica interna della vita della Congregazione soprattutto negli anni ’80 del secolo XIX.
Michele era nato a Bassano (ora Bassano del Grappa, provincia e diocesi di Vicenza), il 21 gennaio 1844. Tra parentesi, è molto strano che il libro di matricola della congregazione, di mano di P. Marco Cavanis fino quasi alla sua morte, poi continuato fino agli anni ’70 del secolo XIX, non riporti la data di entrata in Istituto né di uscita né altri dati relativi ai due padri, ambedue usciti di congregazione, a breve distanza di tempo e più o meno per gli stessi motivi, P. Michele Marini e P. Giuseppe Miorelli. In qualche modo forse si è fatto di loro una certa damnatio memoriae. Ma la loro assenza da questo libro di matricola non può certamente dipendere dalla loro uscita, dato che molti usciti sono regolarmente registrati e, come ovvio, dato che si tratta di un libro che registra prima di tutto l’entrata nella convivenza (nel caso specifico, non necessariamente e non sempre come seminaristi), e quindi l’eventuale uscita non può essere prevista al momento della registrazione dell’entrata. Marini entrò in Congregazione il 3 novembre 1862, fu seminarista a Possagno nel seminario iniziato nel 1860, vestì l’abito religioso dei Cavanis il 17 febbraio 1863, e quindi visse per due anni l’esperienza del noviziato a Possagno, avendo come maestro P. Domenico Sapori e come compagni tra l’altro Giovanni Battista Larese, e i fratelli Giacometto Barbaro, Francesco Lutteri e Pietro Sighel. Dopo due anni, come era di regola prima del 1894 per i candidati chierici, mentre i suoi confratelli fratelli laici rimanevano un altr’anno (tre anni in tutto), egli fu ammesso dagli esaminatori e quindi dal preposito ad emettere i voti il 12 febbraio 1865, con 4 voti favorevoli su 5. Deve aver emesso la professione poco dopo questa data. Si faceva notare, in questa occasione, nei verbali di queste riunioni esaminatrici, che il suo carattere era riservato e solitario, peraltro obbediente.
Da chierico, e poi anche da padre, insegnava nelle scuole elementari.
Fu ordinato diacono a Padova il sabato 12 marzo 1870 e presbitero in data ancora incerta, ma comunque precedente al 11 agosto 1871, quando era sicuramente già prete; più probabilmente nel 1871, essendo stato ordinato diacono nel 1870.
L’11 agosto 1878 la comunità di Venezia si riunì alla sera, assente il Marini dato che si doveva decidere a suo riguardo; e presenti gli altri 10 sacerdoti della comunità di Venezia, in riunione presieduta dal preposito P. Sebastiano Casara. Si trattava di decidere se costituire il patrimonio ecclesiastico del P. Marini, che finora era stato ordinato “per privilegio apostolico “titulo servitii Ecclesiae”, essendo questa chiesa, come spiega il verbale suddetto, la chiesa di S. Agnese. Era naturalmente un titolo fittizio. Si voleva ora applicare a lui un legato di lire italiane 7.000 ricevuto pochi giorni prima, come patrimonio autentico e sonante al P. Marini. P. Casara pose ai voti la cosa, e Marini ottenne 10 voti su 10, e gli fu quindi intitolato il legato come patrimonio ecclesiastico. Questo è un segno di stima, tra l’altro, da parte della comunità di Venezia e del preposito come proponente.
Come si vedrà, tuttavia, dopo questo fatto, il suo carattere ombroso lo portò a vari e poi progressivamente gravi scontri con i superiori, particolarmente con P. Casara nei primi anni ’80 e con il successivo preposito, P. Domenico Sapori e con i confratelli; sia su questioni di carattere politico (il risorgimento italiano) sia sulla questione del sistema rosminiano, sia soprattutto sulla riforma e sul completamento delle costituzioni, su cui stavano da tempo lavorando P. Casara e dopo di lui P. Sapori. A parte la sistematica opposizione ai due successivi prepositi generali, Michele Marini, come P. Giuseppe Miorelli, li mise più volte in imbarazzo, sparlando di loro, accusandoli e calunniandoli al Patriarca Agostini e mettendo in difficoltà il processo di redazione delle costituzioni (seconda parte, sul governo, i capitoli, le elezioni, la formazione, l’amministrazione ecc.) e la loro desiderata approvazione da parte della santa Sede. Il gruppo Miorelli, Marini e un po’ meno Giambattista Larese e molto meno Carlo Simeoni nella loro giovinezza, contribuirono abbondantemente alle definitive dimissioni di P. Sebastiano Casara nel 1885. P. Domenico Sapori commenta nel diario di Congregazione: “D.[on] Michele Marini stamane partì allontanandosi dall’Istituto anche fisicamente, che di spirito n’era distaccato da gran tempo: Iddio gli perdoni tante amarezze da lui arrecate alla nostra povera Congregazione. A questa Curia [patriarcale di Venezia, N.d.A.] notifico il doloroso avvenuto, restando egli alla medesima soggetto. E il giorno dopo, 5 luglio: “Il sudd.o Marini scrive una lettera al Superiore, onde gli manda perdono, come pure ad altri offesi da lui con tante impertinenze.”
Come nel caso di Giuseppe Miorelli, venne poi l’aspetto economico: il 25 luglio troviamo nel DC a p. 207: “Il padre (=papà) di don Michele domanda ragione di lire 2000 consegnate all’Istituto un 23 anni sono (=or sono; in realtà 25) per costituire parte del Patrimonio a suo figlio.
Gli rispondo, che investite in Cartelle turche (buoni del tesoro dell’Impero Ottomano, che erano stati deprezzati) toccavano la sorte comune: restano lire 800: venga o le mandi a riscuotere, quando li aggrada. Sopra questo affare e sulla pensione governativa spettante al detto Marini venne dato un Voto dal M.R.P. Casara, il quale desidera che conservi la memoria.”
In seguito “Il sudd.o Marini scrisse una lettera al Superiore, onde gli manda (sic) perdono, come pure ad altri offesi da lui con tante impertinenze”.
Non conosciamo il resto della sua vita, e ignoriamo per ora la data della sua morte. Si suppone che sia rimasto prete diocesano. Salvo incidenti, dovrebbe essere mancato ai vivi verso gli anni ‘20 o ‘30 del secolo XX, essendo nato nel 1844.
7.15 P. Giuseppe Miorelli, nella storia della Congregazione delle Scuole di Carità e poi nella storia della Diocesi di Adria
Come si diceva sopra per P. Michele Marini, normalmente non si sono redatte le biografie di religiosi Cavanis che hanno lasciato la Congregazione. La figura complessa di P. Giuseppe Miorelli, poi don Giuseppe Miorelli, prete diocesano, ha una sua importanza nella storia della Congregazione; la sua opposizione ai due prepositi P. Casara prima e P. Sapori poi, in genere presentata in modo del tutto negativo in congregazione, dovrebbe essere ristudiata criticamente in dettaglio – cosa non facile ma probabilmente utile –; la seconda parte della sua vita, quella di un prete secolare impegnato nel sociale, oltre che nella vita strettamente pastorale, fa poi onore a lui e alla Congregazione. Eccola.
Nascita, patria e famiglia
Giuseppe Miorelli nacque a “Bolognano in Tirolo” (ora Trentino) il 2 giugno 1845. Bolognano è una frazione di Arco (Tn), sita ai piedi del monte Stivo. La frazione confina con i paesi di, in senso orario da nord ad ovest, Massone, il comune di Ronzo-Chienis, Vignole, Pratosaiano e Caneve. Bolognano ha attualmente poco più di 2.000 abitanti (2.102 nel censimento 2011). Giuseppe vive ad Arco (TN) nella sua infanzia e gioventù, fino all’inizio della sua vita di seminarista e poi di sacerdote religioso Cavanis. Arco è attualmente (2018) la quarta città del Trentino, per numero di abitanti (17.588 nel 2017), dopo Trento, Rovereto e Pergine Valsugana. Arco fa parte oggi della Comunità Alto Garda e Ledro.
Dopo l’uscita dalla congregazione nel 1886, probabilmente ritornò brevemente ad Arco, per poi stabilirsi a Molinella di Lendinara (Ro), nella diocesi di Adria fin dal 1887 (forse fin dalla fine del 1886) e vi rimase fino al 1909 (vedi sotto); si ritirò poi ad Arco, sua cittadina natale, dove morì nel 1929.
Al momento dell’entrata in congregazione, che deve essere avvenuta dopo il 24 agosto 1863 e prima dell’8 novembre 1863, Giuseppe era orfano di suo padre, Bortolo Miorelli, ed era minorenne, a quanto pare secondo la legge austriaca, pur avendo 18 anni compiuti; egli era figlio del fu Bortolo Miorelli e di Domenica Chissé, rimasta vedova, e rimaritata con Bortolo Martinelli di Bolognano di Arco. Giuseppe aveva avuto due fratelli maschi: Giovanni e Baldassare, già defunti nel 1863; e inoltre aveva la sorella Teresa. L’asse ereditario del defunto Bortolo Miorelli consisteva in fiorini 347,44 e ½, e consisteva nella casa di abitazione e due altri stabili, valutati insieme in fiorini 1065,43; dal valore di questi tre edifici era stata detratta una passività (debiti) di 721,58 ½ e probabilmente un piccolo diritto notarile. Dell’asse ereditario, così modesto, “si spetta la porzione di legge alla madre Ved.va Domenica”. Restava ben poco, da dividersi tra Giuseppe e Teresa, i due figli ancora viventi.
Il buon arciprete di Arco, P. Giovanni Dall’Armi, scrive l’8 novembre 1863 al preposito generale dell’Istituto Cavanis, che allora per un triennio (1° settembre 1863-1° settembre 1866) era il P. Giovanni Battista Traiber, zoldano, che: “giusto il convenuto io deposito nelle di Lei mani due pezzi da 20 franchi l’uno dei quali potrà servire per completare eventualmente il suo [di Giuseppe Miorelli, N.d.A.] attuale vestito se mancasse qualche capo necessario e per altri piccoli bisogni, l’altro per fare il viaggio di ritorno se mai il giovane non potesse per qualunque causa perseverare nella vocazione e nella Congregazione; nel qual caso Ella vorrà aver la bontà di indirizzarlo a me in Arco, ed io lo prenderò di nuovo in consegna. Per riguardo al di lui patrimonio [ecclesiastico, N.d.A.] io mi impegno per quanto posso a cercare che venga realizzato, depurato ed assicurato onde così salvare la di lui facoltà al giovane in qualunque occorrenza e di metterlo poscia a disposizione di codesta Religiosa congregazione”. Non risulta ma non si esclude che la cosa abbia poi avuto seguito. Ne segue però che, a parte questo piccolo contributo per le prime spese, come quasi sempre accadeva, i venerabili Fratelli Cavanis con ogni probabilità abbiano dovuto sobbarcarsi la costituzione del patrimonio ecclesiastico del giovane candidato allo stato di prete, cosa che molte volte facevano grazie a ricche elemosine, ricevute spesso dall’imperatrice austriaca moglie o madre dell’imperatore regnante o da altri benefattori; altre volte costituivano il patrimonio in modo quasi fittizio, ma con pericolo per i loro beni, cioè sulla base di ipoteche degli edifici di proprietà della loro famiglia o della loro congregazione. Non abbiamo e non possiamo avere in archivio la cartella di documenti relativi a tale patrimonio ecclesiastico, perché P. Giuseppe Miorelli l’avrà portata naturalmente con sé, perché aveva bisogno del suo patrimonio (e delle relative prove documentarie) anche incardinandosi nella diocesi di Adria. Si dovrebbe cercare nel suo archivio personale, forse affluito all’archivio diocesano di Adria-Rovigo (nel 1883 ancora con il nome antico di diocesi di Adria).
Entrata in Congregazione e formazione
Non conosciamo la data esatta dell’entrata in Congregazione del giovane Giuseppe, ma essa deve essere accaduta nell’autunno 1869, attorno ai primi di novembre, dato che il 3 novembre 1863 il parroco di Arco versa alla comunità Cavanis i due pezzi di 20 franchi per l’abito e per le prime spese o per l’eventuale viaggio di ritorno a casa, e dato che risulta che egli sia andato a Lendinara, in compagnia del padre Gianfrancesco Mihator, all’inizio dello stesso novembre, probabilmente partendo da Venezia.
Come numerosi altri giovani trentini, Giuseppe Miorelli era dunque entrato nella Congregazione delle Scuole di Carità.
La presenza del giovane Giuseppe Miorelli in Istituto al momento della sua entrata e almeno per un anno, doveva essere quella di semplice aspirante, non ancora di studente o di novizio, anche se era chiaro che si presentava come candidato non solo alla vita religiosa ma anche al presbiterato; pertanto non fu subito annotato nelle liste annuali dei membri della Congregazione, che il preposito doveva far pervenire alle autorità civili e a quelle religiose; il suo nome non consta per esempio nella “Tabella indicante lo stato personale della Congregazione delle Scuole di Carità dal 1° novembre 1864 a tutto ottobre 1865”, quando egli con certezza era già in Istituto, ma senza esserne membro legale. Si trova invece per la prima volta il suo nome nella “Tabella indicante lo stato personale della Congregazione delle Scuole di Carità dal 1° novembre 1865 a tutto ottobre 1866”, nella quale tabella Giuseppe si trova all’ultimo posto della lista, con la definizione di “studente” ossia di candidato agli studi ecclesiastici e agli ordini sacri; ma il suo nome risulta in questa tabella dopo la lista dei fratelli laici, come ultimo arrivato.
Vestizione, noviziato e professione
Dopo il capitolo provinciale del 1° settembre 1863, celebrato a Venezia, in cui era stato eletto preposito P. Giovanni Battista Traiber, che era stato da tempo rettore della casa di Lendinara, quella comunità era costituita così: i padri Pietro Spernich; Giuseppe Bassi come rettore; Vincenzo Brizzi, il P. Giovanni Fanton dopo il 21 ottobre 1863, il seminarista o diacono Giovanni Ghezzo e i fratelli laici Pietro Rossi e Francesco Avi. Con sette membri, questa è la comunità più numerosa di questa casa dalla sua fondazione. Inoltre all’inizio di novembre era stato mandato da Venezia anche P. Gianfrancesco Mihator che vi accompagnava l’aspirante Giuseppe Miorelli. Non è sicuro se vi sia stato inviato approfittando del viaggio di P. Gianfrancesco Mihator per compiervi una visita o una gita, oppure per rimanervi. Sembra però più probabile che sia stata una presenza passeggera, e che l’aspirante sia ritornato a Venezia.
Lo troviamo infatti come postulante a Venezia dalla fine del 1863 al 1864; poi come novizio a Possagno dall’8 dicembre 1864 al settembre (molto probabilmente) 1965, quando continua il noviziato (il secondo anno) a Venezia, con un noviziato piuttosto prolungato, per l’incertezza sull’autenticità della sua vocazione, e lo troviamo ancora a Venezia fino all’estate 1867: in seguito è a Lendinara dal 1867 al 1870, anno in cui è ordinato presbitero.
Il tempo della sua formazione religiosa e clericale e la sua ordinazione presbiterale meritano qualche dato concreto, e questi dati dipendono fondamentalmente dai verbali dei periodici (e numerosi) esami cui erano sottomessi, secondo i costumi dell’epoca e le regole imposte dalla santa Sede, i postulanti per ottenere la vestizione religiosa, ed erano due esami; e dei periodici esami cui erano sottoposti i novizi (ed erano esami trimestrali per due anni di noviziato, quindi dovevano essere otto esami). Esistevano all’uopo numerosi esaminatori eletti nei capitoli provinciali. Tale prassi valse almeno fino al 1891, quando furono approvate le nuove regole.
Intanto, il 14 ottobre 1864 P. Casara scrive del DC: “Si scrive al Rev.do D. Giovanni Dall’Armi, Arciprete-Decano in Arco, pregandolo di procurarci la Testimoniale pel giovane Giuseppe Miorelli”. E il 27 ottobre successivo annota che l’arciprete risponde che spera poter ottenere e inviare al più presto quel documento.
Il primo esame per l’ammissione alla vestizione del Miorelli fu tenuto a Venezia il 24 novembre 1864; il secondo pure a Possagno il 2 dicembre 1864. Si riporta di seguito il testo completo di quest’ultimo documento, per avere una idea anche degli altri:
Prot. n° 155/15 del 1864
J.M.J
Congregazione delle Scuole di Carità in Possagno
Questo giorno 2 Decembre 1864
Secondo Esame per l’ammissione all’abito nostro
Del giovane Giuseppe Miorelli come chierico
Giusta il venerato Decreto della Sacra Congregazione sopra lo stato dei Regolari del giorno 25 gennaio 1848 i sottoscritti Esaminatori provli [=provinciali] raccoltisi in Capitolo sotto la presidenza del M.R.P. Preposito assente, e recitate da prima le solite preci, prestarono sopra i Santi Vangeli il giuramento prescritto.
Esaminarono quindi le carte e i Documenti presentati e quando venne operato nel primo Esame fatto a Venezia per l’ammissione del giovane postulante suddetto. E avendo trovati i sottoscritti che nulla manca di quanto prescrivono le pontificie ordinazioni sia riguardo all’operato del primo Scrutinio sia riguardo alle qualità e condizioni del postulante, vennero a votazione secreta ed apertosi il voto sigillato del P. Preposito, risultarono suffragi favorevoli 4 – Contrari – Nessuno.
Scioltosi il Capitolo dopo la recita delle consuete orazioni sottoscrissero il presente Atto verbale.
P. Giambattista Traiber [=preposito]
P. Giuseppe Bassi [=rettore della comunità di Possagno, esaminatore]
P. Giuseppe Da Col [=parroco di Possagno, esaminatore]
P. Domenico Sapori [=maestro dei novizi, esaminatore]
Timbro della Congregazione delle Scuole di Carità in Possagno
Nel DC il 5 dicembre 1864 P. Casara annota i due atti di cui sopra compiuti per la vestizione di Giuseppe Miorelli e si dice che il secondo esame vale di “revisione e approvazione del primo”.
La vestizione era stata dunque approvata, e si realizzò a Possagno l’8 dicembre 1864, solennità dell’Immacolata. In effetti, nel DC si trova in data 9 dicembre 1864: “Ieri a Possagno fu ammesso all’abito e al noviziato come studente il giovane Giuseppe Miorelli”.
Il primo anno di noviziato si svolse a Possagno e il maestro dei novizi era il P. Domenico Sapori; questi scrive al preposito il 7 febbraio 1865 una prima relazione trimestrale sul novizio Miorelli, dove dice: “L’osservo infatti ubbidiente divoto e pio; inoltre dotato di molta capacità pel nostro ministero delle Scuole. Riguardo al fisico soffre egli di qualche cosa di tosse, ma non sembra tale da mettere timore di tristo avvenire”.
Nella seconda relazione trimestrale, del 7 giugno 1865 il maestro dei novizi scrive: “…il giovane Miorelli Giuseppe progredisce ognor più nel bene, dimostrando in parole ed in opere vivo spirito religioso, ubbidiente, e tutto amore per la nostra diletta Congregazione”. Riguardo poi a salute sta molto meglio, non però perfettamente ristabilito”.
La quarta relazione trimestrale (manca la terza tra i documenti) è redatta l’8 dicembre 1865, alla fine del primo anno di noviziato, non da P. Domenico Sapori come le precedenti, maestro dei novizi, ma dal buon P. Giuseppe Rovigo, fine formatore, che apparteneva alla comunità di Venezia; il che significa che Giuseppe Miorelli (dal settembre 1865) era passato a continuare il noviziato a Venezia e che P. Rovigo è divenuto il suo maestro dei novizi. Scrive quest’ultimo: “Da quanto ho potuto osservare io e mi viene riferito, egli è quale si tiene comunemente, dotato di molta saviezza, pieghevole; che non fa lamenti né scuse quando gli si ingiunge o raccomanda qualche cosa. Nella pietà pure è esemplare. Si adopera quanto può con impegno volentieri quando è tra gli scolari; asserisce di essere contentissimo della sua vocazione, fermo di perseverare e disposto a legarvisi coi santi voti.
Quanto alla salute, molto incerta in addietro, ora apparisce migliorata, ed egli stesso dice di sentirsi ognor meglio”.
Lo stesso P. Rovigo, nella quinta relazione, del’8 marzo 1866, scrive: “In complesso la sua condotta fu sempre esemplare per pietà, saviezza e sommissione. Si adopera volentieri e con impegno all’assistenza degli scolari. Se alcune volte ebbi ad ammonirlo per qualche mancanza, l’ho trovato sempre arrendevole e volonteroso di correggersi. Nella vocazione è costante”.
Nella seconda relazione trimestrale del 1866, P. Rovigo osserva che finora non si è potuto conoscerlo bene, perché si evitava di contrastarlo perché era malaticcio. Ora che è sano “…in più occasioni manifestossi di mente troppo tenace, dilicato in punto d’onore, con qualche stima di sè, molto difficile a tranquillarsi quando seppe che da taluno era tenuto per poco obbediente e divoto. Così pure si è conosciuto che quando è angustiato stenta ad aprirsi colla dovuta candidezza religiosa. Segno anche questo che sente vivo l’amor proprio. Dopo le correzioni fattegli si è però veduto che vuole emendarsi. Si mostra disposto a sostenere le prove che gli venissero in seguito date; e ciò fa sperar bene”.
La terza relazione del 1866, dell’8 agosto 1866, di P. Rovigo, è più positiva. Lo chiama chierico anziché studente, il che può indicare che aveva già ricevuto in questa data la tonsura o chierica. “…dopo le ammonizioni più volte ripetutegli di dover attendere ad emendare il suo naturale, or freddo, or risentito, or chiuso ec., mi pare che ora sia migliore. Così pure in riguardo alla sua incombenza sui fanciulli l’ho osservato più sollecito. – Forse ha bisogno di un po’ di stimolo circa lo studio”.
La quarta relazione del 1866 (8 novembre 1866, di Giuseppe Rovigo): “In questo ultimo trimestre del suo noviziato si doveva in vero aver prova più rassicurante sul suo spirito religioso. In più circostanze appariva come in addietro tenace della sua opinione, facile ad opporsi alla altrui anche non interrogato; difficile ad umiliarsi. Sopra tutto mi fa temere che manchi del necessario fondo di umiltà la quasi desolazione di spirito in cui cade quando sa che da altri fu accusato de’ suoi difetti. Pure interrogato sulla vocazione, se si sente disposto a far la professione, risponde di sì; ma un sì asciutto senza manifestare nè desiderio nè timore”.
Miorelli avrebbe dovuto emettere la professione dei voti dopo due anni di noviziato, e quindi alla fine del 1866, possibilmente l’8 dicembre di quell’anno; ma “tempora mala erant”, i tempi erano cattivi. Erano quelli della conclusione della III guerra d’Indipendenza, della desiderata riunione del Veneto al Regno d’Italia, ma anche del trascorrere di eserciti sul territorio veneto anche dopo la fine della guerra, non sempre benevoli con la popolazione; sia a Venezia, occupando la città e bloccando per un certo tempo “i passi”, come si commentava negli Atti del capitolo provinciale Cavanis del 1° settembre 1866, cioè il ponte ferroviario Mestre-Venezia, sia a Lendinara, tra l’altro. E si era all’inizio della lotta di questo regno che portava con sé da tempo la speranza della riunione di tutta l’Italia in un solo stato, ma che era anticlericale (e che aveva anche bisogno di denaro per pagare la guerra e i soldati) e nemico degli istituti religiosi. Infatti il 7 dicembre 1866 per il novizio-fratello laico Pietro Sighel che aveva compiuto suoi tre anni di noviziato, si scrive nel DC che la professione è differita “per le circostanze politiche dei tempi”. Ma non fu solo per questo, nel caso del Miorelli. Il ritardo era anche dovuto a dubbi da parte dei formatori e superiori sulla sua vocazione e sul suo temperamento.
P. Casara, di nuovo eletto preposito il 1° settembre 1866, scrive nel diario il 14 gennaio 1867: “Ho creduto bene di esporre in iscritto alcune mie osservazioni ai Sacerdoti capitolari di questa casa [di Possagno], che devono unirsi presto per conferire e votare sull’aggregazione del novizio Miorelli, la quale avrebbe dovuto farsi agli otto dell’ultimo passato decembre. Lo scritto mi si dee ritornare firmato da tutti quanti.”
Seguono tre carte, tutte del 24 febbraio successivo e dintorni. In ordine di numero di protocollo, la prima, della stessa data del 24 febbraio 1867 è una relazione anomala ma molto interessante, che, stranamente, è compilata dal vicario della comunità di Venezia (e automaticamente vicario generale), P. Tito Fusarini e diretta agli esaminatori provinciali, i PP. Giovanni Battista Traiber, Giuseppe Da Col e Giuseppe Bassi. Eccone il testo: “Il Chierico Novizio Giuseppe Miorelli avendo già compiuto il biennio del suo Novizio (sic) fino al dì 8 Decembre 1866, non veniva allora ammesso alla professione dei voti perchè dal Capitolo della casa [di Venezia, N.d.A.] fatto il 4 novembre decorsosi era giudicato essere dubbia la di lui vocazione. Dopo questo lasso di tempo tutti i Capitolari trovarono di cambiar giudizio, e perciò vennero dal sottoscritto ripetute le pratiche volute dalle Bolle Pontificie e dalle nostre Costituzioni. Chiamato quindi il detto Chierico Novizio ebbe francamente a dichiarare com’esso desiderasse l’aggregazione al solo fine di conseguire più facilmente la propria santificazione. Che a chieder di esser aggregato non era mosso da alcuna vista (?) mondana nè da coazione. Che sapeva essere proprio dei congregati l’istruire ed educare la gioventù e a ciò essere dispostissimo. Che conosceva l’importanza dei voti, e quelli intender pronunziare per legarsi per tutta la vita.
Dopo queste dichiarazioni il sottoscritto Vicario interrogò tutti i membri di quella casa, dalla maggior parte dei quali le informazioni furono soddisfacenti, per cui procedette securo alla votazione del Capitolo locale, il cui risultato lo si trova negli atti che a questo si uniscono.
Ora adunque, dovendosi eseguire quanto viene imposto dall’Articolo 213.§.3° Capo XII del libro Secondo delle nostre Regole manoscritte si accompagna a codesti RR. Esaminatori la relazione per iscritto del P. Rovigo Maestro dei Novizi, perchè sull’appoggio di essa e degli altri documenti essi Esaminatori abbiano a decidere a voti secreti se il Miorelli sia da ammettersi alla professione, della quale decisione saranno compiacenti di estendere il relativo Processo Verbale e con gli altri voti computare anche il mio che qui unisco suggellato. (omissis, parole di conclusione).
Venezia la Domenica di Sessagesima dell’anno 1867.
P. Tito Fusarini vicario.”
Il secondo documento, in ordine di numero di protocollo, è del maestro dei novizi, P. Giuseppe Rovigo, una lunga carta scritta con la sua bella calligrafia, caratteristica. Scrive: “(…) Dal settembre del 1865 fino al maggio dell’anno successivo fu sempre di piena soddisfazione sotto ogni riguardo. Ma poi occorso il caso di doverlo riprendere per alcuni difetti venni a riconoscere ciò che prima non sapeva, uno spirito assai poco mortificato, dominato dalla stima di se stesso, ritroso a dimandare scusa, poco aperto e sopra tutto tenace per indole di sua opinione. Avvertitone il Preposito di allora [P. Traiber, N.d.A.], si studiò da lui e da me con frequenti esortazioni ed altri mezzi di fare sì che attendesse di proposito alla propria emendazione. Si vide in seguito del miglioramento; ma poi nuova caduta nei soliti difetti; nuovi miglioramenti bensì, ma non una emendazione piena e da tranquillare sul suo conto. Le sopravvenute vicende politiche e conseguenti timori sulla nostra sussistenza influirono non poco a freddarlo anche nello studio e nella pietà.
Con tutto ciò egli ha sempre mantenuto la volontà ferma di rimanere nella Congregazione e di legarvisi colla espressione dei s. Voti. Conosce la Regola nostra e dichiara di amare la communità [seguono due parole incomprensibili].
Quanto allo scopo particolare della Congregazione ha dimostrato or più or meno di adoperarvisi volentieri; nè manca di quelle doti che, coltivate, il renderebbero utile operajo.
Si dichiara poi, e tengo per certo che lo sia, libero da ogni impegno, sicchè da questo lato nulla osti alla sua professione.
Stando le cose in questi termini venne il decembre p.p. in cui compivasi il biennio di sua probazione; ed io fino ai primi giorni del gennaio era persuaso che la vocazione del Miorelli fosse per lo meno dubbia. Sospesasi per altri motivi fino ad ora la votazione capitolare di q. famiglia io avvertii il novizio che frattanto attendesse di proposito e sinceramente a dar prove più esplicite e meglio rassicuranti sulla verità della vocazione che egli asseriva di avere costantemente avuta, in guisa da togliere da me e da altri il dubbio che egli o non fosse chiamato alla nostra Congregazione o, se chiamato, non ben corrispondervi.
Il consigliai che, poichè provava tanta difficoltà ad aprirsi, scrivesse almeno candidamente quando dinanzi a Dio sentiva; che io, ove occorresse, l’avrei comunicato al Capitolo.
Fu allora che egli estese la dichiarazione che si trova unita agli Atti Capitolari; e la condotta che tenne.
Indi in poi non ismentì i sentimenti in essa espressi. Anzi valse a farmi entrare nella attuale persuasione che si possa ora avere sufficiente fondamento a credere che egli non manchi delle doti e condizioni necessarie ad essere ammesso alla aggregazione, sperando che colla benedizione divina sarà per riuscire membro utile della Congregazione. (omissis: giuramento e conclusione)”
Il terzo documento, pure del 24 febbraio 1867 (la coincidenza di data di questi documenti sa di artifizio), ma di protocollo n° 46 del 1876, è il processo verbale del capitolo locale di Venezia, tenuto appunto in questa data.
Congregazione ecclesiastica delle Scuole di Carità in Venezia
Processo Verbale del Capitolo locale
tenuto il 24 febbraio 1867. dai vocali di questa casa per l’ammissione
alla professione religiosa del Chierico Novizio Giuseppe Miorelli di Arco.
Raccolti nella solita stanza tutti i Padri vocali di questa Casa, il P. Vicario premessa la recita delle solite preghiere espose che il Chierico Novizio Giuseppe Miorelli avea già compito il biennio del suo noviziato, ed ora instava per essere definitivamente aggregato alla Congregazione mediante la profes. dei Voti. Quindi invitavansi tutti i presenti a dichiarare con voto secreto se si dovesse far luogo alla domanda del novizio suddetto.
Prima di procedere alla votazione il P. Maestro lesse una lettera che il novizio dirigeva al Capitolo di questa Casa fino al dì 16 gennaio p.p. che si unisce come parte integrante dell’atto presente. Dopo la lettura venne da qualcuno osservato che il Miorelli avea anche con fatto dimostrato di essersi corretto di alcuni difetti.
Dopo ciò si divenne alla votazione secreta, e risultarono per l’aggregazione del Miorelli voti favorevoli 6, voti negativi 1. Uno.
Ciò riconosciuto si chiuse il Capitolo colle prescritte preghiere, ed esteso l’atto presente fu letto e sottoscritto da tutti gli intervenuti.
(Seguono in ordine di anzianità le firme dei PP.: P. Tito Fusarini vicario, P. Giovanni Paoli, P. Giuseppe Rovigo, P. GianFrancesco Mihator, P. Antonio Fontana, P. Giovanni Fanton, P. Giovanni Chiereghin.
Segue la lettera, allegata e anzi incollata a quella del P. Fusarini, del “chierico Novizio” Giuseppe Miorelli, datata del 16 febbraio 1867. Eccone il testo:
J.M.J.
Reverendi Padri Capitolari
L’affetto per la mia vocazione m’impone l’obbligo di estendere candidamente questa memoria con tutta sincerità, lungi da qualsivoglia doppiezza in quanto sono intimamente persuaso di aprire il cuore non già ad uomini, ma a Dio stesso, che sta di mezzo a due o tre congregati in suo Nome.
E dapprima tacer non voglio. Che il di una vita molto stentata che fuori di Congregazione quasi certamente m’attende, nulla e poi nulla può sul mio spirito a far sì che pronto mi esibisca a novella prova per potermi qui rimanere. Che anzi quand’io credessi indifferente il rimanermi, e lo andarmi pella salute dell’anima mia, ben volentieri questo avrei prima abbracciato, e quello adopo lascierei. Ma quando penso, che difficilmente posso salvarmi, errato per mia colpa il dritto sentiero, su cui Dio mi pose, tremo e pavento. Io non chè egli mi è noto, che male corrispondendo nella Religione è peggio assai. Lo conosco io mal corrisposi, ma questo non toglie che sia dessa la mia vocazione. Come poi verrò a provarla, se fatti ciò comprovanti non esistino?.. Io null’altro posso affermare, che di essere pienamente disposto di adoprarmi in pro’ della gioventù, qualunque sia l’ufficio, che in pro’ di quella venissemi assegnato. Posso attestare la mia volontà ferma e risoluta di osservare tutte le nostre costituzioni, quali conosco, e di cui sono intimamente persuaso; il desiderio infine di legarmi a Dio coi soavissimi vincoli della Professione, per aver quindi uno stimolo maggiore alla mia professione, ed a riparare ai molti difetti, quali, purtroppo commisi nella mia probazione.
Nè qui mi è pesante l’esporli brevemente, perchè, se iddio mi fa la grazia, cui tanto desidero, sia opportunamente ripreso com’essi meglio crederanno; la qual cosa a tutti di cuore domando, ed a tutti prometto nel Signore di ricevere in buona parte. Essi massimamente sono: Tenacità nelle mie opinioni; Superbia ed amor proprio nel ribellarmi, quando pure conosca il torto, ed il male che io feci; come pure un naturale veemente e risentito difficile a domarsi, da cui tutti gli altri miei difetti più o men gravi derivano, dei quali col Divino ajuto voglio e spero emendarmi.
E Dio, che fra le sue braccia accolse benigno il Prodigo figlio, non vorrà certo ripudiare un miserabile, che col cuore sulle labbra a Lui ricorre, confessando di aver peccato e di essere affatto immeritevole di neppur servirlo; ma che tuttavia vuol essere tutto suo.
Che se bramano ancor sapere qual sia il mio sentimento in riguardo alle cose presenti, eccolo in brevi parole dal qual è: Io sono Cattolico, Apostolico, Romano, e quindi Italiano. Come Cattolico Apostolico Romano tengo ed approvo in faccia a qualunque tutto che tiene ed approva il Romano Pontefice, e detesto ed abborro tutto che Egli condanna. Come Italiano sento vivissimo il dispiacere dei mali, da cui è travagliata l’Italia, e nella speranza che rasserenandosi la tempesta che si concilii sinceramente colla Santa Chiesa prego e pregherò sempre che Iddio benedica l’Italia. Aperto così sinceramente il mio cuore ai Reverendi Padri Capitolari nulla altro mi resta, che pregarli di raccomandarmi a Dio professandomi:
16 gennajo 1867
Il loro umilissimo servo:
Miorelli Giuseppe”
La lettera presenta una bella ma difficile calligrafia, una scrittura molto piccola; dimostra un giovane intelligente e formato. Il suo parlare è piuttosto ricercato, anche in rapporto all’epoca e al genere letterario, a mio parere; ma si può spiegare meglio tenendo presente la sua non facile situazione in quel momento.
Il riferimento all’essere Cattolico Apostolico Romano fa pensare che qualche motivo dei dibattiti e scontri con i superiori riguardassero anche qualche punto della dottrina della Chiesa, tema però cui non si accenna altrove; il fatto poi che Miorelli si definisca “…e quindi italiano” (lo erano del resto anche tutti gli altri religiosi e seminaristi Cavanis, anche se alcuni, “tirolesi” come lui, erano fino al 1918 sudditi austriaci) fa pensare che anche su questo punto ci fossero state delle differenze o delle discussioni di carattere politico. Si può pensare che egli si sentisse italiano, anche se il Trentino era ancora sotto l’impero austro-ungarico; forse a differemnza di altri “tirolesi” tra i Cavanis, che si sentissero eventualmente “tedeschi”. Di pensare ciò, non abbiamo però nessun riscontro concreto, salvo questa frase nel documento di cui si parla.
Bisogna ricordare che su questo punto il clima era teso: anche se le dolorose espropriazioni dei beni ecclesiastici e della nostra congregazione furono applicate concretamente qualche mese dopo i fatti che riguardano l’approvazione della professione del Miorelli, erano però già stati pubblicati il regio decreto 3036 del 7 luglio 1866 di soppressione degli Ordini e delle Corporazioni religiose (in esecuzione della Legge del 28 giugno 1866, n° 2987), e la legge n° 3036 del 7 luglio 1866 per la liquidazione dell’Asse ecclesiastico.
Giuseppe Miorelli fu “aggregato” (come si diceva allora) alla Congregazione, cioè emise la professione, la sera del 19 marzo 1867 a Venezia, nelle mani del preposito generale P. Sebastiano Casara, che scrive nel Diario di Congregazione: “Comunico (…) l’aggregazione che questa sera ho fatto del buon Miorelli con molta sua e nostra consolazione”.
Poco sappiamo dei suoi successivi studi teologici e della ricezione degli ordini minori e maggiori. Come si diceva, deve essere stato a Venezia fino all’estate 1867, e nell’autunno, all’inizio dell’anno scolastico, deve essere passato a Lendinara.
Probabilmente, da novizio e da seminarista maggiore, o studente come si diceva, deve aver insegnato come titolare o come aiutante alle scuole elementari o primarie, come si desume indirettamente da alcune relazioni sopra citate; in seguito non sappiamo quali titoli accademici abbia ricevuto e in quali corsi e materie abbia insegnato.
Ordinazione presbiterale
Il diario della casa di Lendinara ricorda che il 13 marzo 1870 P. Giuseppe Miorelli celebrò la prima messa a Lendinara nella chiesa di S. Giuseppe Calasanzio, che era stata costruita dall’Istituto Cavanis per la casa e la scuola nella parrocchia di Santa Sofia e, anche se espropriata dal demanio nel 1867, sembra essere rimasta almeno fino a quest’anno ad uso dell’Istituto.
Dato che la diocesi di Adria si trovava “sede vacante” dal 30 ottobre 1868 con la morte del vescovo mons. Pietro Colli, avvenuta il 30 ottobre 1868 fino all’ingresso di mons. Emmanuele Kaubeck, avvenuto il 27 ottobre 1871, bisognava trovare chi mai l’avesse ordinato.
Per la verità, il diario di Lendinara, al 13 marzo 1870, con la scrittura calligrafica di P. Giambattista Larese, dice solo: « Celebrò la prima Messa il P. Giuseppe Miorelli nella Chiesa di S. Giuseppe Calasanzio ». Quindi può essere stato ordinato altrove. In effetti, nel diario della Congregazione, di mano del P. Sebastiano Casara, si trova alla data del 7 marzo 1870: “Scrivo alla R.ma Curia [patriarcale di Venezia, N.d.A.] per la ordinazione del Miorelli in sacerdote e del [Michele] Marini in diacono; il che sarà in Padova il prossimo sabato”, cioè si viene a saper che P. Giuseppe Miorelli fu ordinato presbitero A Padova nel sabato 12 marzo 1870; e sappiamo che il giorno dopo, domenica 13 marzo, celebrò la messa già a Lendinara, nella chiesa di S. Giuseppe Calasanzio, senza dubbio presente la scolaresca e molto popolo tra gli amici dei Cavanis, come era di costume; come scrive P. Larese sul Diario della casa di Lendinara.
Il 18 marzo 1870 P. Casara ancora scrive nel Diario di Congregazione, a Venezia: “Scrivo al p. Miorelli, ordinato sacerdote sabbato scorso, e che canta Messa per la prima volta domani e gli scrivono anche i pp. Paoli e Larese”.
Ne segue che probabilmente rimane vera la notizia che dà P. Larese sulla prima messa il 13 a Lendinara, ma era messa bassa; poi il sabato 19 marzo il Miorelli celebrò la prima messa cantata o solenne, certamente di nuovo a Lendinara. Sembra anche che non fossero a Padova per l’ordinazione presbiterale né P. Casara, né il p. Giovanni Luigi Paoli (che del resto era molto anziano), né Larese, che pur era giovane. A quei tempi, e fino ai giorni di cui si può ricordare personalmente questo autore che scrive, la prima messa solenne era considerata più importante della stessa ordinazione presbiterale, al contrario di quanto è logico e di quanto accade oggi.
P. Miorelli accedette all’ordine presbiterale dunque proprio nell’anno in cui l’esercito italiano, dopo un breve assedio e attraverso la breccia di porta Pia, il 20 settembre 1870 prese la città di Roma, che divenne (fortunatamente per l’Italia e per la Chiesa, ma quanta sofferenza per i cattolici a quel tempo!) capitale d’Italia, dopo un breve periodo; e l’anno in cui il Papa Pio IX dovette ritirarsi in Vaticano. L’anticlericalismo in Italia, e a Lendinara, raggiungeva il suo climax.
P. Giuseppe Miorelli a Lendinara
P. Miorelli in seguito rimase a Lendinara dal 1870 al 1874 (forse anche fino al 1875). La comunità Cavanis lendinarese in questo tempo di passaggio, dopo la soppressione da parte del Regno di Italia di tutti gli istituti religiosi del Veneto (nel corso del 1866-67) e dopo l’espropriazione e il passaggio al demanio di tutti i suoi (modestissimi) beni ed edifici, abitava provvisoriamente nella canonica di S. Sofia, concessa benignamente da quel parroco; prima di passare in nuova residenza della comunità Cavanis e della sede della nuova scuola nel territorio della parrocchia di S. Biagio.
Durante gli anni scolastici 1872-73 e 1873-74 la comunità di Lendinara era composta dai padri Vincenzo Brizzi, rettore; Giovanni Ghezzo; Michele Marini e Giuseppe Miorelli.
È interessante esaminare i certificati che domandarono e ricevettero in seconda istanza, e che sono conservati in archivio storico della congregazione; P. Giuseppe Miorelli, per esempio, ricevette il 18 ottobre 1878 per uso nella scuola (per presentarlo al provveditorato a Rovigo) un certificato firmato dal sindaco L. Marchiori, dove questi dichiara 1) che il Miorelli si è registrato a Lendinara dal 1868 (circa); 2) che è una persona di levatura morale; 3) che non è un insegnante capace; 4) che «professa dei principi politici non ispirati alle idee liberali nazionali». I certificati di moralità di P. Giambattista Larese e di P. Carlo Simeoni, rilasciati nella stessa data e allo stesso scopo, sono compilati in modo identico. La scuola non fu poi approvata a causa di questi nuovi certificati degli insegnanti. Si trattava chiaramente di certificati tendenziosi e calunniosi, che provenivano da autorità anticlericali. Direttamente o sotto l’influsso del personaggio principale dell’anticlericalismo lendinarese, Alberto Mario.
Non abbiamo dati sulla residenza di padre Miorelli nell’anno scolastico 1876-1877; dall’autunno 1877 al 1879 si trova certamente a Lendinara; segue ancora un biennio incerto tra la fine del 1879 e il 1881, ma è probabile che si trovasse pure a Lendinara, dato che non si trovano sue firme in calce ai verbali della comunità di Venezia in questi anni né altro cenno di una sua presenza a Venezia, e neppure a Possagno. Dall’autunno (cioè dall’inizio dell’anno scolastico) 1881 fino all’agosto 1886 Miorelli è invece senza dubbio a Venezia, mantenendo però la residenza legale a Lendinara.
Difficoltà in comunità
Nel 1883 era cominciato in Congregazione un lungo periodo di problemi interni nella comunità, dovuti soprattutto ma non esclusivamente ai dibattiti e diatribe a volte amare sulla seconda parte delle costituzioni, che si stavano redigendo soprattutto da parte di P. Sebastiano Casara. I quattro padri relativamente giovani Giuseppe Miorelli che restò a lungo in congregazione, ma ne uscì più tardi, Michele Marini che uscì circa un anno dopo e altri due giovani padri (P. Giovanni Battista Larese, che poi moderò le sue pretese e continuò a lavorare con passione e amore nella congregazione e analogamente P. Carlo Simeoni).
Di P. Miorelli, il preposito generale P. Sebastiano Casara scriveva in quell’anno: “Un giovane di buon cuore; ma ha un temperamento che crea impicci e imbarazzi per i Confratelli: coi discorsi turba l’armonia nell’interno della famiglia e minaccia di uscire”.
La situazione di crisi comunitaria dipendeva anche dalla situazione difficile di P. Casara in quanto filosofo rosminiano e per questo criticato e progressivamente perseguitato in certi ambienti di Chiesa, particolarmente dai Gesuiti e dai Domenicani; ma anche visto con preoccupazione (e qualche controllo) dal patriarca di Venezia Domenico Agostini (22 giugno 1877-31 dicembre 1891), che pure aveva grande stima della sua profonda virtù personale. Alcuni padri, e soprattutto il gruppo dei quattro, non accettavano la posizione rosminiana del loro Superiore generale, per motivi teologici ed ecclesiologici, ma anche perché temevano che la Congregazione ne fosse danneggiata, e qui non avevano tutti i torti. Di fatto, nella situazione di guerra aperta al sistema filosofico (ma anche ecclesiologico) del defunto, ora Beato, abate Antonio Rosmini-Serbati di Rovereto, anche i simpatizzanti rosminiani erano combattuti; e tra di essi il P. Sebastiano Casara, preposito generale dei Cavanis, primeggiava.
Questo clima di preoccupazioni e di tensione nella Chiesa, soprattutto in Italia, e nella comunità Cavanis, ancor più a Venezia, può spiegare il fatto che, mentre si erano celebrate grandi feste e le si era descritte in dettaglio e commemorate nel diario della congregazione nel 1881, per la posa della prima pietra e poi per la inaugurazione e benedizione della nuova residenza di comunità dei religiosi Cavanis, che veniva a sostituire la troppo piccola, umida e malsana “casetta delle origini; non si diede alcun spazio nello stesso diario alla posa della prima pietra (primavera 1881) e all’inaugurazione e benedizione (estate 1883) del grande edificio della nuova ala delle scuole di Carità a Venezia. Di questi due avvenimenti non abbiamo neanche la data esatta, ed è stato difficile, soltanto mediante dati indiretti, individuarne il periodo di costruzione.
I quattro crearono un doloroso gruppo di fronda e di maldicenze, interne ed esterne, che contribuì non poco a costringere moralmente P. Sebastiano Casara a presentare le sue dimissioni da preposito generale il 19 luglio 1885.
Già dal 1884 i padri Marini e Miorelli avevano cominciare ad accusare il loro superiore generale, P. Casara, presso il Patriarca Agostini, che era fortemente e visceralmente anti-rosminiano. P. Casara chiedeva con insistenza un incontro chiarificatore con il patriarca, ma questi non lo concedeva. Finalmente l’incontro con il Patriarca accadrà, anche a seguito di una serie di visite fatte al prelato veneziano dal P. Miorelli, che era andato anche a parlar male del P. Casara e a prospettare litigi nella comunità.
Da una lettera quasi delirante del Miorelli, conservata nel fondo Casara, conosciamo le accuse riferite al patriarca: che si stavano manomettendo le regole per salvare un individuo; voleva conoscere, anche se i voti erano ovviamente segreti, chi aveva votato a favore di P. Casara e perché, se i votanti non avevano sofferto pressioni; si lagnava ancora che quasi tutti i Cavanis erano ritenuti rosminiani, e via ancora con tanti rancori. Per fortuna il patriarca, con una sua visita veramente di carattere pastorale e amichevole, poté constatare che le cose non andavano così come raccontava il Miorelli.
Così scrive nel diario di congregazione P. Casara il 14 giugno 1884: “Il p. Miorelli che era stato mercordì, col mio consenso, dal Patriarca a manifestargli ciò che molto lo disturbava, ieri si sconcertò nuovamente, e sta mattina vi ritornò molto turbato. Lo calmò il Patriarca, e ritornò con letterina del medesimo che lo accompagnava, e insieme mi avvertiva che sarebbe venuto a visitarci lunedì dopo pranzo in forma amichevole e privata.” E il 16 giugno 1884: “Ed oggi infatti è venuto con grande bontà ed amorevolezza, ed affrettandosi a dichiararmi che veniva proprio come amico, ma amico antico e di nuovo. Credeva di trovar qualche torbido, e per interporsi a cessarlo, e fu sorpreso assai e consolatissimo trovando tutto invece pienamente tranquillo. In seguito però a quanto erasi riferito dal P. Miorelli del suo colloquio col Patriarca, i pp. Bassi, Rovigo, Sapori e Chiereghin aveano preparato una relativa Memoria da presentare al Patriarca, che gli avrebbero mandata, se non fosse venuto. Dissi dunque io a lui, che alcuni dei miei confratelli desideravano di presentarglisi e parlargli prima di me. Ed egli a me: Quand’ella è contento, vengano pure che io volentieri li ascolto. Gli si presentarono, gli lessero la Memoria, vi discorsero sopra alla lunga, ed egli ne fu contentissimo, e trattò e parlò con tanta esuberanza di affetto, che tutti e quattro ne rimasero entusiasmati. – Dopo essi andai io, e liberamente gli esposi e dissi quanto credetti necessario ed opportuno, ed egli mi corrispose sempre con tutta amorevolezza e cordialità. – Gli si presentò infine tutta la Comunità, che egli accolse con festa, e si trattenne con essa alla lunga, e finì col promettere di venir a celebrare il secondo giovedì di luglio, in che facciamo la festa di S. Giuseppe Calasanzio per gli scolari. Partì, lasciando tutti contenti”.
Il diario, il 20 giugno registra: “L’amico d.[on] Giuseppe Marchiori si affretta a comunicarci, le seguenti parole, dette a lui oggi dal Patriarca: “Vedi che aria di santità spira nell’Istituto Cavanis! L’altro giorno sono partito veramente edificato. Già ho deliberato di mandare a quei buoni Padri una lettera”. A cui il Marchiori: “Eminenza, la terranno preziosa”. E soggiunse nel suo viglietto: Il Patriarca fu commosso nell’udire dal P. Casara le proteste del suo affetto verso tutti i suoi soggetti e della carità con cui scusò lo sbaglio del p. Marini e del p. Miorelli. – Tanto a conforto di tutta la Congregazione”.
P. Casara era sfinito però di tante fatiche e anche di tante contraddizioni interne ed esterne e, come si è detto, il 19 luglio 1885, in anticipo di due anni sul triennio previsto, si dimise definitivamente. Gli successe, per due anni, per completare il biennio mancante, P. Domenico Sapori, senza dubbio meno capace per il governo.
Questi, durante il breve periodo di prepositura, soffrì anche lui per l’opposizione dei tre o quattro religiosi che già avevano fatto soffrire P. Casara, in questo caso solo in relazione alla preparazione della seconda parte delle costituzioni. Già il 22 ottobre 1885, poco dopo la sua elezione, P. Sapori scrive: “Ricevo dai P.P. Larese, Marini, Miorelli e Simeoni delle Proposte sulle nostre Regole, ai quali rispondo brevemente di non poter accettarle”. Il “gruppo dei quattro” cominciava la lotta anche con P. Sapori e gli resero abbastanza dura la vita in quei due anni della sua prepositura: certa volta, parlando di una riunione comunitaria, questi scriveva a P. Casara: «In seguito si discusse della terza osservazione [sulle costituzioni] cosi calorosamente e sfacciatamente, che si dovette interrompere la sessione e dunque la questione delle nostre costituzioni fu interrotta. (…) Capisco che per multas tribulationes oportet me transire ». Un’altra volta scrisse al Casara, evidentemente suo consigliere e consolatore «P. Miorelli dice che accetterà le regole che saranno approvate [dalla Santa Sede N.d.A.]. Aggiunge che non può trovar possibile restare a Venezia. Io gli risposi di andarsene in famiglia. Testa matta!».
Il 16 aprile 1886 troviamo nel diario: “Da Sua Emin.a il Card. Patriarca mi viene comunicato per iscritto le osservazioni a Lui dirette dai P.P. Larese, Miorelli e Marini, contro alcuni punti di Regole contro l’Accompagnatoria, che da me fu presentata a Sua Em.a al fine di ottenere sanzione Pontificia delle Regole medesime”. Il 18 aprile 1886 P. Sapori manda a Lendinara “una copia delle Osservazioni (…) alle quali devono rispondere in lettera chiusa diretta al patriarca i 19 Firmatari dell’Accompagnatoria per le Regole; Alcuni di questi sono accusati di debolezza e pentimento nell’apporvi la loro firma; al proponente [= il preposito Sapori, a quanto si capisce, N.d.A.] poi viene data l’imputazione di pressione o quasi pressione. Accusa obbrobriosa!”.
P. Sapori risponde al patriarca: “Rispondo in breve alle pred.te osservazioni, e chiudo con le seguenti parole: L’ultimo capoverso del suo venerato Foglio [del Patriarca] allude ad una pressione usata ai Firmatari dell’Accompagnatoria a Lei indirizzata; e ne venne fatto cenno da testimone auricolare. Cotanto schifosa accusa non me la sarei mai aspettata. Su questo punto intendo venirne al chiaro. Consapevole e sicuro del fatto mio, la voglio finita con questa guerra sleale e serpentina. O s’intenta un processo a me, o io lo intento altrui”.
Il 28 maggio 1886 le bozze delle regole risultano spedite dal Patriarca a Roma. La loro approvazione fu sollecitata da don Giuseppe Ghisellini, tramite un suo conoscente, l’archivista della S. Congregazione.
P. Domenico Sapori intanto comincia a procedere contro il Miorelli il 26 luglio: “Scrivo al P. Miorelli, che partito pel Tirolo il 19 corr.e non ha per anco scritto una riga; gli ricordo le sue espressioni scandalose fatte ad un Padre giovane circa le Regole, e lo richiamo al dovere, o starsene a casa sua”. E il 30 luglio: “Oggi ricevo risposta dal P. Miorelli, il quale mostra di non capire ciò che gli ho scritto in una mia del 26 corrente. Bisognerà che gli scriva nuovamente e gli spieghi ancor meglio, perchè di questo passo non si può andare innanzi”. Ancora il 1° agosto: “Riscrivo al P. Miorelli in Tirolo facendogli conoscere le sue indiscipline, le parole imprudenti da lui dette a diversi; quindi lo richiamo al dovere di religioso”. “Il P. Miorelli scrive da casa essere lui dispostissimo ad accettare le Regole. Trova poi cosa per esso impossibile il dimorare in questa famiglia [di Venezia, N.d.A.] nell’attuale condizione degli spiriti” “Gli rispondo essere ora di finirla: così non potersi andare avanti, chè ne va il buon ordine e la disciplina religiosa”.
L’11 agosto 1886 P. Sapori annota nel DC: “Notifico ai Padri di Lendinara il sudd.o Rescritto Pontificio. Lor fo nota la inconsulta caparbietà del Miorelli nell’intendere le cose a suo modo affatto contrario a vero spirito religioso”.
Si stava procedendo, su un altro fronte, a preparare il capitolo provinciale da celebrarsi circa un mese dopo, e si erano eletti i discreti o delegati; intanto “l’amico don G[iuseppe]. Ghisellini ne manda l’atteso Rescritto Pontificio, onde la S. Congreg. Dei Vescovi e Regolari proroga ad annum il nostro Capitolo provinciale, che doveva aver luogo ai primi del prossimo 7bre 86. –Ci notifica inoltre che le Nostre Regole hanno già preso un buon inviamento”. Il preposito Sapori comunica la cosa a Lendinara, e riceve dai padri il conforto dell’appoggio nelle sue decisioni a riguardo del Miorelli: “Il P. Da Col a nome pure del P. Bassi, mentre mi confortano a sperare fiducioso in Dio rimettendomi alla sua amabilissima Volontà, manifestano il loro pieno consenso a quelle misure, che dovransi usar per liberare il nostro povero istituto dalle inquietudini, dagli scandali, dalla rovina che da pezza gli sovrasta”.
L’uscita dalla Congregazione
Il 22 agosto 1886 “Il p. Miorelli insiste nel voler essere traslocato a Lendinara; diversamente abbandona l’Istituto, e domanda un Attestato della sua prestata educazione alla gioventù, e che ei sia uscito dall’Istituto spontaneamente”. Il 23 agosto P. Sapori scrive: “Gli si manda l’attestato richiesto, restando egli soggetto a questo Ordinariato”. E il 26 agosto 1886: “Notifico a questa Reverend.ma Curia che d. Giuseppe Miorelli ha abbandonato la Congreg.e, quindi rimane intieramente soggetto al Patriarca.”
Il 9 gennaio 1887 il diario riporta le seguenti frasi: “In una lettera diretta al P. Da Col, annunziandogli che entro la settimana corr.e avrà il denaro dimandato, ve ne includo una per D. Giuseppe Miorelli; onde lo richiedo se intende rilasciare la sua pensione all’Istituto, come aveva altra volta promesso, oppure se crede riscuoterla per proprio interesse”. Il 15 gennaio successivo P. Da Col risponde al preposito Sapori “aver consegnata una mia lettera al Miorelli, che ne riguarda la civile pensione. Ei non ammette la distinzione di diritto legale e di coscienza. Ci pensi lui.”.
D’altra parte, è bene ricordare con simpatia e gratitudine che P. Giuseppe Miorelli, partendo dalla congregazione, le lasciò, forse per straordinaria generosità e per suo ricordo, forse per dovere di regola, forse perché non si rendesse conto del valore dell’opera, non sappiamo, un dono eccezionale, cioè un prezioso volume in folio del 1506. Pur non potendo essere definito un incunabolo, essendo stato stampato 6 anni dopo il 1500, ne ha però tutte le caratteristiche e anche perché è stato prodotto dallo stampatore piemontese Tacuino o Tacuin, da Tridino presso Cerreto, in Monferrato, ma operante a Venezia dai primi anni del ‘500, contemporaneo di Aldo Manuzio, e che produsse vari incunaboli, uno dei quali si trovava nella biblioteca di Lendinara, come annota lo stesso Miorelli nell’ultima pagina di quest’opera. Questa è conservata tra gli incunaboli e le cinquecentine della biblioteca della comunità Cavanis di Venezia fino ad oggi, e di recente è stata restaurata. Si tratta di: L. Plinii Secundi Veronensis historiae naturalis Libri cccviii ab Alexandro Benedicto Ve. physico emendatio res redditi. Venezia, Joannis (Zane) Tacuini de Tridino, 1506. L’opera porta la seguente dedica: “Lorenzo don Lorenzoni al M. Rev. Padre Giuseppe Miorelli delle S. P. 1881”.
Il 6 marzo 1887 giunse una sorpresa: si venne a sapere che “Don Giuseppe Miorelli, ora cappellano alla Molinella di Lendinara, si rifiuta di rispondere a due mie lettere; onde lo ricercava della pia intenzione circa la pensione governativa: però a mezzo del P. Giuseppe Da Col domanda della pensione; gliela spedisco in it £ 4,50 – ottobre, novembre e dicembre p.p.; di più, gli mando il Certificato relativo, perchè quindi innanzi se la riscuota lui.”
P. Giuseppe Miorelli esce dunque giuridicamente di congregazione il 22 agosto 1886, rimanendo dipendente all’inizio dall’ordinario del patriarcato di Venezia, in cui era in qualche modo incardinato, dato che la “Congregazione ecclesiastica delle Scuole di Carità” o Istituto Cavanis era un Istituto di “Chierici secolari”, secondo recitava il nome antico. Su come sia passato poi alla diocesi di Adria, non ci risultano dati. Ma il Miorelli si era trasferito alla Molinella, frazione di Lendinara e quindi in diocesi di Adria probabilmente fin dalla fine del 1886 e certamente già da prima del 6 marzo 1887. Non se ne parla per niente nel diario di Lendinara. Si può immaginare che i religiosi Cavanis della comunità di Lendinara non avessero gradito la presenza di un religioso uscito dalle loro fila, né averlo come residente così vicino alla loro casa. Di solito accade così. Bisogna aggiungere però che in quell’anno 1887 e nei seguenti il diario di quella casa, fino alla chiusura definitiva della stessa nel 1896, è molto breve, laconico e spesso incompleto, compilato a salti, con l’aggiunta di alcuni fogli sciolti. È possibile che P. Miorelli si fosse messo d’accordo con il vescovo di Adria prima della sua uscita di Congregazione; è possibile, ma mi sembra poco probabile, che qualcuno dei religiosi Cavanis residenti allora a Lendinara abbia fatto da intermediario. In quell’anno erano a Lendinara i seguenti: i padri Giuseppe Da Col (rettore), Giuseppe Bassi (vicario), Narciso Emmanuele Gretter, Michele Marini; il fratello Pietro Sighel e un chierico, Giovanni Spalmach.
Il Miorelli del resto aveva a Lendinara, ad Adria e a Rovigo i suoi contatti personali, dato che aveva vissuto e operato in diocesi parecchi anni, fin dalla prima gioventù.
La seconda parte della vita di don Giuseppe Miorelli.
Dopo la notizia del 6 marzo 1887, nel diario della congregazione, sul fatto che P. Miorelli, o meglio, ora, don Miorelli, fosse curato o rettore a Molinella di Lendinara, non si è trovato finora nessun’altra notizia negli archivi, sia nell’archivio storico, sia in quello corrente, sia di Venezia, sia di Lendinara (quest’ultimo del resto confluito nel 1896 nell’archivio storico della Curia Generalizia dell’Istituto a Venezia). In Istituto non si era saputo più niente di lui dopo che l’Istituto era uscito da Lendinara, e non si conosceva la data della sua morte. Sappiamo ora che morì ad Arco, sua cittadina natale, il 17 aprile 1929 a 83 anni, dopo essere vissuto lungamente e con molto profitto pastorale a Molinella fino al 1909. Per i suoi antichi confratelli, i religiosi Cavanis, è stata una gioiosa sorpresa venire a conoscere, tramite la rivista diocesana “La Settimana” di Adria-Rovigo e tramite la “RovigoBanca Credito Cooperativo”, istituto bancario sorto, come si dirà, da un’iniziativa, come una piccola semente vitale, proprio notizie di don Giuseppe Miorelli.
Il paese di Molinella di Lendinara (RO)
Molinella è una frazione del comune di Lendinara, in provincia di Rovigo, nella regione Veneto e, meno formalmente, nella regione fisica, storica e geografica del Polesine; dal punto di vista ecclesiale e pastorale, Molinella dipende dalla parrocchia di San Biagio, nella diocesi di Adria-Rovigo.
La frazione o località di Molinella dista 4,21 chilometri dal centro della città di Lendinara del cui comune essa fa parte.
La frazione o località di Molinella sorge a 6 metri sul livello del mare, una quota molto bassa, tipica del Polesine. Nella frazione o località di Molinella risiedono attualmente (2023) cinquantasei abitanti, dei quali ventisei sono maschi e i restanti trenta femmine. Sono presenti a Molinella complessivamente 22 edifici, tutti utilizzati. Di questi, 14 sono adibiti a residenze, 8 sono invece destinati a uso produttivo, commerciale o altro. Dei 14 edifici adibiti a edilizia residenziale 10 edifici sono stati costruiti in muratura portante, nessuno in cemento armato e 4 utilizzando altri materiali, quali acciaio, legno o altro. Degli edifici costruiti a scopo residenziale 7 sono in ottimo stato, 5 sono in buono stato, 2 sono in uno stato mediocre e nessuno in uno stato pessimo. Una decina di questi edifici risale al tempo in cui abitava e operava a Molinella P. Miorelli.
La chiesa di Molinella
Vale la pena soprattutto di parlare della chiesa di Molinella. Non era in origine una chiesa parrocchiale ma rettoriale; ma fu elevata a chiesa parrocchiale, e il suo territorio e popolo a parrocchia nel 1889 dal vescovo mons. Antonio Polin. Si tratta di una chiesetta a una sola navata (aula unica, secondo il tipico schema architettonico barocco), del tardo settecento, neoclassico, con campanile. La chiesa, dal titolo del Patrocinio di San Giuseppe, sorge in Molinella, a Via Molinella 7, e appartiene alla Diocesi di Adria – Rovigo. Si può vedere bene ed esaminare nei dettagli in Google maps.
Essa sorge isolata, con tipico orientamento Est-Ovest. La facciata a capanna è tripartita e rinserrata ai lati da lesene doriche che sorreggono una cornice modanata. Al di sopra del colmo e ai lati dei rampanti del frontone triangolare si elevano pilastrini con guglie piramidali. Al centro si apre l’unico portale, con stipiti e architrave in marmo, sormontato da un frontone triangolare su mensole. Al di sopra del portale si apre un ampio rosone circolare, con cornice in mattoni a vista. Ai fronti laterali si addossano i bassi volumi delle cappelle votive. Nei fronti si aprono finestroni a tutto sesto tipicamente barocchi.
La pianta della chiesa ha uno schema planimetrico basilicale a unica navata, verso la quale si aprono, con archi a tutto sesto, tre cappelle votive. La navata è coperta da soffitto piano. Lungo le pareti della navata corre una cornice modanata, interrotta. L’area del presbiterio è rialzata di un gradino in marmo sul piano della chiesa. Nella parete di fondo della navata, ai lati, si inseriscono due nicchie. L’abside semicircolare è coperta da volta a catino e tripartita da lesene doriche, al di sopra della quale corre una trabeazione in leggero aggetto. Il tetto è a falde con manto in coppi. Il pavimento è in mattonelle di marmo bianco, grigio e rosso, posate a motivi geometrici. Il soffitto della navata e la volta dell’abside sono dipinti a soggetti religiosi. L’impianto strutturale consta di strutture verticali in muratura di mattoni portante.
La storia della chiesetta parrocchiale è piuttosto semplice:
1600 – 1661 (preesistenze intero bene) agli inizi del 1600 il nobile di Lendinara cav. Petrobello Petrobelli, proprietario di ampi fondi in località Molinella, chiese al vescovo di Adria l’autorizzazione a costruire in zona chiesa e canonica, mettendo pure a disposizione un beneficio per mantenerle. Le misere condizioni di vita, l’impraticabilità delle strade e la lontananza dai centri religiosi rappresentavano per i contadini suoi dipendenti e per gli abitanti di Molinella un ostacolo alla pratica religiosa. Sappiamo che alla morte di Petrobelli (1636) una nuova chiesa, intitolata a S. Giuseppe e S. Caterina, era stata costruita assieme alla canonica. Nel 1661 mons. Riminaldo Busson, delegato dal vescovo di Adria Mons. Agliardi, recatosi a Molinella in visita pastorale, ci ha lasciato la seguente descrizione della chiesa: “Due altari, il maggiore e l’altare della B.V. del Rosario con pala dipinta, porta in facciata a occidente, e una laterale a sud”.
1813 – 1861 (passaggio di proprietà intero bene):
La chiesetta, dipendente dalla parrocchia di S. Biagio, era privata e passò per via ereditaria dai Petrobelli prima ai nobili Mussati di Padova (1813) e poi alla famiglia Giustiniani di Venezia giuspatroni fino al 1861 quando l’immobile divenne proprietà del vescovo di Adria.
1894 – 1953 (rifacimento inter bene)
Nel 1894 don Giuseppe Miorelli, nominato primo rettore a Molinella, avviò la ristrutturazione della chiesa primitiva, allungandola e aggiungendo due altari, fece sistemare anche l’antico campanile e completò la canonica. La chiesa, consacrata l’11 marzo 1926 dal vescovo Rizzi, venne eretta parrocchia col titolo di Patrocinio di San Giuseppe dal vescovo Mazzocco nel 1946, il riconoscimento civile seguì nel 1953.
Don Giuseppe Miorelli a Molinella
Il 15 aprile 1889 il vescovo Antonio Polin decretò l’erezione in parrocchia “della chiesa di San Giuseppe sposo della B.V.M. di Molinella”, con l’assunzione del titolo di “rettoria”, indipendente a tutti gli effetti, con tutti gli uffici attribuiti ai parroci, e con territorio separato dalla parrocchia di San Biagio. Il 28 aprile 1891, nel corso di una visita pastorale, il vescovo annunciò pubblicamente che come rettore di Molinella era stato prescelto proprio don Giuseppe Miorelli.
Chi ha accostato più da vicino l’operato di Miorelli a Molinella (fu l’archivista della curia vescovile rodigina, mons. Alberino Gabrielli, nel suo fondamentale lavoro del 1993 “Comunità e chiese nella diocesi di Adria – Rovigo del 1993”) ha giudicato molto positivamente l’impegno profuso dal sacerdote trentino a favore delle poche decine di povere famiglie rurali a lui affidate: «sacerdote di viva pietà, attento ai segni dei tempi, si buttò nel nuovo campo di lavoro con un turbine di iniziative e commovente entusiasmo» (p. 414). Ancora prima di essere nominato rettore, nell’aprile del 1888, Miorelli riuscì a risolvere un problema non da poco che condizionava la vita della piccola comunità: la mancanza del fonte battesimale. L’ottenimento del battistero in San Giuseppe di Molinella evitò che i neonati dovessero essere portati per il battesimo a San Biagio, i genitori spesso a piedi «percorrendo da 5 a 8 chilometri sotto le intemperie, per istrade fangose; molti [dei neonati] ne morivano». Nel giro di pochi anni ingrandì a proprie spese la piccola chiesa e la casa canonica a fianco, restaurò il campanile, convertì un altro ambiente in asilo rurale preservando i bambini dai pericoli cui erano esposti quando i genitori erano al lavoro (più di qualcuno di loro finiva per annegarsi nei maceri della zona).
In questo suo entusiastico indaffararsi per la vita quotidiana dei suoi parrocchiani (una popolazione che allora si aggirava attorno alla 700 persone) don Miorelli pionieristicamente fondò a Molinella seguendo l’esempio di Leone Wollemborg e in campo cattolico di don Giuseppe Cerutti, una cassa rurale il 29 luglio 1893, la prima della diocesi di Adria. Ebbe il conforto iniziale di 12 soci, tra piccoli proprietari e fittavoli. Ma alla fine dell’anno il loro numero era già raddoppiato (diventarono 26). Il primo semestre fece registrare un bilancio di oltre 10.000 lire, con 4.019 lire concesse in prestito ai soci.
Non si fa fatica ad immaginare il successo delle iniziative pensando allo spirito evangelico con cui don Miorelli interpretò il rettorato di Molinella. Al giornalista Adolfo Rossi che nel 1895 gli chiedeva meravigliato come era riuscito a fare da sé tante cose, Miorelli rispondeva con serafica semplicità: «per i lavori della chiesa ho dato quel poco che guadagno con le messe e il beneficio, contraendo inoltre un debito di qualche migliaio di lire, che andrò pagando un po’ alla volta. Per l’asilo rurale ho raccolto varie contribuzioni di una lira al mese». Per vivere gli restava ben poco, ma all’ora di pranzo e di cena don Miorelli andava ogni giorno per turno nelle case dei parrocchiani meno poveri: «una fetta di polenta la trovo sempre!»; e Rossi di rimando esclamava: «ecco un vero tipo di prete socialista cristiano».
Da vero testimone di solidarietà, riuscì a guadagnarsi ammirazione e generosità tanto presso i suoi umili parrocchiani, bisognosi di fiducia prima ancora che di aiuto, quanto presso qualche agrario illuminato (anche quell’Eugenio Petrobelli che gestiva lì vicino la sua funzionalissima «Molinella»).
Di attenzione verso le nuove istituzioni anche presso le frange liberali meno preconcette, tese a dare una mano agli strati più in difficoltà del mondo contadino di fronte all’usura e alla mancanza di credito, era prova la pubblicazione di una lettera di don Miorelli su “Il Polesine agricolo” del dicembre ’94. In essa il parroco di Molinella ragguagliava sull’attività delle otto casse polesane fino ad allora attivate: «vengono condotte con prudenza sotto la sorveglianza dei parrochi rispettivi. La contabilità, semplice e presto appresa, viene tenuta con sufficiente diligenza, e lo sarà meglio man mano che s’accrescerà il numero delle persone che la prendono in pratica. Si sono costituite con 127 soci, aumentati ora a 263, i quali rappresenteranno più di qualche milione in proprietà fondiaria. Hanno raccolto 33.651 lire di depositi. Quella di Molinella ha emesso 52 libretti; quella di S. Sofia di Lendinara, 42. Hanno distribuito 28.438 lire di prestiti, avvertendo che all’epoca (31 ottobre 1894) a cui si riferiscono questi dati le Casse di S. Biagio e di Fratta non aveano ancora incominciato a lavorare. Il tasso per i prestiti fu il 6% netto da ogni spesa, pagato anticipatamente di tre in tre mesi, con scadenza fino a due anni e più. Si ricevono acconti di qualunque entità in qualunque momento prima della scadenza, rimborsando sugli stessi l’interesse pagato in anticipazione».
A corredo di questi confortanti dati, che confermavano il rapido attecchimento delle casse e per la semplicità dei loro congegni amministrativi e per la rispondenza alle esigenze del mondo rurale, don Miorelli concludeva la missiva con un vigoroso auspicio: «se la cassa venisse fondata in ogni parrocchia – e lo sarebbe facilmente con un po’ di buona volontà – basterebbe forse da sola a redimere il nostro popolo dallo stato di plebe in cui si trova. Ma il popolo educato spagnolescamente, anche da noi preti, a correre dietro alle banderuole non si dà troppo pensiero di provvedere ai casi propri e non insiste presso i propri pastori per avere questa istituzione che riescirebbe provvida per tante contingenze della loro miserevole vita».
Le notizie sulle casse polesane le aveva chieste a don Miorelli lo stesso direttore del “Polesine agricolo”, l’agronomo Tito Poggi, che pubblicandole con una sua nota introduttiva aveva modo di prendere posizione con bonomia e realismo sulla polemica contro il clericalismo di queste «provvide» – come le definisce – istituzioni: «bisogna confessarlo: fino ad ora esse si sono istituite soprattutto per opera dei preti. Ebbene, Dio li benedica questi bravi preti che compiendo così opera veramente cristiana, danno opera a che, anche nella nostra provincia, il piccolo affittuario, il piccolo possidente, il colono, trovino un po’ di credito a buon mercato e siano salvi da quella pestilenza che è l’usura!… A me, non certo clericale, non dispiace punto che siano i preti i benemeriti promotori in provincia della santa istituzione. Io guardo al fine. È, o non è, la cassa rurale una benefica istituzione, sotto il punto di vista morale, economico, sociale, agrario? Sì, sì: ottima, santa, eccellente. E allora, per me, gl’istitutori ne sono benemeriti, portino il cappello a tre punte o il berretto frigio».
Ultimi anni e morte di don Giuseppe Miorelli
Don Giuseppe Miorelli rimase nella parrocchia di Molinella fino al 1909, facendo poi rientro ad Arco. Mancò ai vivi il 17 aprile del 1929. Non sappiamo come abbia trascorso i circa 20 anni passati ad Arco dopo la sua uscita da Molinella. Nel 1909 don Miorelli aveva circa 64 anni, e probabilmente trovo occupazione pastorale, secondo la sua vocazione, almeno fino a quando la salute lo assisté. Certo, con le sue opere gratuite e i suoi interventi sociali, non doveva essersi arricchito, e con ogni probabilità continuò a vivere in povertà e semplicità, come aveva sempre fatto.
Le lapidi di Molinella
Un gruppo cruciforme di cinque lapidi si trova infisso all’esterno, sulla parete laterale di destra (sed) della chiesa di Molinella, non lontano dalla porta principale d’ingresso. Una di queste, al centro, ricorda il generoso sacerdote con queste parole:
«A PERENNE RICORDO DI / DON GIUSEPPE MIORELLI / SACERDOTE E MAESTRO / NELLA CONGREGAZIONE DEI P.P. CAVANIS / CURATO E RETTORE DI QUESTA CHIESA / DA LUI RESTAURATA E AMPLIATA / SPESE IN OPERE DI FECONDO APOSTOLATO / FONDÒ LA PRIMA CASSA RURALE DEL POLESINE / E UN FIORENTE ASILO INFANTILE / VERO PADRE DEI POVERI / ATTIRÒ SOVR’ESSI LA PIETÀ DEI RICCHI / FRA I QUALI EBBE AMICO E CONSIGLIERE / IL COMM. EUGENIO NOB. PETROBELLI / FINÌ PIAMENTE I SUOI GIORNI / NELLA NATIA ARCO DI TRENTO / XVII aprile MCMXXIX».”
Sotto a questa lapide, nella stessa parete, esiste un’altra lapide, che non fa riferimento personale a don Miorelli, ma pur sempre alla sua opera: essa commemora la fondazione della Cassa rurale di Molinella, con le seguenti parole:
“NEL CENTENARIO DELLA PRIMA CASSA RURALE / DELLA DIOCESI, QUI ISTITUITA NEL 1893 / LA COMUNITÁ DI MOLINELLA / A MEMORIA PONE / 27 GIUGNO 1893”.”
Sulla destra, c’è ancora un’altra lapide che ricorda il nostro:
“SIA IN BENEDIZIONE IL NOBIL UOMO / PIETRO PIETROBELLI / D’INLUSTRE CASATO LENDINARESE / CHE NEL MDCXI-III / ERESSE DALLE FONDAMENTA / LA CHIESA E L’ATTIGUA CANONICA / E DEL NON DEGENERE RAMPOLLO / comm. EUGENIO PETROBELLI / INSIGNE CULTORE D’AGRARIA / COADIUVÒ IL RETTORE / don GIUSEPPE MIORELLI / NELLE SPESE DEL CULTO / E DELLA PUBBLICA PROSPERITÀ / IL PAESE RICONOSCENTE / NELL’ANNO MCMXXIX.”
Quest’ultima lapide fu posta con ogni evidenza nell’occasione della morte di don Miorelli, nel 1929.
L’amore per i poveri, così ben mostrato alla Molinella di Lendinara, don Giuseppe Miorelli l’aveva imparato e praticato già nella congregazione, dato che le scuole Cavanis a Lendinara, dove lui era rimasto buon numero di anni, a Venezia e a Possagno, erano completamente gratuite e a favore di bambini e ragazzi principalmente poveri..
Origine della banca di Rovigo (RovigoBanca Credito Cooperativo).
Nel 1883 a Loreggia (Padova), sulla scorta delle Casse Rurali istituite in Germania a partire dal 1849 dal filantropo tedesco Federico Guglielmo Raiffesen, nacque la prima delle Casse Rurali italiane (ora Banche di Credito Cooperativo) ad opera di Leone Wollemborg. Sempre in Veneto, dopo l’emanazione nel 1891 dell’enciclica “Rerum Novarum” da parte di Leone XIII, che invitava i cattolici a dare vita a forme di solidarietà tese a favorire lo sviluppo dei ceti rurali e del proletariato urbano, sorsero le prime Casse Rurali di ispirazione cattolica (e il primo ad avviarle fu don Luigi Cerutti, dando vita alla Cassa di Gambarare di Mira, Venezia).
Come è noto, le Casse Rurali nacquero per scardinare il sistema dell’usura che opprimeva le fasce più deboli della popolazione ed ebbero il merito di consentire l’accesso al credito specialmente agli agricoltori ed agli artigiani con tassi contenuti, al fine di superare particolari situazioni di difficoltà e di favorire così lo sviluppo nel territorio di competenza.
Ben presto questa interessante esperienza approdò anche in provincia di Rovigo, diffondendosi in tutto il Polesine. La prima Cassa Rurale della Diocesi di Adria (CRA) venne fondata il 26 giugno 1893 a Molinella per volontà di don Giuseppe Miorelli, parroco della piccola frazioncina di Lendinara. Il 18 aprile del 1894 venne inaugurata la C.R.A. di Santa Sofia di Lendinara e qualche mese dopo toccò a quella di Villanova del Ghebbo. Risalirebbe al 6 aprile 1895 l’istituzione della C.R.A. di Rasa e, sempre nello stesso anno, prese il via anche quella di Villafora. Nel giro di pochi mesi, in tutto il Polesine fu un fiorire di Casse Rurali plasmatesi all’ombra dei campanili.
La città di Rovigo, cuore operativo e sede centrale di quello che diventò la RovigoBanca, vide un nascere e svilupparsi della CRA dal 1894 (la CRA del duomo) in poi. Qui, naturalmente, si concentrarono gli sforzi maggiori dei vertici cattolici del Polesine; in quegli stessi anni essi avviarono la “Banca Cattolica del Polesine” e il periodico diocesano “La Settimana”. La stessa “Federazione Diocesana delle Casse Rurali Polesane”, fondata a Lendinara nel maggio 1895, fu spostata l’anno dopo a Rovigo, sotto la presidenza di mons. Giacomo Sichirollo.
Il numero delle casse polesane toccò la cifra massima di 55 nel 1908, poi andò decrescendo. La bufera del fascismo spazzò via non pochi istituti. L’avvento della democrazia e della libertà ne ritrovò all’appello un numero più contenuto, con la tendenza al decremento numerico e al potenziamento di quelle che sopravvivevano. Erano 23 a fine 1961, 15 nel 1978. In un rinnovato contesto operativo, con l’allargamento dei limiti circoscrizionali a fronte di una crescita dimensionale, le Casse Rurali e Artigiane, diventando Banche di Credito Cooperativo, cominciarono a fondersi. Dopo varie fusioni successive, con l’Assemblea dei Soci del 30 maggio 2009 venne approvata la variazione della denominazione sociale e nasce: RovigoBanca Credito Cooperativo. Questa è, quindi, l’erede di oltre un secolo di tradizioni ed attività a sostegno della comunità, ed è erede della piccola ma felice iniziativa di don Giuseppe Miorelli, già padre Cavanis.
Alla luce delle sue opere di carità, di educazione, di redenzione del popolo più povero, del suo spirito pastorale veramente Cavanis, la personalità del P. Giuseppe Miorelli deve essere rivista. Si possono fare due ipotesi: la prima, che qualche tempo dopo la sua uscita di congregazione egli si sia riveduto e, in qualche modo convertito; l’altra, che a mio parere è più probabile, è che il religioso avesse sì, a quanto pare, un carattere difficile in comunità; ma che sotto certi aspetti pesanti si celasse, anche nella fase di vita religiosa della sua vita, lo spirito profetico. I profeti in genere sono persone scomode. Lo erano, a quel tempo, anche gli irredentisti, i seguaci di politiche di sinistra e altri che seguivano linee diverse da quelle ufficiali della chiesa.
Sarebbe interessante per l’Istituto che si ricercasse e si studiasse – se esiste – il suo archivio personale per capire meglio la sua persona, la sua storia personale e il suo pensiero.
7.16 Fra Giuseppe Vedovato
Nato a Robegano, paese situato presso Salzano sulla via Castellana, in provincia e diocesi di Treviso, il 28 ottobre 1893, fu un aspirante laico entrato in Istituto l’11 aprile 1915, ventenne, è presente a Venezia come aspirante laico nel 1915 e 1916, indossò l’abito religioso il 25 marzo 1917, lo troviamo come novizio laico a Venezia nel 1917-1918; aveva vestito infatti l’abito dell’Istituto ed era entrato in noviziato il 23 marzo 1917. Fu chiamato tuttavia alle armi durante la grande guerra il 6 dicembre 1917 e rimase militare fino al 24 marzo 1919. Completò allora il suo noviziato biennale ed emise i voti temporanei, triennali, a Venezia il 28 marzo 1921 e i voti perpetui nel giugno 1924. Fu un fratello laico instancabile e industrioso.
Almeno nei primi mesi del 1918 risulta essere stato sotto le armi, il che probabilmente interruppe il suo noviziato; infatti il 29 marzo 1918 P. Tormene annota nel diario: “Sulla sera Gesù ci manda la consolazione di veder arrivare improvvisamente in licenza di convalescenza di 25 giorni il nostro Fra Giuseppe Vedovato, sfinito sì di forze per la lunga malattia e la quasi nessuna cura dei medici, ma in condizioni però di potersi rimettere, come speriamo, fra noi, Deo gratias!” Era ancora parzialmente ammalato quando dovette ritornare a Ferrara al servizio militare. Alla fine della guerra, il 24 ottobre 1918, il diario riporta che, ancora militare, aveva preso la febbre “spagnola”, che aveva ricevuto gli ultimi sacramenti, ma che si era ripreso. Il 2 febbraio 1919 fu operato di otite in un ospedale militare, e così continua il suo calvario, in buona parte dovuto alla mala sanità dl tempo di guerra e dell’ambiente degli ospedali militari. Ritornato in comunità, guarito il 24 marzo 1919, “ricomincia colla benedizione di Maria il suo biennio di Noviziato”. E, come si diceva, emise allora la professione dei voti triennali il 28 marzo 1921.
Quasi subito dopo aver emesso i voti perpetui, il che avvenne in ritardo il 27 giugno 1924, festa del S. Cuore, essendosi in quel giorno fra Giuseppe leggermente ripreso da un periodo di depressione fisica, cadde di nuovo in una lunga e grave malattia, forse conseguenza della guerra e degli strapazzi della vita al fronte.
Il 30 agosto 1924 fu portato di urgenza da Possagno a S. Giuliano, al margine della laguna, e di là con il motoscafo della Croce rossa direttamente a Sacca Sessola, il sanatorio veneziano nell’isola omonima, specializzato in TBC, dove fu internato e rimase fino alla morte. Si trattava dunque di tubercolosi. Da notare che a Sacca Sessola si trovava già, un po’ meglio in salute, anche P. Mario Miotello.
Il povero fratello Vedovato – dice il necrologio di Congregazione – era un uomo di grande pazienza e virtù. Abbracciò con animo sereno in questo sanatorio, per ancora nove anni, la croce mandatagli dal cielo. Il 19 aprile 1931, dopo sette anni trascorsi al sanatorio di Sacca Sessola, fu trasferito a quello di Valdobbiadene, dove fu accompagnato da fra’ Ausonio; con lo scopo di alleviare la monotonia della vita in quella triste isola della Sacca e per tentare di ottenere qualche vantaggio con il cambio di clima. Il 20 settembre 1933 il preposito P. Aurelio Andreatta gli trasmetteva per iscritto il permesso di rompere il digiuno eucaristico, che a quel tempo vigeva dalla mezzanotte, bevendo o mangiando qualcosa, dato lo stato di malattia, come da rescritto della Sacra Congregazione dei Religiosi dell’11 settembre 1933.
Arricchito di molti atti di pietà e pazienza, benemerito della devozione alla Madre di Dio, passando molto tempo a confezionare con straordinaria costanza coroncine del rosario, confortato dai Sacramenti, spirò piamente a Venezia alle ore 3,20 del venerdì 15 Novembre 1935, nel quarantesimo anno di età. Della di lui morte, P. Aurelio Andreatta, preposito, che lo aveva visto la sera prima scrive: “La sera precedente era stato visitato e confortato dal P. Preposito e dal P. D’Ambrosi. Era perfettamente conscio del suo stato e rimesso in tutto alla volontà di Dio. Tratto tratto usciva in espressione edificanti. Sabato mattina la salma fu trasportata privatamente nella nostra Chiesa di S. Agnese, dove alle ore 9 ebbero luogo in forma solenne i funerali alla presenza degli alunni. In corteo con parte della scolaresca, al canto del Benedictus, fu poi accompagnata la salma fino alle Zattere, dove è stata collocata sulla barca dell’Impresa funebre. La seguirono alcuni nostri religiosi fino a tumulazione compiuta nel Cimitero civico”.
Fu sepolto a Venezia nel campo riservato ai consacrati ed ecclesiastici; la salma fu a suo tempo trasferita nella cappellina o absidiola funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesa di S. Cristoforo, nel cimitero civile di S. Michele.
7.17 Fra Filippo Fornasier
Di Possagno, diocesi di Treviso, ove nacque l’11 aprile 1901. Era entrato in Congregazione l’11 ottobre 1916, ricevendo la formazione iniziale a Venezia.
Ancora aspirante fratello laico, a seguito della notte terribile d’incursione aerea austriaca del 27 febbraio 1918, durante la 1ª guerra mondiale, quando i padri e altri religiosi passarono la notte distesi per terra nel corridoio tra l’androne e la residenza della comunità, si ammalò di febbri gastriche e poi di “pleurite destra”. Gli fu estratta l’acqua dalla pleura il 16 marzo e gradualmente migliorò. Ritornò in Istituto dall’ospedale “guarito – si spera completamente – ” il 14 aprile successivo. Rivestì l’abito della Congregazione e incominciò il suo noviziato il 7 dicembre 1918, vigilia dell’Immacolata. Nonostante la situazione di salute, fu richiamato sotto le armi e rimase militare dal 24 novembre 1920 al 21 giugno 1922, risiedendo a Bologna, assieme al giovane seminarista Vincenzo Saveri, e ricevendo appoggio cordiale in quella città dai PP. Barnabiti del collegio S. Luigi. Ritornato a Venezia nel 1922, emise i voti temporanei ad triennium il 2 febbraio 1923 e quelli perpetui il 2 febbraio 1926. Per i voti temporanei, aveva goduto di un indulto della Sacra Congregazione dei Religiosi; infatti era stato chiamato alle armi quando gli mancavano 13 giorni per completare il suo noviziato; a quanto pare avrebbe dovuto ripetere tutto il noviziato così interrotto. Invece la congregazione romana concede che possa emettere i voti senza ripetere il noviziato.
Era attivo e intraprendente e fornito di buono spirito religioso, esercitò finché poté le sue mansioni di fratello laico con fedeltà e impegno.
Lo troviamo dal 5 marzo 1923 al 1931 a Porcari; dal 1931 al 1935 a Venezia; nell’anno scolastico 1935-36 era stato di nuovo assegnato alla casa di Porcari, ma la nuova malattia lo trattenne a Venezia.
Ammalatosi, infatti, all’età di trenta cinque anni, accolto nell’ospedale di Mirano per curare la salute, fu visitato frequentemente dai confratelli e là dopo pochi mesi, giunto inaspettatamente all’ultima agonia, essendo ormai la morte imminente accompagnato dal preposito. P. Aurelio Andreatta e poi tra le braccia di P. Luigi Janeselli, recitando la professione di fede a gran voce, spirò pronunciando i dolcissimi nomi di Gesù e Maria, il 21 luglio 1936. Irradiò così dal suo letto di dolore luce di buon esempio e di santa edificazione sopra quanti l’assistevano.
Fra Filippo fu uno dei pochissimi religiosi Cavanis possagnesi. L’unico anzi dei due di tale origine che si mantenne in in Congregazione fino alla morte.
Le spoglie del caro fratello furono provvisoriamente tumulate nel cimitero di Mirano; in seguito furono trasferite e riposano nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo, nel cimitero civico di S. Michele a Venezia.
7.18 P. Giuseppe Borghese
Nato a Malnisio, del decanato di Aviano, in Diocesi di Concordia, provincia di Pordenone (attualmente), il 7 aprile 1875.
Entrò in Istituto come aspirante il 22 ottobre 1888, condottovi dal compaesano P. Francesco Cilligot. Passò gli anni di formazione iniziale, almeno dal 1892 a 1898, a Venezia. Vestì l’abito dell’Istituto il 17 gennaio 1892. Emise la professione temporanea nelle mani del preposito, P. Giuseppe Da Col, a Venezia il 19 febbraio 1893, e i voti perpetui il 26 gennaio 1896.
Il 30 marzo 1895 ricevette, assieme a Basilio Martinelli, la tonsura e i quattro ordini minori nella cappella del patriarchio di Venezia (vescovado), a fianco alla basilica di S. Marco, dal patriarca Giuseppe Sarto, che più tardi diventerà Papa e santo Pio X, ed era grande amico dell’Istituto Cavanis. Nel giugno 1895 si presentà alla visita militare e e fu dichiarato revedibile per difetto al torace. Più tardi viene visitato ancora e dichiarato inabile. Fu ordinato suddiacono a Venezia dal patriarca Sarto il 19 dicembre 1896. Fu consacrato diacono dallo stesso e nella stessa chiesa il 17 aprile 1897; pure dal patriarca Sarto fu consacrato prete, nella chiesa di S. Cassiano, il 14 agosto 1898.
Sacerdote professo, laureato in Lingue, particolarmente zelante della salvezza delle anime, attese assiduamente all’esercizio della scuola, ministero che svolgeva da vero Cavanis, con grande passione e competenza, con dolcezza e fermezza, con buon umore, con rispetto per gli allievi, grandi o piccoli, con amore individuale che ciascuno degli alunni sentiva rivolto a sé personalmente. Particolare tenerezza P. Bepi rivolgeva agli orfani, allora numerosi anche e soprattutto a seguito delle varie guerre e principalmente della prima guerra mondiale.
Non disponiamo per ora di dati completi sulla sua presenza e attività nelle varie case. Probabilmente rimase sempre nella casa di Venezia salvo nella brevissima esperienza di Conselve. In pratica, abbiamo questi dati: Dopo l’ordinazione presbiterale fu a Venezia con certezza dal 1898 al 1904; nel 1907-08; dal 1913 al 1924; fu a Conselve nel 1924-25; poi di nuovo a Venezia dal 1924 all’inizio del 1936, anno della sua morte.
Negli anni ’30 e fino quasi alla morte, insegnava tra l’altro varie materie teologiche ai chierici teologi Cavanis; nel 1934-35 e 1935-36, almeno, insegnava in particolare Diritto Canonico, Morale, Pastorale, Ascetica e Sacra Eloquenza. In pratica sosteneva da solo almeno metà delle materie del corso di Teologia.
Fu eletto procuratore generale, cioè economo della Congregazione, dal 1931 al 1936; così pure discreto ossia delegato della casa di Venezia nel capitolo generale del 9 agosto 1930; risulta eletto 4° definitore (consigliere generale) nel 1936-37, cosa impossibile dato che morì nel gennaio 1936.
Nel 1924, come si diceva, fu incaricato, con l’appoggio di fra Vincenzo Faliva, di aprire la casa di Conselve (Padova). Vi andò, ma con poco entusiasmo. Il problema della casa di Conselve sembra essere stata principalmente la scarsa disponibilità del P. Giuseppe Borghese, che si lagnava di tutto e che aveva troppa nostalgia della vita più movimentata di Venezia, dove aveva molte amicizie e contatti.
Si dedicò anche a ricevere le confessioni sia del popolo cristiano sia dei giovani, specialmente di quelli appartenenti alla Congregazione Mariana, e al ministero della predicazione. In questo, dietro un genere letterario di informalità e a volte di una giocosa estemporaneità, si trovava una forte e avanzata dottrina, fondata soprattutto sulla Parola di Dio, letta, studiata, compresa, amata. Era frequente nelle sue prediche ed omelie, la frase “leggo nelle Sacre Scritture …”. Nel ministero della confessione e della direzione spirituale, poi “più che altrove, esercitò in modo impareggiabile la sua missione. Dispensatore di perdono e di conforto, aiuto valido nei tentennamenti, capace di accendere una luce di gioiosa speranza nell’anima di chi si sentiva turbato e vinto, era preoccupato sì di porre in evidenza la bruttezza della colpa, ma più ancora di additare la bellezza della vita in stato di grazia, di far gustare il profumo della virtù ed assaporare la letizia e la serenità che gode chi vive nell’amicizia con Dio”. Si acquistò l’amore di tutti per la mitezza della natura e dei costumi.
Era un religioso Cavanis molto stimato dai laici: allievi, ex-allievi, amici dell’Istituto, cristiani che frequentavano la chiesa di S. Agnese, penitenti; un po’ meno negli ambienti ufficiali della Congregazione, e in modo variabile dai diversi confratelli. Aveva un carattere probabilmente non costante e stabile, e un complesso d’inferiorità, anche per il fatto di non aver praticamente mai ricoperto cariche in Congregazione. Tale particolare carattere, come avviene, si avvertiva di più da chi conviveva ogni giorno con lui che da chi lo incontrava di tanto in tanto, cioè gli esterni.
Sulla metà degli anni Trenta del secolo scorso, nel 1935, fu colto da lunga malattia mortale, con ogni evidenza senza speranza, che faceva ricordare ai suoi ex-allievi, che lo amavano molto, una massima un po’ scherzosa, ma anche di cristiana sopportazione, che il caro padre ripeteva spesso; “Sia lodato Dio, che le cose non vanno a modo mio!”. Così racconta il Diario di Congregazione, il 13 dicembre 1935: “Oggi il P. Giuseppe Borghese, affetto da tumore grave allo stomaco, come constatarono dapprima il medico di casa, Dott. Pagnacco, poi il radiologo dell’ospedale ed infine il primario Chirurgo Dott. Forni, è entrato nell’ospedale civile per subire un’operazione. Già dallo scorso giugno si notava nel Padre un insolito deperimento, ch’egli credette di poter curare con un periodo di riposo a Possagno. Ma neppure quell’aria e un trattamento di riguardo gli giovarono, per cui finalmente s’indusse per volontà del Preposito ad una visita medica col risultato di cui sopra.” E il giorno dopo: “Il P. Borghese è operato, ma il male troppo progredito fa sì che l’intervento chirurgico riesca purtroppo inefficace”. Il 24 dicembre, vigilia di Natale, il diario riporta: “Nell’ospedale il P. Giuseppe Borghese è oggetto di affettuose premure, visite di confratelli, scolari, ex-scolari e ammiratori. Medici ed infermieri sono meravigliati dell’eccezionale attestazione di stima e di simpatia verso l’infermo, il cui stato purtroppo va seguendo un progressivo peggioramento. Il male non si può vincere coi rimedi umani e quindi l’unica speranza nella preghiera”.
Rientrò in comunità all’inizio del 1936, ma in pessimo stato, e continuò a peggiorare. Più tardi, dopo diciassette giorni, corroborato dai sacramenti della Chiesa, avendo ricevuto il viatico e l’estrema unzione il 27 gennaio, spirò nel bacio del Signore, a Venezia, il 28 gennaio 1936.
Sul suo laborioso e privato tentativo (1917-1921) di collaborare alla riforma della legislazione propria dell’Istituto, nella fase successiva alla promulgazione del codice di diritto canonico (1917), si veda il capitolo “Breve cronologia delle costituzioni (e norme)”.
Sulla sua idea, un po’ peregrina, di orientare una “pia e ignota benefattrice”, probabilmente una sua penitente, a offrire alla chiesa di S. Agnese una pala di altare di S. Gabriele dell’Addolorata, che poi fu trasferita invece alla chiesa del collegio di Porcari, e in seguito a Possagno, si veda il capitolo sulla chiesa di S. Agnese.
Il suo funerale fu celebrato con grande partecipazione dei suoi antichi scolari, che raccolsero fra di loro un’offerta per la celebrazione annuale in perpetuo di due Messe per l’anima del maestro. Le spoglie del caro padre riposano dal 1942 nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo, nel cimitero civico di S. Michele a Venezia.
7.19 P. Giovanni Tamanini
Il diario della Congregazione riporta la seguente notizia su questo giovane padre: “Giugno 23 – Domenica. La Comunità alle 18 ½ inizia il ritiro annuale, che è predicato dal P. Guerra dei Minori della Vigna.
Il ritiro è in parte turbato dalla notizia (il giorno prima una telefonata dal Collegio [Canova di Possagno] annunciava un improvviso quanto inatteso aggravamento) della morte del P. Giovanni Tamanini avvenuta in Possagno alle ore del 15 del 27 Giugno [1940]. Il P. Tamanini, proveniente da Porcari, da qualche settimana era in cura a Possagno per la febbre maltese, che aveva all’apparenza. Decorso normale. Invece il siero delle punture ordinate dai medici influì subdolamente sulle reni e gli provocò un’improvvisa uremia con perdita della conoscenza e coma. Non si riprese più e dopo trentasei ore di penosissima agonia, ricevuta l’estrema unzione, spirò assistito da quel P. Rettore, mentre i Religiosi della Casa erano in Col Draga ritirati negli esercizi spirituali.
Il Preposito andò subito a Possagno la sera del 27 e, visitata la salma e fatte preghiere per il carissimo Confratello, ritornò il 28 a Venezia per chiudere all’indomani insieme con i Religiosi della famiglia il ritiro.” Aveva soltanto 34 anni, e si può immaginare la desolazione dei confratelli.
P. Giovanni Tamanini (il nome completo di battesimo era Giovanni Innocente) era nato il 1° marzo 1906 nel paese di Mount Carmel (Pennsylvania, USA) da una famiglia originaria di Vigolo Vattaro, diocesi e provincia (attualmente) di Trento. La famiglia era ritornata alla base, e Giovanni risultava abitante a Vigolo Vattaro. A quanto pare, la madre Erminia Paoli era rientrata in Italia con la prole dopo la morte prematura del marito Giulio. Giovanni aveva frequentato, o almeno aveva fatto gli esami suppletivi della seconda ginnasio nel collegio-convitto vescovile di Trento, di cui esiste una pagella. In seguito, Giovanni era entrato in istituto come aspirante il 25 novembre 1919, a Venezia, perché a Possagno non si teneva quell’anno il corso di terza ginnasio, nell’immediato dopoguerra, per via dell’occuazione del collegio da un comando militare italiano. Ancora aspirante, aveva subito un’operazione chirurgica all’orecchio riuscita felicemente il 24 ottobre 1922; lo stesso giorno aveva ricevuto le Testimoniali dalla diocesi di Trento, per i buoni uffici della parrocchia di Vigolo Vattaro; aveva vestito l’abito della Congregazione e iniziato il suo noviziato il 10 dicembre 1922, aveva emesso la professione temporanea il 10 dicembre 1923 ed era unito ai nostri col vincolo della professione perpetua, emessa il 19 marzo 1928, festa di S. Giuseppe, unitamente ai colleghi Gioacchino Sighel, Antonio Cristelli e Angelo Sighel, a Venezia.
Ricevette la tonsura clericale il 20 maggio 1928, i primi due ordini minori (ostiariato e lettorato) il 5 aprile 1930, sabato sitientes, nella sala dei banchetti, dal patriarca La Fontaine; i secondi due ordini minori (esorcistato e accolitato) nella basilica della Salute, dallo stesso presule, il 13 luglio 1930; il suddiaconato nella cappella del Patriarchio il 1° febbraio 1931, sempre assieme ai confratelli Gioacchino Sighel, Antonio Cristelli e Angelo Sighel; il diaconato il 21 marzo 1931 nella basilica di S. Marco. Fu ordinato prete assieme a P. Antonio Cristelli a Possagno, nel tempio canoviano, da monsignor Giacinto Longhin il 7 giugno 1931.
Si era iscritto a Ca’ Foscari, che a quell’epoca era un istituto universitario, ma non ancora una facoltà o, come oggi un’università, per la laurea in lingue estere.
Appena divenuto sacerdote, esercitò a Porcari per nove anni il ministero della scuola e dell’educazione della gioventù, con grande lode di pietà e dottrina. Fu tra l’altro assistente della Congregazione Mariana di quella casa. Era professore di lingua francese, dove aveva raggiunto, anche a detta degli ispettori del ministero, una rara competenza.
Tra i suoi meriti questo è degno di essere ricordato: come amante cultore della musica non tralasciò mai alcuna fatica per istruire con straordinaria pazienza i ragazzi nella musica e aveva organizzato la banda o fanfara del collegio di Porcari. Oltre che per queste attività e questi meriti, fu ricordato dai confratelli anche per la sua pietà sacerdotale e religiosa e per la bontà del suo carattere, che lo rendevano caro a tutti.
Terminate le lezioni dell’anno scolastico 1940, si ammalò di febbre maltese o brucellosi, nel giorno in cui avrebbe dovuto discutere la tesi di laurea all’Università di Firenze, fu trasferito a Possagno per convalescenza; lì, contro le previsioni, la malattia improvvisamente riprese e si aggravò. Ricevuti gli olii Santi e aiutato dalle preghiere dei confratelli spirò piamente [il 27 giugno 1940]. Il suo funerale fu celebrato a Possagno tra il sincero e unanime compianto di confratelli e alunni, e poi, con maggiore partecipazione di popolo, a Porcari, la cittadina che aveva visto la sua benemerita presenza e la sua attività pastorale”.
7.20 P. Luigi D’Andrea e fratel Enrico Cognolato
Il diario di Congregazione, il 4 luglio 1940, riporta questo testo molto triste:
“Una dolorosissima sciagura si era in quel giorno abbattuta sull’Istituto. Verso le due dopo mezzodì, il P. D’Andrea Luigi e Fra Enrico Cognolato si assentavano dalla Casa (per verità senza chiedere la licenza e la benedizione al Vicario P. Pellegrino Bolzonello) e nonostante il cielo temporalesco e le parole amichevolmente dissuasive di cognoscenti incontrati per via, noleggiato un caicco si dirigevano verso S. Giorgio in Alga allo scopo l’uno di avere una prima lezione di nuoto ed il fratello laico di fare un bagno in laguna.
Non si sa quello che è succeduto. Nel frattempo si è anche scatenato un furioso temporale. Si suppone però che il P. D’Andrea sia stato colpito da malore (la distanza dal porto era troppo poca) e che Fra Enrico sia corso al salvataggio, ma con esito infelice. Dopo le 4 i marinai di una nave attraccata alla banchina della Darsena in Marittima avvistavano due corpi galleggianti in balìa della corrente. Accorrono e li ricuperano. In un primo momento si spera di salvarli con la respirazione artificiale, ma tutto fu inutile. Intanto viene recuperato anche il caicco ormeggiato ad una bricola e dai vestiti che vi son dentro si capisce trattarsi di due religiosi del nostro Istituto. Si telefona. Accorrono in Marittima il P. Luigi Janeselli ed il P. Vincenzo Saveri e purtroppo devono constatare la dura realtà.
Col permesso dell’Autorità competente le due salme, sopra una lancia della Croce Rossa, sono portate all’Istituto e pietosamente composte nella Cappella del Noviziato.
Il Preposito al suo ritorno, lì, un po’ sfigurati ma perfettamente riconoscibili, trova i due Religiosi che al mattino aveva lasciati in perfetta salute.
Il cordoglio attorno all’Istituto fu unanime. Al mattino cominciarono le visite di condoglianza, prima fra tutte quella di Sua eccellenza monsignor Giovanni Jeremich Vescovo Ausiliare. Il Patriarca ha inviato un accorato biglietto. I funerali ebbero luogo il sabato 6 luglio alle ore 9.30.
L’anno precedente era stato caratterizzato dalla grande gioia del centenario. Ora in una settimana tre giovani Religiosi sono stati rapiti dalla morte e due in tal modo! Il dolore è immenso. Non resta che meditare a proprio profitto spirituale e ripetere, adorando i consigli della Provvidenza, l’aspirazione così frequente sulle labbra del nostro P. Anton’Angelo: Sia fatta, lodata ed in eterno esaltata la giustissima, altissima e amabilissima volontà di Dio in tutte le cose.”
Le spoglie dei cari confratelli, persi in modo così drammatico e prematuro, riposano nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo, nel cimitero civico di S. Michele a Venezia.
7.21 P. Luigi D’Andrea
Nativo di Pieve di Soligo, in provincia di Treviso e diocesi di Ceneda, ivi nato il 14 luglio 1911. Dopo essere entrato in Istituto il 7 luglio 1925 a Possagno, passò più tardi per continuare la sua formazione in casa-madre a Venezia il 10 settembre 1927; lì vestì l’abito religioso Cavanis il 20 ottobre 1929 e iniziò così il noviziato (1929-30), con i quattro confratelli Guido Cognolato, Luigi Candiago, Antonio Turetta, Alessandro Valeriani, che furono tutti perseveranti fino alla fine; emise la professione temporanea il 10 febbraio 1930; professò i voti religiosi perpetui a Venezia l’11 marzo 1934.
Ricevette la tonsura a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; l’ostiariato e il lettorato pure a Venezia il 19 settembre 1936; l’esorcistato e l’accolitato nella stessa città il 13 marzo 1937. Aveva ricevuto l’ordine maggiore del suddiaconato e aveva cominciato a portare il manipolo il 4 luglio 1937; l’ordine sacro nel grado del diaconato nella chiesa del Redentore a Venezia, dal Patriarca, il 18 settembre 1937; era poi stato consacrato prete, pure al Redentore, dal Patriarca, il 5 dicembre 1937.
Era addetto alle nostre scuole di Lettere e contemporaneamente si era iscritto all’istituto universitario di Ca’ Foscari a Venezia, per la laurea in lingue, particolarmente del francese. Mentre attendeva con impegno al completamento degli studi, esercitava l’insegnamento nelle classi inferiori del ginnasio, rivelando particolare interesse per i problemi educativi, come ci attestano alcuni suoi quaderni in cui raccoglieva note, appunti, riflessioni sull’anima giovanile e e sui mezzi pedagogici più opportuni.
Essendo uscito nel pomeriggio con il confratello Enrico Cognolato per un bagno nella laguna che circonda la città, perì d’improvvisa e misera morte il 4 luglio 1940, non avendo ancora compiuti ventinove anni. Pochi giorni prima, facendo gli Esercizi spirituali, aveva piamente scritto in un foglietto “O morte in qualunque ora tu verrai, sarai sempre grata e accettata”.
Il suo corpo ricuperato dalle acque fu sepolto nel cimitero di S. Michele tra il compianto dei confratelli, di alunni e di numerosi amici della Congregazione.
7.22 Fra Enrico Cognolato
Perì nello stesso giorno e nelle stesse circostanze, in cui era perito il P. D’Andrea, nel pieno fiore dell’età – era nato circa trenta due anni prima (intorno al 1908).
Enrico era nato il 15 luglio 1908 nel paese di Bertipaglia, più esattamente nella frazione di Maserà, diocesi e provincia di Padova. Era entrato in Congregazione come candidato a fratello laico a fine 1923 o inizio 1924; aveva vestito l’abito religioso il 15 dicembre 1924; aveva emesso i voti temporanei il pomeriggio del 18 dicembre 1926 e i voti perpetui il 4 gennaio 1930. Tra l’una e l’altra professione aveva svolto il servizio militare, in sanità a Verona. Nel 1926-27 tuttavia non era nell’esercito ma in congregazione, ed era stato inviato per quell’anno scolastico a Porcari, per aiutare e sostituite il fratello laici che vi si trovava, che era ammalato. La sua esperienza di vita militare si era conclusa definitivamente, con il suo ritorno in comunità, il 21 agosto 1929.
Rimase poi nella comunità di Venezia dal 1929 al 1931; a Porcari dal 1931 al 1934; poi a Venezia per circa sei anni, fino alla tragica morte.
Aveva effettuato, come fratello laico, vari compiti di carattere di servizio pratico, “ed egli tutto assolveva con pronta alacrità, sempre contento ed instancabile. Il lavoro manuale non lo impediva di attendere con fedeltà e spirito di fede ai doveri spirituali che derivavano dalla sua condizione di religioso.”
Ebbe i funerali assieme al P. D’Andrea. Fratello laico, diede luminosi esempi di laboriosità prima e dopo aver emesso i voti perpetui, nelle varie case della Congregazione.
7.23 P. Amedeo Fedel
Nato a Miola di Piné, diocesi e provincia di Trento, il 2 giugno 1890, da Nicolò e da Caterina Bolech, orfano di madre al momento del suo ingresso in Istituto, che avvenne il 12 ottobre 1905, assieme ad Aurelio Andreatta e a Mario Janeselli. A differenza di questi compagni, che erano figli di contadini, Amedeo era figlio di un veterinario. Il quaderno di matricola precisa che Amedeo era detto “Topa”, forse un soprannome di famiglia. Il suo nome completo di battesimo era “Amedeo Ignazio”; si trova, nei documenti che presentò all’Istituto alla sua entrata in seminario, con varianti; Amedeo diventa Amadeo o Amadio; e Ignazio diventa Inazio.
Il quaderno di matricola del noviziato sopracitato ci informa anche sulla politica scolastica dell’Istituto con i suoi aspiranti, a quel tempo: per esempio ci spiega che Amedeo aveva portato “l’attestato di 2ª popol.[are] compìto a Miola – fu messo in IV – maturità a S. Stin [n°]1906 – Studiò nelle vacanze e fu poi messo (1906-07) in seconda ginnasio, che dovette poi ripeter nel seg.[uente] anno 1907-08“.
Analogamente per vari altri aspiranti.
Amedeo entrò in Congregazione, assieme agli altri del suo gruppetto, il 12 ottobre 1905, aveva vestito l’abito religioso il 4 luglio 1909 ed emesso la professione dei voti temporanei il 5 (o 4) luglio 1910 nell’oratorio dei piccoli a Venezia, assieme a tre confratelli, compagni di noviziato; ed emise la professione perpetua assieme agli stessi tre compagni il 5 luglio 1913 in S. Agnese, davanti alla scolaresca. Ricevette la tonsura, assieme a tre confratelli Cavanis, dal patriarca Aristide Cavallari nella cappella del Patriarchio il 12 dicembre 1912; i quattro ordini minori nella stessa cappella, e con gli stessi tre confratelli ma dal nuovo patriarca Pietro La Fontaine il 22 giugno 1916, solennità del Corpus Domini; ricevette il suddiaconato dal vescovo di Tortona, monsignor Simon Pietro Grassi, nel suo episcopio, durante il tempo del profugato, l’8 settembre 1918, nella memoria della Natività di Maria; il diaconato, dopo il ritorno a Venezia, il 21 dicembre 1918 dal patriarca Pietro la Fontaine nella cappella del patriarchio; concluse le tappe del corso teologico, ricevette l’ordinazione presbiterale dallo stesso patriarca, nella basilica di S. Marco, il sabato sitientes 5 aprile 1919. Fu una grande festa, con quattro neo-sacerdoti Cavanis, un record e la presenza di quasi tutti i Cavanis, e anche di don Orione venuto apposta da Tortona.
Attese con operosa attività all’educazione e istruzione dei fanciulli delle scuole elementari, di preferenza nella classe V, che i superiori gli assegnavano quasi annualmente perché ne conoscevano la preparazione specifica e l’ottima capacità nel preparare i bambini all’esame di stato. Insegnò a Venezia, a Possagno, a Porcari, conservando dei suoi alunni un costante ricordo, aiutato da una felice disposizione naturale a ritenere i nomi e anche da un’indole portata al culto delle memorie. Per la semplicità dei costumi e per l’indole gioviale era caro a tutti, specialmente agli ex-allievi, della cui associazione fu amoroso direttore soprattutto a Venezia.
Lo troviamo nel 1919-21 a Porcari, membro della prima comunità; dal 1922 al 1935 e dal 1937 al 1941 a Venezia; nell’anno scolastico 1935-36 a Possagno, collegio Canova; dal 1941 al 1945 a Porcari; gli ultimi mesi di malattia a Venezia.
Nel cinquantaseiesimo anno di età, avendo celebrato a Porcari, nel 1944, il 25° anniversario dell’ordinazione presbiterale, colpito da grave e incurabile malattia, fortificato dai sacramenti della Chiesa e dalle preghiere dei confratelli si addormentò placidamente nel Signore, a Venezia nel pomeriggio del 9 settembre 1945.
P. Aurelio Andreatta, preposito, ricorda così la sua malattia e la sua morte: “Nel pomeriggio [del 31 maggio 1945] arriva da Porcari P. Amedeo Fedel, trasportato con la macchina del Collegio: le sue condizioni di salute appaiono gravi, come del resto ci aveva riferito il P. [Antonio] Turetta il 2 maggio, arrivando a Venezia da Porcari in bicicletta. Si tratta di un tumore allo stomaco ormai avanzato. Si faranno tutti i tentativi per vincere il male: a Venezia non mancano medici di valore e per di più amici dell’Istituto.” “Alla sera del 17 [giugno] ritorna dall’ospedale il P. Amedeo, che vi ha subito un’operazione del tutto inefficace data la natura ed i progressi del male. Egli però si illude.” Più avanti: “Ormai anch’egli ha la sensazione che si avvicina la fine; si era cercato di farglielo capire anche nei mesi precedenti per meglio disporlo all’ultimo passo, ma la speranza della guarigione tratto tratto lo riprende. Lo si dispone agli ultimi sacramenti: si confessa, riceve l’estrema unzione e all’indomani alle 6 ½ gli si amministra il viatico. Compie tutto con piena coscienza e pietà edificante. Ormai si chiude in se stesso e si prepara all’incontro con Dio. La giornata dell’8 [settembre] passa senza sofferenze. Al mattino della domenica 9 riceve la visita di parecchi ex-allievi, che riconosce e saluta con affettuosità. Verso le ore 11 non percepisce più nulla e alla presenza dei Confratelli in preghiera spira serenamente alle 14 ¼.” del 9 settembre 1945, come si diceva sopra.
Le spoglie del caro confratello riposano nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo, nel cimitero civico di S. Michele a Venezia.
7.24 Fra Angelo Furian
Nato a Alonte presso Lonigo in provincia e diocesi di Vicenza il 30 settembre 1869, nella frazione e parrocchia di Carlanzone, Angelo Furian era entrato in contatto con i Cavanis, più esattamente con il preposito P. Sapori il 21 ottobre 1886, tramite lettera del P. Fanton, e buona informazione da parte del parroco di Carlanzone, frazione di Alonte. Arrivato a Venezia il 13 novembre 1886; indossò l’abito dell’Istituto il 16 luglio 1889, nella festa della Madonna del Carmine, aveva emesso i primi voti il 12 novembre 1891. Dovette interrompere per 45 giorni il suo noviziato a partire dal 4 settembre 1890, “per gli esercizi militari di 45 giorni, appartenendo alla 2ª categoria”. Il documento di congedo però, conservato nella busta “Curia Confratelli” in AICV, dice che fu arruolato nel maggio 1889 e congedato in ottobre del 1890. Vestì l’abito dell’Istituto il 16 dicembre 1894 lo stesso giorno di P. Agostino Zamattio, ma in privato. Lo troviamo, con dati abbastanza incompleti, a Venezia nel 1903-04; a Possagno nel 1919-20 e probabilmente negli anni seguenti; a Porcari dal 9 settembre 1928 in poi; di nuovo a Possagno dal 1931 al 1937; ancora a Venezia dall’autunno 1937 fino alla morte nel 1945. Nel settembre 1944 d’altra parte risulta presente a Possagno (forse temporaneamente, per vacanze?), al tempo del grande rastrellamento nazista e repubblichino sul Grappa e, data l’età molto avanzata, non viene preso prigioniero con gli altri padri e religiosi e tanti possagnesi, ma lasciato nel collegio.
“Obbedienza, semplicità, lavoro: ecco l’insegna sotto la quale visse questo fratello, che lascia un sereno e grato ricordo di sè nell’Istituto”. “…lieto e umile ci lasciò non piccolo esempi di osservanza regolare, di pieta e di laboriosità”.
Raggiunti i settantasei anni nel servizio della comunità e dei confratelli, come pure nella sua collaborazione con gli istituti scolastici della Congregazione, presentava sintomi di grave arteriosclerosi e di insufficienza cardiaca. Messosi a letto da qualche tempo e regolarmente assistito, il giorno 21 dicembre 1945 il fratello che lo assisteva avvisò il preposito che fra Angelo si stava aggravando rapidamente. “Accorre al suo capezzale, lo conforta il Preposito e gli chiede se riceve volentieri l’Estrema Unzione. “Subito e volentieri, rispose. Gli viene pertanto amministrata (la S. Comunione l’aveva ricevuta al mattino e nei giorni precedenti); gli si dà anche la benedizione papale. Il sensorio però diminuisce rapidamente, entra in agonia e alle ore 21,30 [del 21 dicembre 1945] placidamente spira assistito dalle preghiere dei confratelli”.
Il funerale fu tenuto in S. Agnese davanti alla scolaresca e alla comunità religiosa la domenica 23 dicembre. E il suo corpo giace vicino a quello del P. Amedeo Fedel, morto qualche mese prima, e degli altri confratelli nel cimitero di S. Michele a Venezia, in terra e più tardi nell’abside mortuaria dell’Istituto nella chiesa di S. Cristoforo.
7.25 P. Carlo Donati
Nostro sacerdote professo nato a Calceranica, diocesi e provincia di Trento, il 16 marzo 1907, ed era figlio di Carlo e Chiara Martinelli. I Martinelli non mancano a Calceranica e dintorni. Il suo nome completo di battesimo era Carlo Giambattista, come si trova nel certificato di nascita e di battesimo.
Carlo entrò nell’aspirandato di Possagno nel dicembre 1919. Vestì l’abito dell’Istituto, assieme al compagno Lino Janeselli, il 23 o 29 giugno 1926, sembra nel probandato di Possagno visse l’esperienza del noviziato nel 1926-27 e si consacrò a Dio con la professione temporanea dei voti il 12 giugno (o luglio) 1927 nella cappella dei padri a Possagno; emise poi la professione perpetua a Venezia, in S. Agnese, l’8 novembre 1931, nella festa della Madonna del Soccorso.
Lo troviamo durante la fase della formazione iniziale, per esempio nel 1931-32, come chierico a Venezia con i suoi compagni sensu stricto o sensu lato: Gioachino Tomasi, Federico Sottopietra, Cesare Turetta, Luigi Ferrari, Bruno Marangoni, Pio Pasqualini, Vittorio Cristelli, Ferruccio Vianello. Prendevano l’abito quell’anno: Egidio Fagiani, Luigi Sighel, Angelo Guariento, Salvatore Gattoni, fratel Olivo Bertelli. Veramente delle belle annate. Di questi 14 giovani chierici, solo due lasceranno l’Istituto.
Il 4 aprile 1930, assieme a due confratelli (Riccardo Janeselli e Marco Cipolat), ricevette la tonsura in Patriarchio a Venezia, dal Patriarca La Fontaine. Ricevette gli ordini minori dell’ostiariato e del lettorato il 19 dicembre 1931, quelli dell’esorcistato e dell’accolitato il 12 marzo 1932, il suddiaconato, nella chiesa dell’Istituto a S. Agnese, il 24 settembre 1932 e il diaconato, nella basilica di S. Marco, il 17 dicembre 1932.
Infine il 2 luglio 1933 fu ordinato prete a Venezia, nella chiesa già cattedrale di S. Pietro di Castello, dal Patriarca Pietro La Fontaine, assieme ai confratelli, Lino Janeselli, Angelo Pillon e Luigi Ferrari.
Prestò la sua preziosa attività, dopo consacrato sacerdote, specialmente a Venezia nelle scuole e in altri ministeri per la salvezza delle anime con grande lode di pietà e di pazienza, per diciassette anni, caro agli alunni specialmente per la mitezza del carattere e la semplicità dei modi.
Più in dettaglio, troviamo P. Carlo Donati: a Venezia dal 1936 al 1941; come prezioso e amato pro-rettore o rettore, secondo i periodi, del piccolo seminario o probandato di Vicopelago e poi di S. Alessio (Lucca) dal 1941 al 1949; a Porcari nel 1949-50, cioè fino alla sua morte. Mancano, stranamente, sue tracce nei documenti dal 1933, anno dell’ordinazione al 1936. Più probabilmente era a Venezia anche in quegli anni.
Durante l’immane conflitto bellico della seconda guerra mondiale, che sconvolse per circa sette anni tutta la terra, coprì l’ufficio di Pro-Rettore del piccolo seminario di S. Alessio, in provincia di Lucca, con industriosa attività tra continue difficoltà. Era molto amato dai piccoli seminaristi, alcuni dei quali continuavano anche fino alla fine della loro vita, qualche ano fa, a stimarlo un santo. A S. Alessio e a Porcari era apprezzato molto dai ragazzi perché era un animatore eccezionale dei giochi e dei passatempi, correva con loro nelle partita a schiavi o all’uomo nero. Lo ammiravano perché era velocissimo.
A lui si doveva l’iniziativa di istituire e cominciare a editare e pubblicare la guida cinematografica S.O.S.
Dedicatosi nel collegio di Porcari ancor più all’amore della perfezione e della pietà fu colto da morte improvvisa nel quarantatreesimo anno di età, il 12 agosto 1950. Fu trovato alla mattina dai confratelli disteso sul letto, completamente vestito, compreso l’abito religioso, e con le mani incrociate sul petto come se attendesse l’ultimo giorno.
Il suo corpo sepolto tra il compianto dei confratelli, alunni e numerosi amici della nostra Congregazione, in sepolcro particolare nel cimitero di Porcari, fu poi traslato in quello di Calceranica.
P. Gioachino Tomasi, rettore del Collegio Cavanis di Porcari, nell’elogio funebre lo chiamò “Padre venerato”. Un’immagine ricordo aggiunge: “P. Carlo Donati, operaio indefesso nella vigna del Signore. Lo consumò lo zelo della casa di Dio, della salute della anime, delle vocazioni al santuario. Religioso esemplare, fattosi tutto a tutti, per sé invocò patimenti, umiliazioni; semplice, piacevole, pio. La sua memoria sarà in benedizione”.
7.26 P. Cesare Turetta
Cesare, detto spesso in famiglia e in Congregazione Cesarino (anche a distinguerlo dal padre, che si chiamava Cesare anche lui) e poi P. Cesarino, era nato il 22 febbraio 1909 a Carbonara, frazione di Rovolon, provincia e diocesi di Padova. Entrò in seminario minore dell’Istituto a Possagno l’11 settembre 1923. Fin dalla fanciullezza si esercitò nella disciplina religiosa e nello studio delle lettere sacre e profane, prima a Possagno, poi a Venezia. Vestì l’abito dell’Istituto a Venezia il 23 ottobre 1927, visse l’esperienza del noviziato nel 1927-1928, a Venezia; emise i voti temporanei in S. Agnese, il pomeriggio della domenica di Cristo re, il 28 ottobre 1928. Emise poi la professione perpetua il 1° novembre 1931, festa di tutti i santi, a Possagno, nella chiesetta del collegio, presenti tutti gli alunni, assieme ai confratelli Federico Sottopietra e Gioachino Tomasi.
Ricevette la tonsura assieme ai suddetti compagni il 14 aprile 1932 dal nuovo vescovo di Padova monsignor Carlo Agostini, che era stato invitato a partecipare alla festa (pro pueris) di S. Giuseppe Calasanzio nel collegio Canova di Possagno. Ricevette l’ostiariato e il lettorato a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; l’esorcistato e l’accolitato il 22 settembre dello stesso anno; il suddiaconato il 22 novembre 1934; il diaconato il 7 aprile 1935. Il 30 giugno 1935 è consacrato sacerdote nella chiesa del SS.mo Redentore a Venezia.
Raggiunto il diploma di maestro il 4 ottobre 1931, esplicò la sua diligente e fruttuosa attività nei collegio di Porcari (1935-43)poi come collaboratore di P. Alessandro Vianello nel seminario minore e, brevemente, noviziato di Costasavia (1943-49), a Venezia (1949-53) fra i nostri scolari come insegnante di lettere e come cappellano e animatore nel Centro di Rieducazione per Minorenni alle Zattere (già, anticamente, Ospedale degli Incurabili e attualmente Accademia delle Belle Arti) e anche cappellano del carcere femminile; e infine passò al Probandato di Possagno (1954-57), di cui fu apprezzatissimo direttore. Si attirava in modo straordinario il rispetto e soprattutto un grande affetto di tutti con la serenità e giovialità. Nei pochi anni trascorsi a Venezia, fu anche economo generale, nel periodo limitato a quanto pare dal 1949 al 1951.
In seguito ad un intervento chirurgico per calcoli alle reni (o al fegato, come alternativa), malattie che lo portava a trascorrere spesso intere notti insonni, ci fu una serie di sequele, tra cui il blocco renale e dell’intestino che lo portò alla morte, Munito dei Sacramenti, che non solo ricevette piamente, ma che domandò lui stesso di ricevere, conscio della situazione, spirò nell’ospedale civile di Venezia il 23 aprile 1957, assistito dal Preposito generale, dai suoi fratelli (tra cui P. Antonio, padre Cavanis anche lui e suo fratello minore) e dalle sorelle e dai confratelli, non avendo ancora compiuto il quarantanovesimo anno di età.
Compiute le solenni cerimonie funebri con grande concorso di alunni e di amici, il suo corpo fu sepolto nel cimitero di S. Michele a Venezia, dove si trova attualmente, assieme a quello di altri confratelli, nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo.
7.27 P. Agostino Menegoz Fagaro
Agostino Menegoz Fagaro, figlio di Angelo e di Caterina Patessio Montagner, nacque ad Aviano, Provincia di Udine e diocesi di Concordia, il 17 maggio 1886. Fu battezzato il giorno seguente, 18 maggio e cresimato il 20 ottobre 1895. Oltre che compaesano, era cugino del P. Agostino Zamattio, il che spiega anche la parziale omonimia: tutti e due dovevano avere lo stesso nonno Agostino.
Tra le sue carte di trova un certificato firmato dal Patriarca Card. Giuseppe Sarto, che dichiara che si trovava a Venezia da due anni, ed è datato del 23.10.1902. Era entrato nel seminario minore dell’Istituto probabilmente nel settembre o ottobre 1898, perché esiste una dichiarazione di assenso di suo padre Angelo a Venezia per entrare in Istituto, datato 20.9.1898; il certificato del patriarca Sarto tuttavia fa pensare che fosse a Venezia dal 1900.
Fu esaminato (dagli esaminatori della Congregazione a Venezia) in vista della vestizione il 19.11.1902; vestì l’abito a Venezia l’8.12.1902; fece il noviziato, con ogni probabilità a Venezia, dall’8.12.1902 al 15.12.1903. Prima professione, temporanea triennale (esplicitamente nei documenti) il 15.12.1903. Il 15.11.1903 si era tenuta la riunione della comunità di Venezia per votare la sua ammissione alla professione temporanea.
Emise la professione perpetua il 19 maggio 1907, con un anno di ritardo sul previsto, sembra che ci fosse stata qualche difficoltà o dubbio per celebrare tale professione l’anno prima, 1906.
Riceve la tonsura e i quattro ordini minori nella cappella del Patriarchio il 19.12.1908; il suddiaconato il 12.3.1910; nello stesso anno, con indulto apostolico riceve sia il diaconato il 1° maggio (nell’oratorio delle Madri Domenicane ai SS. Apostoli a Venezia) sia il presbiterato il 21 maggio 1910 (nella chiesa di S. Agnese), sempre dal card. Patriarca Aristide Cavallari.
Sembra che, viste anche le osservazioni un po’ vistose fatte in alcune fasi della sua formazione, a livello di personalità, comportamento e profitto scolastico e accademico, si sia accelerato un po’ troppo la serie degli ordini maggiori, soprattutto.
7 ottobre 1915 – P. Menegoz ottenne a Padova la Licenza magistrale. Lo stesso padre il 17 seguente tenne il discorso per l’apertura dell’anno scolastico per i piccoli.
Il 23 agosto 1916 il giovane P. Menegoz accompagna il preposito P. Tormene (che era stato anche il suo maestro dei novizi) a visitare i soldati Cavanis al fronte. È evidente dal contesto che il giovane padre gode della stima del preposito.
4 settembre 1917 – Lo stesso va a visitare i parenti ad Aviano
Il 28 ottobre 1917, la commissione militare respinge la domanda di esonero presentata il 17 settembre per Menegoz e altri dell’Istituto, dal servizio militare in tempo di guerra. Si era a pochi giorni dopo la disfatta di Caporetto.
21 aprile 1918 – P. Menegoz è chiamato per una seconda visita militare medica. Ritorna da Bologna il 23 aprile, fatto abile incondizionatamente per tutti i servizi. Non sembra tuttavia che sia stato poi realmente richiamato al servizio militare.
Nel 1919 partecipa come discreto (delegato) della comunità di Venezia al Capitolo generale che si svolse dal 17 luglio al 1° agosto 1919. Subito dopo in capitolo, fu nominato sagrista della Chiesa di S. Agnese dal rettore di Venezia (e preposito) P. Tormene, il 2 agosto di quell’anno.
Lo si ritrova nel 1921 a Venezia, come direttore dei “Figli di Maria” e va il 2 giugno 1921 con quaranta membri di questa associazione dell’Istituto in escursione a Pederobba (Treviso) con il treno, e poi da questo paese a piedi sul Monfenera, poi discendendo a Possagno, sempre a piedi, con visita del Collegio e al Probandato, messa e pranzo. In particolare si visita la tomba di Carletto Trevisan e vi si posa una corona di fiori. Ritorno in “automobile” fino a Pederobba e ritorno a Venezia in treno. Partiti alle 5 del mattino, ritornano a Venezia alle 22.
8 agosto 1921. Accompagna a Possagno da Venezia un ragazzino orfano del collegio Artigianelli di don Orione, che voleva entrare nel probandato Cavanis. Risulta da questo testo che P. Menegoz era confessore presso l’Istituto Artigianelli fin dal 1919.
30 agosto 1921 – P. Menegoz va a Opi-Alfedena (L’Aquila) in Abbruzzo al campo nazionale degli Esploratori Cattolici, poi a Roma con loro per il Congresso della Gioventù Cattolica nel 1° cinquantenario della sua fondazione.
7 settembre 1921 – P. Menegoz ritorna a Venezia.
29 settembre 1921 – Lo stesso ritorna a Venezia da Possagno con il P. Tormene (preposito) e con P. Enrico Perazzolli.
Dopo aver ricevuto nel 1922 l’invito da parte del vescovo di Ceneda (ora diocesi di Vittorio Veneto) monsignor Eugenio Beccegato nel 1922 e averne discusso più volte in consiglio definitoriale, nel 1923 l’Istituto Cavanis aveva accettato la direzione della Fondazione Collegio Balbi Valier a Pieve di Soligo (Provincia di Treviso e diocesi di Vittorio Veneto). Il primo religioso Cavanis che fu inviato (assieme a un fratello laico) a reggere il collegio, fu il P. Agostino Menegoz. In data 11 ottobre 1923 il Diario di Congregazione riporta: “Oggi i Figli di Maria hanno voluto festeggiare il P. Menegoz destinato a Pieve di Soligo. Gli hanno regalato un orologio e una pergamena. Fu affettuosissimo l’addio tra i Figli e il Direttore”.
28.12.1923. P. Menegoz scrive da Pieve al P. Preposito, che era il P. Zamattio, sulla situazione e sulle pratiche di pietà della vigilia e della festa di Natale.
Nell’autunno del 1923 la rivista Charitas ricorda una gita degli ex-allievi Cavanis di Venezia e di Possagno a Pieve di Soligo. L’articolo, che non fornisce la data esatta della gita, ricorda però l’accoglienza cordiale del P. Agostino Menegoz con la sua “faccia piena e sorridente”.
Durante l’anno 1924 giungono alcune buone notizie da Pieve al preposito, e sono annotate sommariamente nel DC.
21.1.1924. Probabilmente come risultato di una di queste lettere, P. Zamattio va a visitare il Collegio Balbi Valier e il P. Menegoz. Il preposito annota nel DC che ci sono delle difficoltà con l’arciprete –ce ne saranno fino alla fine e saranno probabilmente determinanti per l’interruzione di rapporti tra i Cavanis e il Balbi Valier– ma che per il resto le cose vanno bene. Scrive anche che non ci sono difficoltà da parte del nostro padre, ma dal contesto si capisce che questi non accettava molto la collaborazione con la parrocchia, e anche che, secondo il suo abituale carattere, era un po’ ostinato sulle sue idee e non accettava facilmente i consigli del preposito.
Un anno e mezzo dopo, il 13 maggio 1925. P. Zamattio annota che il Consiglio di Stato non ha approvato la trasformazione del Balbi Valier. Si spera che non si debba lasciare la casa “dove P. Menegoz fa tanto bene”.
P. Zamattio annota nel diario di Congregazione alcune notizie da Pieve, ma senza accennare a P. Menegoz, il 17 e il 26 luglio 1925. Non se ne parla più per un anno e mezzo, ma questo periodo fu senza dubbio drammatico e amaro per il P. Menegoz, per l’Istituto, per i suoi superiori e per altre persone.
P. Agostino Menegoz causò dei grossi problemi nella sua condotta di religioso e di direttore di un’opera pastorale e in conseguenza di ciò dovette uscire dalla congregazione. Questa stessa in pratica fu costretta ad abbandonare il Balbi Valier e il paese di Pieve di Soligo, con grande sofferenza di tutti.
P. Menegoz tuttavia non perdette il contatto con l’Istituto, anche perché suo cugino P. Agostino Zamattio, preposito generale (sostituito poi, allo scadere del mandato, da P. Giovanni Rizzardo, che era tutt’altra pasta d’uomo) e molti confratelli lo avevano aiutato negli anni del dolore.
Riprese dunque gradualmente contatto con la comunità Cavanis. Scrive all’inizio da Tortona, poi dal paesetto di Pizzale nell’Oltrepò Pavese, dove si firma come “vicario parrocchiale” e da dove scrive tra l’altro “mi sembra d’esser proprio in un deserto – tra i selvaggi!”, poi a Voghera (Pavia), spesso con carta intestata della collegiata parrocchiale di S. Lorenzo Martire di quella città, però opera anche nel duomo della città, dove svolge ministero pastorale, ma vivendo “in istituto”, probabilmente la casa Divina Provvidenza-Seminario Missioni S. Antonio, degli Orionini, da cui scrive il 27 gennaio 1931.
P. Agostino frequenta don Orione, che lo aveva aiutato a risorgere dalle sue difficoltà, e di cui è entusiasta, e don Sterpi suo vicario. Si muove più tardi anche per Tortona, Torino, Pisa, Roma e ne abbiamo alcuni riscontri nei documenti.
Si interessa molto delle cose della casa di Porcari, per aiutare, e insiste molto perché l’Istituto riesca a fondare e diffondere il ramo femminile, che egli vede come un completamento del programma dei fondatori. Insiste perché non si faccia solo la scuola classica, ma anche quella professionale. Critica il fatto che in Congregazione si dia poco valore ai fratelli laici e suggerisce che si fondi un’associazione (o settore) di cooperatori laici.
Spera anche (25.11.1931) che nel capitolo generale si sia pensato ad aprire una casa all’estero, e in una lettera, purtroppo non datata, insiste perché l’Istituto apra scuole in paesi di missione, e raccomanda Brasile e Argentina, più che l’Africa o la Cina.
L’impressione che nasce da queste lettere è che P. Agostino si allarghi troppo e dia troppi consigli, anche se spesso molto saggi, illuminati e anzi profetici, e presenti anche troppe critiche, per uno che è dovuto uscire dalla Congregazione. Tra l’altro, spesso fa dei confronti (che non dovevano essere graditi a Venezia e altrove) tra altre congregazioni che si stavano espandendo e la nostra che era come bloccata. Si nota anche che nessuno dei suoi consigli venne seguito; e che forse (ma bisognerebbe avere in mano le lettere che P. Zamattio gli scriveva) il cugino P. Agostino gli rispondeva abbastanza raramente e che non si rispondeva alle sue richieste di riviste Charitas, di “santini”, ossia immaginette, dei Fondatori, di reliquie degli stessi.
Perdiamo poi di nuovo le sue tracce, negli archivi, ma almeno verso la fine della sua vita era a Roma, ancora presso gli Orionini. L’ultima sua lettera a P. Zamattio, scritta per consolare quest’ultimo della sua grave (e mortale) malattia, fu scritta infatti con la carta intestata della Parrocchia di Ognissanti in via Appia Nuova a Roma.
P. Agostino Menegoz morì però a Genova, il 14 agosto 1952, a 56 anni. Il diario della casa di Venezia riporta: “Il Rev.mo P. Preposito annuncia la morte improvvisa di P. Agostino Menegoz, avvenuta a Genova, al Piccolo Cottolengo – Salita Paverano, verso la mezzanotte tra il 13 e il 14 agosto – Detto Padre aveva cenato, come il solito, con molta serenità. Al mattino fu trovato morto. Requiescat in pace!”
Il suo nome, il suo titolo abbreviato “P.” [=padre] e la data della sua morte sono conservati nella lista dei congregati defunti compresa nel libretto di preghiere comunitarie, forse da qualche mano pietosa, o forse da qualche mano distratta. Ma la sua biografia non si trova nel necrologio della Congregazione. È una parziale damnatio memoriae.
Tuttavia, pur non appartenendo più alla congregazione, P. Menegoz aveva continuato a voler bene a lei e ai suoi confratelli, anche in modo molto concreto, forse anche sperando di esservi riammesso, il che era impossibile.
Tra l’altro, nel 1932 fece dono (anonimo, ma riconosciuto) alla Congregazione di un grande ritratto dei Fondatori, a olio su tela, da lui, come si seppe più tardi, commissionato al pittore Giuseppe Corolli di Tortona. Tra parentesi, un altro grande quadro rappresentante i fondatori accompagnati da una schiera di bambini e giovani, in un campo di gigli, con il mare sullo sfondo e con un improbabile leone di S. Marco giallo, irraggiante, fu realizzato per la casa di Porcari nei primi anni ’50 del XX secolo dal seminarista teologo Orlando Tisato, che si dilettava di pittura. Il quadro, di cui non si conosce la posizione attuale, essendo stata chiusa da tempo la casa di Porcari, non è propriamente brutto, ma non sembra avere valore artistico, ed è piuttosto un’opera artigianale. Da notare che il bambino in abito bianco (l’abito della prima comunione, nel caso concreto), con la mano di uno dei due padri sulla spalla, rappresenta Fabio Sandri, bambino allora appena entrato nel Probandato di Possagno, poi ordinato sacerdote Cavanis nel 1961 e attualmente (2022) rettore della casa madre di Venezia. Il quadro, ai suoi tempi, era conservato nella sala delle visite del collegio di Porcari.
Ritornando al religioso di cui si parla, risulta inoltre che intervenne presso la santa Sede per far ottenere all’istituto la villa e il parco della Via Casilina, in cui poi l’Istituto nel 1946 istallò la sua comunità romana e la scuola. Ciò risulta da una testimonianza orale del P. Pietro Fietta (30 aprile 2015), preposito generale; egli si ricorda che P. Panizzolo, già preposito generale e uno dei membri della prima comunità Cavanis a Roma, gli aveva raccontato questo fatto. Alle trattative per la cessione della proprietà aveva collaborato anche monsignor Ettore Cunial di Possagno, a quel tempo a Roma, in seguito Vicegerente del Vicariato romano e da sempre e fino alla morte amico dell’Istituto. Un favore non da poco, da parte di P. Agostino, di cui dobbiamo essergli molto grati. P. Menegoz a quel tempo si trovava a Roma, forse ancora presso i padri Orionini.
Sul finire dell’inverno 2019-20 e all’inizio della grande pandemia di Covid-19, vari membri della famiglia dei padri Agostino Menegoz e Agostino Zamattio entrarono in contatto con l’archivista dell’archivio Storico Cavanis a Venezia, per avere notizie dei loro antichi congiunti, e ne nacque un contatto prezioso e un nuovo legame con Aviano e con quelle famiglie.
7.28 Fra Vincenzo Faliva
Oriundo da Alonte, diocesi e provincia di Vicenza, dove era nato il 22 gennaio 1873, era entrato in Istituto a 28 anni, probabilmente il 6 ottobre 1901, vestì l’abito religioso Cavanis il 2 febbraio 1901 e fu aggregato come Fratello con la professione temporanea triennale emessa il 7 febbraio 1903, trascorse quaranta due anni di vita religiosa nell’Istituto.
Caro a tutti per la giovialità del carattere e straordinario per l’amore all’umiltà e alla pietà, instancabile nel lavoro, prestò la sua diligente e varia attività in diverse case della Congregazione. Era stato presentato a P. Giovanni Chiereghin da un amico di Venezia, tale Pèrtile, che propose all’Istituto vari aspiranti. All’inizio P. Giovanni Chiereghin – e a quanto pare tutti – sbagliavano il suo nome, chiamandolo Vincenzo Favilla, cioè lo italianizzavano; poi nel Diario di Congregazione troviamo delle varianti e poi una correzione a inchiostro, dove il cognome diventa Favila, e poi finalmente dal 3 febbraio 1902 si trova il suo cognome scritto correttamente Faliva, ma non mancano casi in cui l’errore riappare nel diario compilato dal P. Giovanni Chiereghin nel 1902 e 1903.
Lo troviamo, anche se la registrazione è ancora incompleta, a Venezia dal 1901 al 1904, e probabilmente anche negli anni seguenti, a Conselve dal 1924 al 1925; a Possagno dal 1928 al 1931, a Porcari dal 1931 al 1937, a Venezia nel 1937-38. Fu parte della prima comunità a S. Stefano di Camastra nel 1938-40, poi nell’effimera comunità di Fietta del Grappa, a servizio del Filippin, nel 1940-42, a Venezia di nuovo nel 1942-43 e probabilmente negli anni seguenti; al Dolomiti di Borca di Cadore dal 1947 in poi, e doveva essere passato da pochi mesi a Porcari quando si ammalò e morì.
Passò infatti all’amplesso del Signore, colpito da mortale e breve malattia, a Porcari, il 13 marzo 1953, all’età di ottant’anni.
Così il diario di Venezia racconta della sua malattia e morte: “Oggi, durante il pranzo, è stato recapitato dal portinaio al Rev.mo P. Preposito il telegramma, annunciante la morte di Fra Vincenzo Faliva, avvenuta a Porcari alle cinque del mattino. Il fratello, che aveva compiuto ottanta anni il 22 Gennaio 1953, era stato colpito da “emiplegia” e successivamente da polmonite. Di lui aveva scritto così il Rettore di Porcari, P. Vincenzo Saveri, alla Comunità di Venezia: ‘Edifica per la sua serena remissività e la totale rassegnazione alla volontà di Dio- Ha quasi sempre la corona del Rosario tra le mani: ricevette con edificante pietà anche l’Olio Santo comprendendo tutto il rito’ ”
Il suo corpo, accompagnato piamente dagli alunni del nostro Collegio, fu tumulato nel cimitero comunale di Porcari.
7.29 Il Venerabile P. Basilio Martinelli
Basilio Martinelli nasce il 27 dicembre 1872 a Calceranica (oggi Calceranica al Lago) nella provincia di Trento, Trentino, al Nord Italia, nell’arco alpino orientale, sulle rive del bel lago di Caldonazzo. Questa provincia era allora ancora sotto la dominazione austriaca e si chiamava, da un punto di vista politico, Tirolo italiano; gli abitanti si chiamavano tirolesi anche se erano di lingua e nazionalità italiana, tranne le eccezioni, costituite soprattutto da molti militari e funzionari dell’impero. La provincia è diventata italiana nel 1919, dopo la 1ª guerra mondiale.
Calceranica è oggi un piccolo paese ridente, affacciato sul lago di Caldonazzo, con vocazione turistica. A quel tempo era soprattutto un paese di minatori. C’era infatti una miniera di pirite (disolfuro di ferro), minerale povero per la produzione di ferro, ma utilizzato per la produzione di acido solforico destinato all’industria chimica e da essa si estrae anche zolfo utilizzato per fabbricare concimi, cellulosa, antiparassitari, cosmetici e vari prodotti farmaceutici. In tempi più antichi si utilizzava anche per produrre lo spolverino, oppure sabbia di pirite, ossia una polvere che era utilizzata per asciugare l’inchiostro da una pagina appena scritta, prima che si inventasse la “carta asciugante”, e prima che si passasse a usare prevalentemente penne sferografiche o biro per scrivere. Questo spolverino è abbondantemente presente , per esempio, negli scritti originali dei fondatori dell’Istituto, e procedeva probabilmente proprio da questa miniera di Calceranica.
Basilio era il secondo figlio di cinque, di famiglia piuttosto indigente, umile e molto cristiana. I suoi genitori si chiamavano Giovanni Battista Martinelli e Carolina Eccher. Erano contadini e lavoravano in una piccola fattoria e in un fazzoletto di terra di loro proprietà. Ma, durante l’estate, il padre andava a cercar lavoro come stagionale in Moldavia o in Austria, per guadagnare qualcosa di più per la sua famiglia. Basilio frequenta per otto anni (1879-1887) la scuola pubblica popolare. Nella parrocchia riceve la prima comunione, e si mostra buono, molto disponibile alla preghiera e alla vita cristiana. Il parroco, che era poi suo zio, don Daniele Martinelli, scopre in lui la vocazione religiosa e sacerdotale e la coltiva, favorendola. Basilio si orienta verso la Congregazione dei Cavanis, che era già conosciuta nella parrocchia e dalla famiglia Martinelli: tra l’altro, Giovanni Giovannini, il fratello della nonna, e quindi prozio di Basilio, era stato seminarista Cavanis, e aveva vissuto santamente nel nostro Istituto sino alla morte santa, sopraggiunta mentre era ancora molto giovane e seminarista, nel 1844.
Don Daniele si dimostra l’uomo della provvidenza in questa situazione: è lui che scrive ai padri Cavanis di Venezia (il superiore generale era allora P. Giuseppe Da Col), che compie tutte le pratiche necessarie per far passare il giovane Basilio, di sedici anni, dall’Austria all’Italia, e che l’accompagna personalmente a Venezia all’Istituto Cavanis.
A quel tempo, si pagava – se si poteva – una retta mensile per il vitto e alloggio nel nostro seminario minore o probandato; don Daniele si impegnò a pagarla personalmente per due anni di prova, dato che la famiglia Martinelli non avrebbe potuto affrontarne le spese. Il Diario della Congregazione registra il giorno dell’ingresso di Basilio in Istituto a Venezia, il 14 novembre 1888: “Oggi il R. D. Daniele Martinelli, Curato di Villa di Giovo, l’amico del P. Gretter (…) condusse il suo nipote Martinelli Basilio di Giambatta (sic), giovanetto aspirante al nostro Istituto – Dato un saggio scritto italiano per conoscerne il grado di istruzione, si trovò più indietro notabilmente di quanto si credeva – Si convenne collo zio di tenere il giovanetto per qualche mese in prova nella classe 1ª ginnasiale, dandogli insieme quel poco che si potrà d’istruzione privata – Il giorno 21 lo zio partì, depositando il sussidio di Lire Sessanta e il mantenimento del nipote, promettendo di aiutarlo anche in seguito, durante la prova, e di spedire in iscritto la dichiarazione del padre, come l’abbiamo domandata”. Basilio era stato accettato soltanto in prova e con qualche dubbio sulle sue possibilità, ma il P. Da Col che scriveva queste frasi non sapeva né poteva sapere quale successo di grazia avrebbe avuto questo giovanetto un po’rustico di aspetto e di scarso livello culturale.
Basilio era felice d’aver realizzato il suo sogno di vocazione religiosa, ma si sentiva «con il cuore grosso», come scrisse nelle sue memorie, lasciando la famiglia che amava tanto e il suo paese natale.
A quei tempi non c’era ancora un vero e proprio seminario, la piccola comunità degli aspiranti e degli altri seminaristi viveva a fianco alla comunità dei padri. Il seminario sarà costruito successivamente all’inizio del XX secolo, anche se c’era stato un tentativo nella seconda metà del secolo XIX, con la costruzione e la conduzione del “noviziato” a Possagno (1964-69).
Il 12 agosto 1891 P. Da Col, preposito, scrive allo zio di Basilio, don Daniele Martinelli ciò che segue: “Confermai ciò che gli notificò il nipote sul buon esito dei suoi studi quest’anno. Aggiunse che la sua condotta fu sempre irreprensibile, che è docile, pio, amoroso. Ma che per la sua lingua inceppata, precipitosa, e per la sua timidezza naturale non possiamo sperare che possa riuscire idoneo per l’insegnamento nelle pubbliche nostre scuole. Oltre a ciò la povertà del nostro Istituto non ci consente di poter in seguito mantenerlo quasi per intiero a nostro carico, avendo ricevuto per lui dal 28 9bre 1888 fino al presente £.113,04, non in ragione, come si riteneva, di centes[imi]. 50 al giorno. Che dunque parli con suo fratello e risolvano come credono. Sappiano però che, se possiamo essere risarciti pel passato, e assicurati della contribuzione anche in seguito, noi non lo licenziamo, perchè ci è caro, come egli pure si dichiara affezionato all’Istituto”.
17 gennaio 1892 – Ammissione al noviziato (a 19 anni) e vestizione di Basilio, assieme con altri novizi. Il gruppo di novizi di quell’annata era di tre giovani. Aveva superato con difficoltà i tre anni di aspirantato: era timido, dalla pronuncia molto provinciale, parlava troppo rapidamente, sembrava poco capace di diventare un giorno un buon insegnante ed educatore. Ma era buonissimo, obbediente e generoso.
Il 22 aprile 1893 Basilio emette la professione temporanea, come chierico, ossia come religioso incamminato al sacerdozio, a 20 anni.
Il 30 marzo 1895 Basilio, a 22 anni, riceve la tonsura e i quattro ordini minori nella cappella del patriarchio di Venezia (vescovado), a fianco alla basilica di S. Marco, dal patriarca Giuseppe Sarto, che più tardi diventerà Papa e santo Pio X, ed era grande amico dell’Istituto Cavanis. Il 7 giugno 1896 si celebra la professione perpetua di Basilio nella chiesa di S. Agnese a 23 anni. Il curriculum di studi era molto più breve a quei tempi. Rispettivamente il 19 dicembre 1896 e il 13 marzo 1897, Basilio riceve dallo stesso card. patriarca Sarto rispettivamente il suddiaconato e il diaconato, sempre in S. Agnese.
La grande data fu il 17 aprile 1897: il card. Sarto gli impose le mani per l’ordinazione presbiteriale (a 24 anni), nella nostra chiesa di S. Agnese, il sabato santo. Ci fu poi una breve visita a Calceranica, con don Daniele suo zio, per celebrare la prima messa solenne in parrocchia, la domenica dell’ottava di Pasqua. Nel settembre successivo arriva per P. Basilio la sua prima obbedienza e destinazione, e fu per la casa di Possagno (Treviso, Italia). A quei tempi la Congregazione aveva solo due case, Venezia e Possagno; la casa di Lendinara era stata chiusa nel 1896; la casa di Possagno era stata riaperta quello stesso anno nell’autunno del 1892, con due soli membri all’inizio e si era ricominciata l’attività educativa nel Collegio Canova: una ripresa modesta, che tuttavia, avrebbe in seguito dato origine ad una delle nostre principali comunità e attività. Anche se impegnato nel lavoro scolastico, P. Basilio volle iscriversi al corso di lingua e letteratura greca presso l’università di Padova (± 70 km da Possagno, e senza molti mezzi di trasporto all’epoca, ma anche oggi del resto). Resterà a Possagno per allora quattro anni.
Il 10 luglio 1892 a Padova, P. Basilio sostenne coraggiosamente la difesa della sua tesi e ricevé la laurea in lingua e letteratura greca. Il giovane trentino aveva dimostrato che non era poi così incapace di studiare, come si era pensato all’inizio. Non tutti però avevano stima di lui. Riaffiorarono i dubbi soprattutto sulla sua capacità di dare scuola. Così per esempio scrive P. Giovanni Chiereghin, preposito generale, in un fascicoletto di questioni da discutere con il definitorio, databile probabilmente all’estate 1901, poco prima della riunione del definitorio in vista dell’inizio anno scolastico: “i Padri [Giuseppe] Bassi e [Vincenzo] Rossi volentieri vedrebbero trasferito il P. Basilio [da Possagno a Venezia]: il contatto coi Professori secolari non gli ha fatto bene, e per qualche tempo parve che tenesse più le parti loro che quelle del Rettore, a ciò si aggiunga la mancanza quasi necessaria di regolare disciplina, che concorre non poco specialmente in uno giovane ad affievolire lo spirito religioso. Ma chi si manda in sua vece a Possagno? – A che cosa potrà servire qui a Venezia il P. Basilio con quella sua indole chiusa, con quel suo parlare imbrogliato, e per di più a monosillabi? Qui abbiamo una gioventù sveglia, furba quanto mai per sottrarsi alla disciplina, terribilmente caustica nel giudicare gli insegnanti, e colla quale ci vuole anche una certa coltura esterna per imporsi. Dunque? Non potrebbe essere che lasciato a Possagno, dopo fatti gli Esercizj, e cambiato l’ambiente, rendesse più contenti i suoi Superiori? Se non cambiasse, un altro anno si verrà al trasferimento”. In pratica però, dopo discussa la cosa con i definitori (due dei quali erano appunto i due padri Bassi e Rossi, della casa di Possagno), si decise di trasferirlo subito a Venezia e di sostituirlo a Possagno con il P. Antonio Dalla Venezia per l’anno scolastico 1900-1901. Resta però il fatto che in padre Basilio si vedeva più il religioso ed educatore e insegnante adatto per l’ambiente rurale che per l’ambiente urbano. È un fatto del resto che P. Basilio ha lasciato una grande impressione e grandi tracce di stima e di affetto a Possagno, ed è passato per Venezia quasi senza lasciare una grande memoria e devozione.
Dal 1901 al 1904 padre Basilio è occupato come insegnante di greco e latino nella casa e scuola di Venezia. Il 2 maggio 1904 ha un grande dolore, suo e di tutta la famiglia: Don Daniele Martinelli, lo zio che l’aveva tanto aiutato, muore a Calceranica. Nel 1904 P. Basilio è assegnato di nuovo alla casa di Possagno e vi rimane, insegnando materie letterarie fino al 1910. Nel 1908 fa un pellegrinaggio a Lourdes, con P. Antonio Dalla Venezia, che era stato suo maestro dei novizi. Egli diventerà preposito generale due anni dopo questa data. Per padre Basilio questo viaggio con il suo preposito, al grande e famoso santuario della Madonna fu memorabile.
Al ritorno, nel decennio 1910-1921, P. Basilio è in genere attivo a Venezia, come insegnante di greco e latino al ginnasio. È eletto consigliere generale (definitore) e scrutatore nel capitolo generale. Dal 19 aprile 1911 è nominato maestro interino dei novizi, dopo la rinuncia e le dimissioni date dal P. Enrico Calza; P. Basilio doveva completare il triennio, fino al prossimo capitolo generale. In pratica, continuò a operare in questo campo della formazione per diversi anni. Nel 1922-1923 è vice-rettore al Collegio Canova di Possagno; nel biennio 1923-1925 insegna a Venezia. Nell’anno scolastico successivo 1925-1926 ritorna come vice-rettore al Collegio Canova di Possagno.
Il 23 marzo 1927 va a far visita a Calceranica a sua mamma, gravemente malata. Ella morirà due giorni dopo, nel giorno dell’Annunciazione. Suo padre era già morto nel 1917, in tempi duri, durante la guerra; tra l’altro in anni in cui le comunicazioni con l’Italia erano impossibili.
Nel 1928-1929 è a Venezia, dove si occupa soprattutto della formazione dei teologi, come maestro dello studentato; nel 1930-31 diviene vicario della comunità di Venezia. L’anno seguente passa di nuovo a Possagno al Collegio Canova, di cui è rettore P. Giovanni Battista Piasentini, futuro vescovo d’Anagni e poi di Chioggia. Vi rimane dal 1931 al 1940.
Per la prima volta nel 1941 lascia il nordest e passa in Toscana, viene infatti inviato nella casa dei Porcari (Lucca) fondata nel 1919; e vi rimane fino al 1943. È significativo un commento finora non conosciuto che si trova in una “Relazione sulla famiglia religiosa della Casa di Porcari (Lucca)” redatta dal “rettore uscente” P. Vincenzo Saveri e datata del 27 giugno 1943: “Ammirabile è l’esempio di osservanza e di obbedienza di P. Martinelli Basilio che edifica la Casa colle sue virtù religiose.”
È a Venezia, durante gli anni più difficili della seconda guerra mondiale (1943-1945). L’anno successivo, dopo la fine della guerra, è destinato ancora a Possagno, si credeva per un solo anno; invece vi rimase molto a lungo, sino alla sua morte (1962).
Basilio comincia ad essere anziano. Nel 1947 si celebra il 50° anniversario, molto solenne, dell’ordinazione presbiterale. Tutto il popolo del paese di Possagno, ex-allievi, amici, confratelli parteciparono anche venendo da lontano, facendogli capire quanta stima e affetto riponessero in lui. Nel 1950 lascerà – a malincuore, ma obbedendo sempre – l’insegnamento, a settantasette anni. Diventa confessore ufficiale di comunità e si dedicherà d’ora in poi al ministero del sacramento della riconciliazione e alla guida e orientazione spirituale sia nella scuola elementare e media, sia soprattutto al liceo Calasanzio. Il suo ministero di consiglio e di perdono e riconciliazione si estende però ben presto anche per la gente di Possagno e alle persone che facevano esercizi spirituali e ritiri nella casa del Sacro Cuore a Possagno. Continuerà a esercitare questo ministero della confessione quasi sino alla sua morte.
Il 7 aprile 1957 festeggia il suo 60° anniversario dell’ordinazione presbiterale nel tempio di Possagno. Riceve la medaglia del ministero dell’educazione per i «meriti culturali e scolastici».
L’ho conosciuto personalmente, ma non bene perché dopo la mia entrata in seminario (1958), lui era a Possagno ed io a Venezia, a quei tempi, inoltre era molto anziano e prossimo alla morte. Mi ricordo di averci parlato qualche volta, di essermi confessato con lui, ma non era stato confessore del nostro gruppo di novizi durante il mio noviziato (1958-1959) a Possagno. Ricordo bene quando il preposito generale, P. Giuseppe Panizzolo, che era nostro professore di sacra Scrittura, andava a fargli visita a Possagno durante l’ultimo periodo in cui era malato, e quando ci raccontò della sua morte santa.
Il 10 marzo 1962, già gravemente malato, P. Basilio celebra la sua ultima santa messa nella cappella della comunità di Possagno, nel Collegio Canova. Allettato, i medici gli trovarono diversi problemi gravi di salute e delle piaghe in tutto il corpo di cui nessuno aveva sospettato dato che non se ne lamentava mai: accettava tutto in silenzio, offrendo le sue sofferenze per la conversione dei peccatori. Gli furono impartiti i sacramenti: la confessione, l’estrema unzione per i malati e il viatico; e alla fine della celebrazione il caro vecchietto commentò nel suo dialetto, con molta fede e gioia: «È stata davvero una bella festicciola!». Qualcuno lo definirebbe un caso tipico di understatement!
Morì il 16 marzo 1962, all’età di 89 anni. Fu sepolto nella cappella per il clero e i membri dell’Istituto Cavanis del paese di Possagno, fino a quanto il suo corpo fu traslato, come si dirà.
Il 18 maggio 1985 il vescovo di Treviso, monsignor Antonio Mistrorigo, su richiesta del preposito generale P. Guglielmo Incerti e, in genere, della Congregazione, dette inizio al processo di beatificazione a livello diocesano di Treviso di P. Basilio Martinelli, nel tempio di Possagno. A suo tempo, concluso il processo diocesano, con una solenne celebrazione presieduta nel tempio canoviano di Possagno dallo stesso vescovo Mistrorigo, il 16 marzo 1988, il processo venne trasferito alla Santa Sede che ha prima esaminato gli atti e approvato il processo diocesano e in seguito ha aperto il processo a livello di Santa Sede. La Positio sulla vita e le sue virtù, edita dal postulatore P. Gioachino Tomasi, è stata depositata nella Congregazione per il culto dei santi a Roma nel 1993.
La Santa Sede ha dichiarato l’eroicità delle virtù del nostro caro confratello e l’ha proclamato venerabile con il Decretum super virtutibus il 1° luglio 2010. Un processo de miro (“su un miracolo”) è in corso a Roma.
Il 1° ottobre 1988 la sua spoglia mortale fu riesumata e traslata dal cimitero comunale di Possagno a una tomba preparata per questo scopo sulla destra della navata della chiesetta del Collegio Canova-Cavanis.
Il suo necrologio ufficiale della nostra Congregazione parla così di lui:
16 Marzo 1962
Il Venerabile P. Basilio Martinelli
Nostro sacerdote professo di Calceranica, diocesi di Trento, dotato di straordinaria mitezza d’animo, attirava a sé l’animo di tutti, specialmente quello dei fanciulli. Particolarmente distinto nell’ascoltare le confessioni dei nostri alunni, era di ammirazione e di esempio a tutti per l’osservanza delle regole, per l’umiltà, per la semplicità. Si mostrò assiduo devoto della Vergine Maria e del S. Rosario.
Avendo esercitato per vari anni l’ufficio di Maestro dei novizi e di Definitore a Porcari, a Venezia, a Possagno, grande benemerito dell’istruzione dei giovani, dopo aver trascorso settanta anni in Congregazione, pieno di virtù e di meriti, munito debitamente dei Sacramenti, spirò nel Signore a Possagno nella casa della nostra Congregazione.
Servo di Dio, il processo per la sua beatificazione è in corso. La Positio sulla sua vita e le sue virtù, edita dal postulatore P. Gioachino Tomasi, è stata depositata alla Congregazione per il culto dei santi a Roma nel 1993. Le sue spoglie mortali sono poste al cimitero di Possagno in una tomba della cappella del Collegio Canova.
Vedi Charitas anno 1962 n.1 pp.7-10 e n.2 pp.6-13”.
“NOL TOCIAVA!”
P. Basilio era un uomo semplice. Di lui si raccontano vari aneddoti, alcuni dei quali già ricordati sopra. Aggiungiamo che, quando ormai era molto anziano, aveva da molti anni lasciato l’insegnamento, continuava però a partecipale nei cortili del collegio Canova alle ricreazioni dei bambini e dei ragazzi (non c’era ancora femmine a quel tempo) non tanto per assistere, quanto per partecipare e continuare, in qualche modo, per essere un Cavanis presente. Quando adocchiava qualcuno con aspetto più abbordabile o anche più pio, cercava di dirgli un buon pensiero, un’esortazione, e a volte di portarlo alla cappella. A volte proponeva ai ragazzi come ideale la vocazione sacerdotale e religiosa.
Mons. Silvio Padoin, ex-allievo dei Cavanis a Possagno e a Venezia e molto affezionato all’istituto, quando era vescovo di Pozzuoli (1993-2005), dove aveva chiamato i padri Cavanis in diocesi affidando loro la parrocchia di S. Artema (1996), raccontava di essere stato uno di questi ragazzi in contatto più stretto con P. Basilio. Da un lato attribuiva a lui, senza dubbio e con gratitudine, il fatto di aver sentito chiaramente di aver la vocazione a essere prete nella chiesa; per altro lato, ricordava come a volte l’insistenza di P. Basilio perché il ragazzetto lasciasse la ricreazione e andasse con lui a dire una preghiera (a volte lunghetta) nella chiesetta del collegio lo infastidisse alquanto; certe volte, confessava, quando lo vedeva avvicinarsi, fingeva una necessità e si allontanava verso i servizi igienici! Ma il richiamo della vocazione funzionò lo stesso, e quanto!
Anche quando la vecchiaia era diventata veramente pesante, e per lui stare in cortile, in piedi, durante le ricreazioni era diventato un sacrificio, specie d’inverno, in giorni di pioggia, o d’estate sotto il sole cocente, tanto più vestito di nero com’era, i confratelli lo invitavano a rientrare e a riposarsi. Magari gli dicevano – con poca delicatezza – dato che ormai era cecuziente: “Padre, ma lei non può neanche vederli!”. E P. Basilio rispondeva: “Io no li vedo, ma essi mi vedono!”. E continuava a stare lì, finché fu fisicamente possibile, e pregava molto per loro.
Quando usciva un seminarista minore dal probandato, lì a Possagno, dall’altra parte del torrentello quasi sempre secco di S. Rocco, P. Basilio, che seguiva con affetto quello che accadeva in quella casa di formazione, commentava nel suo dialetto trentino “Nol tociava!”, cioè “Non inzuppava”. Rivelava così una sua interpretazione molto personale della perdita della vocazione: lo attribuiva alla mancanza di appetito e quindi di alimentazione. Erano anche tempi di guerra e dopoguerra, quanto il cibo era realmente un problema, per la direzione del seminario che doveva provvederlo, ma anche per i seminaristi che dovevano alimentarsene e non sempre apprezzavano. Basilio diceva che un ragazzo, per lo più proveniente dalla campagna, era abituato a mangiare polenta e altre cose tipiche della sua famiglia; e non si trovava con i cibi, del resto pure molto semplici, che poteva offrire il seminario. P. Basilio, probabilmente nella confessione e nell’orientamento spirituale, veniva a sapere che i seminaristi avevano difficoltà con il cibo, e raccomandava ai bambini e ragazzi, se non avevano voglia di mangiare magari il pane raffermo, di “tociar”, cioè di inzuppare il pane nel latte o caffè la mattina, nell’acqua nelle altre refezioni; altrimenti la denutrizione ne avrebbe causato la tristezza e – come nel “figliuol prodigo” (Lc 15, 17-18), la voglia di ritornare alla casa paterna. Strana ricetta vocazionale! E tuttavia, molto umana. Anche il corpo vuole la sua parte.
7.30 P. Francesco Saverio Zanon
Veneziano, della Giudecca (o di S. Pietro di Castello?), nato il 22 febbraio 1877, Francesco Saverio era figlio primogenito del prof. Giannantonio Zanon, che fu per decenni professore di Costruzione Navale e di Macchine a Vapore nel Regio Istituto Nautico di Venezia, e di Giuseppina Pavan. Il prof. Giannantonio era anche un ricercatore e pubblicava nella sua area di insegnamento. Quando il figlio gli manifestò l’intenzione di entrare come religioso nell’Istituto Cavanis, che il padre pure stimava molto, si oppose a lungo. Tuttavia alla fine cedette.
Il Diario di Congregazione riporta in data 30 agosto 1890: “Lettera diretta al p. Preposito dall’egregio prof. Giannantonio Zanon, il quale aderisce alla volontà irremovibile del suo figlio primogenito Francesco Saverio di darsi alla nostra Congregazione. – Rispondo oggi stesso alla lettera del prof. Zanon determinando il giorno d’entrata del figlio, che sarà la festa prossima della Nascita di Maria SS.a”. Francesco Saverio aveva allora 17 anni. Entrò nell’Istituto come aspirante l’8 settembre 1890, dopo essere stato esaminato, come si usava, da un medico di fiducia dell’Istituto, che lo trovò sano ma gracile e affaticato dallo studio: particolare interessante; e dopo essere stato approvato all’unanimità dai padri della comunità di Venezia. Il padre, il prof. Zanon si proponeva di aiutare l’Istituto nella manutenzione del figlio, almeno fino agli ordini sacri, secondo le possibilità, ma a quanto pare con poco entusiasmo su questo punto.
Il giovane ricevette l’abito della Congregazione ben presto, nella festa della maternità di Maria, cioè il 19 ottobre 1890. Visse l’esperienza del noviziato a Lendinara, con P. Giuseppe Bassi come maestro, avendo come compagno di noviziato fra Angelo Furian e un altro candidato a fratello laico, che poi lasciò l’Istituto. Emise i voti temporanei a Venezia, con Augusto Tormene e fra Angelo Furian, il 12 novembre 1891.
Ricevette la tonsura e i quattro ordini minori, tutti assieme, il 4 aprile 1893 a Treviso, dal vescovo diocesano mons. Giuseppe Apollonio. Fu dichiarato riformato e quindi esente dal servizio militare, per la fragilità della sua salute. Emise i voti perpetui il 15 novembre 1894, assieme al P. Spalmach e al suo compagno seminarista Augusto Tormene; furono i primi che, una volta finito il triennio di professione temporanea, si unirono all’Istituto con la professione semplice ma perpetua, secondo le nuove costituzioni (1891) nella seconda parte. Intanto continuava i suoi studi all’università di Padova; l’ultimo esame lo diede il 6 novembre 1894, e ricevette così l’abilitazione all’insegnamento ginnasiale inferiore.
Fu ordinato prete il 4 aprile 1896 a S. Agnese per l’imposizione delle mani del patriarca Giuseppe Sarto, in seguito Papa S. Pio X.
Fu eletto maestro dei novizi il 26 luglio 1913, dal capitolo generale ordinario di quell’anno, e vi rimase per qualche tempo.
Nel 1921 passò un periodo di esaurimento nervoso da eccesso di lavoro, che preoccupò abbastanza il P. Tormene, che era superiore generale.
Oltre alle sue mansioni di professore di teologia (particolarmente di Dogmatica e Biblica, nonostante la poca competenza in questi campi) e filosofia ai seminaristi, svolte per cinquant’anni, fu professore di scienze nelle scuole dell’Istituto a Venezia, soprattutto nei licei, autore di parecchie decine di pubblicazioni scientifiche nel campo della meteorologia, della geofisica, dell’astronomia, della botanica e sull’ambiente lagunare di Venezia; era autore anche di libri di testo di scienze per le scuole secondarie.
Fu membro della direzione del Museo Civico di Storia naturale di Venezia, del Nucleo Italiano d’attinografia fisica; socio della Società sismologica italiana e di quella di meteorologia; dell’Ateneo Veneto di Venezia, della Commissione per la Bibliografia veneziana; direttore della biblioteca e dell’osservatorio geosismico e meteorologico del seminario patriarcale; esaminatore pro-sinodale, giudice pro-sinodale, censore ecclesiastico; direttore dell’osservatorio meteorologico e bioclimatologico dell’ospedale al mare di Venezia.
Aveva una passione straordinaria per le scienze, una memoria eccezionale e una sopraffina capacità d’analisi e sintesi. Non credeva sfortunatamente all’evoluzione biologica, che trovava in disaccordo con la filosofia tomista e con le sacre Scritture. Tuttavia era aperto al dibattito e rispettava le idee diverse di allievi e colleghi. Del resto non era un biologo. Era interessato piuttosto a trovare un legame tra filosofia tomista – di cui era fanatico – e le scienze fisiche, chimiche e matematiche. Lavorò una vita intera a questo progetto, secondo diceva; ma l’intenzione era ancora prematura. Non arrivò mai tuttavia a pubblicare qualche saggio o libro su questo tema. Era profondamente convinto che la scienza portasse a Dio.
Particolarmente innovatrici erano le sue pubblicazioni sulla sismologia applicata alla meteorologia. Preziose le sue osservazioni meteorologiche, i cui dati furono pubblicati regolarmente ogni anno sul Bollettino dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, come del resto si continua a fare fino ad oggi nell’osservatorio meteorologico dell’Istituto Cavanis, attualmente diretto da P. Pietro Luigi Pennacchi, dopo il caro P. Giulio Avi, che ci ha lasciati, ancora relativamente giovane, il 3 novembre 2000. Una continuità di oltre 180 anni!
Nella vita della Congregazione, P. Zanon non ebbe incarichi di governo, anche per il suo carattere assai burbero che non lo rendeva sempre gradevole in comunità. La difficoltà di convivenza in comunità del P. Zanon riguardava i confratelli di Venezia e soprattutto i rapporti con i chierici, ossia i seminaristi teologi, con i quali P. Zanon era molto (troppo) esigente nell’insegnamento della teologia e dei quali non era mai contento. La crisi forse più grave, registrata nel 1936, costrinse il preposito e consiglio a operare vari cambiamenti di confratelli delle comunità, un vero rimpasto, ma, curiosamente, P. Zanon rimase a Venezia, dato probabilmente che era necessario come insegnante di varie materie di teologia e come responsabile dell’insegnamento delle scienze a Venezia nel liceo e dell’osservatorio sismico e meteorologico del seminario di Venezia.
Un altro momento di tensione fu verso la fine del 1949: Così scrive il maestro dei teologi, il P. Luigi Ferrari nel diario: “29.12[.1949] – Oggi il P. Zanon castiga i Ch.ci Teologi perché gli hanno fatto uno scherzo poco gradito. Non vuole far loro scuola durante le vacanze di Natale! (Meglio, le vacanze sono vacanze!). Conseguenza di questo è la sospensione delle prossime straordinarie ordinazioni di alcuni Chierici. Infatti Dal Pos G[iorgio] doveva ricevere il diaconato, Manente e Soldera i due primi ordini minori – Invece niente!!”
P. Zanon fu fatto ritirare dall’insegnamento della teologia ai chierici nella festa dell’Assunta del 1953, per raggiunti limiti di età (aveva 81 anni) e anche per gravi problemi di una sempre maggiore incompatibilità con le nuove generazioni di seminaristi teologi. Se ne lagnò duramente con i superiori e, naturalmente, con i seminaristi, giudicandoli colpevoli di tale affronto. Commentava, dopo aver tentato tutto per continuare l’insegnamento: “Il diavolo ha vinto!”.
Era invece stimato in comunità, oltre che per la scienza e la cultura, per altre virtù tra cui il grande spirito di preghiera. A differenza di altri padri che si dedicavano alla preghiera piuttosto nel pensiero, con la meditazione e la contemplazione, la maniera caratteristica di pregare di P. Zanon, fuori dei tempi di preghiera in comune in cappella, era quella di borbottare o sussurrare dei salmi e altre formule di preghiera, anche quando camminava per i corridoi o saliva e discendeva le scale, e mentre effettuava i lavori manuali di preparazione e conservazione delle collezioni del museo didattico. Come mi si diceva – particolarmente da P. Aldo Servini –, lo si capiva da come aveva le labbra sempre in movimento e lo spirito assorto.
Fu nominato dal preposito P. Augusto Tormene, il 21-22 ottobre 1918, postulatore generale della causa di beatificazione dei padri fondatori; divenne quindi, con la sua tenacia e con il suo metodo di ricercatore e di scienziato serio, uno specialista prezioso della vita dei padri Antonio e Marco Cavanis. Pubblicò su di loro e su altri religiosi Cavanis, diversi libri, ma bisogna ricordare qui principalmente l’insostituibile opera in due tomi «I Servi di Dio P. Anton’Angelo e P. Marcantonio Conti Cavanis. Storia documentata della loro vita.», ovvero la biografia dei fondatori. È un’opera assolutamente preziosa ancora oggi, e di gran lunga migliore rispetto a tutte le biografie dei due benedetti padri che si sono scritte in seguito, che del resto sono state plagiate da quella, o ne sono delle semplici sintesi o “Bignami”.
P. Zanon morì a Venezia il 20 dicembre 1954, sia per la tarda età, sia perché la sua salute era rapidamente decaduta dopo che attorno all’inizio di marzo di quello stesso anno era caduto rovinosamente dalle ripide scale a chiocciola in pietra che portavano all’osservatorio meteorologico e sismologico del seminario patriarcale alla Salute e si era rotto il femore. Ricoverato solo all’inizio di maggio all’ospedale al mare, si trascinò per mesi con le stampelle, e ne ho la chiara immagine nel ricordo, mentre attraversava il cortile, tra l’abitazione della comunità e la chiesa di S. Agnese, accompagnato e in parte sostenuto da Fra Ausonio Bassan, divenuto il suo devoto infermiere e assistente.
Le spoglie del padre Zanon riposano con gli altri confratelli nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo, nel cimitero civico di S. Michele a Venezia.
7.31 Fratel Italo Guzzon
Italo era nativo di Pontecasale, frazione di Candiana, in diocesi e provincia di Padova, dove era nato il 4 dicembre 1929. Era entrato poco più che quindicenne nel probandato di Possagno, alla fine del 1945 o più probabilmente all’inizio del 1946. A 17 anni vestì l’abito dell’Istituto Cavanis, il 21 novembre 1946, nella casa del S. Cuore a Possagno. Fra Italo fu novizio prima nel noviziato della casa del S. Cuore e poi a Venezia durante gli anni 1946-1948; emise i primi voti triennali a Venezia il 28 ottobre 1948. In seguito professò i voti perpetui tra i fratelli laici della nostra Congregazione il 28 ottobre 1951 a Venezia e visse quasi quattordici anni di vita religiosa. Infaticabile, amato da tutti per la bontà e la mitezza, uomo semplice, sempre sorridente e scherzoso, lasciò notevoli esempi di gioia, di pietà e di obbedienza.
Lo troviamo successivamente nelle case di Venezia (1948-51), di Roma a Torpignattara (1951-53), del S. Cuore a Possagno (1953-1961), poi ancora brevemente a Venezia (1961), dove trovò una morte ben prematura. Pare sia stato anche nella casa di Borca di S. Vito di Cadore, sebbene, come purtroppo succedeva per i fratelli laici, il suo nome non consti nelle liste.
Oltre a vari servizi domestici che prestò alla comunità, era famoso per la sua passione per la guida di automezzi e per le riparazioni di motori. In casa del S. Cuore, particolarmente, portava, a gruppi, gli esercitandi dal paese di Possagno alla casa degli esercizi, e compiva tutte le commissioni e gli acquisti della casa. A quel tempo conduceva un “gippone” un po’ preistorico, una specie di furgone per trasporto persone con motore di jeep, che permetteva di salire la ripida strada carreggiabile ancora provvisoria, in terra e ghiaia, che portava “al monte del Signore”.
Dicevamo per scherzo che passava più tempo dal meccanico Giorgio, giù a Possagno, a riparare il gippone suddetto, che a viaggiare.
Più tardi, ritornato alla casa-madre di Venezia, prestava la sua operosa attività nei servizi domestici e a volte gli si domandava se non sentisse la mancanza del gippone e di una vita di maggior movimento come a Possagno. Ma fratel Italo rispondeva serenamente, con il solito sorriso. Un giorno mentre lavorava, la mattina del 29 dicembre 1961, un tragico incidente di lavoro del tutto imprevisto lo ridusse in fin di vita, nel cortile piccolo (a quel tempo non era ancora un giardino, ma un cortile di ricreazione per le elementari e, al pomeriggio, per i seminaristi liceali e teologi, che vi giocavano a pallavolo), tra la studentato a la casa della comunità.
Trasportato rapidamente in ospedale, dopo pochi giorni di agonia, avendo sopportato con forza d’animo atroci dolori, e nonostante tutte le cure mediche e chirurgiche tentate dai medici dell’ospedale civile di Venezia, passò piamente da questa vita il 3 dicembre 1961, all’età di trentun’anni. Il suo corpo, celebrati i funerali, fu sepolto nel cimitero di Pontecasale, suo paese natale, a richiesta della famiglia.
Così narra il nuovo rettore, P. Luigi Ferrari, nel diario della casa di Venezia:
“Questa mattina è successa una disgrazia. Fra Italo Guzzon è stato ferito gravemente al petto e all’addome”. “Portato in camera, venne assistito prima da P. Mansueto Janeselli, poi dal dottor Todesco Vittorio chiamato d’urgenza. Per consiglio del dottore, il P. Rettore lo confessò e gli amministrò per breviorem l’estrema unzione. Assieme a fra Olivo [Bertelli] il P. Rettore accompagnò il paziente, con una lancia, all’ospedale civile. Il P. Preposito [P. Panizzolo] aveva già avvertito per telefono il Direttore dell’ospedale, dott. Mauer.
All’ospedale il malato fu trovato grave assai per la profondità delle ferite. Fu subito operato (…) dal Prof. Romani. (…) Si sta questa sera aspettando con ansia la piega della reazione del corpo del fratello operato. Speriamo che la Madonna ce lo conservi e lo faccia guarire presto”
E il giorno dopo il buon P. Luigi scrive: “I fratelli laici si danno il cambio per assistere fra Italo all’ospedale. I dottori ancora non si pronunciano sulla situazione del ferito che permane sempre grave. Verso sera riscontrano un miglioramento che fa sperare! (…) Il 1° dicembre: “Il fratello ammalato pare vada migliorando. Però i medici non si pronunciano. È continuamente assistito dai fratelli laici e dai Padri liberi dalla Scuola. Questa notte veglia il malato il P. Rettore. Fra Italo passa la notte a momenti calmo, a momenti irrequieto. Durante il giorno è tranquillo, tanto che il P. Rettore è quasi dell’idea che non sia necessaria la veglia notturna. Però verso sera telefono dall’ospedale che è bene sia assistito anche la prossima notte. Va a fare l’assistenza notturna il P. [Marino] Scarparo.”
Il 3 dicembre P. Ferrari scrive: “Oggi 1ª Domenica di Avvento. Alle ore 9 fra Roberto Feller telefona dall’ospedale che è bene che fra Italo sia assistito da un padre, perché il prof. Romani lo ha trovato più depresso. Va il P. [Amedeo] Morandi, il quale alle 11 telefona all’Istituto che il malato peggiora”. Il rettore subito dopo pranzo va all’ospedale (…). Il P. Rettore trova il malato molto depresso e sente dal personale che c’è poco da sperare. Alle ore 16 l’ammalato è messo sotto la campana dell’ossigeno. Alle 16.30 arriva all’ospedale il P. Preposito il quale assiste il paziente e lo va preparando alla morte. Però il Viatico non è possibile amministrarglielo. Il suo corpo non riceve più nulla. Alle ore 19 circa P. Pozzobon Valentino dà il cambio al P. Preposito, che ritorna rapidamente all’Istituto per cenare e poi ritornare. Appena arrivato per telefono avvertono che fra Italo è entrato in agonia. Il Preposito ritorna in fretta e assiste col P. Valentino alla morte di fra Italo. Egli cessa di vivere alle ore 21.15. Domani 4 dicembre compiva 32 anni!”. (…) Alle ore 23.45 ritornano dall’ospedale i due padri! Durante il rosario della sera la Comunità era stata avvertita del rapido declino e prima di lasciare l’oratorio vennero recitate le litanie degli agonizzanti. Dopo cena tutti erano in attesa della notizia triste che arrivò alle 21.15. Che il Signore accolga nel suo paradiso l’anima del buon Confratello.” Fratel Italo morì dunque la sera del 3 dicembre 1961.
Il 6 dicembre il DV descrive lungamente il funerale celebrato nella chiesa dell’ospedale, alla presenza di tutti i confratelli di Venezia e da altre case, e di 120 ragazzi delle scuole.
Nessuno di noi che si trovava nella casa di Venezia in quei giorni dimenticherà quel tragico incidente di lavoro – se così si può dire – accaduto il 29 novembre e i tristi giorni seguenti! E nessuno dimenticherà la semplicità, la bontà, il sorriso, l’amicizia di fra Italo, né le lacrime che abbiamo versato alla sua morte.
7.32 P. Michele Busellato
Nato a Thiene, diocesi di Padova ma provincia di Vicenza, il 15 settembre 1890. Entrò in comunità il 16 ottobre 1907. Vestì l’abito Cavanis l’8 dicembre 1907; emise la prima professione triennale il 18 dicembre 1908; la professione perpetua il 21 aprile 1912; ricevette la tonsura il 21 maggio 1910 nella chiesa di S. Agnese; i quattro ordini minori, tutti insieme, il 25 luglio 1912; la sua carriera di studi teologici fu interrotta per qualche tempo quando venne richiamato alle armi per quasi sei mesi dopo l’inizio della guerra, il 15 dicembre 1915, ma, dopo una lunga e pesante peregrinazione per gli ospedali militari d’Italia, fu rinviato provvisoriamente a casa in convalescenza per questioni di salute e potè rientrare in Istituto nel maggio o giugno 1916. Stava peggio di quando era partito dalla comunità per recarsi alla visita medica e poi via via ai vari ospedali militari.
Fu allora, dopo opportuni esami, ordinato suddiacono il 17 giugno 1916; diacono il 18 giugno consecutivo; e prete il giovedì 22 giugno 1916, solennità del Corpus Domini, in S. Agnese.
Si noti che, per amabile concessione della santa Sede e totale disponibilità del Patriarca Pietro La Fontaine, ma anche per un po’ troppo di fretta, furono saltati gli interstizi e in cinque giorni soltanto il P. Michele Busellato ricevette tutti e tre gli ordini maggiori, dallo stesso patriarca: il suddiaconato e il diaconato in forma privata nella cappella del patriarchio; il presbiterato, come si diceva, in S. Agnese. Erano, si potrebbe dire, ordinazioni di tempo di guerra, o di formula 1! Con qualche dubbio sulla validità di questo processo d’urgenza, nel caso particolare.
Sono conservate la lettera di richiesta del preposito P. Tormene al patriarca, chiedendo di profittare di una licenza per dare tutti insieme gli ordini, e la laconica risposta del card, La Fontaine: “Venezia 22 maggio 1916. Car.mo Padre, Tutto considerato, mi pare che si possa procedere all’ordinazione del Ch. co Busellato, senza preoccupazioni. Sarei quindi d’avviso che Ella lo facesse preparare. Con auguri benedic. Aff.mo in G.C. + Pietro Patriarca”.
Una lettera testimoniale del preposito al patriarca, per le ordinazioni agli ordini maggiori, presenta nel secondo foglio un interessante, dettagliato e completo curriculum studiorum di Michele, che non abbiamo quasi mai degli altri religiosi, di mano della stesso preposito.
Dopo l’ordinazione presbiterale, dovette ripresentarsi al distretto militare, e fu definitivamente riformato il 25 agosto 1916, per motivo di salute insufficiente. Per quanto riguarda la sua preparazione alla scuola, sebbene abbia esercitato il ministero di educatore nella scuola informalmente anche prima, ricevette il titolo di maestro elementare nella Scuola Normale il 26 ottobre 1920. Quanto alla sua residenza, lo troviamo lungamente a Venezia, dal 1916 al 1931 (o più probabilmente dal 1916 al 1928); a Porcari dal 1928 al 1933; di nuovo a Venezia dal 1934 al 1941; a Porcari dal 1941 al 1946; al probandato di Vicopelago e S. Alessio dal 1946 al 1949; nel probandato di Possagno dal 1949 al 1961. Da vari anni i formatori dei nostri probandati suggerivano ai superiori che P. Michele, pur con le sue virtù religiose e capacità artistiche, non era persona adatta per l’attività di formatore (o anche come presenza) nei seminari, a causa dei suoi problemi psicologici e di personalità; eppure vi rimase lungamente. Nel 1961 tuttavia i superiori si decisero tardivamente a trasferirlo alla comunità del collegio Canova a Possagno, dove rimase fino alla morte nel 1966, con certezza almeno fino al 1962.
Prestò la sua attività diligente e operosa in queste varie case, esperto specialmente nell’insegnamento del disegno; molto preparato in musica, compose alcuni inni. Fu scelto come uno di membri del comitato che preparò le celebrazioni del centenario dell’erezione canonica dell’Istituto (2 maggio 1938).
Il necrologio di Congregazione lo loda giustamente come uomo di grande mansuetudine e umiltà e ricorda che diede ai confratelli splendidi esempi di osservanza delle regole e di atti di pietà. Bisogna aggiungere che fu uomo colto, amante dello studio, di ingegno pronto, penetrante e versatile, come ricordava P. Pellegrino Bolzonello nell’elogio funebre. Soffrì molto tuttavia di varie infermità, soprattutto di un blocco psicologico che gli rendeva difficile il contatto con il mondo contemporaneo e con le persone, con i mezzi di comunicazioni sociali. Ebbe seri problemi di estrema ansietà, depressione e dolorosi scrupoli di carattere religioso e morale, che lo fecero molto soffrire. E soffrire anche gli altri. Al fine si addormentò nel Signore il 28 luglio 1966, nell’ospedale di Treviso, nel settantacinquesimo anno di età.
Il suo corpo, trasportato a Possagno, fu accompagnato dal compianto dei confratelli e fu sepolto nella cappella costruita per i sacerdoti e per i religiosi Cavanis nel cimitero di quel paese.
7.33 P. Antonio Eibenstein
Il necrologio di Congregazione recita così a proposito di questo nostro notevole confratello:
“Nato a Venezia, nostro sacerdote professo, dotto nelle belle lettere, dotato di ingegno acuto e di gentilezza, istruì i fanciulli e i giovani specialmente nelle scuole secondarie. Per molti anni consecutivi tenne l’ufficio di Rettore a Porcari, a Possagno e a Roma, sostenne anche per sei anni quello di definitore.
Distintissimo per pietà, per zelo delle anime e per ministero della predicazione, colpito da una improvvisa e insanabile malattia, spirò nel Signore [il 21 Marzo 1967]. I confratelli, gli alunni, gli ex-alunni e grande concorso di fedeli resero solenne il suo funerale. Il suo corpo è stato tumulato a Possagno, nel cimitero del luogo”.
Quanto sopra, non dice molto di P. Eibenstein, secondo quanto era di consuetudine nei laconici necrologi ufficiali dall’inizio della Congregazione, fino almeno a questa data del 1967. E tuttavia c’era già un certo progresso: si erano superate le due o tre righe.
Antonio Eibenstein era nato a Venezia il 6 marzo 1904, da Antonio e Margherita Garavaglia, era stato allievo dell’Istituto Cavanis a Venezia nelle scuole tecniche (prima aveva frequentato le elementari nelle scuole comunali), e in particolare era stato allievo di P. Tormene; a quest’ultimo Antonio il 10 marzo 1918 aveva diretto richiesta di entrare in Istituto come aspirante; P. Tormene gli risponde per iscritto il 13 marzo, dichiarando di accettarlo ben volentieri, ma chiedendo che i genitori, data la situazione grave del momento, con le incursioni aeree e il pericolo di invasione di Venezia da parte delle forze armate austriache, gli facessero avere una lettera a scanso di responsabilità, prima di partire da Venezia come profughi. Sembra di capire che i genitori volessero lasciare il figlio Antonio a Venezia con i padri, forse anche perché non perdesse la scuola. Di fatto tuttavia Antonio entrò in probandato l’11 febbraio 1919, a guerra finita. Era stato profugo con la famiglia a S. Marcello Pistoiese, da dove, come dice la stessa pagina del diario, scriveva continuamente ai padri riaffermando la sua volontà di entrare in Istituto.
Vestì l’abito dell’Istituto il 24 ottobre 1920; visse l’esperienza del noviziato a Venezia nell’anno 1920-1921 ed emise i voti temporanei il 25 ottobre 1921. Nell’ottobre 1922 dette inizio al liceo Cavanis di Venezia, come unico studente liceale religioso, e gli fu associato un unico alunno esterno, tale Francsco Angelini. Fece la professione perpetua a Venezia il 21 novembre 1925. Da giovane, almeno, firmava la sua corrispondenza con P. Augusto Tormene, il preposito generale, con la forma diminutiva veneziana “Toni” o Tonin”, e così senz’altro era chiamato in gioventù, ma non nei tempi di cui chi scrive si ricorda, ossia dal 1950 in poi.
Ricevette la prima tonsura clericale il 5 aprile 1924 nella basilica patriarcale di S. Marco; gli ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 22 giugno 1924 nella chiesa di S. Agnese; l’esorcistato e l’accolitato il 20 novembre 1925 nella cappella del Patriarchio. Fu ordinato suddiacono il 18 luglio 1926 al Redentore; diacono il 18 dicembre 1926, nel patriarchio di S. Marco; presbitero il 4 aprile 1927. Per qualche motivo, era stato ordinato in anticipo, con la dispensa per difetto d’età, per 16 mesi e quattro giorni, dalla Congregazione dei religiosi.
Passò i primi anni come assistente di disciplina a Possagno (1927-1931); il periodo 1931-1934 come insegnante a Venezia e il 1934-1937 a Possagno in Collegio Canova; nel frattempo si era laureato in Lettere a Padova, difendendo la tesi “ Leonardo Giustinian. Un Laudese veneziano”.
Dal 1° agosto 1931 fu inviato dal preposito P. Aurelio Andreatta in Francia per perfezionarsi in lingua francese, e vi rimase un mese. Fu ospite dei Fratelli delle Scuole Cristiane di Les Mées, Basses Alpes, poi presso la stessa Congregazione a Parigi. Era questa una novità, e novità molto opportuna, in Congregazione, per gli insegnanti di lingue; ed era dovuta anche alla riforma Gentile della scuola italiana.
Per lui cominciò un tempo di maggiore impegno essendo nominato rettore e prefetto delle Scuole (preside) a Porcari dal 1937 al 1940, rettore e prefetto delle scuole a Possagno-Canova dal 1940 al 1943. È da notare che fu proprio nel periodo in cui P. Antonio Eibenstein era rettore di queste due case che fu regolarizzata la posizione di queste scuole di Porcari e di Possagno, con il raggiungimento della parifica.
Fu vicario della comunità e naturalmente insegnante a Venezia dal 1943 al 1946, negli anni più duri e tristi della seconda guerra mondiale, quando dovette “salvaguardare gli alunni più grandi richiamati innanzitempo dalle autorità occupanti a prestare servizio militare o di lavoro; interessarsi alle famiglie perseguitate o precipitate improvvisamente nell’indigenza. Ne fanno testimonianza le numerose lettere giunte in occasione della sua morte, piene di ricordi e di affettuosa riconoscenza”.
Nell’autunno 1946 lasciò Venezia perché fu destinato e nominato come primo rettore della nuova casa di Roma-Torpignattara; in questa fase (1946-1949) dovette trattare molti aspetti burocratici e amministrativi della difficile impresa, soprattutto in ciò che riguarda gli stretti e frequenti rapporti con la S. Sede.
Fu poi prefetto delle scuole, insegnante di lettere – come sempre – e 2° consigliere a Venezia dal 1949 al 1951; fu a Possagno ancora una volta, dal 1951 al 1958 essendo qui anche vicario e 1° consigliere dal 1953 al 1955. Durante il mandato di P. Gioachino Tomasi come preposito generale, P. Antonio fu consigliere generale, dal 1955 al 1961. Lo troviamo a Venezia dal 1958 al 1961, ancora a Possagno dal 1961 alla morte, avvenuta come si diceva il 21 marzo 1967. Ma con qualche dubbio sugli anni 1965-67, in cui non mi risulta nelle tabelle di questo libro, presente in nessuna casa. Probabilmente, già ammalato, era ancora a Possagno come negli anni precedenti e come nella malattia finale e morte.
Personalmente ricordo P. Eibenstein non come insegnante ma come prefetto delle scuole a Venezia, al tempo in cui cominciai a frequentare le medie all’Istituto Cavanis. Molto severo ed esatto in tutto, esigeva rispetto degli orari e della disciplina. Ricordo che sulla sua scrivania, in direzione, per il resto completamente vuota, c’era soltanto un dizionario italiano aperto, che evidentemente studiava giorno per giorno, per migliorare la lingua italiana che aveva ricca, fluente, degna di un oratore classico.
Vale la pena anche di trascrivere in proposito di questo confratello anche l’articolo: “La cara e buona imagine paterna” (Inf. XV. 83), di P. Attilio Collotto.
“Nella memoria di ognuno di noi, che abbiamo un certo numero di anni, è presente il ricordo di qualcuno a cui diamo con tutto il cuore il nome di « padre ». Non ha forse con noi vincoli di sangue, ma la sua presenza nel nostro clima morale è costante e diventa un termine di paragone cui, anche senza volerlo, facciamo continuamente ricorso; specie se siamo chiamati ad esercitare il ministero di padri, in senso proprio o figurato.
Due anni fa mi trovai con i miei compagni di liceo a celebrare il ventennio della nostra maturità classica; c’erano con noi anche i nostri vecchi (si dice non d’età) insegnanti e padri e la loro compagnia diede tono familiare alla nostra riunione. Ma non c’era il P. Antonio Eibenstein, morto da pochi mesi. Eppure la sua presenza nei nostri discorsi – e nel nostro ricordo – era la più viva di tutte: quella che aveva lasciato in noi un’impronta e un segno che il tempo aveva non cancellato, anzi marcato con maggior evidenza, liberandola da ogni elemento contingente. Eppure il P. Eibenstein non ci aveva fatto scuola che per un anno, e solo di religione e di latino; ma il suo stile si era impresso nella nostra memoria e nel nostro animo in maniera incancellabile. Volerne ora cercare il segreto nei suoi elementi non è facile. La signorilità e l’affabilità, il rigore scientifico dell’insegnamento e l’umanità nel comunicarlo erano doti che in lui trovano un’ideale convivenza e ci facevano toccare con mano la figura di uno che era maestro, prima ancora di essere insegnante. Mi diceva uno dei miei amici di quei tempi: « Potrò anche aver dimenticato quello che il P. Antonio mi ha detto della egloga IV di Virgilio, ma non potrò dimenticare il modo con cui mi ha fatto sentire che essa è una ricchezza per lo spirito umano di tutti i tempi. Ed io sono diventato per le sue parole più uomo ».
Questa disgressione non vuole essere un panegirico, che sarebbe ben poca cosa; è solo un esempio del modo con cui noi abbiamo sentito la paternità del P. Antonio Eibenstein; umanità che si è trasmessa a noi per virtù di una educazione che ci ha resi più uomini, suscitando la nostra responsabilità e comunicandoci la sua ricchezza. Ora io, padre Cavanis, riconosco in lui e negli altri che mi hanno fatto scuola coloro che mi hanno comunicato questa ricchezza di paternità con cui cerco di esercitare il mio ministero, e ho sentito e sento nel P. Antonio una concreta realizzazione di quel comando della nostra regola « andare ai giovani con amore paterno », non perchè possa trovare in lui delle « regole», ma perchè posso trarne uno «spirito».
Un discorso di questo tipo può essere fatto da molti e per molti altri; e devo dire che l’ho sentito da uomini, giovani ed anziani, a proposito di numerosi padri del nostro Istituto; il che significa che la tradizione della paternità va ricercata in una matrice che nel tempo risale ai nostri Fondatori «veri padri della gioventù» al loro stile educativo, all’esempio e alle esortazioni lasciate ai loro figli.
Ogni titolo di paternità viene dal « Padre nostro che è nei cieli »; e sarà tanto più valido, quanto più si avvicina al modello divino. Questo intesero i nostri Fondatori e questo tradussero in pratica con l’istituire una Congregazione religiosa ove i fanciulli e i giovani trovassero non « soltanto il maestro, ma il padre », « un paterno asilo amoroso », « una grande famiglia, in cui i maestri la fanno da padri solleciti ed amorosi» (e le citazioni potrebbero continuare per molto). E nelle regole lasciarono scritto come primo comando di apostolato per i loro figli: «A questo fine principalmente è stata istituita la Congregazione delle Scuole di Carità, perchè i suoi membri esercitino verso i giovani non tanto il compito di maestri, quanto di padri».
La paternità non si impara con delle leggi: nel senso pieno della parola, uno è padre non perchè conosce le leggi della procreazione in senso fisiologico, e le mette in pratica, ma perchè si assume liberamente una responsabilità di ordine morale; in questo senso diciamo che il nome di padre spetta solo all’uomo e non all’animale. Così la paternità del maestro non è una serie di norme codificate e tradizionali; non é la sua scienza in sé e per sé; non è la sua fedeltà al dovere; non é il suo stare con i ragazzi per un tempo più o meno lungo. Tutto questo entra nell’ordine di un metodo, che é utile e necessario, ma non é la paternità. Non voglio con questo entrare in polemica con i metodi didattici moderni: io non me ne intendo più che tanto, ma sono sicuro che, se manca il « cuore », tutti i metodi non serviranno a fare l’uomo. Al di là dei metodi e della preparazione, che fanno la didattica, sta la paternità come arte, non scienza, dell’educazione.
E l’arte é frutto dello spirito e della vita, non della legge. E lo spirito e la vita sono l’amore. Dall’amore trae quindi fondamento la paternità. I nostri Fondatori, P. Anton’Angelo e Marcantonio Cavanis, sono guidati in tutta la loro opera dalla Carità, cioè dall’amore: la loro meditazione assidua é la prima lettera di S. Giovanni, le loro parole parlano sempre di amore paterno; la loro Congregazione si qualifica per il titolo di Scuole di Carità. E questa particolare impronta caratteristica è l’eredità dei loro figli; sicché anche la nostra paternità deriva dal titolo della Carità.
Bisogna però uscire dai discorsi astratti e calare questa paternità nel contatto educativo con i giovani: ed é in questa prova che essa rivela la sua vera natura. È facile che i giovani scambino la paternità con l’autoritarismo, e gli educatori con il paternalismo: da simili atteggiamenti deriva il rigetto di ogni educazione, perchè si cade nella polemica. I due aspetti sopra ipotizzati finiscono per essere uno conseguenza dell’altro e per creare una reazione a catena di recriminazioni la cui vittima sarà essenzialmente colui che deve essere educato. In questo senso io parlerei piuttosto di coeducazione: perché, se é vero che la paternità é destinata ad educare i figli, é anche aperta ad essere educata da essi. E qui entriamo davvero nel concreto.
Paternità significa innanzi tutto umiltà: coscienza che la missione è grande, ma non impossibile. Umiltà per accettare il giovane così com’é, senza ipotizzare utopistiche perfezioni o recriminare su naturali limiti. Umiltà per sapere che ciò che conta non è lo sfoggio della nostra sapiènza e della nostra cultura, ma far sì che il giovane diventi pienamente se stesso. Umiltà per essere aperti a sentire quello che egli ci dice e vuole e per renderci conto che abbiamo sempre da imparare. Umiltà per riconoscere che non siamo infallibili nei nostri giudizi, che la realtà cambia, le esigenze sono nuove e noi dobbiamo piegarci ad esse e non pretendere di piegarle a noi. È questa umiltà concreta che i giovani ci chiedono e sanno apprezzare ed accettare come base di un rapporto educativo, dal quale scaturirà che anche essi devono essere umili per poter imparare ed essere educati.
La paternità è dare responsabilità ai giovani. Sarebbe un’immagine piuttosto ridicola quella di un padre che imbocca il figlio di quindici o diciotto anni, perché così intende dimostrare con quanta cura paterna egli lo segue. Ridicola e fallimentare. Compito del padre é di insegnare al figlio, in ordine alla vita fìsica, come deve fare da solo; così nella vita morale e spirituale come si deve saper regolare da solo nelle situazioni che coinvolgono la responsabilità dell’uomo. È bene che teniamo presente questo aspetto della paternità, specialmente con i giovani di una certa età, perché non finiamo per credere che il nostro compito di padri sia fare noi o decidere noi tutto quello che devono fare o decidere essi, per evitare loro i pericoli o le difficoltà. Finiremmo per creare degli inetti o degli abulici. Qualche volta i giovani ci rimproverano, a ragione o a torto, anche questo: di essere usciti dalle nostre scuole fragili, avvolti nell’ovatta, e si sono buscati un raffreddore o, Dio non voglia, una polmonite alla prima corrente d’aria. Esigono quindi una educazione che li metta a contatto con la situazione. Questo comporta dei rischi, ma di essi non ci dobbiamo né spaventare né formalizzare, quando abbiamo fatto il necessario perché vengano affrontati con una coscienza morale sicura. D’altronde, lo vogliamo o no, i giovani esigono questo dai loro padri e tollerano assai malvolentieri un « protezionismo », che sentono come condizionante la loro libertà o come un’umiliazione di fronte ai loro compagni. E dalla nostra scuola, me lo dicevano proprio l’altro giorno a proposito dello sciopero degli studenti delle scuole medie superiori e del pericolo di strumentalizzazione à cui si può andare incontro in casi del genere, si attendono non che li estranei artificiosamente da questa realtà, ma che li educhi ad affrontarla con coscienza onesta e cristiana.
Perché la paternità é anche un riflesso di questa qualifica: la nostra é una scuola cattolica. Ed i giovani accettano coscientemente questo, ma vogliono poi che noi lo diamo loro in maniera concreta: cioè che li educhiamo a vivere cristianamente le realtà del loro tempo, non i sogni e le recriminazioni del passato. Il padre si radica nel passato, ma guarda al futuro, perchè sa che lì é l’avvenire: direi addirittura che nella sua persona il passato e il futuro trovano il loro momento di equilibrata convivenza a preparare l’avvenire per il figlio. Così é della nostra paternità nella scuola: nella parola e nell’esempio del maestro il giovane deve sentire la ricchezza, religiosa morale culturale, del passato a servizio dell’avvenire. « Il regno dei cieli é simile ad un padre di famiglia che tira fuori dal suo tesoro cose nuove e vecchie ».
7.34 P. Giovanni D’Ambrosi
Di Malamocco, diocesi di Venezia, piccolo centro situato in una delle due lunghe isole litoranee che separano la laguna di Venezia dal mare Adriatico, dove era nato da Giovanni D’Ambrosi e Virginia Alberti il 10 ottobre 1880 (oppure 1886?). Il 21 settembre 1895 il diario di Congregazione registra: “I genitori dell’aspirante D’Ambrosi – Dichiarano il pieno loro consenso alla determinazione presa dal figlio di dedicarsi al nostro Istituto”. Assieme ad un aspirante di nome Pancino, che non ebbe poi perseveranza, fu condotto a Possagno dal P. Casara, Vicario, per riunirli agli aspiranti che si trovavano in formazione in quella casa. Vestì l’abito dell’Istituto l’8 dicembre 1897. Emise la professione temporanea il 10 dicembre 1898; la perpetua a Venezia il 15 dicembre 1901.
Ricevette la tonsura e i primi due ordini minori il 23 dicembre 1899 dal cardinal Sarto; i secondi due dallo stesso patriarca l’8 aprile 1901; fu ordinato suddiacono il 3 agosto 1902 dallo stesso; presbitero il 19 dicembre 1903 dal patriarca Cavallari, sempre a Venezia.
Soprattutto zelante della salvezza delle anime, si dedicò con grande ardore e diligenza all’esercizio della scuola, soprattutto come insegnante di disegno, a ricevere le confessioni e nell’assidua attività della predicazione. A questo ultimo proposito, il suo archivio personale, confluito nell’AICV alla sua morte, contiene un grande numero di quaderni di materiale predicato o predicabile, di testi per ritiri e esercizi spirituali, di esortazioni per seminaristi, per preti e per religiose, particolarmente.
Un aspetto particolarmente importante della sua vita pastorale fu l’impegno di formatore nei seminari: fu direttore o pro-rettore del probandato di Possagno, dove tra l’altro ampliò e riformò la bella chiesetta, arricchendola anche con il bel musaico del Cristo re dell’altar maggiore. Si dice che avesse fondato nel probandato il giornaletto “I piccoli fiori della Madonna del Carmine”. In realtà, alla data di fondazione del foglietto, P. D’Ambrosi si trovava come pro-rettore a Porcari.
Fu maestro dei novizi e in tanti altri modi influì, direttamente o indirettamente, sulla formazione di intere generazioni di Cavanis.
Fu rettore del Collegio Canova, e anche qui fondò un piccolo giornale, “Il lievito”. Credeva dunque nella comunicazione.
Venne anche eletto per alcuni periodi consecutivi all’incarico di definitore. Distinto per l’amore alla Vergine fece rinascere nella casa di Venezia la Congregazione Mariana, della quale per alcuni anni fu saggio direttore.
Ma è bene ricordare per ordine le case cui venne addetto e i tempi della sua permanenza in esse e nella varie attività, durante la sua lunga vita.
È stato inoltre:
Si può anche ricordare che, per la sua bella calligrafia (di cui era insegnante come era insegnante di disegno) fu compilatore del diario di nell’ultimo anno del mandato di P. Vincenzo Rossi e durante il mandato di P. Antonio della Venezia.
Ma è più importante ricordare, per lumeggiare la personalità del P. D’Ambrosi, e anche la stima di cui godeva, che, come si è detto sopra , nel 12° capitolo generale ordinario del 1928, in realtà P. D’Ambrosi era stato eletto preposito generale, ma che per un grossolano errore, la sua elezione non fu riconosciuta: si disse e si scrisse “Il P. Giovanni D’Ambrosi non è eletto, non avendo raggiunto la maggioranza assoluta, a norma del Can. 101 del Codice di diritto canonico”. Si è trattato di una svista colossale, perché 4 voti positivi su 7 votanti è maggioranza assoluta (anche nel cn. 101 del CDC del 1917). Viene proposto allora il nome del secondo definitore, ossia P. Giovanni Rizzardo, pure “per fabas”, e questi ottiene sei voti favorevoli su sette, ed è proclamato eletto. Da notare, di passaggio, che, a memoria di chi scrive, P. D’Ambrosi mai si lagnò di questo fatto, né il fatto fu divulgato da lui o da altri, che io sappia. Altri lo avrebbero fatto.
Un’altra cosa di cui P. D’Ambrosi avrebbe potuto lagnarsi, e mai lo fece, è il fatto che mentre P. Zamattio ricevette nel 1920 la croce di cavaliere della corona, per la preziosa opera sociale di guidare la popolazione di Possagno durante il profugato, e la stessa croce di cavaliere era stata promessa anche a lui, non la ricevette, e nessuno si preoccupò di fargliela avere come d’accordo, né da parte delle autorità comunali di Possagno, né da parte della congregazione. Eppure P. D’Ambrosi – a mio giudizio – in questa impresa aveva ben più meriti di P. Zamattio.
Furono rilevanti e interessanti i contatti di P. D’Ambrosi con don Divo Barsotti.
P. Giovanni D’Ambrosi per molti anni fu assistente spirituale delle suore dell’Istituto del Santo Nome di Dio, di cui può ben essere considerato a buon diritto non solo come uno dei principali fondatori, ma propriamente il fondatore dell’Istituto, dato che fu lui a istituire a Porcari nel 1921 la Congregazione mariana femminile e subito dopo una pia associazione femminile più impegnata e radicale, che deve essere considerata la vera partenza dell’Istituto del S. Nome di Dio. Per questa associazione femminile P. D’Ambrosi scrisse un primo piano di spiritualità e le prime regole; per loro ancora redasse il libro di spiritualità “La paternità di Dio” (1953) come pure il libro di spiritualità “Il Santo Nome” (1962), libri che per la verità non ebbero molto successo, essendo piuttosto ostici nei concetti e nella forma. Leggendo le osservazioni proposte da teologi da lui consultati prima di pubblicare questi due libri, si può notare che P. Giovanni aveva diverse difficoltà con la teologia, e che nelle disquisizioni sottili dei suoi manoscritti o dattiloscritti preparatori incorreva in seri problemi.
Era senza dubbio un sant’uomo, totalmente dedicato alla Congregazione, all’educazione dei fanciulli e alla ricerca del Regno di Dio; tuttavia era uomo a parere di chi scrive eccessivamente severo, sia nella scuola, sia tanto più negli ambienti della formazione.
Il 21 gennaio 1964 ebbe la gioia di celebrare in S. Agnese, nel giorno della festa della santa martire, il suo 60° genetliaco o giubileo presbiterale, o, come si dice, la “Messa di diamante”.
Spirò santamente il 30 dicembre 1968, munito dei sacramenti, nell’ottantesimo anno non ancora compiuto di età, offrendo straordinari esempi di pietà, di osservanza delle regole e specialmente nel sopportare la malattia.
Mons. Giovanni Battista Piasentini vescovo della diocesi di Chioggia, onorò il suo funerale e ne tessé splendido elogio. Il suo corpo attende la beata risurrezione a Venezia nel cimitero di S. Michele; dopo un conveniente tempo di inumazione nel campo degli ecclesiastici e religiosi, le spoglie furono trasferite con quelle di altri confratelli nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo.
7.35 P. Augusto Taddei
Augusto nacque a S. Lucia di Uzzano (in provincia di Pistoia e in diocesi di Pescia) il 3 dicembre 1931. Fu uno dei primi aspiranti nel seminario dei padri Cavanis in Toscana, a Sant’Alessio, che era stato aperto da poco, nel 1940.
Vestì l’abito dell’Istituto il 17 ottobre 1948, compie a Possagno in casa del S. Cuore l’anno del noviziato (1948-49) ed emette la sua prima professione religiosa il 24 ottobre 1949. La sua professione perpetua fu presumibilmente nell’autunno del 1952.
Nell’ottobre 1955, con i confratelli Angelo Moretti e Feliciano Ferrari, ancora chierici, si trasferisce a Roma, in via Casilina, dove i tre cominciano a compiere il corso completo degli studi teologici presso la Pontificia Università Lateranense.
Pur compiendo gli studi teologici a Roma, compì a Venezia, ivi richiamato dai superiori volta per volta, tutti i passi verso l’altare: ricevette la prima tonsura il 30 novembre 1952, i primi due ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 6 marzo 1955, i secondi ordini minori dell’esorcistato e accolitato il 24 settembre 1955; il suddiaconato, nella cripta della basilica di S. Marco, il 17 dicembre 1955; il diaconato nella basilica di S. Marco il 17 marzo 1956. L’ordinazione presbiterale la ricevette per l’imposizione delle mani del Patriarca Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi San Giovanni XXIII, nella chiesa di Santa Maria di Nazareth, detta degli Scalzi, a fianco della stazione ferroviaria di Venezia, il 24 giugno 1956. Dallo stesso patriarca Roncalli aveva ricevuto tutti gli altri ordini.
Ottenne ben presto il titolo accademico della Licenza in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense, che frequentava dal 1955, e, tramite la legge sull’equipollenza, ottenne l’abilitazione per l’insegnamento delle Lettere; e per più di quindici anni fu insegnante di lettere ed educatore nelle scuole degli Istituti Cavanis di Roma-Casilina (1956-57), di Possagno, collegio Canova (1958-62), di Porcari (1962-67) e del Probandato di Possagno (1967-1970): amato dagli allievi e dai seminaristi che non trovavano pesante la scuola con lui, anche se per principio sapeva essere esigente, convinto che la vera educazione si fonda sul sacrificio; era benvoluto dagli ex-alunni che ritornavano spesso a fargli visita, non per un ricordo vago che talora si conserva degli anni che ci videro scolari, ma perché le lezioni della vita che essi ricevevano, venivano man mano confermando la validità di quelle che P. Augusto impartiva nella scuola, attingendole nel Cuore di Cristo il Maestro buono; era amato e si direbbe anche preferito dai professori laici che collaboravano con i padri: sapeva infatti produrre e mantenere con gioia sia con i colleghi sia con gli alunni un’atmosfera di famiglia e di amicizia personale. Di qui la genuinità e l’efficacia della sua opera modellata sullo stile di vita che i Padri Antonio e Marco Cavanis vollero per le loro scuole e aiutata da una sua particolare sensibilità per quello che è l’ambiente e il significato della famiglia sia in campo umano, sia in quello religioso e scolastico.
Fu chiamato dai superiori a reggere la famiglia del seminario minore della Congregazione in Possagno. Fu un compito che accettò con trepidazione; che portò avanti per tutto il triennio 1967-70, con generosità e competenza, anche se talvolta manifestava il dubbio, quasi il timore che fosse un compito assai superiore alle sue forze, alla sua buona volontà. Comprendeva quale grande responsabilità sia davanti a Dio, prendersi cura di quelli che sono da lui chiamati alla vita sacerdotale e religiosa; sentiva profondamente il problema delle vocazioni e il suo intervento durante il Capitolo Generale Speciale cui partecipavamo insieme, ci disse tutta la sua ansia in proposito.
Nella vita di ogni giorno del nostro Seminario vedemmo brillare la sua capacità di organizzatore che nulla lascia di intentato, la bontà del suo animo per cui i giovani sentivano di poter instaurare un dialogo veramente proficuo con chi è superiore e ogni categoria di persone si trovava a suo agio nel trattare con lui; le attenzioni quotidiane per tutti, padri e ragazzi, affinché pur nella povertà che professiamo non ci mancasse non solo il pane di ogni giorno, ma neanche il fiore che rallegra lo sguardo e lo spirito, il divertimento che rinforza le energie, la parola che rasserena il cuore; e per sé prendeva la parte più pesante del lavoro, l’orario più ingrato, il mezzo più scomodo.
Durante la seconda sessione del Capitolo generale straordinario speciale era stao membro della commissione per la formazione dei membri dell’Istituto. Durante la seconda sessione di questo importante capitolo di riforma della congregazione, nella domenica 9 agosto 1970 il carissimo Padre Augusto Taddei moriva improvvisamente e in modo del tutto imprevisto. Quella mattina molto per tempo, all’alba, egli si dirigeva in lambretta da Possagno a Volpago del Montello (Tv) per celebrarvi la santa Messa domenicale e attendere al ministero delle confessioni. Sulla strada Feltrina, all’altezza di Nogarè di Crocetta, cadeva dal motoscooter a causa di un tronco d’albero che, caduto durante la notte a causa di un temporale, ostruiva la carreggiata. Trasportato immediatamente all’ospedale di Pederobba, i sanitari gli riscontravano la frattura della base cranica e lo giudicavano con prognosi riservatissima: in serata, nonostante le cure prodigategli, P. Augusto spirava tra lo strazio dei parenti, subito accorsi da Pistoia, e dei confratelli: lo amavamo molto.
Il funerale si svolse nel Tempio Canoviano di Possagno il martedì 11 agosto e fu imponente per la partecipazione del popolo di Possagno e di un gruppo di ex-allievi di P. Augusto, ma soprattutto per la presenza veramente straordinaria di Sacerdoti: trentacinque di essi concelebrarono la S. Messa funebre presieduta dal P. Orfeo Mason, Preposito Generale dell’Istituto.
Oltre ai confratelli presenti a Possagno per il Capitolo Speciale, di cui P. Taddei era membro stimato, e a quelli venuti in rappresentanza di tutte le case dell’Istituto, presero parte alla liturgia di suffragio numerosi religiosi e sacerdoti della Pedemontana, legati alla Congregazione Cavanis e al Padre Augusto da lunga consuetudine di vita e collaborazione nel campo delle vocazioni ed in quello pastorale. Significativa la presenza del Vicario generale della diocesi di Treviso, Mons. Guarnier, in rappresentanza del Vescovo, e quella di monsignor Piasentini (Cavanis) Vescovo di Chioggia, che impartì l’assoluzione finale alla salma del caro padre.
Difficile non ricordare, per chi c’era, l’insieme di fede, di speranza e di dolore autentico, che provammo nel funerale di questo giovane e caro padre, mentre cantavamo uno dei nuovi canti post-conciliari, con voce commossa e con lagrime, “Rallegrati, Gerusalemme, raccogli i tuoi figli, nelle tue mura!”.
Capitoli delle colpe
Un tempo, da noi come in molti altri istituti religiosi, si faceva in cappella di comunità, ogni venerdì, il capitolo delle colpe, che era in fondo una specie di auto-correzione fraterna. In essa, ogni religioso, in ginocchio in mezzo alla cappella, si accusava di una colpa minore, esterna o contro le regole e riceveva una modesta penitenza dal rettore. Se ci fossero in casa dei seminaristi, come accadeva sempre a Venezia, questi si accusavano per primi, uno per uno, e poi tutti insieme uscivano dalla cappella; in seguito, si accusavano i fratelli laici e uscivano a loro volta; i religiosi sacerdoti si accusavano per ultimi.
I seminaristi poi potevano essere inviati, in caso di qualche fallo più rilevante, ad accusarsi nel refettorio dei padri; il che era piuttosto sgradevole. Nel caso, il seminarista (tra cui chi scrive) si inginocchiava in mezzo al refettorio, finite le preghiere di rito e la lettura spirituale che vi si faceva, e si “accusava”. Si raccontano a questo proposito delle cose divertenti.
Una volta un tale confessò: “Mi accuso di aver rotto un vetro”. Al che, P. Francesco Saverio Zanon, che era anche direttore del gabinetto di fisica e chimica e del museo didattico di scienze naturali, battè il pugno sulla tavola e disse: “Non era un vetro, era un prezioso strumento scientifico!”. Probabilmente il malcapitato avera rotto una lente, un becker o una storta. Era pur sempre di vetro, ma la sua accusa aveva il difetto del minimalismo. Da notare che era solo il rettore (e P. Zanon non lo era) che poteva intervenire, eventualmente commentare, ma in genere dava solo una piccola penitenza.
Un altro seminarista si confessò di aver rotto la testa a S. Giuseppe; naturalmente si trattava di un incidente con la statua di gesso di questo grande santo, ma la cosa suscitò una grande risata tra i presenti. In un altro caso uno dei giovani disse “Mi accuso (questa era la formula in uso) di aver perduto la pazienza”. Il rettore domandò: “Com’è che hai perso la pazienza, con il P. Maestro, con i confratelli chierici, con i bambini?” E il chierico rispose, “No, Padre, ho perso la pazienza di stoffa, dell’abito religioso”. Aveva lasciato in giro e smarrito il nostro caratteristico scapolare, che si chiamava appunto “pazienza”.
La cosa più divertente fu quando uno si accusò in refettorio dicendo: “Padre, mi accuso di aver saltato il morto”. La cosa richiedeva anche qui una spiegazione, non essendo immediatamente chiara. La mattina, alla fine della meditazione di comunità, si ricordano i nomi dei confratelli defunti di cui si fa anniversario; a quel tempo, a Venezia, un chierico era incaricato di leggere i nomi dei defunti di quel giorno, e per loro si pregava insieme (oggi con la formula “Accoglilo (-li) nell’assemblea festosa dei tuoi santi”) e poi lo o li si ricordava nella santa messa. E il povero chierico aveva appunto dimenticato il suo incarico e quindi aveva, in qualche modo “saltato il morto”.
7.36 P. Alessandro Vianello
La famiglia Vianello, veneziana, poco prima della nascita di Alessandro, si era dovuta trasferire per un breve periodo a Zelarino per motivi di lavoro del padre, che era impiegato, e fu là che Alessandro nacque il 27 luglio 1892. La sua famiglia poco dopo ritornò a Venezia. Ricordo che P. Alessandro, quando parlava del suo luogo di nascita o doveva declinare i suoi dati anagrafici per motivo burocratico, dopo aver detto: “Sono nato a Zelarino il 27 luglio 1892”, amava soggiungere: “Sono nato a Zelarino per caso”. Delle volte noi giovani lo prendevamo amabilmente in giro, scherzosamente e con tutto il rispetto, domandando se era “nato per caso”; ed egli allora rideva, e diceva puntualmente: “Il ‘per caso’ si applica al luogo di nascita, non al verbo!” Ci teneva naturalmente ad essere veneziano d.o.c., come la sua famiglia, e non di Zelarino.
Alessandro seguì con docile prontezza la vocazione alla vita sacerdotale e religiosa, sbocciata durante il curriculum scolastico che aveva seguito nelle scuole dei Cavanis a Venezia. Entrato in Istituto come aspirante nell’ottobre del 1910, a diciotto anni, compì la sua regolare ed esemplare formazione religiosa, attraverso le consuete tappe della vestizione, celebrata il 12 novembre 1911 nella chiesa di S. Agnese, e della prima professione nel 1913. Aveva ricevuto anche la tonsura, assieme a quattro confratelli Cavanis, dal patriarca Aristide Cavallari nella cappella del Patriarchio il 12 dicembre 1912.
Si preparava a fare la professione perpetua nel 1915, e i superiori pensavano di ammetterlo, ma desistettero quando fu chiaro che Alessandro sarebbe stato costretto alla vita militare. Così l’adesione improvvisa dell’Italia alla prima guerra mondiale, il richiamo alle armi, inizialmente nel reparto Sanità, interruppe bruscamente per lui, come per parecchi religiosi, anche dei Cavanis, il suo normale iter. In seguito passò in fanteria, reparto ben più pericoloso; compiuto successivamente, in modo obbligatorio, il corso ufficiali, dato che aveva fatto la licenza liceale, fu promosso sottotenente di fanteria, ricevendo anche 5 giorni di licenza premio, che passò in comunità e con la famiglia a Venezia. Cominciò allora la sua dura e molto pericolosa esperienza come sottotenente di fanteria in trincea, anche in prima linea sul fronte dell’Isonzo, in un corpo speciale, e specialmente pericoloso, di lancia-torpedini: si trattava di corpi che, in prima linea, a breve distanza dalle trincee e fortificazioni nemiche, lanciavano bombe da trincea con mortai, allora chiamati appunto lancia-torpedini.
Venne fatto prigioniero sull’altopiano della Bainsizza, in occasione della disfatta di Caporetto, e dopo un primo smistamento fu condotto e rimase all’incirca per un anno nel campo di concentramento di Sigmundscherberg in Austria, fino alla fine della guerra e alla vittoria dell’Italia.
Si può dire che la sua vocazione in genere, e in specie per l’Istituto Cavanis, uscì rafforzata e maturata nella sofferenza durante il tragico periodo del suo servizio militare e della prigionia nella guerra mondiale 1914-1918. Sulla sua durissima esperienza bellica, come ufficiale di fanteria, e sulla sua prigionia, parleremo più specificamente nel capitolo sulla grande guerra, citando ampiamente il suo diario di guerra e di prigionia.
Troviamo nel diario della Congregazione, tenuto dal P. Augusto Tormene, alcune interessanti annotazioni che sottolineano costantemente la bontà, la pietà, l’amore all’Istituto del giovane chierico-soldato Alessandro, o, come lo chiama a più riprese P. Augusto Tormene nel diario di Congregazione, Sandrino, virtù manifestate nelle sue lettere e cartoline dal fronte o dalla prigionia: «Ha il cuore e il pensiero sempre al suo Istituto» si legge per esempio in data 12 dicembre 1915.
Sandrino ritornò a Venezia dalla prigionia l’11 novembre 1918, lo stesso giorno dell’armistizio tra gli alleati dell’Intesa e la Germania, in condizioni piuttosto precarie di debolezza e di denutrizione e, come si vide dopo, anche di vera malattia nervosa permanente e cronica. Dopo aver espletato ancora alcuni lunghi obblighi di carattere militare, sia per controllo e cura della salute, sia per interrogatori, che oggi si chiamerebbero debriefing, con grande gioia riprese il suo abito Cavanis e il cammino nella vita religiosa e verso l’ordinazione presbiterale. Il 21 dicembre 1918 il patriarca di Venezia cardinale Pietro La Fontaine conferiva nella sua cappella privata nel Patriarchio gli ordini minori dell’Ostiariato e del Lettorato; e il 2 febbraio del 1919 quelli dell’Esorcistato e dell’Accolitato al chierico Alessandro, reduce dalla guerra sul fronte dell’Isonzo e dalla prigionia.
Avrebbe dovuto professare i voti perpetui come si diceva già nel 1915, ma dato che erano allora imminenti la guerra e la chiamata alle armi della sua classe del 1892, tale data fu ritardata; emise dunque la professione perpetua solo il 23 febbraio 1919; erano ai suoi fianchi come testimoni “i compagni di milizia” e giovani religiosi Cavanis Pellegrino Bolzonello e Giovanni Battista Piasentini.
Il 7 febbraio 1919 ritornò da Firenze, completamente esonerato finalmente dal servizio militare, dopo aver avuto tuttavia ancora delle difficoltà e dei cavilli da parte del distretto di Verona. “Così la grazia ottenuta per l’intercessione del P. Marco è completa!”, annota P. Tormene, nello stesso giorno.
Tempo prima in una riunione di comunità aveva riferito ai confratelli, per conto del chierico Vianello, “la grazia da questi ottenuta per l’intercessione del P. Marcantonio, al quale chiese, dopo il ritorno dalla prigionia – quando dovette ripresentarsi al suo Comando – di poter ritornare in Congregazione per l’Immacolata e non dover più smettere l’abito [religioso]”. Aveva chiesto contemporaneamente al P. Anton’Angelo la grazia di ricuperare completamente la salute.
In realtà, se guarì per il momento, rimase però debole e malaticcio – anche se sempre attivo e santamente disponibile – per tutta la vita e, a parte la malattia nervosa di cui si parlerà, soffrì spesso di lunghe fasi acute di febbri.
Alessandro ricevette il suddiaconato domenica 31 agosto 1919 nella basilica di S. Marco, e pure a S. Marco fu ordinato diacono il 20 dicembre 1919. Fu ordinato finalmente prete, veneziano e Cavanis, il 20 marzo 1920 in S. Marco dal patriarca, con solenne pontificale, assieme ad altri ordinandi diocesani e religiosi. Il sacerdote di Verona Don (e San) Giovanni Calabria gli inviava questo telegramma: «Auguri di gran santità». Noi, che conoscemmo bene P. Alessandro, possiamo dire che Don Calabria fu buon profeta.
Compiuto il ciclo della sua formazione culturale e letteraria con la laurea in lettere all’università di Padova, con una tesi su S. Paolino da Nola, difesa il 14 novembre 1930, profuse le sue belle doti di mente e di cuore nell’insegnamento di materie umanistiche nelle scuole inferiori e poi superiori dei nostri istituti.
Tutti i suoi scolari del ginnasio possono ricordare quanto egli si infiammava, quanto il Suo animo godeva nel leggere Dante e Manzoni, ma soprattutto il Manzoni, perché certamente a lui più congeniale nello spirito di moderazione e di umana e cristiana mitezza. Egli, laureato in Lettere, portava una squisita e rara sensibilità nelle letture e nello studio di quegli autori che gli presentavano un mondo dove — in ultima istanza — trionfa non la prepotenza e l’egoismo, ma la bontà, la giustizia, l’altruismo, la cristiana carità.
Lo troviamo successivamente nelle seguenti case e cariche: appena ordinato prete, come assistente degli aspiranti nel collegio Canova, dal 1921 (forse dal 1920) al 1928; a Venezia dal 1928 al 1930; un anno a Porcari (1930-31); a Possagno-Canova dal 1931 al 1937; a Porcari dal 1937 al 1943; però è da notare che dal 1941 al 1943 si trova anche nella lista dei religiosi della casa madre di Venezia, forse c’era stata una prima destinazione che fu cambiata più tardi. Fu il primo direttore e formatore del seminario minore di Costasavina (TN; 1943-46), poi è inviato, come maestro dei novizi, nella nuova casa del S. Cuore a Possagno, dove rimase e operò, sempre come maestro dei novizi, ma anche occupato nell’appoggio all’attività degli esercizi e ritiri, dal 1946 al 1958. È questa la fase più tipica e centrale della sua vita. Dal 1958 al 1960 è maestro dei chierici a Venezia. Visse e operò poi, ormai anziano, dal 1961 al 1970 a Porcari; e infine di nuovo a Venezia, dal 1970 alla morte, avvenuta nell’anno successivo.
Ricordiamo soprattutto P. Alessandro nel suo compito di classico formatore, in varie situazioni e vari livelli: per molti anni e successivamente si dette tutto nel disimpegno scrupoloso delle cariche di Direttore del Probandato di Possagno, a contatto con i nostri aspiranti che egli amò di intensissimo amore di predilezione; di Maestro dei novizi in Casa del S. Cuore fino al 1957-58. Quanti di noi, religiosi Cavanis, del passato e ancora del presente, siamo stati suoi Novizi!
La sua opera di formatore si concluse, infine, con un ultimo incarico, durato due anni (1958-60), per la seconda volta, come maestro dei teologi a Venezia, ossia responsabile del nostro seminario maggiore, avendo in quegli anni come collaboratore e vicario il P. Guglielmo Incerti. Infine la fiducia dei Confratelli lo aveva designato per vari anni anche al compito di Consigliere Generale della Congregazione: come quarto consigliere dal 1940 al 1943 e come secondo consigliere nel mandato 1943-49; fu lungamente anche procuratore generale. Durante tutte queste mansioni, continuò anche il ministero della scuola.
Quale impronta, lo stile personale di bontà e di santità di P. Alessandro? Ciò che colpiva subito esteriormente era il suo abituale e amabile sorriso, espressione di un animo mite, che si sostanziava di pensieri di stima per tutti: perché, per lui, tutti erano buoni; semplicità di animo e benevolenza, mansuetudine: tutti atteggiamenti del suo naturale temperamento, sì, ma anche frutto di conquista, di sforzo, di ascesi interiore. Innanzitutto e fondamentalmente Egli fu uomo di grande Fede — veramente credeva in Dio —, viveva in costante rapporto con Dio; fede che si esprimeva nell’atteggiamento, così facile e abituale in Lui, nella preghiera. Quanto ha pregato, il P. Alessandro, nella sua vita! Le sue devozioni, così vive e calorose, verso il Cuore di Cristo, verso la Madonna! Nessuno di noi potrà mai dimenticare come il suo cuore gioiva e s’infiammava quando parlava di Maria. Anche negli ultimi giorni di sofferenza, ricorda P. Orfeo Mason, quando si avvicinava al suo capezzale e gli sussurrava all’orecchio: «Padre, coraggio, offra tutto al Signore e alla Madonna» vedeva il suo occhio spento farsi vivo e tutto il volto atteggiato a un sorriso di conferma e di gioia. P. Orfeo, preposito generale a quei tempi, ricordava ancora una caratteristica straordinaria di P. Alessandro, l’obbedienza religiosa a tutti i superiori; oh, il suo rispetto anche verso i superiori più giovani! Confondevano P. Orfeo (eletto preposito generale giovanissimo) le sue espressioni di deferenza e di devozione anche verso la sua persona, di giovane preposito generale, ricordando che egli era stato pure il suo P. Maestro di Noviziato. Ricordava anche il suo amore alla povertà, nell’abito, nelle cose a suo uso, nella stanza: preferiva sempre le cose meno appariscenti e più modeste.
Un’altra caratteristica era la sua squisita carità di tratto, la pazienza, lo spirito di mortificazione. Tutto questo egli lo testimoniò in ogni incarico e in ogni attività.
Colpito da emiplegia nel collegio di Porcari e costretto a lasciare a malincuore l’insegnamento impartito per lunghi anni con competenza e innata vocazione alla scuola, P. Alessandro si spegneva serenamente nella casa-madre di Venezia il 24 gennaio 1971, quasi ottantenne. Lasciò una preziosa eredità di virtù sacerdotali e religiose abbellite da un ardente amore a Gesù Eucaristico e alla Vergine, di cui si trovano molti cenni espressivi e commoventi tra l’altro nel diario di guerra e di prigionia.
La numerosa e commossa partecipazione di ogni ceto di persone ai suoi funerali celebrati in S. Agnese a Venezia fu eloquente testimonianza di quanto egli fosse amato e stimato. Le sue spoglie mortali attendono il giorno della risurrezione nel cimitero locale di S. Michele, traslate, dopo un conveniente tempo d’inumazione, nella cappella funeraria dell’Istituto sita nella chiesa di S. Cristoforo.
In questo libro, P. Alessandro è ricordato almeno 142 volte: il che dice della sua importanza nella vita dell’Istituto.
7.37 P. Luigi Sighel
Nato a Miola di Piné, in provincia e arcidiocesi di Trento il 19 novembre 1912, nel fior della sua fanciullezza fu accolto nel probandato di Possagno il 4 settembre 1924, ove diede inizio al corso di studi. Passò alla casa madre di Venezia il 17 settembre 1929. Vestì l’abito della Congregazione domenica 25 ottobre 1931, festa di Cristo re, a Venezia in S. Agnese, assieme a Angelo Guariento e a un collega di nome Egidio Faggian. Compì il noviziato, a Venezia, nell’anno scolastico 1931-32, alla fine del quale, più esattamente il 29 ottobre 1932, emise i voti religiosi temporanei, a Venezia, nell’oratorio di comunità. Emise la professione perpetua qualche tempo dopo il mese di maggio del 1936.
Tonsurato il 4 luglio 1937 nella basilica della Salute a Venezia, ricevette gli ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 4 aprile 1938 e quelli dell’esorcistato e accolitato il 3 luglio 1938 nella basilica della Salute a Venezia; ricevette il suddiaconato qualche tempo dopo, il 9 settembre 1938. Ricevette poi il diaconato il sabato santo 8 aprile 1939 a Lucca, perché si trovava distaccato in quell’anno scolastico a Porcari per aiutare i padri. Già nei precedenti anni scolastici 1933-35, ancora seminarista liceale, piuttosto giovane, aveva ricevuto dai superiori (necessitati, ma piuttosto imprudenti) il compito di assistente di disciplina al collegio Canova, venendo così staccato per due anni dal suo seminario. Ciò indica l’energia e il coraggio che già si vedeva in lui, perché si trattava di un compito notoriamente difficile.
L’ordinazione sacerdotale avvenne nella cattedrale di Lucca nel 1939. Conseguì la laurea in lettere che gli consentì di dedicarsi con maggior preparazione e competenza all’insegnamento delle discipline letterarie nelle scuole inferiori e superiori in varie case della Congregazione, senza peraltro trascurare altre attività apostoliche. Visse e operò successivamente, dopo l’ordinazione presbiterale, nelle case di Porcari (1939-48 e 1949-52); di Borca di Cadore (1948-49), di Venezia (1952-57), di Possagno-Canova (1958-61), di Capezzano Pianore (1961-67), di nuovo al Canova (1968-71, fino alla morte).
Seppe assolvere, senza risparmio di energie e di tempo, con accorta perizia e vero interesse del bene comune l’incarico di economo nelle case della Congregazione riscuotendo la fiducia e la stima dei Superiori e confratelli. Fu anche membro di una commissione per la riforma delle costituzioni nel 1962.
Nella piena maturità, frequenti assalti cardiaci logorarono inesorabilmente la sua robusta costituzione e lo strapparono improvvisamente all’affetto dei confratelli e dei familiari il 16 novembre 1971 nel Collegio Canova di Possagno all’età di cinquantanove anni.
Le solenni esequie celebrate nel tempio canoviano con commosso concorso di confratelli, degli alunni e del popolo, furono il meritato riconoscimento delle sue virtù di sacerdote, di religioso e di educatore. La sua salma riposa nella cappella del cimitero locale, in attesa di essere risuscitata con Cristo a nuova vita.
7.38 Fra Olivo Bertelli
Da Quinto di Treviso, ove ebbe i natali il 31 marzo 1912, entrò nella Congregazione a Venezia, come fratello laico, il 18 aprile 1931; vestì l’abito dell’istituto nell’oratorio domestico a Venezia il 5 marzo 1932, cominciando così il suo noviziato biennale; emise i primi voti triennali nel marzo 1934; e professò i voti religiosi perpetui a Venezia l’8 aprile 1937.
Consapevole dei suoi doveri e dei suoi limiti volle e seppe vivere la sua giornata nella preghiera, nel lavoro e nella imitazione di Cristo lavoratore nelle varie case della Congregazione ove l’obbedienza l’aveva chiamato. Contrassegnò il suo umile ma prezioso ministero di fedeltà, di dedizione, di riservatezza senza presumere di sé, contento solo di fare la volontà di Dio e di essere utile ai confratelli. In lui ebbe felice realizzazione il detto scritturale hilarem datorem diligit Deus.
Visse la sua vita di consacrazione e di servizio ai fratelli, ai ragazzi delle scuole e alla congregazione all’inizio nel collegio Canova dal 1932 al 1936; a Venezia (dove si occupava soprattutto della sacristia e del lavoro di sagrista di S. Agnese) dal 1936 al 37; di nuovo a Possagno dal 1937 al 1943; a Venezia dal 1943 al 1945; non abbiamo notizie del periodo tra il 1945 e il 1949; lo ritroviamo a Venezia dal 1949 al 1955; a Capezzano Pianore dal 1955 al 1960; poi dal 1962 al 1965 a Venezia e dal 1965 al 1967 a Solaro; a Porcari nell’anno scolastico 1967-68; in casa del S. Cuore dal 1968 al 1970. Ed è a Possagno che passa i due ultimi anni.
Non ancora sessantenne il male letale, che da qualche tempo l’aveva colpito, avuta ragione del suo forte organismo, lo portò al traguardo finale del suo pellegrinaggio terreno, nell’ospedale di Asolo, dove morì il 15 gennaio 1972.
Dopo i funerali celebrati nel tempio di Possagno, a cui intervennero numerosi confratelli, gli alunni del Collegio e fedeli della parrocchia, la sua salma fu tumulata nell’apposita cappella del cimitero locale.
7.39 P. Federico Sottopietra
Bosentino, ridente paese del Trentino gli diede i natali il 4 maggio 1908; ancora ragazzo entrò in Congregazione come aspirante a Possagno ai primi di novembre del 1920. Vestì l’abito dell’istituto il 23 ottobre 1927, visse l’esperienza del noviziato nel 1927-1928, a Venezia; emise i voti temporanei a Venezia il pomeriggio della domenica di Cristo Re, in S. Agnese, il 28 ottobre 1928. Emise poi la professione perpetua il primo novembre 1931, festa di tutti i santi, a Possagno, nella chiesetta del collegio, presenti tutti gli alunni, assieme ai confratelli Gioachino Tomasi e Cesare Turetta.
Ricevette la tonsura assieme ai suddetti compagni il 14 aprile 1932 dal nuovo vescovo di Padova monsignor Carlo Agostini, che era stato invitato a partecipare alla festa (pro pueris) di S. Giuseppe Calasanzio nel collegio Canova di Possagno. Ebbe l’ostiariato e il lettorato a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; l’esorcistato e l’accolitato il 22 settembre dello stesso anno; il suddiaconato l’11 novembre 1934; e il diaconato il 7 aprile 1935. Il 30 giugno 1935 è consacrato sacerdote nella chiesa del SS.mo Redentore a Venezia .
Di carattere mite e assai riservato nel mettere in evidenza le sue doti d’intelligenza e di equilibrato senso pratico, attese coscienziosamente alla sua formazione umanistica e teologica. Alle varie mansioni affidategli dall’obbedienza nelle case della Congregazione, tra le quali l’insegnamento nelle Scuole Elementari – ma insegnò molto poco – e l’ufficio di Segretario delle Scuole che adempì, questo sì, per molti anni, sempre diligente, preciso, servizievole nel disbrigo dei molteplici impegni, seppe unire l’esercizio delle virtù religiose, la fedeltà nell’osservanza delle costituzioni, l’accettazione generosa del sacrificio, la pietà caratterizzata dalla devozione alla SS. Eucaristia e alla Madonna.
Appare nelle liste dei seminaristi a Venezia nel 1931-32; lo troviamo, dopo l’ordinazione presbiterale, nella comunità del Collegio Canova (1935-37); a Venezia (1937-41); nel probandato di Possagno come formatore (1941-42); di nuovo a Venezia (1943-53); di nuovo al Canova di Possagno (1953-67); al Tata Giovanni a Roma, in questo periodo particolarmente per le trascrizioni degli scritti dei fondatori di cui si parla in seguito (1967-69); e poi nei suoi ultimi anni ancora al Canova, dove morì (1970-73).
È doveroso sottolineare, come si accennava, anche il suo prezioso contributo dato allo studio per la causa di beatificazione dei nostri fondatori e di altri dei nostri antichi confratelli, col dattilografarne e ciclostilarne numerosi scritti – testi molte volte difficili da interpretare, sia per alcune scritture difficili, sia per la conservazione dei documenti, a volte consunti dal tempo e dagli inchiostri acidi – offrendo a tutti la possibilità di leggerli e di approfondirne la conoscenza. Per essere più precisi e dettagliati, P. Federico trascrisse in una prima fase, prima e durante il Capitolo Generale Straordinario Speciale (1969-70) una selezione di scritte dei fondatori, e un altro di scritti di P. Sebastiano Casara e di altri tra i primi discepoli e compagni dei fondatori; ma in seguito trascrisse con la macchina dattilografica (non esisteva ancora il computer personale, ma solo i grandi computer delle università e altre grandi istituzioni) tutti i 2.132 (duemila centotrentadue) documenti scritti a mano dai fondatori, e in maggioranza da P. Marco, che sono stati poi editati e pubblicati negli otto volumi dell’ “Epistolario e Memorie” da P. Aldo Servini. Sempre lui, fotocopiò per anni tutti i documenti dei Fondatori e molti altri, costituendo così un fondo alternativo, riprodotto, da custodire a Roma, un’altra serie a Possagno e una serie completa di fotocopie a Venezia. Il vantaggio di questo lavoro era che gli scritti originali, molte volte fragili e comunque insostituibili e degni del maggiore rispetto, potevano essere lasciati nel loro repositorio, consultando le fotocopie; e che in caso deprecabile di un incendio o di altro incidente, i documenti originali avrebbero avuto un’alternativa. Un lavoro colossale, che richiedeva una pazienza e una costanza incredibile, di cui la Congregazione gli deve essere del tutto grata.
Colpito da un male non ben diagnosticato, fu ricoverato all’ospedale di Asolo, e da qui più tardi trasferito a quello civile di Venezia. Dopo alcuni mesi di sofferenza che misero a dura prova la sua pazienza e sopportazione, si spegneva a Venezia il 7 settembre 1973 all’età di soli sessantacinque anni. La sua salma trasportata a Possagno, dopo le esequie, celebrate il 9 del mese e rese solenni dalla presenza di numerosi confratelli, dalla larga partecipazione della popolazione del paese, riposa nella cappella del cimitero locale.
7.40 P. Gioacchino Sighel
Nato a Miola di Piné (Trento) il primo giugno 1905, entrò quindicenne come aspirante nel piccolo seminario annesso al collegio Canova di Possagno, il 18 novembre 1919, quasi subito dopo la vittoria italiana nella grande guerra, e il passaggio del Trentino dall’Austria all’Italia. Naturalmente Gioacchino ci sarebbe venuto lo stesso, come già avevano fatto tanti religiosi o seminaristi Cavanis “tirolesi” dei decenni precedenti. Il loro ingresso in istituto si era interrotto soltanto durante gli anni della guerra dal 1915 (forse già nel 1914) al 1918.
Mi raccontava, quando ero ancora ragazzo e suo allievo, che quando si aprì con la madre e le disse che voleva divenire religioso e, come altri suoi giovani compaesani, voleva entrare nel seminario dei padri Cavanis, essa riempì rapidamente una refa o rusack, ovvero uno “zaino”, e partì con lui per un pellegrinaggio a piedi fino al santuario della Madonna di Pietralba o meglio Weissenstein, un famoso santuario dell’Alto Adige meridionale, quasi per consultare Maria SS.ma e pregarla prima di prendere la decisione. Sua madre era evidentemente una donna molto religiosa e molto devota della Madonna; e questo episodio mi ricordava i pellegrinaggi di Anna, moglie di Èlkana al Tabernacolo in Silo (1 Sam 1). Il viaggio richiedeva molte ore di cammino: dall’altopiano di Piné bisognava scendere alla valle di Cembra per Brusago, risalire per Molina e Castello (oppure per Capriana e Anterivo) in Val di Fiemme, scendere a Fontanefredde/Kaltenbrun sulla strada delle Dolomiti, risalire a Redagno/Radein di sotto e poi Redagno/Radein di Sopra, scendere nel profondo canyon di rocce rosse permiane del Bletterbach, risalire sulla strada forestale e di là scendere a Weissenstein. Un pellegrinaggio di tutto rispetto, almeno dodici ore di camminata da Miola a Weissenstein/Pietralba. E poi naturalmente restava da ritornare a casa, sempre a piedi. Evidentemente il responso di Maria era stato positivo, e Gioacchino cominciò di nuovo a preparare la refa per entrare in seminario.
Insieme ai giovani confratelli, Antonio Cristelli, Riccardo Janeselli e Giovanni Tamanini, furono portati a Venezia per il ginnasio e liceo classico, che frequentarono naturalmente in Istituto. Anzi fu proprio per loro che ci si decise in casa madre ad aprire (o riaprire?) il liceo: in questa occasione a loro furono aggiunti alcuni giovani laici, scelti accuratamente, e così cominciò a Venezia il liceo classico, che più tardi però fu soltanto per i laici, mentre i chierici Cavanis studiarono a Possagno nel Canova. In seguito il liceo di Venezia ricevette ancora chierici Cavanis per qualche anno, dal 1957-1958 al 1967-68.
Ritornando a Gioacchino, questi dopo il ginnasio emise i voti temporanei (8 dicembre 1924) dopo l’anno di noviziato, svolto dall’8 dicembre 1923 all’8 dicembre 1924, si unì ai nostri col vincolo della professione temporanea triennale emessa l’8 dicembre 1924 e poi con la perpetua, emessa il 19 marzo 1928, festa di S. Giuseppe, unitamente ai colleghi Giovanni Tamanini, Antonio Cristelli e Angelo Sighel, a Venezia.
Ricevette i primi due ordini minori (ostiariato e lettorato) il 5 aprile 1930, sabato sitientes, nella sala dei banchetti, dal patriarca La Fontaine; i secondi due ordini minori (esorcistato e accolitato) nella basilica della Salute, dallo stesso presule, il 13 luglio 1930; il suddiaconato nella cappella del Patriarchio il 1° febbraio 1931, sempre assieme ai confratelli Giovanni Tamanini, Antonio Cristelli e Angelo Sighel; il diaconato il 21 marzo 1931.
Ricevuta l’abilitazione magistrale, fu inviato a Porcari, ancora chierico, come insegnante e come assistente dei giovani che frequentavano le scuole del nuovo collegio, fondato nel 1919. Compiuti gli studi teologici fu ordinato sacerdote nella cattedrale di Lucca il 31 maggio 1931. Avendo conseguito all’Università di Pisa la laurea in lingua francese e tedesca, rivelò la sua specifica competenza in questo campo, conciliando nell’insegnamento l’autorità con un profondo senso di comprensione e di umanità, in modo da acquistarsi la stima e l’affetto degli allievi.
Vediamo le case in cui risiedette e i compiti e cariche che gli furono assegnati:
Come si può vedere più in dettaglio, fu coadiutore di monsignor Erminio Filippin dell’Istituto di Paderno del Grappa nella breve e frustrante esperienza dei Cavanis nella collaborazione al Filippin; fu rettore, a più riprese, del Collegio Canova di Possagno, e durante questi periodi del suo rettorato furono eseguiti lavori importanti nel collegio e fu fondato e costruito il Liceo Classico Giuseppe Calasanzio ad esso annesso.
Fu Prefetto delle scuole a Venezia nei primi anni cinquanta, e a Venezia si respirò, perché P. Gioacchino veniva a sostituire il precedente prefetto P. Antonio Eibenstein che, nonostante fosse stimato per la sua cultura, era di una durezza militaresca e inflessibile. P. Gioacchino era invece molto umano, e nello stesso tempo capace di mantenere la disciplina e l’ordine nella scuola. Il suo compito non deve essere stato facile perché, anche per l’assenza (e manca tuttora) di un regolamento scritto formale, cioè un mansionario, che definisse le competenze e i rapporti tra il rettore della casa e il prefetto delle scuole, oggi il preside.
P. Gioacchino si trovava a essere prefetto delle Scuole quando era rettore della comunità di Venezia P. Luigi Candiago, ottimo insegnante, anche se provvisto di alcune fisime, come quella di esigere il “signorsì” e “signornò” dagli alunni; uomo gentile e amabile con le famiglie e con gli ex-allievi ma duro con gli allievi e in comunità; non era dunque certo un “condominio” facile. Per esempio P. Candiago dirigeva lui l’oratorio quotidiano (sette giorni su sette) delle scuole medie e superiori, compito che probabilmente sarebbe spettato al prefetto delle scuole. Anche da giovani studenti si avvertiva la tensione in atto.
P. Gioacchino Sighel fu più tardi amato direttore dell’Istituto Tata Giovanni a Roma; seppe assolvere questi compiti di responsabilità con spirito di sacrificio e chiara visione dei problemi ed esigenze dei tempi.
Nell’insegnamento della lingua francese, in cui era molto competente, oltre a mostrare verso gli studenti una bontà straordinaria, veramente paterna, aveva un metodo speciale per incentivare gli studenti più interessati: ci portava nella grande biblioteca della casa di Venezia, per esempio, ci faceva scegliere e ci imprestava volumetti dei classici della letteratura francese, per esempio opere di Corneille, Racine, Molière, Hugo, lavori più recenti di François Mauriac e così via; addirittura, mi ricordo, opere in provenzale di François Mistral e altri libri piuttosto impegnativi, che oltrepassavano il programma del corso e invitavano alla passione alla lettura sia della prosa che della poesia della letteratura francese. Ce le prestava e ce le leggevamo, aumentando il nostro interesse per la lingua e le nostra cultura generale.
Purtroppo non ebbe molte occasioni di insegnare l’altra lingua in cui era laureato, il tedesco, che però gli fu utile in tante situazioni della vita, come ogni lingua in più.
Aveva alcune caratteristiche personali, a parte la sua bontà e la sua professionalità nell’insegnamento: della sua simpatia per l’Austria, di cui aveva come una nostalgia, si è parlato sopra a proposito del periodo nero della Repubblica di Salò nella Pedemontana del Grappa; bisogna dire che anche quegli eventi così tristi non lo guarirono dalla sua passione di austriacante.
Aveva una grande devozione alla Madonna, particolarmente della Madonna Addolorata, e spesso le gite scolastiche organizzate da lui, anche dal lontano Tata Giovanni a Roma, avevano come mèta i santuari mariani dedicati appunto a Maria Addolorata, come quello di Weissestein/Pietralba in Alto Adige, il santuario dell’Addolorata di Fiemme a Cavalese, e soprattutto quello, pure dell’Addolorata, di Montagnaga, sul natio altipiano di Piné, non lontano dal suo paese.
La sua devozione a Maria Santissima era anche un riflesso del suo affetto alla mamma: parlava molto spesso della mamma, sua e in genere, nelle sue lezioni. In questo senso, pur essendo molto adulto e totalmente impegnato, dava l’impressione di essere un “mammone”, anche se la madre era morta da molti anni; ciò gli dava un aspetto un po’ infantile, un po’ di un bambinone, nonostante la mole, l’altezza e la complessione fisica in generale. Sebbene fosse una persona molto intelligente e esperta della vita, sembrava così un po’ ingenuo e credulone, per la sua sincerità e semplicità congenita, come nota il maestro Elio Boito.
Ma oltre al luogo in cui si insegna la scienza, e cioè alla scuola (e a questa il P. Gioacchino teneva moltissimo e spesso si rammaricava che la scuola fosse scaduta di tono nella sua missione di comunicare la scienza), essa era il punto d’incontro tra padre e figli, che si aiutano a vicenda a diventare migliori. Per questo chi era stato alla sua scuola non lo dimenticava più e sentiva la necessità di tornare a udire la sua voce, così austera, eppur così calda di umanità e di bontà. E anche quelli che non erano stati a scuola da lui, ma che lo incontravano per le strade di Possagno e dei paesi vicini, che egli infaticabilmente percorreva, sapevano della sua bontà, della sua cordialità, del suo interesse per i loro problemi piccoli e grandi, della sua fede senza dubbi e tentennamenti, salda e granitica come al tempo antico. Lo sapevano soprattutto tante donne e tanti uomini anziani e infermi, che dalla sua voce ricevevano conforto e speranza.
Alternò la sua attività di insegnante e di educatore col ministero della predicazione e della confessione, per cui aveva particolari qualità di chiarezza e di bontà.
Ebbe qualche difficoltà ad accettare i documenti del Concilio Vaticano II e le sue conseguenze sulla prescritta riforma dell’Istituto Cavanis, in particolare non vedeva volentieri l’apertura in Brasile, che toglieva tanti religiosi dalle scuole italiane: d’altra parte non faceva pesare i suoi sentimenti, e ne parlava senza acrimonia e senza spirito di rivalsa.
La sua laboriosa esistenza terrena fu stroncata da un improvviso attacco cardiaco a Possagno il 9 dicembre 1974, all’indomani della festa dell’Immacolata, di cui aveva filiale devozione. Tra l’altro, era appena ritornato da un pellegrinaggio al santuario della Madonna di Montagnaga di Piné, di cui era molto devoto. Lasciò profondo e sincero rimpianto, testimoniato dal plebiscito di partecipazione ai suoi funerali di ogni ceto di persone, soprattutto di confratelli, di compaesani, di allievi ed ex-allievi, di sacerdoti, fra cui monsignor Antonio Cunial, Vescovo di Vittorio Veneto, di parenti, e di gente del paese e venuta un po’ da tutte le parti, che aveva gremito il tempio di Possagno e che l’aveva accompagnato con lacrime visibili e sincere al cimitero il giorno 11 dicembre 1974.
La sua salma riposa nella cappella del cimitero locale.
7.41 P. Marco Cipolat
Da Aviano di Pordenone, ove ebbe i natali, paese ferace di religiosi Cavanis, il 15 settembre 1900, entrò nella Congregazione all’età di ventitré anni dopo il servizio militare compiuto nell’immediato primo dopoguerra, il 10 febbraio 1923. Prima ancora del servizio militare, aveva visto la guerra vera (1915-1918), in atto, e ne aveva sofferto, con il suo paese invaso dagli austriaci e dai tedeschi, bosniaci e ungheresi, serbi e croati e attraversato tre volte dall’esercito italiano, la prima volta a cammino del fronte dell’Isonzo, la seconda volta in ritirata e poi in fuga; la terza volta verso la vittoria e la nuova occupazione del suolo nazionale, e oltre. Ne aveva sofferto come tutti, nell’adolescenza e nella prima gioventù, per la paura, la fame, la morte di parenti e amici, i bombardamenti, le violenze belliche.
Entrato nel sicuro e sereno, ancorché povero, ovile dell’Istituto, ritrovò la pace e ebbe la sua formazione iniziale in genere a Venezia, dove era localizzato in quegli anni il noviziato e anche lo studentato. Fu inviato però per un solo anno scolastico (1924-25) a Porcari, in aiuto ai padri e religiosi là residenti, assieme ad un altro seminarista, Basilio Dalla Puppa, poi uscito. Al ritorno, vestì l’abito dell’Istituto l’8 (o 15) settembre 1925, nella cappella del probandato di Possagno, con la presenza e la presidenza del P. Preposito Zamattio. Iniziò così il suo noviziato, svolto nell’anno 1925-26; emise la professione temporanea il 7 ottobre 1926; e i voti perpetui il 5 gennaio 1931. Il 4 aprile 1930, assieme a due confratelli (Riccardo Janeselli e Carlo Donati), ricevette la tonsura in Patriarchio, dal Patriarca Pietro La Fontainea Venezia; i primi due ordini minori (ostiariato e lettorato) il 5 aprile 1930, sabato sitientes, nella sala dei banchetti, dallo stesso patriarca; i secondi due ordini minori (esorcistato e accolitato) nella basilica della Salute, dallo stesso presule, il 13 luglio 1930; il suddiaconato il 21 marzo 1931 nella basilica di S. Marco, dal medesimo. Fu poi ordinato diacono nella chiesa dei carmelitani scalzi a Venezia, per le mani del vescovo ausiliare monsignor Giovanni Jeremich il 28 giugno 1931. Fu infine ordinato prete nel sabato sitientes, il 12 marzo 1932, nella basilica di S. Marco, dal patriarca Pietro La Fontaine.
P. Marco durante la sua vita religiosa, durata 49 anni, visse da vero Cavanis, sempre nel ministero dell’educazione dei più piccoli e spesso della formazione religiosa nei seminari minori. Lo fece con una obbedienza e una semplicità straordinaria, di vero religioso, passando da una casa all’altra, sempre disponibile, spesso poco apprezzato nella sua semplicità, ma non per questo protestatario, acido o brontolone, al contrario: sereno, buono, con quei due occhioni sorridenti.
Lo troviamo dal 1934 al 1940 a Porcari (non risulta dove abbia passato i primi due anni di presbiterato, dal 1932 al 1934); negli anni della seconda guerra mondiale, dal 1941 al 1945 è tra Vicopelago, membro della prima équipe di formatori, con P. Carlo Donati e altri, nella villa dell’Orologio e S. Alessio, con un interludio a Porcari nell’anno scolastico 1942-43, in quegli anni dove in Toscana i religiosi Cavanis passavano da una all’altra delle tre case, secondo il passaggio dei tedeschi, degli alleati, di tutte le razze e popoli della terra, cercando di fare ugualmente del bene. Lo ricorda a Vicopelago P. Diego Dogliani che, bambino, al suo primo entrare nel piccolo seminario, conobbe per primo P. Marco Cipolat e rimase impressionato contemplandolo “col suo fare gioviale e gentile, con il suo parlare tranquillo e sorridente”.
Dopo la guerra, passata la bufera, Marco passa un solo anno nel piccolo semianrio di Costasavina a Pergine, poi ritorna in Toscana, passando a Porcari gli anni scolastici dal 1946 al 1949; poi è come assistente ai corsi di esecizi spirituali nella Casa del S. Cuore dl 1949 al 1951: scese al collegio Canova di Possagno dal 1951 al 1955 (dove ricordo anch’io di averlo incontrato, da ragazzotto che ero).
Nel 1954-55 a Capezzano Pianore, anche qui membro della prima équipe Cavanis, funse da economo, con qualche difficoltà; e passò a Venezia in casa madre dal 1955 al 1958, poi a Chioggia con P. Livio Donati e il suo gruppo, dal 1958 al 1964, il periodo più lungo che trascorse in una casa, in essa fortemente radicato e ad essa affezionato. Lo troviamo poi nel piccolo seminario di Fietta, appena istituito, nell’anno 1964-65, poi dal 1965 al 1970 al seminario minore di Levico, che aveva sostituito quello di Costasavina, dove fu eletto primo consigliere della piccola comunità.
Settantenne, passò a vivere gli ultimi cinque anni della sua vita a Possagno nel collegio Canova.
Riassumendo, P. Marco Cipolat compì quasi tutto il giro delle case Cavanis italiane, con l’eccezione di Roma. Prestò senza risparmio di energie la sua opera di educatore e di maestro nelle scuole elementari a Venezia, nei nostri seminari minori di Vicopelago, S. Alessio, di Fietta e di Levico e nelle Case di Porcari, Capezzano e di Chioggia. Nei seminari, almeno, insegnava aritmetica e matematica, e sapeva farle amare, il che non è cosa da poco. Nel Collegio Canova di Possagno chiudeva, dopo lunghe e dolorose sofferenze sopportate con esemplare rassegnazione, l’8 gennaio 1975 la sua esistenza terrena, tutta spesa nel servizio di Dio, nell’educazione delle anime giovanili, specialmente attraverso il ministero della confessione, in una continua crescente ascesi verso il traguardo della perfezione sacerdotale e religiosa. I suoi resti mortali, dopo un solenne funerale, furono tumulati nella cappella del cimitero del paese di Possagno.
7.42 Luigi Janeselli
Bosentino in diocesi e provincia di Trento fu il suo paese natale (il 23 giugno 1892). Accolto come aspirante a Venezia, entrò in Istituto l’11 ottobre 1906. Aveva come soprannome, forse familiare, di “Titin”. Era figlio di Isacco e di Angela. Era orfano di madre, al momento di entrare in Istituto. Nonostante il cognome (comune nella zona) non era fratello o parente dei tre fratelli Janeselli, Mario, Mansueto e Lino.
Giunto con l’attestato di 2ª popolare da Bosentino, fu subito immesso in 1ª ginnasiale.
Aveva vestito l’abito della Congregazione il 4 luglio 1909 ed emesso la professione dei voti temporanei il 5 (o 4) luglio 1910 nell’oratorio dei piccoli a Venezia, assieme ai tre confratelli di cui sopra, compagni di noviziato, Aurelio Andreatta, Mario Janeselli, Amedeo Fedel; ed emise la professione perpetua assieme agli stessi tre compagni il 5 luglio 1913 in S. Agnese, davanti alla scolaresca. Ricevette la tonsura, assieme a quattro confratelli Cavanis, dal patriarca Aristide Cavallari nella cappella del Patriarchio il 12 dicembre 1912; i quattro ordini minori nella stessa cappella, e con gli stessi tre confratelli ma dal nuovo patriarca Pietro La Fontaine il 22 giugno 1916, solennità del Corpus Domini; ricevette il suddiaconato dal vescovo di Tortona, monsignor Simon Pietro Grassi, nel suo episcopio, durante il tempo del profugato, l’8 settembre 1918, nella memoria della Natività di Maria; il diaconato, dopo il ritorno a Venezia, il 21 dicembre 1918 dal patriarca Pietro La Fontaine nella cappella del patriarchio; concluse le tappe del corso teologico, ricevette l’ordinazione presbiterale dallo stesso patriarca, nella basilica di S. Marco, il sabato sitientes 5 aprile 1919. Fu una grande festa, con quattro neo-sacerdoti Cavanis, un vero record per quell’epoca, e la presenza di quasi tutti i Cavanis, e anche di don Orione venuto apposta da Tortona. In congregazione, lo si chiamava affettuosamente P. Gigio.
Con fiducia i Superiori gli affidarono le cariche prima di rettore del collegio di Porcari, poi di direttore del probandato di Possagno e infine di economo della casa di Venezia, a cui portò migliorie per renderla più funzionale ed accogliente.
In ordine, lo troviamo dal 1919, data dell’ordinazione presbiterale, al 1920 a Venezia; da quest’anno al 1928 a Porcari, tra i primi membri duraturi di questa comunità; dal 1928 al 1930 a Venezia; dal 1930 al 1932 a Possagno, come membro della comunità del collegio Canova, ma responsabile e direttore del probandato, in una comunità ancora informale; nel 1932-33 a Venezia; non si riesce a localizzarlo nelle liste di religiosi negli anni 1934 a 1936; è poi a Venezia dal 1937 al 1943; di nuovo al collegio Canova dal 1943 al 1948; nel 1948-49 a Porcari; dal 1949 al 1952 a Venezia; a Roma, in via Casilina, nel 1952-53; e infine dal 1953 alla morte, nel 1975, in collegio Canova.
Nei sessant’anni di apostolato della scuola fu apprezzato insegnante di materie letterarie, ma soprattutto di matematica nella Scuola Media. Meritano di essere messi in rilievo gli espedienti e gli accorgimenti, suggeritigli dalla lunga esperienza per rendere più facile lo studio e meno astruse le formule di questa materia notoriamente ostica. Avendo saputo unire la severità alla paterna comprensione della vivacità giovanile, poté incidere più efficacemente negli animi con la sua azione educativa. Per gli allievi, tra cui chi scrive queste pagine, era realmente un papà.
Concluse la sua lunga giornata terrena all’età di 83 anni il 2 novembre 1975 a Possagno nel Collegio Canova, lasciando ai confratelli esempi di virtù religiose e sacerdotali di una vocazione vissuta ed amata.
Dopo le solenni esequie celebrate nel tempio canoviano, a cui parteciparono numerosi confratelli e fedeli del paese, le sue spoglie mortali furono seppellite nella cappella del cimitero locale.
7.43 P. Andrea Galbussera
Nato a Covolo di Piave (TV) il 25 dicembre 1915, accolto ancora ragazzo come aspirante nel probandato di Possagno il 25 ottobre 1928, passò a Venezia per continuare la sua formazione con gli studi il 12 settembre 1931. La sua vestizione religiosa avvenne il 21 ottobre 1933, visse l’esperienza iniziale del noviziato nel 1933-34. Emise la prima professione religiosa triennale nella Congregazione delle Scuole di Carità il 16 (o 21) ottobre 1934, ed emise i voti perpetui il 24 ottobre 1937.
Svolse i suoi studi teologici a Venezia dal 1937 al 1941. Ricevette la sacra tonsura clericale il 9 settembre 1938, i primi due ordini minori l’8 aprile 1939, di sabato santo; e i secondi due ordini dell’esorcistato e accolitato nella chiesa di S. Francesco della Vigna a Venezia il 3 luglio 1939. Ricevette l’ordine maggiore del suddiaconato il 30 giugno 1940 alla chiesa del Redentore, alla Giudecca; l’ordine del diaconato il 21 dicembre 1940. Fu poi consacrato sacerdote il 29 marzo 1941 a Venezia, assieme al P. Guerrino Molon, nella chiesa del Redentore, da monsignor Giovanni Jeremich, vescovo ausiliare di Venezia.
Conseguita presso l’Università di Pisa la laurea in Lingue e Letterature straniere, come pure l’abilitazione per la stessa area, dedicò le sue energie fisiche e intellettuali all’insegnamento di materie letterarie e di lingua francese in particolare, nelle case della Congregazione, riscuotendo, anche se esigente e severo, la stima e l’amore dei suoi alunni, che cercava di attirare e legare all’Istituto, anche con lo sport, specie del calcio, di cui si serviva come efficace strumento educativo.
Lo troviamo a Venezia dal 1943 al 1946; a Porcari dal 1949 al 1955; nel collegio Canova di Possagno dal 1955 al 1958; con la carica di rettore dell’Istituto Capezzano Pianore dal 1958 al 1963; in seguito di nuovo a Venezia dal 1963 al 1974. Mancano dati per il momento sugli anni dal 1941 al 1942 (in cui probabilmente si trovava a Venezia) e sul periodo 1947-1949. Si acquistò pure stima e benevolenza a Venezia e altrove anche come Assistente ecclesiastico degli ex-allievi e della Congregazione Mariana per il suo zelo, per la sua spontanea cordialità e culto dell’amicizia.
Nel pieno vigore delle sue forze fisiche morì improvvisamente a Venezia, l’8 aprile 1974. Dopo i solenni funerali celebrati nella chiesa di Santa Agnese con numerosissima e commossa partecipazione di confratelli, di compaesani, di allievi ed ex-allievi e amici la sua salma fu tumulata nel cimitero di S. Michele.
7.44 P. Valentino Pozzobon
Nacque il 14 febbraio 1919 a Roncade, in diocesi e provincia di Treviso ed entrò nel probandato di Possagno il 17 ottobre 1928. Passò a Venezia per continuare la sua formazione il 22 luglio 1935. Vestì l’abito della Congregazione il 6 ottobre 1935, a Venezia, con altri due probandi provenienti dal probandato di Possagno, che ben presto lasciarono la via del seminario Cavanis. Iniziò così per Valentino l’anno di noviziato, vissuto nel 1935-36 e concluso con la professione temporanea, emessa l’8 aprile 1937. Si consacrò definitivamente al Signore e alla Congregazione con la professione perpetua nella primavera del 1940. Difficile trovare la data esatta, perché la Congregazione era occupata con gli ultimi eventi del centenario del 1938-39 e della completa riforma della chiesa di S. Agnese; ed essa stessa e tutta l’Italia era occupatissime a dare inizio alla propria partecipazione alla tragica seconda guerra mondiale.
Cominciando i suoi passi verso l’altare, sempre da solo, perché era rimasto lui solo nella sua annata, il religioso Valentino ricevette la prima tonsura ecclesiastica il primo luglio 1940; i primi due ordini minori, dell’ostiariato e del lettorato il 20 dicembre 1941 dal patriarca Adeodato Piazza a S. Marco; i secondi due ordini minori nella primavera del 1942; il suddiaconato dallo stesso patriarca il 28 giugno 1942; il diaconato il 19 dicembre 1942, dallo stesso, nella basilica della Salute; fu infine ordinato prete il 3 giugno 1943, nella solennità dell’Ascensione del Signore, dal Patriarca Adeodato Piazza, nella basilica della Salute.
Dotato d’intelligenza aperta e di forte carattere percorso il curriculum degli studi letterari e teologici, si laureò in Belle Lettere il 2 dicembre 1953 nell’università di Padova, dove difese una tesi sul tema: “S. Gregorio Magno e il canto liturgico”. Ricevette l’abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie e di storia dell’arte nelle scuole medie superiori.
Per le sue rare capacità organizzative coprì nella Congregazione le cariche di Consigliere generale e di Vicario generale, di Prefetto delle scuole a Venezia, dove iniziò anche l’apertura di una casa di villeggiatura per studenti a Cima Sappada; di rettore per nove anni del Liceo Scientifico di Capezzano Pianore, a cui diede più ampio respiro e sviluppo con la costruzione di un nuovo edificio.
Mettendo in ordine le date, lo troviamo a Venezia, dopo l’ordinazione presbiterale dal 1943 al 1946; a Possagno-Canova nei due anni successivi; di nuovo a Venezia nell’anno scolastico 1948-49; in collegio Canova dal 1949 al 1953; a Venezia dal 1953 al 1955; è rettore a Porcari dal 1955 al 1958; prefetto delle scuole a Venezia dal 1961 al ’64; nella casa madre si trovava già dal 1958; a Capezzano Pianore dal 1963 al 1975, essendo rettore di quella casa dal 1963 al 1973. Non si è potuto localizzarlo negli anni 1959-60.
Dal ministero di educatore e insegnante competente e apprezzato di materie letterarie nelle scuole della Congregazione non disgiunse l’esercizio delle virtù sacerdotali e religiose, vivificate dalla pietà eucaristica e mariana.
Nel mezzo della dinamica attività, a soli cinquantasei anni, dopo un subitaneo malore, morì il primo novembre 1975 all’ospedale di Pietrasanta (Lucca). Ai solenni funerali celebrati nella parrocchiale di Capezzano, parteciparono confratelli, ex-allievi e fedeli del paese. La sua salma riposa nel cimitero locale di Capezzano in attesa del dies Domini.
7.45 Fratel Edoardo Bartolamedi
Nato a Roncogno di Pergine (Valsugana, Trento) il 19 giugno 1909, trascorse la sua infanzia e giovinezza al suo paese. Chiamato alle armi a circa 30 anni come soldato semplice nel battaglione Trento degli Alpini durante la guerra mondiale del 1939-1945, fu inviato sul fronte francese sulle Alpi e poi si trovò tra le forze di occupazione del sud della Francia; fu fatto prigioniero dai tedeschi il 9 settembre 1943, quando essi invasero anche il sud della Francia, che prima era stata la repubblica semi-autonoma di Vichy. Rimase prigioniero di guerra prima dei tedeschi, poi degli Alleati, vivendo duramente in successivi campi di concentramento, impegnato in un lavoro di manovalanza in appoggio alle forze armate tedesche e poi alleate, sempre in situazioni di grande pericolo e di sofferenza, sopportata con grande pazienza, speranza, e da una grande e preziosa spiritualità di laico cristiano molto devoto ma non bigotto. Da ricordare il suo prezioso diario della prigionia, di cui si parlerà.
Ritornato in Italia il 21 settembre 1945, dopo la fine della guerra e della prigionia, trascorse in famiglia a Roncogno due anni, durante i quali fu stimato dai compaesani, che lo vollero presidente della loro cooperativa rurale. Da molti anni però sentiva il desiderio di consacrarsi al Signore nella vita religiosa ma per vari motivi, tra cui guerra e prigionia, non aveva potuto farlo prima. Entrò finalmente come postulante fratello nel 1947 nella Congregazione delle Scuole di Carità, che aveva conosciuto tramite P. Angelo Sighel.
Vestì l’abito dell’Istituto il 19 ottobre 1947 a Col Draga, a Possagno, assieme a una quindicina di compagni. Finito il noviziato svolto nella casa del S. Cuore (1947-49) emise i voti temporanei a Possagno il 24 ottobre 1949; in seguito si consacrò definitivamente al Signore con la professione perpetua il 26 ottobre 1952 a Venezia.
Consapevole dei suoi doveri, tutto dedito ai compiti religiosi amati e assolti con dedizione e amore, svolse il suo servizio in varie case della Congregazione. Venne addetto successivamente alle case di Possagno-Canova (1952-54); di Porcari (1954-55); di Venezia (1955-58); di Roma (1958-1961); di Capezzano Pianore (1961-63); di nuovo al Canova (1964-67); poi salì brevemente in Casa del S. Cuore (1968-70); passò a Porcari dal 1970 al 1977; e infine fu trasferito di nuovo a Capezzano Pianore per l’anno scolastico 1977-78, ma vi morì quasi subito.
La sua condotta esemplare e laboriosa, il suo carattere mite e riservato, estremamente gentile, che sapeva infondere bontà e carità intorno a sé, hanno lasciato una testimonianza preziosa della sua vita vissuta con fede e nella oblazione di tutto se stesso agli impegni, che contraddistinguono la vita religiosa.
La sua morte avvenuta improvvisamente il 3 ottobre 1977 all’ospedale di Lucca, mentre da poco apparteneva alla comunità di Capezzano Pianore, ha suscitato grande dolore e vivo rimpianto in quanti lo conobbero. Dopo le esequie celebrate nella chiesa parrocchiale di Capezzano Pianore con la partecipazione di numerosi confratelli, dei famigliari e di molti fedeli, la sua salma riposa nel cimitero locale accanto a quella degli altri confratelli, che lo precedettero nell’incontro con Cristo.
7.46 Fratel Ausonio Bassan
Nato a Vescovana in provincia di Padova il 1° luglio 1883, nella sua giovinezza Ausonio Bassan fu impiegato comunale allo stato civile. Richiamato alle armi nel 1915, prestò servizio nel Genio Telegrafisti 155° Compagnia con sede a Firenze. Chiamato sotto le armi e addetto al 3° Genio telegrafisti, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, durante la prima guerra mondiale, fu trasferito in Albania, in Argirocastro, dove rimase fino al congedo.
Ritornato in famiglia, rimase accanto agli anziani genitori fino alla loro morte. Maturatasi nel frattempo nel suo animo la vocazione religiosa, rispose generosamente e il 7 ottobre 1925, all’età di quarantatré anni fu accolto ed entrò nella Congregazione delle Scuole di Carità.
Vestito l’abito religioso, come fratello laico, il 22 aprile 1926 e compiuto il tirocinio del noviziato, nell’anno 1926-28, Ausonio emise la professione temporanea di voti il 1° (o 2) maggio 1928; e tre anni dopo suggellò la sua donazione totale al Signore e alla Congregazione con la professione religiosa perpetua che emise il 2 (o 3) maggio 1931. Durante i cinquant’anni di vita religiosa, trascorsi quasi tutti a Venezia, avuti dalla fiducia dei superiori gli incarichi di sacrista, di infermiere, di guardarobiere, li compì con fedeltà, con diligenza e grande disponibilità contento di fare la volontà di Dio. Si distinse configurando la sua condotta su quella di Cristo lavoratore, nell’osservanza scrupolosa della regola, della vita comune, nella pietà caratterizzata da un’ardente devozione.
Per essere più esatti, passò i primi anni di vita religiosa (e prima il noviziato) a Possagno in collegio Canova (1931-37); nel 1937 passò a Venezia, dove visse con certezza nei periodi 1937-1946 e 1949-1977. È probabile che continuasse a Venezia anche nei tre anni 1946 a 1949, anche se non ne trovo traccia nei documenti.
Un momento emozionante, fuori della routine, fu per lui quello di domenica 5 dicembre 1971, quando il sindaco di Venezia consegnò al nostro confratello le insegne di Cavaliere di Vittorio Veneto, quale ex-combattente della prima guerra mondiale.
Dopo una breve malattia, nel cuor della notte del 25 aprile 1977 all’età di 94 anni chiudeva la sua lunga e laboriosa giornata terrena per ritornare ricco di meriti alla casa del Padre il 25 aprile 1977. Ai suoi funerali celebrati nella chiesa di S. Agnese parteciparono molti confratelli, i famigliari, gli alunni delle nostre scuole e fedeli della parrocchia. Le sue spoglie mortali attendono il giorno della risurrezione nel cimitero locale di S. Michele, traslate, dopo un conveniente tempo d’inumazione, nella cappella funeraria dell’Istituto sita nella chiesa di S. Cristoforo.
7.47 P. Angelo Trevisan
Nato a Castelfranco Veneto (Treviso) nel 1924, ancora giovanissimo passò a vivere con la famiglia a Ciano del Montello (Treviso), nella dura vita dei campi. Sbocciata la vocazione alla vita religiosa, nel 1936 entrò nel probandato di Possagno e compiuta la sua prima formazione religiosa e culturale, vestì l’abito dell’Istituto, visse l’esperienza del noviziato ed emise i voti temporanei. Passato allo studentato di Venezia, vi fece la sua professione perpetua nel 1947.
Ricevette la tonsura ecclesiastica il 22 giugno 1947; i primi due ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 27 giugno 1948 nella basilica della Madonna della Salute; i secondi ordini minori, esorcistato e accolitato a Venezia il 19 dicembre 1948. Gli fu attribuito il suddiaconato, sempre a Venezia, il 26 giugno 1949; fu consacrato diacono nella cripta della basilica di S. Marco il 17 dicembre 1949. Il 4 giugno 1950 infine fu ordinato sacerdote a Venezia dal Patriarca monsignor Carlo Agostini in Sant’Agnese.
Coerenza e fedeltà a quello che riteneva il suo dovere di sacerdote e religioso contrassegnarono le sue attività quotidiane. Fedele agli impegni dell’obbedienza si dedicò totalmente alla missione di educatore, che aveva iniziato fin dal periodo degli studi di teologia. A Venezia (ancora seminarista ma maestro), a Roma, a Levico molti bambini e ragazzi ebbero da lui un maestro competente, infaticabile e paziente. Espresse il meglio di sé in tre periodi di ministero nella scuola. II primo periodo lo vide giovane maestro nelle elementari di Venezia (ancora seminarista ma maestro). Lo ricordiamo ancora oggi come maestro dotato di straordinarie capacità didattiche: riusciva a mantenere attenti, quasi incantati, 60 o 65 piccoli allievi della prima o della seconda elementare. Li educava meravigliosamente al canto, alla dizione; organizzava recite, piccole accademie, curava la preghiera negli oratori; la sua classe, sempre numerosíssima, non la sentivi neppure quando si portava dal cortile alle aule dell’ultimo piano. Quegli anni di insegnamento ai piccoli sono stati per il maestro ed educatore P. Angelo forse i migliori della sua vita; mi ricordo che anche a distanza di tempo ne parlava con viva gioia del suo spirito. Negli stessi anni ebbe anche, in un periodo, la responsabilità di assistente dei seminaristi liceali. Il secondo felice momento della sua attività educativa fu quello di Roma, a Torpignattara (1953-61), dove continuò ad insegnare in una quinta elementare, insegnò educazione fisica nelle medie, fu assistente ed animatore tra gli aspiranti e juniores dell’Azione Cattolica e dei giovani ex-allievi. Il terzo periodo fecondo dei suo ministero apostolico fu quello svolto nella formazione dei giovani aspiranti alla vita religiosa. I superiori gli confidarono un incarico di grande fiducia nominandolo rettore del nostro Probandato di Levico: c’era già stato nel periodo 1950-53, giovane prete; ma vi ritornò da rettore nel 1961-67; P. Angelo vi dedicò anni di intensa attività impegnando senza risparmio le sue migliori energie intellettuali e la sua squisita sensibilità. Continuò il suo impegno come formatore gi giovanissimi aspiranti e postulanti a Fietta del Grappa dal 1968 al 1970. Fu un anno al collegio Canova a Possagno (1970-71), poi di nuovo a Levico (1971-77). Poi venne, quasi d’improvviso, un prematuro declino delle sue forze fisiche, con sofferenze anche di natura psicologica e morale.
Continuò ad amare profondamente la natura, le cose belle, i fiori, il suo giardino, l’orto di Levico. Affrontò con pazienza una serie di acciacchi, di malattie, fino all’ultima, che egli sopportò con pazienza e accettazione della volontà del Signore.
Proprio nella fase acuta dell’ultima grave malattia, quando gli fu proposto di andare a Padova per essere curato dal nostro caríssimo ex-allievo Prof. Carlon, chirurgo di grande fama, P. Angelo quasi con voce implorante chiese di poter rimanere nell’Ospedale di Levico. «Se devo morire, desidero morire a Levico». Fu accontentato. Assistito dai conforti religiosi morì il 28 dicembre 1977 all’età di 53 anni nell’ospedale di Levico. Dopo i solenni funerali tenuti nella chiesa parrocchiale, a cui parteciparono molti confratelli, sacerdoti diocesani e una larga rappresentanza di persone del suo paese, sincera testimonianza di affetto e di stima, la sua salma fu tumulata nel cimitero locale di Levico. Molto più tardi, su richiesta della famiglia, le sue spoglie furono traslate al cimitero di Ciano di Montello, il paese dov’era cresciuto.
I confratelli lo ricordano con amore e stima, grati a Dio e al caro estinto per tutto il bene che ha fatto nella sua non lunga esistenza.
7.48 P. Ferruccio Vianello
Nato a Venezia il 20 ottobre 1912, mentre frequentava le nostre elementari sentì la chiamata del Signore alla vita sacerdotale e religiosa e rispose con generosità seguendo l’esempio dello zio P. Alessandro Vianello.
Entrò nel seminario minore dell’Istituto il primo luglio 1930. Vestì l’abito dell’Istituto Cavanis nella domenica di Cristo Re, il 26 ottobre 1930, nella chiesa di S. Agnese a Venezia assieme a Vittorio Cristelli e Pio Pasqualini. Cominciò così con loro il noviziato (1930-31). Emise i voti temporanei nell’oratorio domestico a Venezia il 7 novembre 1931, assieme ai confratelli Vittorio Cristelli, e Pio Pasqualini. Fece la sua professione perpetua l’11 novembre 1934. La sua formazione liceale e poi teologica, sempre poi religiosa e sacerdotale, si svolse parte a Venezia e parte a Possagno.
Il 19 settembre 1936 ricevette a Venezia la tonsura; l’ostiariato e il lettorato il 13 marzo 1937, sempre a Venezia; l’esorcistato e l’accolitato, assieme a P. Pio Pasqualini, il 4 luglio 194 nella basilica della Salute, dal Patriarca Adeodato Piazza; ricevette il suddiaconato il 18 settembre 1937; e il sacro diaconato il 4 aprile 1938, poco prima di Pasqua.
Ordinato sacerdote il 3 luglio 1938 e laureatosi in lettere, per tutta la vita finché le forze glielo permisero, si dedicò all’insegnamento e all’educazione dei giovani con grande entusiasmo e impegno esemplare, lasciando un grato ricordo nei suoi alunni P. Marino Scarparo scrive per esempio nelle sue memorie: “Dopo il Natale di quell’anno ebbi come insegnante il P. Ferruccio Vianello, con l’arte del quale feci dei passi da gigante sia nella grammatica sia nell’analisi logica.”. La sua attività didattica (insegnava Lettere nella scuola media) ed educativa la esplicò a Venezia e in altre case della Congregazione, dove fu inviato dai superiori, la cui volontà accettò sempre con prontezza e generosità.
Lo troviamo appena prete brevemente nella comunità e scuola del collegio Canova di Possagno (1938-40); poi ancora a Possagno ma nel Probandato nell’anno scolastico 1940-41; a Venezia nel periodo 1941-46; a Porcari dal 1947 al 1949; di nuovo a Venezia dal 1949 al 1958; A Roma-Torpignattara dal 1958 al 1964; nella comunità e scuola del collegio Canova di Possagno (1965-67); a Levico nel seminario minore, come formatore (1967-74); ancora un anno a Venezia (1974-75), e poi fu a riposo a Possagno-Canova da quest’ultimo anno fino al suo decesso (1975-79).
Era un uomo ricco di un grande buon umore, che contribuiva con i suoi scherzi e con il suo stile di vita a mantenere lieta la comunità. Si distinse nella pietà eucaristica e mariana, nella predicazione facile e incisiva e nell’amministrazione delle confessioni. Si occupava tra l’altro della corale della chiesa di S. Agnese ed educava i ragazzi e i giovani alla musica e al canto liturgico.
Suo fratello, il farmacista Carmelo Vianello della farmacia di S. Margherita ebbe molte volte ad aiutare la nostra comunità.
Colpito da un morbo inesorabile, il Padre Ferruccio accettò la terribile prova con serenità e piena conformità alla volontà di Dio fino al giorno dalla morte, che avvenne il primo marzo 1979 nell’ospedale di Castelfranco Veneto, ove era stato ricoverato. Nel tempio canoviano, a Possagno, dove si trovava da alcuni anni, ebbero luogo i funerali con numerosa partecipazione dei confratelli, di familiari, degli alunni del Collegio e di fedeli della parrocchia. La sua salma fu tumulata nel cimitero locale.
7.49 P. Giosuè Gazzola
Nacque a Fonte, diocesi di Treviso, il 9 novembre 1927. Sbocciata nella sua giovinezza la vocazione alla vita sacerdotale e religiosa, entrò nel nostro probandato di Possagno. Compiuti gli studi ginnasiali, dopo la vestizione compì l’anno di noviziato (1945-46) in Casa del S. Cuore e lì emise i voti religiosi triennali il 29 ottobre 1946.
Passò in seguito nello studentato di Venezia per completare il cursus scolastico liceale e teologico. A Venezia si consacrò definitivamente al Signore e alla Congregazione con i voti perpetui il 30 ottobre 1949, nella solennità di Cristo Re, nella chiesa di Sant’Agnese, davanti ai ragazzi della scuola e ai confratelli, davanti al preposito P. Antonio Cristelli.
Ricevette la prima tonsura clericale il 26 marzo 1950, i primi due ordini minori il primo luglio 1951 e i secondi due il 29 marzo 1952; il suddiaconato il 29 luglio 1952, nella antica ex-cattedrale di Venezia, la basilica di S. Pietro di Castello, dal patriarca monsignor Carlo Agostini; il diaconato, dallo stesso patriarca, il 25 gennaio 1953. Ricevette poi la consacrazione presbiteriale per l’imposizione delle mani del patriarca nella basilica della Salute il 21 giugno 1953.
Ricevuta l’ordinazione sacerdotale e conseguita la laurea in Matematica e Fisica, continuò il suo ministero didattico ed educativo, iniziato nelle Scuole Elementari, nelle Medie e poi nel Liceo Classico a Venezia e poi in quello Scientifico di Capezzano Pianore, riscuotendo la stima e l’affetto dei suoi allievi, che lo ricordano per il suo insegnamento competente e chiaro con cui sapeva rendere facile l’apprendimento anche delle formule più astruse e difficili delle materie scientifiche.
Chiamato dai Superiori a esercitare la carica di economo della casa di Venezia e poi, quello di rettore della casa di Capezzano Pianore, le disimpegnò con abilità, con responsabilità e spirito di sacrificio, sostenuto dalla fede, dall’amore alla Congregazione, e animato dalla pietà eucaristica e mariana, e con esemplare osservanza della vita religiosa.
Per mettere ordine alle fasi della sua vita religiosa e a questi impegni in case diverse, diremo che appena consacrato prete, a metà del 1953, era stato destinato a cominciare nel probandato di Possagno, dove risulta assegnato per il 1953-54; ma l’apertura della casa del Tata Giovanni fece cambiare programma, ed è là che lo troviamo come assistente dal 1953 al 1956. Nel 1957-58 è a Venezia, insegnante ed economo. Dal 1958 al 1965 lo troviamo una prima volta a Capezzano Pianore; dal 1965 al 1967 brevemente a Chioggia; dal 1968 al al 1972 a Venezia. Poi passa nel 1972 come rettore a Capezzano Pianore, e vi rimane fino a settembre 1979, quando i superiori lo destinarono a Venezia.
Compiuto infatti il doppio mandato di rettore della casa di Capezzano, cui diede notevole incremento con la sua dinamica attività, alla vigilia della partenza per la casa di Venezia, a cui veniva destinato di nuovo dai Superiori per insegnare matematica e fisica nel liceo classico, la morte lo colse tragicamente durante una salita sulle Alpi Apuane la mattina del 10 settembre 1979.
Come accenna P. Angelo Moretti nel discorso di elogio e di commiato in occasione delle esequie, e come è poco noto nei dettagli, P. Gazzola aveva l’intenzione di salire un’ultima volta il monte Sella, lungo la crinale principale delle Apuane, tra il Massese e la Garfagnana: “Caro Padre Giosuè, – diceva P. Moretti – prima di partire per la tua nuova sede di Venezia, tu desideravi tanto goderti un ultimo indimenticabile spettacolo dall’alto del Sella”.
Il monte Sella è un monte calcareo, anzi marmoreo (con numerose cave di marmo saccaroide, il tipico e prezioso marmo di Massa e Carrara) di soli 1.739 metri di altezza, ma è un famoso punto panoramico, con una vista a 360° si può dire su tutta la Toscana. Sui suoi fianchi ci sono anche vie alpinistiche di notevole difficoltà, tuttavia P. Giosuè, che andava da solo e che non portava con sé corda per autoassicurazione, né scarpe da aderenza né altri attrezzi alpinistici, deve aver seguito uno dei tanti sentieri, spesso esposti e a volte interrotti da piccole rocce e da passaggi un po’ impegnativi e spesso esposti. Non si trattava propriamente di alpinismo, ma di quello che si chiama “sentiero da escursionisti esperti”. Il monte Sella è conosciuto oltre che per la bellezza, anche perché scivoloso per il ghiaino sparso su lastre lisce di marmo molto ripide. Probabilmente si trattò di una scivolata tragica, ma non c’era nessuno che potesse assistere e testimoniare la dinamica dell’incidente tragico e così doloroso. P. Moretti, che aveva partecipato alle ricerche e che lo ha visto dopo ritrovato, disse: “Purtroppo non ha fatto più ritorno”: dopo due giorni di affannose ricerche, è stato trovato infatti morto in fondo a un canalone.
Imponente e commossa fu la partecipazione ai suoi funerali che si svolsero nella chiesa parrocchiale di Capezzano. La sua salma fu tumulata nel cimitero locale.
Da notare che il vero nome di battesimo di questo confratello era Giosuè, venerando nome biblico, analogo al nome che più tardi fu dato a Gesù, nome dunque sacrosanto; ma in Congregazione era tradizione in tempi passati di sostituire nomi sospetti di non appartenere a santi cristiani, contro la tradizione veneziana di venerare anche santi israeliti; e fu chiamato (ed è citato molte volte) come P. Giuseppe Gazzola. Ma si tratta della stessa persona. E qui ho preferito chiamarlo con il suo vero nome di battesimo, Giosuè. A Gesù, non sarebbe spiaciuto!
7.50 P. Valentino Fedel
Partito dodicenne da Miola di Piné (Trento), ove era nato il 15 agosto 1897, da una famiglia profondamente cristiana, che era in contatto di amicizia con l’Istituto Cavanis e con alcuni suoi membri, che provenivano pure dall’altipiano di Piné. Fu accolto il primo ottobre 1909 come aspirante nella Casa Madre di Venezia; vestì l’abito della Congregazione con altri cinque postulanti ed entrò con loro in noviziato l’8 dicembre 1916, solennità dell’Immacolata. Compiuto il curriculum degli studi ginnasiali, liceali e teologici a Venezia e per un anno a Tortona (Alessandria), dove fu profugo e ospitato durante la guerra 1915-1918 con altri confratelli trentini (quindi, a quel tempo, tirolesi e sudditi austriaci, considerati nemici e potenzialmente pericolosi durante la guerra) dall’Istituto dal Beato Luigi Orione. Di lui il Valentino conservò un profondo e grato ricordo, e di lui parlava spesso con venerazione. Nel 1917 avrebbe dovuto emettere i voti temporanei, ma non poté farlo per mancanza delle lettere testimoniali dell’arcidiocesi di Trento, che non potevano arrivare per causa della situazione bellica. Le testimoniali sostitutive, richieste dal preposito tramite monsignor Pescini a Roma, arrivarono quando il gruppo dei religiosi Cavanis stava già lasciando Tortona; Valentino dunque, assieme a Mansueto Janeselli, emise la professione temporanea triennale in ritardo, ritornato a Venezia dopo la guerra, l’8 dicembre 1918, solennità dell’Immacolata; emise i voti perpetui il 17 dicembre 1922.
Ricevette la tonsura a Venezia dal cardinal Patriarca La Fontaine il 14 dicembre 1922; i primi due ordini minori, dalla stesso porporato il 21 dicembre 1922 e il 23 dicembre gli altri due ordini minori ; fu ordinato suddiacono nella basilica di S. Marco il 17 marzo 1923, nel sabato sitientes; il 22 aprile dello stesso anno fu ordinato diacono nella chiesa del Redentore alla Giudecca dal patriarca La Fontaine, in occasione delle celebrazioni per il centenario di S. Fedele di Sighmaringen; infine il 15 luglio 1923 nella chiesa del Redentore alla Giudecca fu ordinato prete dallo stesso patriarca.
Conseguita la Laurea in Lettere a Padova il 30 giugno 1932, difendendo una tesi su Paride Zanotti, dedicò senza risparmio di energie fisiche e intellettuali la sua opera di educatore e di maestro prima nelle scuole elementari di Venezia e poi nelle scuole inferiori e superiori nelle varie Case della Congregazione. Fu tra i primi padri Cavanis della comunità di Porcari; da Porcari passò poi a Capezzano Pianore quando fu aperta questa casa. Fu economo del Collegio Canova ed esplicò questa attività con senso di responsabilità e premura.
Trasferito nel 1960 dalla Casa di Capezzano Pianore, ove insegnò materie letterarie nel Liceo Scientifico, fin dalla sua fondazione nel 1953, in quella di Possagno, continuò la sua opera di educatore finché le forze glielo consentirono. Fu anche economo del Collegio Canova ed esplicò questa attività con senso di responsabilità e premura.
In pratica, girò quasi tutte le case della Congregazione dei suoi tempi: fu a Porcari dal 1927 al 1931, a Possagno-Canova dal 1932 al 1934, a Venezia in casa madre dal 1934 al 1937, a Possagno nel 1938-40; rimanendo all’inizio membro di quella comunità, passò a fondare la piccola comunità (e alla breve esperienza triennale) di tre padri e fra Vincenzo Faliva a Fietta del Grappa, nell’edificio offerto da don Giovanni Andreatta e a servizio del nuovo istituto di monsignor Filippin, a Paderno del Grappa: P. Valentino fu pro-rettore di questa minuscola comunità nel biennio 1938-40; ritornò poi per un anno a Possagno (1940-41). Passò poi lungamente a sud del Po: a Porcari dal 1943 al 1955; a Capezzano dal 1955, poco dopo l’apertura di quella casa, fino al 1961; fu di nuovo a Possagno dal 1961 certamente fino al 1967, con un breve intervallo a Roma nell’anno scolastico 1963-64.
Alla missione della scuola alternò quella pastorale della predicazione e soprattutto della confessione, che adempì per lunghi anni con esemplare assiduità. Di temperamento energico, cordiale e insieme riservato, sapeva celare con la sua modestia le sue doti intellettuali e gli atti di virtù religiose di una vocazione profondamente vissuta e amata e alimentata dalla pietà.
Il P. Valentino era un tipo svelto ed energico e amava molto muoversi, camminare, vivere in mezzo alla natura. A Possagno, nel tempo libero, gli piaceva percorrere i sentieri nei boschi di castagno della bassa montagna e le abetaie della fascia più alta dei boschi. Ci capitava a volte durante le nostre passeggiate estive sulle falde del Monte Grappa di vederlo sbucare dal folto, già anziano ma molto sereno e sorridente, con il suo volto che ricordava quella di un elfo. Aveva una passione speciale per gli uccelli e per gli altri animaletti dei boschi. Manteneva anche rapporti di amicizia e scambio di dati con ornitologi di passione o di professione.
Almeno negli anni di residenza a Porcari praticava anche l’apicultura, e manteneva delle arnie pure nel probandato a Vicopelago, dove andava a dar lezioni ai seminaristi minori, e dove P. Diego Dogliani, allora ragazzetto aspirante, lo ricorda circondato da un nugolo di api, e sempre senza maschera e senza altre protezioni.
A partire dalla fine degli anni Settanta, soffrì progressivamente per tre anni di forme sempre più accentuate di arteriosclerosi, che fiaccarono le sue forze. Questa malattia lo fece soffrire molto, soprattutto perché poco a poco perdette l’autonomia, cui teneva moltissimo, essendo piuttosto riservato e indipendente, e la possibilità di praticare le sue passeggiate solitarie. Il 31 gennaio 1982 spirò, confortato dai sacramenti e assistito dall’affetto dei confratelli.
Dopo i funerali celebrati solennemente nel Tempio canoviano la sua salma fu tumulata nel cimitero locale di Possagno.
7.51 P. Giuseppe Pagnacco
Nacque a Possagno (TV) nel 1906, dove il padre, medico, si era trasferito con la famiglia. Ritornato poi con la famiglia alla città cui apparteneva la famiglia, Venezia, si laureò in Economia e Commercio a Ca’ Foscari e si diede ad attività nel campo aziendale, svolta per un certo periodo anche in Africa, più esattamente a Massaua, in Eritrea, sulle coste del Mar Rosso, per conto della sua impresa. Insoddisfatto di quel lavoro e in genere del mondo, o, diciamo, del secolo, desideroso di realizzare la vocazione allo stato di vita più perfetta, lasciata l’attività impiegatizia nel ramo commerciale, maturo di anni e di esperienza entrò nella nostra Congregazione nel 1947. Visse l’esperienza marcante del noviziato nel 1947-48 a Possagno, con novizi