Storia dell’Istituto Cavanis – Congregazione delle Scuole di Carità 1772-2020 (parte settima)

INDICE

Sigle e abbreviazioni

Ringraziamenti

Introduzione


Parte Prima

Breve biografia dei fondatori 1772-1858

Box: la situazione veneziana

1. I fratelli Anton’Angelo e Marcantonio Cavanis

1.1 Infanzia e adolescenza

Box: un ritratto infantile e uno giovanile di P. Anton’Angelo Cavanis

1.2 Inizio produttivo

1.3 Dalla prima comunità all’erezione canonica

1.4 I fondatori e la scuola nel loro tempo

1.5 I fondatori nella formazione dei seminaristi

1.6 Terza età, lotte e preparazione della successione

1.7 La vecchiaia e le malattie. Morte e fama di santità

1.8 La causa di beatificazione

1.9 Sull’origine dei Cavanis a Cornalba (Bergamo) e sul loro stemma

1.10 Il nome dei Cavanis nei toponimi stradali del mondo

2. Del nome della Congregazione delle Scuole di Carità

2.1 Del significato del nome “Scuole”

2.2 Del significato del nome “Carità”

3. Dell’abito della Congregazione delle Scuole di Carità

4. La situazione numerica della Congregazione nel XIX secolo

Tabella: situazione numerica e lista dei membri dell’Istituto Cavanis all’inizio della comunità della “casetta” (27 agosto 1820)

Tabella: situazione numerica e lista dei membri dell’Istituto Cavanis l’8  dicembre 1830

4.1 La situazione numerica della Congregazione nel 1838

Tabella: religiosi e seminaristi Cavanis alla fine del 1835, cinque mesi dopo l’erezione canonica dell’Istituto Cavanis

4.2 Lista dei religiosi e seminaristi Cavanis il 10 settembre 1841

4.2.1 Sacerdoti nella casa di Venezia

4.2.2 Sacerdoti nella casa di Lendinara

4.2.3 L’Istituto femminile nel 1841

Tabella: religiosi e seminaristi Cavanis il 12 novembre 1856

Tabella: religiosi e seminaristi Cavanis il 1° novembre 1864

4.3 Lista dei religiosi sacerdoti Cavanis nel febbraio 1868

4.3.1 Casa di Venezia

4.3.2 Casa di Lendinara

4.3.3 Casa di Possagno

4.4 Lista dei religiosi sacerdoti Cavanis il 12 marzo 1877

4.4.1 Casa di Venezia

4.4.2 Casa di Lendinara

4.4.3 Casa di Possagno

4.5 Numero dei religiosi preti il 16 aprile 1886

4.6 Lista dei patriarchi di Venezia ai tempi della Congregazione

4.7 Lista dei vescovi della diocesi di Adria ai tempi della casa Cavanis di Lendinara

4.8 Lista dei vescovi della diocesi di Treviso nei tempi della Congregazione Cavanis

4.9 Lista degli arcivescovi dell’arcidiocesi di Lucca nei tempi della Congregazione Cavanis

4.10 Lista dei papi nei tempi della Congregazione Cavanis

5. La casa di Venezia 1820-2020

5.1 La nuova casa di residenza della comunità di Venezia

5.2 L’ala “nuova” delle scuole di Venezia

Box: a proposito di caléte

5.3 La storia della casa di Venezia, dopo la prepositura di P. Sebastiano Casara

Tabella: costruzioni, acquisti e affitti della casa di Venezia

Tabella: mappali e numeri anagrafici della casa di Venezia

6. La Chiesa di s. Agnese (1866-2020)

6.1 Origine e vicende

6.2 Scuole e confraternite relative alla parrocchia di s. Agnese

6.3 Gli altari antichi della chiesa di s. Agnese

6.3.1 Presbiterio

6.3.2 Navata di destra

6.3.3 Navata di sinistra

6.3.4 Sagrestia

Box: Il fonte battesimale di S. Agnese, ora a S. Maria del Rosario

6.4 Il rifacimento della chiesa

6.5 Si pensa al ripristino

6.6 La Soprintendenza all’opera

6.7 II risultato

6.8 Il nuovo organo

6.9 Il collaudo dei restauri e del nuovo organo

Box: P. Giuseppe Panizzolo e l’acqua alta

6.10 Nota sulle chiese e cappelle dell’Istituto Cavanis di Venezia

Tabella: cronologia delle chiese e cappelle della casa-madre di Venezia

Tabella: la comunità di Venezia dal 1820 al 2020

7. La casa di Lendinara 1833-1896

Box: gli archivi e il diario della casa di Lendinara

7.1 La casa di Lendinara dal 1833 al 1866

Tabella: comunità di Lendinara dal 1834 al 1866

7.2 La casa di Lendinara dal 1866 al 1896

7.2.1 I Padri Cavanis a Lendinara e Alberto Mario

Tabella: comunità di Lendinara dal 1866 al 1896

Tabella: le case (comunità e scuola) di Lendinara

Tabella: le chiese e cappelle di Lendinara utilizzate dall’Istituto

Tabella: le proprietà immobiliari della comunità di Lendinara

7.3 La passione e la morte della casa di Lendinara nella prospettiva generale italiana

8. Excursus sulle devozioni e sui santi dei Cavanis

8.1 San Giuseppe Calasanzio (1557-1648)

8.2 Maria SS. ma, Madre di Dio

8.3 San Vincenzo de’ Paoli (1581-1660)

8.4 San Gaetano Thiene (1480-1547)

8.5 Sant’Alfonso de’ Liguori (1696-1787)

8.6 San Giuseppe

8.7 Sacra Famiglia

8.8 Sacro Cuore di Gesù

8.9 Santi e altari

8.10 Santi Scolopi e della Famiglia Calasanziana

8.11 Le preghiere e pratiche devote dei Padri Cavanis

8.12. La rete mirabile


Parte Seconda

Seconda fase della vita della Congregazione 1848-1884

Box: il Risorgimento d’Italia

Box: Prima Guerra d’Indipendenza (1848-1849)

Box: la Repubblica di San Marco (22 marzo 1848-24 luglio 1849)

Tabella: lista dei prepositi generali dell’Istituto Cavanis

1. I tempi dei prepositi generali Frigiolini, Casara e Traiber

1.1 P. Vittorio Frigiolini, secondo preposito generale (1852)

1.2 Modalità di elezione/nomina del terzo preposito generale, P. Sebastiano Casara

2. L’epoca di P. Sebastiano Casara, il “secondo fondatore” nella
Congregazione e nel mondo

2.1 La prima serie di mandati di P. Sebastiano Casara (1852-1863)

2.2 La seconda serie di mandati di P. Sebastiano Casara (1866-1884)

Box: la Seconda Guerra d’Indipendenza d’Italia (1859) e l’inizio del Regno d’Italia (1861)

2.3 Il mandato di P. Giovanni Battista Traiber (1863-1866)

Box: la terza Guerra d’Indipedenza d’Italia (1866)

Box: il beato Antonio Rosmini Serbati, prete e filosofo

2.4 Possibilità di fusione tra la Congregazione delle Scuole di Carità e un’altra

3. La casa di Possagno

3.1 La prima fase (1856-1869)

3.1.1 Le trattative (1856-1857)

3.1.2 Vita della comunità di Possagno e del Collegio Canova (1857-1869)

3.2 La seconda fase (1869-1881)

3.3 La terza fase: anni di assenza e di silenzio (1881-1889)

3.4 La quarta fase: tre anni d’incertezze e la riapertura (1889-1892)

3.5 La quinta fase: la casa di Possagno attuale (1892-2019)

3.6 Il Liceo Calasanzio dagli anni Cinquanta ad oggi

3.6.1 Relazione storica sull’edificio

3.6.2 II nuovo Liceo Calasanzio

3.6.3 Evoluzione dei corsi e della popolazione scolastica

Tabella: la comunità di Possagno (1857-2020)

 

Terza fase della storia della Congregazione. Il “dopo Casara” (1885-1900)

Terza fase della storia della Congregazione. Il “dopo Casara” (1885-1900)

1. Padre Domenico Sapori, preposito generale (1885-1887)

2. L’era di papa Leone XIII

3. Padre Giuseppe Da Col, preposito generale (1887-1900)

Tabella: i sacerdoti Cavanis nell’agosto 1891

4. L’era del cardinal Sarto, patriarca di Venezia

Box: il corredo per entrare nella comunità Cavanis nell’Ottocento

5. I principali discepoli e compagni dei fondatori

6. Biografie dei religiosi Cavanis del secolo XIX

6.1 Diacono don Angelo Battesti

6.2 Seminarista Giuseppe Scarella

6.3 Seminarista Bartolomeo Giacomelli

6.4 Chierico Francesco Minozzi

6.5 Fratel Francesco Dall’Agnola

6.6 Seminarista Antonio Spessa

6.7 P. Angelo Minozzi

6.8 Chierico Giovanni Giovannini

6.9 Fratel Domenico Ducati

6.10 Fratel Filippo Sartori

6.11 Fratel Giovanni Avi

6.12 Fratel Pietro Rossi

6.13 P. Pietro Spernich

6.14 P. Matteo Voltolini

6.15 I padri Angelo Cerchieri e Giovanni Battista Toscani e il laico Pietro Zalivani

6.16 P. Giovanni Luigi Paoli

6.17 P. Alessandro Scarella

6.18 Padre Vittorio Frigiolini

6.19 P. Eugenio Leva

6.20 P. Domenico Luigi Piva

6.21 P. Giovanni Francesco Mihator

6.22 P. Giuseppe Rovigo

6.23 Fratel Francesco Luteri

6.24 P. Narciso Emanuele Gretter

6.25 P. Pietro Maderò

6.26 P. Vincenzo Brizzi

6.27 Fratel Luigi Tommaso Armanini

6.28 P. Giuseppe Marchiori

6.29 P. Antonio Fontana

6.30 Fratel Francesco Avi

6.31 P. Tito Fusarini

6.32 P. Nicolò Morelli

6.33 Fratel Giacomo Barbaro (Fratel Giacometto)

6.34 P. Giovanni Maria Spalmach

6.35 P. Giuseppe Bassi

6.36 P. Giovanni Battista Larese

6.37 Fratel Giovanni Cherubin

6.38 P. Andrea Berlese

6.39 P. Francesco Bolech

6.40 P. Giovanni Battista Fanton

7. Biografie di religiosi Cavanis del XX secolo

7.1 P. Giovanni Tomaso Ghezzo

7.2 Fratel Pietro Sighel

7.3 Fratel Clemente Dal Castagné

7.4 Fratel Giovanni Cavaldoro

7.5 P. Enrico Calza

7.6 Seminarista Carlo Trevisan

7.7 Fratel Bartolomeo (Bortolo) Fedel

7.8 Fratel Corrado Salvadori

7.9 P. Agostino Santacattarina

7.10 Novizio Nazzareno De Piante

7.11 P. Carlo Simeoni

7.12 P. Arturo Zanon

7.13 P. Mario Miotello

7.14 P. Michele Marini

7.15 P. Giuseppe Miorelli

7.16 Fratel Giuseppe Vedovato

7.17 Fratel Filippo Fornasier

7.18 P. Giuseppe Borghese (P. Bepi)

7.19 P. Giovanni Tamanini

7.20 P. Luigi D’Andrea e fratel Enrico Cognolato

7.21 P. Luigi D’Andrea

7.22 Fratel Enrico Cognolato

7.23 P. Amedeo Fedel

7.24 Fratel Angelo Furian

7.25 P. Carlo Donati

7.26 P. Cesare Turetta

7.27 P. Agostino Menegoz Fagaro

7.28 Fratel Vincenzo Faliva

7.29 Il Venerabile P. Basilio Martinelli

7.30 P. Francesco Saverio Zanon

7.31 Fratel Italo Guzzon

7.32 P. Michele Busellato

7.33 P. Antonio Eibenstein

7.34 P. Giovanni D’Ambrosi

7.35 P. Augusto Taddei

7.36 P. Alessandro Vianello

7.37 P. Luigi Sighel

7.38 Fratel Olivo Bertelli

7.39 P. Federico Sottopietra

7.40 P. Gioacchino Sighel

7.41 P. Marco Cipolat

7.42 P. Luigi Janeselli

7.43 P. Andrea Galbussera

7.44 P. Valentino Pozzobon

7.45 Fratel Edoardo Bartolamedi

7.46 Fratel Ausonio Bassan

7.47 P. Angelo Trevisan

7.48 P. Ferruccio Vianello

7.49 P. Giosuè Gazzola

7.50 P. Valentino Fedel

7.51 P. Giuseppe Pagnacco

7.52 P. Bruno Marangoni

7.53 Fratel Guerrino Zacchello

7.54 P. Angelo Pillon

7.55 P. (Vescovo) Giovanni Battista Piasentini

7.56 P. Vincenzo Saveri

7.57 P. Pellegrino Bolzonello

7.58 P. Mario Janeselli

7.59 P. Lino Janeselli

7.60 P. Mansueto Janeselli

7.61 P. Luigi Ferrari

7.62 P. Guido Cognolato

7.63 Fratel Giorgio Vanin

7.64 Fratel Sebastiano Barbot

7.65 P. Vittorio Cristelli

7.66 P. Pio Pasqualini

7.67 Fratel Luigi Santin

7.68 P. Giuseppe Cortelezzi

7.69 P. Giuseppe Da Lio

7.70 P. Angelo Sighel

7.71 P. Luigi Candiago

7.72 P. Marcello Quilici

7.73 P. Francesco Rizzardo

7.74 P. Ermenegildo Loris Zanon

7.75 P. Luis Enrique Navarro Durán (P. Lucho)

7.76 P. Giuseppe Fogarollo

7.77 P. Aldo Servini

7.78 P. Riccardo Janeselli

7.79 P. Siro Marchet

7.80 P. Narciso Bastianon

7.81 P. Luigi Toninato

7.82 Fratel Ettore Perale

7.83 Fratello e diacono don Aldo Menghi

7.84 P. Antonio Turetta

7.85 P. Franco Degan

7.86 P. Ugo Del Debbio

7.87 P. Livio Donati

8. Biografie dei padri Cavanis defunti nel secolo XXI

8.1 Fra Luigi Gant

8.2 P. Riccardo Zardinoni

8.3 P. Giulio Avi

8.4 P. Cleimar Pedro Fassini

8.5 P. Danilo Baccin

8.6 Fra Roberto Feller

8.7 P. Giuseppe Simioni

8.8 P. Federico Grigolo

8.9 P. Guerrino Molon

8.10 P. Alessandro Valeriani

8.11 P. Angelo Zaniol

8.12 P. Rito Luigi Cosmo

8.13 P. Attilio Collotto

8.14 P. Aldino Antonio da Rosa

8.15 P. Amedeo Morandi

8.16 P. Diego Beggiao

8.17 P. Fiorino Francesco Basso

8.18 P. Norberto Artemio Rech

8.19 P. Armando Manente

8.20 P. Angelo Guariento

8.21 P. Giuseppe Maretto

8.22 P. Emilio Gianola

8.23 P. Raffaele Pozzobon

8.24 Fratello e diacono don Giusto Larvete

8.25 P. Giovanni De Biasio

8.26 P. Sergio Vio

8.27 P. Enrico Franchin

8.28 P. Giuseppe Colombara

8.29 P. Giovanni Carlo Tittoto

8.30 P. Mario Zendron

8.31 P. Luigi Scuttari

8.32 P. Lino Carlin

8.33 P. Artemio Bandiera

8.34 P. Angelo Moretti

8.35 P. Primo Zoppas

8.36 P. Rocco Tomei

8.37 P. Bruno Lorenzon

8.38 P. Antonio (Tonino) Armini

8.39 P. Natale Sossai

8.40 P. Silvano Mason

8.41 P. Mario Merotto

8.42 P. Marino Scarparo

8.43 P. Nicola Zecchin

Tabella: religiosi Cavanis defunti in ordine alfabetico

Tabella: religiosi Cavanis defunti in ordine di anno di morte

Tabella: religiosi Cavanis defunti (sepolture e cimiteri)

9. Principali amici e collaboratori dei fondatori

9.1 Don Federico Bonlini

9.2 Il beato Luigi Caburlotto (1817-1897)

9.3 Ricordando Mons. Daniele Canal

9.4 Ricordando i fratelli Passi

10. Benefattori e benefattrici dei Cavanis

10.1 Benefattori e benefattrici dei fondatori della prima metà del XIX secolo

10.1.1 Marchesa Santa Maddalena di Canossa (vedi capitolo sull’istituto delle Scuole di Carità femminile)

10.1.2 Sig. Francesco Marchiori (vedi il capitolo sulla casa di Lendinara)

10.1.3 Conte Giacomo Mellerio

10.1.4 Contessa Carolina Durini Trotti

10.1.5 Cav.r Pietro Pesaro, Londra

10.1.6 Canonico Angelo Pedralli di Firenze

10.2 Benefattori e benefattrici dell’Istituto della seconda metà del XIX secolo

10.2.1 Mons. Giovanni Battista Sartori Canova (Vedi capitolo sulla casa di Possagno)

10.2.2 Contessa Loredana Gatterburg-Morosini

10.2.3 Mons. Luigi Bragato di Vienna

10.2.4 Don Giuseppe Ghisellini

10.2.5 Principe Giuseppe Giovanelli e sua madre, la principessa Maria Buri-Giovanelli

11. I capitoli generali dell’Istituto Cavanis del XIX secolo

11.1 I capitoli del XIX secolo più in dettaglio

Tabella: prepositi, vicari, definitori e consiglieri generali (1852-2019)

Tabella: capitoli generali (1855-2019)

 

Parte Terza – Il XX secolo

1. L’inizio del XX secolo

1.1 I tempi del pontificato di papa Pio X nella chiesa e nel mondo

1.1.1 Missioni e colonie

1.2 L’inizio del XX secolo nel mondo

1.3 L’inizio del XX secolo in Europa

1.4 L’inizio del XX secolo in Italia

1.5 Padre Giovanni Chiereghin, preposito generale (1900-1904)

1.6 Padre Vincenzo Rossi, preposito generale (1904-1910)

1.7 Padre Antonio dalla Venezia, preposito generale (1910-1913)

Box: Sfogliando i verbali

Box: Censimento della Congregazione mariana di Venezia 1952

1.8 Padre Augusto Tormene, preposito generale (1913-1921)

2. La prima guerra mondiale: “La prima carneficina mondiale” (8 luglio 1914 -11 novembre 1918)

2.1 Venezia e la prima guerra mondiale

2.2 L’Istituto Cavanis durante la prima guerra mondiale

2.3 Le testimonianze nel Diario di Congregazione

2.4 I diari di guerra dei religiosi-soldati Cavanis

2.4.1 Diario di guerra e prigionia di Pellegrino Bolzonello, novizio Cavanis: “I miei ricordi di guerra 1915-1918”.
– Offensive sul fronte dell’Isonzo
– Questo era il mio fronte, il fronte goriziano
– La grande offensiva del maggio 1917
– Seconda azione – Quota 126 – Cimitero di Gorizia
Sugli Altipiani di Bainzizza
Sul Monte S. Gabriele
– La ritirata di Caporetto
– Dal fiume Isonzo a Codroipo
– La prigionia
– Piccoli episodi
– Vicende del campo

2.4.2 Diario di guerra e prigionia del novizio Alessandro Vianello

2.5 Monumenti e lapidi dei caduti

3. La chiesa tra le due guerre mondiali

3.1 I tempi di Benedetto XV nella chiesa e nel mondo

3.2 La politica femminile dell’Istituto Cavanis

3.3 I tempi di Pio XI nella chiesa e nel mondo

3.3.1 Papa Pio XI e l’Istituto Cavanis

3.4 Padre Agostino Zamattio, preposito generale (1922-1928)

3.5 Padre Giovanni Rizzardo, preposito generale (1928-1931)

4. Il ventennio fascista

4.1 L’Istituto Cavanis nel periodo fascista

Box: attività della Centuria Balilla e Avanguardisti

4.2 Padre Aurelio Andreatta, preposito generale (1931-1949)

4.2.1 Il riconoscimento giuridico dell’Istituto

Tabella: proposte di fondazioni non accettate

Tabella: religiosi Cavanis nel luglio 1939

4.3 I tempi di Pio XII nella chiesa e nel mondo dal 1939 al 1958

4.4 Pio XII e l’Istituto Cavanis

4.5 Padre Aurelio Andreatta preposito generale (seconda parte)

5. La seconda guerra mondiale: “La seconda carneficina mondiale”
(1939-
1945)

5.1 La seconda guerra mondiale e l’Istituto Cavanis

5.2 La resistenza dei Cavanis

5.3 Bilancio di guerra

5.4 Vita di una comunità Cavanis nell’Italia in guerra nel 1943

5.5 Microstorie Cavanis nella macrostoria della seconda guerra mondiale

5.5.1 La guerra e la prigionia di Edoardo Bortolamedi

5.5.2 Memorie di guerra di Armando Soldera, un noviziato diverso

5.5.3 La guerra di Marino Scarparo

5.5.4 La guerra e la cappella votiva di S. Giuseppe a Coldraga

5.5.5 Vita di seminario nel Probandato di Possagno (1940-1945)

5.5.6 La guerra a Porcari, annotazioni di P. Vincenzo Saveri

5.5.7 Ricordi del Probandato di Vicopelago

5.5.8 Memorie di guerra di P. Giuseppe Leonardi

5.6 La casa di Roma – Casilina

5.6.1 Illustrazione del progetto “Renosto” dell’erigendo Istituto Cavanis Pio XII a Roma

5.7 Le catacombe dei santi Marcellino e Pietro ad duas lauros

5.7.1 Il martirio di Marcellino e Pietro

5.8 Il mausoleo di sant’Elena

5.8.1 L’apertura del mausoleo di sant’Elena

5.9 La curia generale a Roma

6. Il Dopoguerra

6.1 Il mandato di P. Aurelio Andreatta continua dopo la guerra

6.2 Cronaca della vita della Congregazione dal 1947

6.3 Lo sviluppo dell’Istituto Cavanis sotto i pontificati di Pio XI e Pio XII e
l’ambiente cattolico in Italia (1922-1958)

Tabella: apertura di case dal 1919 al 1968

Tabella: ordinazioni presbiterali 1795-2019

Tabella: date su professioni e ordinazioni

Tabella: seminari Cavanis in Italia dal 1918 al 1970

7. La seconda metà del XX secolo

7.1 Padre Antonio Cristelli, preposito generale (1949-1955)

7.2 Il padre Gioachino Tomasi, preposito generale (1955-1961)

7.2.1 Precisazioni istituzionali definite all’inizio del mandato di P. Tomasi

Tabella: numeri dei religiosi Cavanis nel luglio 1958

8. Dal 1958 al 1970: anni che hanno cambiato la Chiesa e il mondo

8.1 Il papa Giovanni XXIII e l’Istituto Cavanis

8.2 Angelo Giuseppe Roncalli, Giovanni XXIII

8.3 Continuando la relazione sui fatti della prepositura del P. Gioachino Tomasi.

Tabella: numeri dei religiosi Cavanis nel luglio 1960

8.4 Padre Giuseppe Panizzolo, preposito generale (1961-1967)

Tabella: numeri dei religiosi Cavanis nel luglio 1967

8.5 Padre Orfeo Mason, preposito generale (1967-79): apertura dei Cavanis in
Brasile e nel mondo

8.6 Il capitolo generale straordinario speciale (1969-1970) e le Costituzioni e direttorio

8.6.1 Breve storia dei lavori capitolari

8.6.2 Breve cronologia delle Costituzioni

8.7 I tempi di papa Paolo VI nella Chiesa e nel mondo

8.8 I capitoli generali del XX e XXI secolo

8.9 I capitoli generali ordinari del XX e XXI secolo

8.10 I capitoli generali straordinari del XX secolo

9. Alcuni collaboratori e benefattori dell’Istituto Cavanis defunti nel XX-XXI secolo

9.1 Pietro Baio

9.2 Don Giovanni Andreatta

9.3 Don Costante Dalla Brida

9.4 Angelo (Lino) Architetto Scattolin

9.5 Maria Pianezzola

9.6 Professor Andrea Tognetto

9.7 Don Luigi Feltrin

9.8 Don Felice Del Carlo

9.9  Alberto Cosulich e famiglia

9.10 Professor Antonio Lazzarin, restauratore

9.11  Suore della Pia Società del Santo Nome di Dio

9.12   Le assistenti  della nostra casa di riposo di Possagno

 

Parte Quarta

Le case d’Italia fondate nel XX secolo

1. La casa di Porcari – Lucca

1.1 “Porcari: la chiesetta dell’Immacolata”

1.2 “Testimonianze di anziani”

1.3 Inaugurazione della chiesa

1.4 Il duplice giubileo del collegio Cavanis di Porcari

Tabella: la casa di Porcari

2. La casa del Probandato di Possagno (1919)

3. La casa di Pieve di Soligo (1923)

4. La casa di Conselve

5. La casa del Sacro Cuore e il noviziato annesso

5.1 Una gita dei padri a Coldraga e benedizione della “villa”

5.2 La posa della prima pietra e l’inaugurazione della casa

5.3 Lo sviluppo della casa

5.4 Gli esercizi spirituali – gli incontri di preghiera

5.5 La chiesa del Sacro Cuore

5.5.1 Il comitato

5.5.2 La benedizione e la posa della prima pietra della chiesa (5 giugno 1938)

5.5.3 La prima pietra

5.5.4 Consacrazione della chiesa (2 giugno 1939)

5.5.5 Inaugurazione solenne nella domenica di Pentecoste (4 giugno 1939)

5.5.6 Il pontificale del vescovo

5.6 Uno sguardo al complesso delle costruzioni in Col Draga

5.7 Altri edifici e avvenimenti

6. La casa di Santo Stefano di Camastra (1938)

7. La casa di Fietta del Grappa – Villa Buon Pastore (1940)

8. La casa di Vicopelago e poi di s. Alessio (1941)

9. La casa di Costasavina (Pergine-Trento) e poi di Levico (Trento)
(1943-1948)

10. L’Istituto “Dolomiti” di Borca di San Vito di Cadore – Belluno (1945)

11. La casa di Roma –Torpignattara (1946)

12. La casa dell’Istituto Tata Giovanni –Roma (1953)

13. La casa di Capezzano Pianore (1953)

14. La casa di Chioggia (1954)

15. La casa di Cesena (1958-1959)

16. La casa di Solaro –Milano (1962)

17. La casa di Sappada (1962)

18. La casa (parrocchia) di Corsico

19. La casa di Asiago (1971)

20. La casa di Mestre (1982)

 

Parte Sesta

Le parti territoriali

1. Le missioni Cavanis: storia degli inizi

2. La provincia italiana, la Pars Italiae

3. Breve storia della provincia del Brasile, la Pars Brasiliae

Tabella: religiosi Cavanis Italiani attivi nella Provincia Antônio e Marcos Cavanis do Brasil

Tabella: i governi della Pars Brasiliae

3.1 Le case della Pars Brasiliae

Tabella: case del Brasile

3.2 La casa (le case) di Castro-Paraná-Brasile

Tabella: casa di Castro

3.3 La casa di Ortiguera-Paraná-Brasile

3.4 La casa di Ponta Grossa-Paraná-Brasile

3.5 La Parrocchia de Nossa Senhora de Fátima di Vila Cipa e la Sua “Casa do Menor”

3.6 Il centro della pastorale universitaria di Ponta Grossa – Oásis
– Primi passi
– Le cose cominciano a funzionare
– Espansione della PU
– Momenti forti
– “Assessoria” nazionale
– Conclusione

3.7 Il seminario maggiore Antônio e Marcos Cavanis e il noviziato di Ponta Grossa

Tabella: case riunite di Ortiguera (1969-2019) e Ponta Grossa (1980-2019)- Paraná -Brasile

Tabella: la casa di Ortigueira (autonoma)

Tabella: la casa di Ponta Grossa (autonoma)

Tabella: centro di Pastorale Universitaria Oásis-Ponta Grossa-Paraná-Brasile

3.8 La casa di Realeza-Paraná-Brasile

3.9 La casa di Pérola d’Oeste-Paraná-Brasile

3.10 La casa di Planalto-Paraná-Brasile

Tabella: le casa di Realeza (1971-2019) e di Pérola d’Oeste (1994-2019)- Paraná-Brasile

Tabella: casa di Realeza (separata dalle altre)-Paraná-Brasile

Tabella: casa di Pérola d’Oeste, parrocchia Sagrado coração de Jesus

Tabella: casa di Planalto (separata da Realeza)-Paraná-Brasile (1988-2010)

3.11 L’arcidiocesi di Belo Horizonte-Minas Gerais-Brasile

Tabella: le case di Belo Horizonte-Minas Gerais-Brasile (1984-2019)

3.12 I Cavanis a Brasília-Brasile

3.13 La casa di Uberlândia-Brasile

Tabella: la casa di Uberlândia

3.14 La Casa di Celso Ramos – santa Catarina (1998-2019)

3.15 La casa di parrocchia São José a São Paulo (1994-2019)

3.16 La casa di Mossunguê – Curitiba (1996-2008)

3.17 La casa della parrocchia di São Mateus do Sul (1995-2004)

3.18 La casa di Novo Progresso, parrocchia Santa Luzia – Pará – Brasile (1998-2019)

3.19 La casa di Maringá-Paraná-Brasile (2001-2019)

3.20 La casa di Guarantã do Norte, parrocchia Nossa Senhora do Rosário – Mato Grosso

3.21 La casa di Castelo de Sonhos-Pará-Brasile

Tabella: seminaristi Cavanis del Brasile nel 1999

Tabella: religiosi e seminaristi Cavanis brasiliani nel 2018

3.22 Le case do Menor o da Criança-Brasile

Tabella: case do Menor o da Criança

4. La regione andina, la Pars andium

Tabella: i governi della Pars andium

4.1 Ecuador

4.1.1 La casa di Esmeralda (1982-1996)

4.1.2 La casa di Quito, seminario (1984-2019)

4.1.3 I seminario filosofico e teologico Hermanos Cavanis e il “Taller de Nazaret” a
Cotocallao, Quito-Ecuador

4.1.4 Casa del Collegio Borja III

4.1.5 Casa di Valle Hermoso (1992-2019)

4.2 Colombia

4.2.1 La casa di Bogotá, seminario “Virgen de chiquinquirá”-Colombia

4.3 Bolivia

4.3.1 La casa di Santa Cruz de la Sierra -Bolivia

4.4 Perù

4.4.1 La casa di Éten-Chiclayo-Perù

5. La delegazione delle Filippine (2000-2019)

Tabella: delegazione delle Filippine

5.1 Casa del collegio Letran di Tagum (2000-2019)

5.2 Seminari di Tibungco – Davao City (2003-2019)-Repubblica delle Filippine

5.3 Parrocchia di San José di Braulio E Dujali-Davao de Norte-Repubblica
delle Filippine

6. Delegazione della Casa di Romania

6.1 La città di Paşcani e la Romania

Tabella: delegazione della Romania

7. Delegazione Cavanis nella Repubblica Democratica del Congo (2004-2019)

Tabella: governi della delegazione della Repubblica Democratica del Congo

Tabella: membri della delegazione della Repubblica Democratica del Congo

8. La casa Cavanis di Macomia in Mozambico (2016-2019)

9. Comunità di Dili-Lessibutak, Timor Leste

 

Parte Settima

Breve storia della Congregazione delle “Maestre delle Scuole di Carità”

1. Le tre sedi dell’Istituto femminile Cavanis

1.1 La prima residenza

1.2 La seconda residenza

1.3 La terza e definitiva residenza

2. Elenco delle Maestre e delle ragazze dell’Istituto femminile Cavanis il 10 settembre 1811

3. Alcuni episodi notevoli della Pia Casa di educazione delle Scuole di Carità

4. I venerabili Cavanis e Santa Maddalena di Canossa

4.1 Maddalena di Canossa chiamata a Venezia

4.2 Lettera di accompagnamento

4.3 Regole generali per la Scuole di Carità

4.4 Approvazione dell’Istituto femminile da parte dell’Imperatore d’Austria e del patriarca  di Venezia

4.5 Elenco delle maestre nel locale delle Eremite in parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio

4.6 Anni opachi

4.7 L’Istituto femminile confluisce nell’Istituto Figlie di Carità Canosina

5. Breve storia delle Suore della Pia Società del Santo Nome di Dio, dette “Suore Cavanis”

6. Considerazioni conclusive

7. Appendici

Appendice 1 – L’opera dei fondatori

1. (Appendice 1.1) Preghiera attribuita ai fondatori dell’Istituto Cavanis

2. (Appendice 1.2) La gratuità delle Scuole dei fondatori e dei Cavanis

3. (Appendice 1.3) Commento di P. Antonio Cavanis al punto delle costituzioni sui doveri dei congregati nel ministero dell’educazione dei giovani

3.1 Pueros et juvenes paterna dilectione complecti

3.2 Gratis educare

3.3 Sollicita vigilantia a saeculi contagione tueri

3.4 Spiritu intelligentiae ac pietatis quotidie erudire

4. (Appendice 4) I fondatori e la parola di Dio: corrispondenza del viaggio di P. Marcantonio Cavanis a Roma

4.1 Il metodo

4.2 Le costituzioni e la Bibbia

4.3 I fondatori e la Bibbia

4.4 Generalità

4.5 Statistica

4.6 I libri biblici preferiti

4.7 I temi biblici preferiti

4.8 Testi biblici nelle lettere dei fondatori

5. (Appendice 5) Edifici storici

Appendice 5.1. Il palazzo natale dei fondatori

5.1.1 Il palazzo veneziano

5.1.2 Il palazzo dei Cavanis

Appendice 5.2. Breve storia della “casetta”

Appendice 5.3. La cappella del Crocifisso a S. Agnese. Memoriale dei fondatori

6. (Appendice 6) Le missioni all’estero

Appendice 6.1. Spiritualità Cavanis in Brasile

6.1.1 Introduzione

6.1.2 La congiuntura veneziana

6.1.3 I Cavanis

6.1.4 La spiritualità Cavanis

6.1.4.1 Opzione per i poveri e opzione per i giovani

6.1.4.2 Il nome della Congregazione: paternità e carità

6.1.4.3 L’educazione

6.1.4.4 La gratuità

6.1.4.5 La povertà e i mezzi poveri

6.1.4.6 L’ingenuità e la semplicità

6.1.4.7 La piccolezza dell’Istituto

6.1.4.8 Fiducia in Dio

6.1.4.9 Amore per la Croce

6.1.4.10 L’orazione

6.1.4.11 La gioia, la libertà e la pace

6.1.4.12 “Uniforme vocazione” e la comunità

6.1.5 La congiuntura del Brasile nel 1988

6.1.5.1 Congiuntura generale

6.1.5.2 La gioventù

6.1.6 Il Progetto educativo Cavanis in Brasile

6.1.6.1 Stile Cavanis in Brasile. Una proiezione nel futuro

6.1.6.2 Future attività educative dei Cavanis in Brasile
– La scuola
– “Casas do Menor”
– Centri di Pastorale Universitaria e della Gioventù
– “Assessoria”
– La catechesi

6.1.7 Conclusione

Appendice 6.2. Uno sguardo dei Cavanis sull’Africa

6.2.1 Africa e Vangelo

6.2.2 L’Istituto Cavanis e l’Africa

6.2.3 Il viaggio in Africa

6.2.3.1 Il Camerun

6.2.3.2 L’Angola

6.2.3.3 Il Senegal

6.2.3.4 La Guinea Bissau

Appendice 6.3. La lista dei Mani-Kongo ai tempi dei fondatori e della Congregazione delle Scuole di Carità-Istituto Cavanis

Appendice 7 – Sistemi di riferimento

Appendice 7.1. Glossario dei termini viari (toponimi) veneziani

Appendice 7.2. Excursus sui selciati veneziani

Appendice 8 La biblioteca dell’Istituto Cavanis a Venezia

Riferimenti bibliografici

Parte Settima

Breve storia della Congregazione delle “Maestre delle Scuole di Carità”

“La vocazione dei fratelli Cavanis alla gioventù non era limitata al solo sesso maschile, perchè se erano impellenti i bisogni d’assistenza da parte dei fanciulli e dei giovani, non lo erano meno quelli delle giovanette; non solo nel sestiere di Dorsoduro, prevalentemente povero, ma anche in altre parti della città. Il rapido sviluppo del loro istituto femminile, della simpatia con cui fu accolto dalle pubbliche autorità, e del sorgere a breve distanza dell’opera della b.[eata, ora santa, N.d.A.] Maddalena di Canossa e di altre istituzioni assistenziali, comprovano quali fossero le tristi condizioni di tante fanciulle povere o abbandonate. E purtroppo era ancora lontana la possibilità di prevedere tempi migliori.”

Fonte principale della storia della fondazione femminile è il fondo dell’Istituto femminile, che fa parte del fondo dei fondatori nell’AICV, dove sono concentrati principalmente i documenti di mano dei fondatori; il fascicolo forse più importante è quello che contiene il quaderno delle Memorie spettanti alla Storia della Pia Casa di educazione delle povere fanciulle aperta li 10. 7bre 1808 nella Parrocchia di S. Agnese, redatto da P. Marcantonio Cavanis. La pagina del frontispizio riporta la sigla L.D.M., ovvero Laus Deo Mariae (“Lode a Dio [e] a Maria”). La stessa sigla è ripetuta alla sommità della prima pagina del testo del Diario. Il quaderno suddetto riporta il diario della Pia Casa femminile di educazione partendo dall’apertura della casa nel primo sito, a S. Vio, nel ramo della Mula, il 10 settembre 1808, e va fino al 19 giugno 1821, coprendo quindi gli avvenimenti di circa tredici anni. Si ha la chiara impressione che tale quaderno non sia un diario scritto giorno per giorno. È tutto di mano di P. Marco Cavanis, scritto su una colonna sola, a sinistra dei fogli, lasciando un ampio margine di metà pagina a destra, come se ci fosse l’intenzione di mettervi delle note o delle aggiunte, che ci sono, infatti, ma molto raramente. Le prime diciotto pagine hanno tutte la stessa scrittura piccola, uguale e anche i tratti di penna e l’intensità dell’inchiostro è la stessa. Si può avere l’impressione che questa prima parte, fino al 15 luglio 1813, sia stata scritta di seguito, nello stesso giorno, con lo stesso calamaio, con lo stesso pennino a punta molto fina, quasi fosse una bella copia di un diario precedente oppure una ricostruzione a posteriori di fatti antecedenti, sulla base di documenti e della memoria. La seconda parte, che inizia il 16 marzo 1813, mostra invece la normale scrittura di P. Marco, più grossa e di “corpo” maggiore che nella prima parte, e con un inchiostro marrone chiaro e d’intensità minore. In questa seconda parte sono presenti note e aggiunte nell’ampio margine sulla destra. Questa seconda parte probabilmente fu scritta giorno per giorno e in modo meno studiato. P. Servini, a proposito di questa seconda parte, nota quanto segue: “D’altronde si può dire che alla stessa conclusione si arriva anche attraverso qualche altro rilievo. Accenniamo solo al seguente: in data 20 agosto 1819, parlando del patriarca Francesco Maria Milesi p. Marco include osservazione che segue: «ch’era in quei giorni vicino a morte». Non ci vuol molto per dedurre che egli scriveva vario tempo dopo.” Purtroppo, il quaderno di memorie si interrompe nel 1821, e quindi riguarda solo tredici anni di vita della “Pia Casa”, sui cinquantacinque totali.

Il 10 settembre 1808 è la data di fondazione dell’Istituto femminile, costituito dalla scuola-internato e ramo femminile dell’Istituto. L’opera sarà chiamata più tardi, al momento della richiesta di approvazione diocesana e imperiale (1818) “Scuole di Carità per le povere figlie”, parallelamente al nome dell’Istituto maschile che era invece “Scuole di Carità pe’ poveri giovanetti”. I fondatori si rendevano conto che la situazione di povertà estrema, di mancanza di scuole e di corruzione dei costumi, dovuti alla decadenza della Serenissima, alla sua distruzione ad opera degli eserciti francesi guidati dal generale Napoleone Bonaparte e poi alla cessione all’Austria, non era un problema che incidesse negativamente soltanto sui maschi. Era loro chiaro anzi che proprio per le bambine e ragazze il pericolo era ancora più grave e che molte tra loro, vittime della miseria e dell’ignoranza, ma anche dalla situazione di Venezia, erano da considerarsi “periclitanti”, ossia ragazze in pericolo di cadere nell’immoralità e particolarmente nella prostituzione.

Si può applicare anche a queste povere bambine e ragazze veneziane di povera condizione la frase ironica ma compassionevole di Alessandro Manzoni nel romanzo storico “I promessi sposi”, ambientato nel secondo quarto del XVII secolo: “Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle e qualche marito, a qualche padre (…)”. Venezia, tra l’altro, era anche un porto di mare, e sede di una guarnigione militare, dell’esercito di terra e della marina.

Dopo aver cominciato a provvedere ai maschi, dal 1802, con la Congregazione Mariana, l’Orto, e poi con la scuola dal 1804, e con una scuola professionale ante litteram tipografica dal 1808, i due fratelli Cavanis pensarono e realizzarono, con l’aiuto tra l’altro della marchesa Santa Maddalena di Canossa, la fondazione di una casa per ragazze. Esse erano dette da loro più spesso “povere fanciulle”, “povere figlie”, ma anche “infelici donzelle”, “povere abbandonate Donzelle” e “periclitanti donzelle”, ossia “ragazze non sposate in pericolo [di prendere una cattiva strada, in pratica quella della prostituzione]”. Era ciò che sarebbe diventato la scuola e il ramo femminile dell’Istituto.

Le realtà della difficile situazione delle ragazze veneziane, sia dal punto di vista economico (la miseria e la fame), sia da quello morale e religioso (la miseria come invito alla prostituzione, ma anche la mancanza di educazione e di catechesi; a volte anche la mancanza di famiglia o di una famiglia dabbene), sia dal punto di vista della loro dignità e possibile autonomia dovettero essere oggetto di considerazione e compassione da parte dei Servi di Dio già prima del 1808: bisognava togliere quelle infelici dai pericoli della miseria e del vizio, insegnar loro il modo di guadagnarsi onestamente la vita con un mestiere, di prepararle a essere mogli e madri, di dar loro una soda formazione cristiana.

Naturalmente non si trattava, come per i maschi, di insegnare latino e greco, italiano e matematica, retorica e filosofia. A quel tempo non si usava. Per le bambine e le ragazze, si trattava di insegnare “ogni maniera di lavori femminili”, oltre a insegnar loro “a leggere, scrivere e far conti”, secondo il costume dell’epoca.

Per fare un esempio concreto di questo costume, anche la madre dei fondatori, la nobildonna Cristina Maria Lodovica Pasqualigo Basadonna Contessa Cavanis, pur essendo nobile e anzi, a differenza del marito, patrizia veneziana, sapeva sì leggere e scrivere, ma non era certo una letterata; le sue lettere o meglio, le due righe che spesso aggiungeva in calce alle lettere di altri ai figli Antonio e/o Marco, quando si trovavano fuori Venezia, sono scritte in un italiano “casereccio” e la scrittura è quella propria di chi non ha confidenza con la penna: “…non le fu data una cultura letteraria, come si deduce dalle poche lettere che di lei ci rimangono”, scrive P. Aldo Servini nella Positio.

Davanti alla tristissima situazione di molte bambine e ragazze veneziane, pervasi da un senso profondo di misericordia, quando in quell’anno una pia signora, dall’insolito nome di Maria Dorotea Ploner Inson, propose loro il suo progetto di aprire una casa di educazione, «li trovò prontamente disposti a dar mano all’impresa». Era questo un atto molto importante nella vita dei due Cavanis già impegnati nell’opera maschile e che avrebbe richiesto un supplemento non indifferente di sacrifici e di preoccupazioni, che essi non potevano nascondersi. Prima quindi di cominciare a muovere i primi passi, ricorsero, com’era loro abitudine, alla preghiera e al consiglio. Passarono poi prudentemente a valutare le spese e constatarono che «v’era un’elemosina già disposta per l’annuo affitto; ed altra persona aveva assunto l’impegno di mantenere una maestra; ma non c’era nemmeno un soldo per provvedere al mantenimento delle fanciulle» [cioè al vitto]. Ciò nonostante, col coraggio che veniva loro dalla preghiera e dal consiglio, stabilirono «di cominciare quest’opera affidandosi alla divina Provvidenza» .

Se si considera in quale momento essi presero questa decisione, e si tenga conto delle brighe da cui erano oppressi, soprattutto per l’affare del pagamento della seconda parte del prezzo convenuto nell’acquisto del palazzo Da Mosto, cioè del palazzo delle scuole, mentre gli eredi del defunto proprietario si contendevano il denaro già raccolto dai fondatori con tanta difficoltà, bisogna convenire che il loro zelo e la loro fiducia in Dio avessero raggiunto ormai un grado ammirevole.

L’impresa fu ancor più difficile per P. Marco. Poco dopo l’inizio dell’opera di educazione per le ragazze povere, P. Antonio si ammalò gravemente e rimase per due anni (1809-1811) in pessime condizioni di salute, facendo ricadere l’intero peso del lavoro sulle spalle di P. Marco che, nonostante la sua apparente misoginia, si occupò quotidianamente della Pia Casa femminile.

In breve fu pronta una casa sufficientemente spaziosa nel territorio della parrocchia di S. Agnese, in località S. Vio (S. Vito, parrocchia dei santi Vito e Modesto), al numero civico 611 del sestiere di Dorsoduro, a pochi passi dall’Istituto maschile. Il 10 settembre 1808 «giorno di sabbato» vi entrarono l’anziana signora Bona Bussolina, come direttrice, e Giovanna Bona, come prima educanda. Anche l’opera femminile nasceva così, di sabato, sotto gli auspici di Maria, dalla cui materna protezione ambedue i fratelli erano abituati a ripetere ogni loro gioia.

La fiducia che essi avevano riposto nella Provvidenza non rimase delusa, perché il Signore dimostrò tosto di gradire l’atto della loro generosità benedicendo oltre ogni aspettativa l’impresa, e disponendoli così ad affrontare le croci che non sarebbero certo mancate nel nuovo campo. P. Marco ne dà alcuni particolari nelle Memorie della pia casa: «Quantunque senza veruna elemosina per provvedimento di povere Donzelle siasi aperto l’Ospizio, pure in breve tempo venne a fiorire nel modo più sorprendente. La buona Dama (Elisabetta Cornaro Grimani), ch’erasi impegnata a corrispondere l’annuo affitto per la Casa destinata a tal uso, animata da uno spirito di singolare pietà, si prestò con tutto l’impegno a promuovere l’incremento dell’Opera ancor nascente. Quindi entrata in carteggio con uno dei Sacerdoti Direttori, si mostrò piena di zelo per procurare dell’elemosine, e di fatto le riuscì di trovare varj Benefattori che in complesso venivano a corrispondere una sovvenzion mensuale alquanto considerabile. Fu questo un tratto singolarissimo di Provvidenza, mentre non mai poteasi pensare che una Dama affatto sconosciuta e vivente in Bassano, anzi fuor di Città, in una Villa rimota, potess’essere un mezzo apportatore di tanti beni. D’altronde li Direttori del Luogo Pio trovandosi carichi di pensieri e di spese per altro Luogo di educazione da lor medesimi instituito a vantaggio de’ giovanetti, non sapeano come trovare risorse per questa novella Istituzione. Il Signore pertanto si degnò di provvedere, per un mezzo sì inaspettato, inspirando la suddetta pia Dama a scrivere un grande numero di Lettere per trovare elemosina, ed a sortire l’effetto. Oltre di ciò mandò ella stessa una generosa offerta di Tela, Coperte e roba per vestiario da Inverno, e non contenta di tutto questo spedì in dono alla povera Casa una bellissima sua Vera di brillanti calcolata del valore di Zecchini 40. Mentre si pensava di vendere quest’effetto prezioso, si ebbe invece il consiglio di farne un Lotto di carità, e se ne ottenne il Publico assenso coll’amorevole mediazione di un qualificato Soggetto che ne appianò le insorte difficoltà. Si fecero 90. libretti da 89. numeri per cadauno, e si esitarono questi Viglietti a segno che si raccolsero circa 120. Zecchini. Moltissimi libretti si riempirono affatto e fra questi era naturalmente più facile che v’entrassero i primi che furono dispensati. Pure in uno appunto di questi restarono pochi numeri aperti; in uno de’ quali sortì la grazia, sicchè dopo di aver raccolto un suffragio sì rilevante, restò ancora l’anello a benefizio della Pia Casa, e si potè vendere in seguito al prezzo di Zecchini 35. (Allora fu che animati da provvidenze sì straordinarie, si determinarono i Direttori ad aumentare notabilmente il numero delle povere Figlie, perlochè si vide ben tosto incapace di contenerle quella Casa che dapprincipio credevasi superiore al bisogno. Si venne quindi alla risoluzione di produrre un Ricorso nel corrente giorno [6 febbraio 1809] al Sig. Cav.e Serbelloni Prefetto di questo Dip.to [dipartimento dell’Adriatico] , perché fosse a tal uso il Mon.ro con l’annessa chiesa dello Spirito Santo, onde aver la consolazione in tal modo di riaprire una Chiesa, e provedere insieme al buon ordine della raccolta Famiglia per cui richiedevasi un Luogo addatato agli usi di una Comunità”.

È chiaro che in ognuno dei tre passaggi, per tre sedi diverse, i padri dovettero sottomettersi all’estenuante trafila burocratica per ottenere – e non l’ottennero mai – la gratuità o almeno un affitto di valore contenuto, per gli edifici progressivamente più ampi di cui avevano bisogno. Qui non entriamo in dettagli; se ne parla ampiamente nelle Memorie della Pia Casa (per il periodo dal 1808 al 1821) e nelle altre cartelle di documenti relativi alla Pia Casa cioè al ramo femminile delle Scuole di Carità e della comunità Cavanis. Estenuante trafila burocratica, si diceva: ma non sarebbe differente anche oggi in Italia ed in altri paesi!

Dato il rapido succedersi in tre anni di tre ambienti diversi con sede della nuova istituzione, conviene introdurre ciascuna delle tre.

1. Le tre sedi successive dell’Istituto femminile Cavanis

All’inizio, i fratelli Cavanis pensavano a una piccola opera, per la quale sembrava necessario e sufficiente affittare un semplice appartamento, se pur relativamente grande. Dal momento che l’opera andò funzionando e piacendo fu necessario ricorrere a edifici sempre più ampi.

1.1 La prima residenza

La prima sede dell’opera fu nella contrada di S. Vio, non lontano dalle Scuole maschili di Carità a S. Agnese, nei pressi della chiesa parrocchiale dei SS. Vito e Modesto martiri, rimasta tale fino alla soppressione da parte del governo napoleonico nel 1807.

La chiesa, visibile nella grande xilografia del De Barbari (1500), disposta parallelamente al percorso del Canal Grande e con la facciata rivolta verso il rio di S. Vio e fiancheggiata dalla Cale de la Chiesa e dal rio de le Torresele, non più esistente, dopo la soppressione della parrocchia e il suo accorpamento con la parrocchia di S. Agnese (1807), fu demolita nel 1813. Dell’antico edificio rimangono soltanto sette patere e una croce di stile bizantino, probabilmente del secolo XIII, che vennero conservate e incastonate successivamente nei muri della facciata e del fianco destro della modestissima cappella neogotica costruita nella seconda metà dell’800, nello stesso campo S. Vio, sulla destra della cale de la chiesa; edificio in seguito sconsacrato e attualmente adibito a parte di una abitazione privata.

La chiesa, che si trova oggi sul lato orientale di campo S. Vio e che non corrisponde come localizzazione e direzione dell’asse principale all’antica chiesa di S. Vito, è la St. George’s Anglican Church. Nella targa sulla porta d’ingresso, vi si ricorda che l’edificio fu consacrato nel 1892 e che la cappellania fu istituita nel 1604-1605. Dalla guida del Lorenzetti risulta invece che tale chiesa anglicana sia stata costruita nel 1926.

La prima sede dell’Istituto Cavanis femminile tuttavia non si trovava in campo S. Vio, e tanto meno nell’antica e ora distrutta chiesa di S. Vio e annessi, ma in una casa privata, che P. Marcantonio definisce “povera Casa”. Per giungere a questa casa, ancora esistente, bisogna attraversare Campo S. Vio, percorrere la cale de la chiesa e voltare a sinistra nel brevissimo ramo Da Mula che porta ai due edifici riuniti Palazzo Da Mula Morosini e Palazzo Centani Morosini. I venerabili fratelli affittarono un appartamento al numero civico Dorsoduro 611, come risulta dal catasto napoleonico dell’Archivio di Stato di Venezia; il numero civico di cui sopra doveva dipendere dal sistema civico austriaco di numerazione degli edifici, introdotto a Venezia tra il 1797 e il 1805, ovvero durante la prima fase di dominazione asburgica e non corrisponde al numero attuale. Dopo una riforma del sistema civico posteriore al 1808, di epoca napoleonica del cosiddetto Regno d’Italia (fine 1805 o gennaio 1806-fine 1813) o della seconda dominazione austriaca (1814-1848); o ancora della terza dominazione austriaca (20 luglio 1849-1866) è divenuto n. 724 e/o 725.

Al numero 724 e 724/A, sul lato orientale del “ramo”, si trova oggi il piccolo albergo, Charming House; al numero 725 si trova invece un cancello che immette i proprietari o inquilini e i loro visitatori alla breve continuazione del ramo Da Mula, alla corte omonima e a Palazzo Da Mula Morosini (gotico, XV secolo) e all’adiacente Palazzo Centani Morosini (primo barocco, XVI secolo), ambedue affacciati al Canalasso o Canal Grando, che comprendono oggi una decina di appartamenti. Il numero civico 724/B, poi, sulla sinistra di chi entra nel ramo Da Mula, è con ogni probabilità un’uscita di emergenza o di servizio di un’altra proprietà.

Nonostante la relativa piccolezza dell’appartamento della comunità iniziale, non mancava una cappella o oratorio:

“17 Decembre [1808]. Oggi, giorno di Sabbato, fu segnato il Pontificio Rescritto che accorda l’Indulto dell’Oratorio Domestico della preda. povera Casa, ove pochi giorni dopo si cominciò o celebrare la S. Messa, ed amministrarvi ancora i SS. Sacramenti con licenza dell’Ordinario”.

Il numero delle ragazze ospiti della prima casa o rifugio organizzato dai PP. Antonio e Marco Cavanis a S. Vio, nel Ramo La Mula, in data 27 marzo 1809, era di 14 unità, alle quali bisogna aggiungere le signore che si occupavano delle ragazze, tra cui la sig.ra Bona Bussolina.

1.2 La seconda residenza

A causa dell’aumento imprevisto (e significativo) del numero delle ragazze assistite e delle maestre, l’Istituto Cavanis femminile fu costretto a trasferirsi il 12 maggio 1810 nell’antico monastero, già delle monache agostiniane dello Spirito Santo alle Zattere, dopo una serie di pratiche iniziate nel febbraio 1809 e di difficoltà politiche, burocratiche e logistiche, e a titolo di affitto, mentre avevano chiesto al demanio di riceverlo gratuitamente, essendo gratuito e caritatevole l’uso che ne avrebbero fatto.

Il monastero comprendeva anche la chiesa omonima, di stile rinascimentale lombardesco (1483), situato in un panorama straordinario, sulla riva del canale della Giudecca, a vista della chiesa palladiana del Redentore e di quella di S. Giorgio.

Già chiesa conventuale, questa chiesa era poi dal 1806 confluita come succursale e filiale nella parrocchia di S. Agnese, e subito dopo in quella di S. Maria del Rosario nel 1810; era stata inoltre riconsacrata, o meglio “riconciliata” come si dice nel testo originale di P. Marco, il 30 aprile 1810 dal vescovo di Lesina (provincia di Foggia), mons. Angelo Pietro Galli, su richiesta dei fondatori dell’Istituto. Alla chiesa era annesso l’edificio della “Scuola” dello Spirito Santo. Questo complesso conventuale, ad eccezione della chiesa, chiusa ma non sconsacrata, fu indemaniato nel 1806. Dopo la breve presenza dell’Istituto Cavanis femminile, in affitto nel biennio 1810-1811, e vari usi successivi sotto il governo austriaco e poi italiano, tra cui quello di deposito di materiale bellico e di tabacchi, il complesso del monastero, costruito nel XV secolo, ma rielaborato in stile neoclassico nel 1506, venne trasformato in scuola statale nel 1984. Il complesso era provvisto di un giardino di forma allungata, caratterizzato sul lato occidentale da un lungo porticato con colonne tuscaniche e architravate, mentre su quello orientale si trovava un’ala nuova, a due piani. Il complesso architettonico divenne, infatti, una sezione del liceo artistico statale, in cui tutt’oggi si svolgono gran parte delle lezioni di pittura, scultura e architettura. Tale sezione o sede succursale dello Spirito Santo si trova a pochi minuti dalla sede principale, a Dorsoduro 460, in rio terà San Vio; e anche a poca distanza dalla sede precedente dell’istituto femminile delle Scuole di Carità, e dalle scuole maschili.

Non fu peraltro tranquilla, per i Cavanis e le loro Scuole di Carità femminili, la permanenza nel nuovo ambiente. Presto, infatti, si sparse la voce che dal governo si pensasse di destinare la chiesa dello Spirito Santo a parrocchiale o succursale. La cosa mise in allarme i due fratelli: che ne sarebbe stato della pace e dell’andamento dell’ospizio? Purtroppo non erano mancate noie da parte di qualche zelante: «Ma — confidava P. Marco a un amico — se tanto si ebbe a provar di fastidj e amarezze finora, che mai sarebbe quando il corpo di tutte le persone addette alla succursale entrasse ad osservar l’opera più da vicino? Non si suppone, né vi è ragion di supporre uno spirito di malignità in alcun di tali individui, ma sempre è vero che tutti hanno il loro modo di pensare; che anche con buon fine si possono propor delle cose, che riescano assai spiacevoli a chi ha il maneggio dell’opera, e ne conosce i riguardi più delicati; e che esser esposti alle viste e alle parole di molti, può essere una sorgente di assai penose molestie, tanto più che possono facilmente prendervi parte gli estranei e suscitar dei partiti che riescano incommodi e disgustosi». Ricorsero dapprima al senatore Marco Serbelloni a Milano, in data 28 agosto 1810, e quindi al barone intendente di finanza il 5 ottobre; ma ciò nonostante la chiesa diventava succursale di S. Maria del Rosario, come è ancora oggi e il 22 ottobre i fabbricieri ne prendevano possesso 32.

Non erano mancati i fastidi già prima, come si trova esposto in una supplica rivolta dai fondatori all’Intendente di Finanza, e in un promemoria del 5 ottobre 1810: «Corre però la sorte quest’Opera, comune a tutte le Opere Pie, di essere esposta alle dicerie degli oziosi, ed hanno perciò i Direttori dall’esperienza di pochi mesi assai fondato motivo di persuadersi che se si verificasse la voce sparsa che la lor chiesa fosse dichiarata Succursale della Parrocchia, restasse ancor maggiormente disturbata la loro pace. Finora non si è fatta nella Chiesa alcuna Funzione, né in alcun riguardo si son offesi i Parrocchiali diritti: pur hanno li fratelli Cavanis sofferto delle amarezze perché quantunque il Parroco sia zelante e dispostissimo a favorire l’opere buone, pure cedendo all’importunità, ovvero ai falsi timori di alcuni che lo istigavano, non volle acconsentire che si celebrassero più di tre messe nei dì festivi, due delle quali soltanto nella Parrocchia, e perciò d’impedire ancora alcune discipline interne stabilite sull’esempio degli altri Luoghi Pii, come sarebbe quella di amministrare i SS. Sacramenti nell’interno del Monastero e di usare una discreta riserva nell’ammettere le visite anche di femmine, eccitato a ciò dal timore che non potesse credersi istituita una formale Clausura, cosa però ch’è giornalmente smentita dal fatto».

Seguirono altre noie, in seguito alla proibizione della questua in favore della scuola e internato femminile, che alla fine si risolsero a favore della pia opera, anche per la mediazione del nuovo prefetto sig. Galvagna, successo al cav. Serbelloni, che ormai aveva appreso a stimare i Cavanis e la loro istituzione, e faceva scrivere loro «di cui mi farò sempre un piacere di adoperarmi per il maggior incremento». Egli era già conquistato fin dal maggio 1810.

Nel 1811 venne il pericolo più grave per l’Istituto. Si diceva che il governo volesse utilizzare l’ex monastero per ampliare l’ospedale civico degli incurabili, e che la Pia Casa femminile dei Cavanis si pensasse di trasferirla a S. Lucia. I Cavanis cercarono di parare il duplice colpo, ovvero essere costretti ad andarsene e di doversi trasferire così lontano da S. Agnese.

1.3 La terza e definitiva residenza

1.3 La terza e definitiva residenza

P. Marco stese perciò un ricorso al prefetto Galvagna, nel quale metteva in evidenza che l’eventuale trasloco nell’ex monastero di S. Lucia avrebbe messo in pericolo la sussistenza stessa dell’opera. Con tempestiva previdenza quindi P. Marco proponeva il monastero delle Eremite, dette anche Romite in veneziano, nella parrocchia di S. Trovaso. La risposta prefettizia confermò la voce, e invitò i Cavanis a trattare col demanio per l’affitto dell’ex monastero delle Eremite, com’era stato chiesto. P. Marco trattò e, pur continuando a insistere per ottenere il nuovo locale gratuitamente o almeno a condizioni non gravose, si adattò a firmare il 6 agosto 1811 il contratto di affitto col Monte Napoleone per lire italiane 400.

Il 10 settembre 1811 avvenne l’ulteriore e ultimo trasferimento dell’Istituto femminile nella sua sede definitiva, nell’antico convento delle Romite o Eremite: “10. 7bre [1811]. In questo giorno anniversario della fondazione furono trasferite le nostre figlie nel Locale dell’Eremite in varie Gondole delle Dame amorevoli all’Opera. S’invitarono i Parrochi di S. Agnese e di S. Trovaso a celebrare nella Chiesa del Monastero la S. Messa …”. Si può immaginare la gioia delle povere ragazze, che senza dubbio non avevano mai viaggiato in gondola.

Vale la pena di fornire qualche notizia su questo grande complesso di edifici e sulle sue origini. Romite in dialetto veneziano vuol dire Eremite. Esistevano a Venezia almeno dal XIII secolo vari romitori femminili, uno di questi (forse più tardi) a San Marcuola, ossia nella parrocchia dei Santi Ermagora e Fortunato, si era sistemato in una modestissima sede, sopra il portico o nartece della chiesa parrocchiale di detti santi. Nel 1486 una certa Benedetta eremita, con le compagne Lucia e Caterina, costituivano questa comunità. Morta Benedetta, le superstiti volevano accogliere altre compagne, ma il clero e i patroni della parrocchia speravano evidentemente, con tale forte riduzione di un terzo della piccola comunità, di liberarsi dell’incomodo. Tuttavia, Lucia e Caterina fecero ricorso a Papa Leone X (1513-1521), che attraverso il patriarca di Venezia, Antonio Contarini, le riconobbe come monache di Sant’Agostino, con i relativi privilegi e autonomie, proprie di queste monache.

La comunità ebbe molte altre difficoltà per l’ostilità del clero della parrocchia – capita che il clero diocesano non capisca il senso della presenza dei religiosi, specie quando questi si occupano solo di preghiera e di vita consacrata; ma bisogna anche dire che avere delle monache appollaiate sopra l’edificio della chiesa parrocchiale può essere una situazione scomoda. La presenza di queste monache continuò tuttavia per quasi due secoli nel loro “soppalco” sopra l’atrio della chiesa, dando a quanto pare buon esempio di osservanza e di austerità. L’appoggio dei patriarchi, anche tenendo presente la benevolenza di qualche papa, le aiutò a resistere lungamente.

La comunità però cresceva, e nel 1693, grazie a un’eredità lasciata al monastero da un tale di nome Santo di Domizio Donadoni, alla comunità, già allora detta delle Romite, monache che come si è detto seguivano la regola degli eremiti di S. Agostino, detti eremitani, a Padova per esempio, di lasciare la parrocchia di San Marcuola e di trasferirsi nell’edificio di un convento lasciato libero dai frati Minori, quando essi si trasferirono al nuovo convento di S. Bonaventura, in fondamenta e parrocchia di Sant’Alvise.

Il convento abbandonato dai Frati Minori fu arricchito di un chiostro e di una chiesetta e nel 1694 la comunità delle Romite vi si trasferiva, con la benedizione del Patriarca Giovanni Badoer. La presenza delle Romite agostiniane in parrocchia di S. Trovaso, tra S. Barnaba, S. Sebastiano e l’Anzolo Rafael, durò circa 116 anni e diede il nome al canale prospiciente alla facciata della chiesa e del romitorio e varie unità stradali: Rio de le Romite, fondamenta de le Romite, cale de le Romite, sottoportego de le Romite, queste due ultime unità attualmente prive de nisioleti.

La comunità in origine aveva ricevuto dagli organi della repubblica addetti ai monasteri il permesso per un monastero con sole sei religiose, ma poco dopo ottennero il permesso di arrivare a nove (1711) e infine si arrivò a quindici (1716). Nel 1719 le monache chiesero e nel 1722 ottennero di poter avere diritto alla stretta clausura e lo status di monastero dalla S. Sede, con il permesso della Serenissima. Il numero delle monache continuò ad aumentare fino ad arrivare nel 1806 (l’anno della soppressione napoleonica) a ventinove professe, 2 novizie e 6 converse, per un totale di 37 religiose, oltre naturalmente al personale. Era cresciuta nel frattempo anche l’estensione della proprietà, l’area coperta e il volume edificato del monastero.

Interessa dire qualche cosa di questo complesso claustrale, perché cinque anni dopo vi si istalleranno le maestre e le ragazze delle Scuole di Carità Cavanis. Esso, a quella data, comprendeva un atrio d’ingresso, un parlatorio interno e uno esterno, la chiesa, un piccolo coro in ambiente separato da un muro diritto (la cappella non ha infatti una vera abside ed è di forme esattamente rettangolare) e sito dietro l’altare maggiore; il refettorio, con il caratteristico pulpito, incassato nella parete all’altezza del primo piano, accessibile per mezzo di una scala di legno esterna, vi si leggevano pie letture durante i pasti. Accanto al refettorio, erano la cucina e la dispensa, prospicienti all’orto, la sacristia, un ambiente di ricreazione, un grande chiostro con portico coperto, con il necessario pozzo al centro e la “spezieria”.

Al primo piano vi erano due dormitori collettivi, al tempo delle romite, poi sostituiti da camere e/o celle, due coretti che permettevano di pregare, fare adorazione ed eventualmente assistere all’eucaristia dal piano delle abitazioni, la biblioteca e “una sacristia interna”.

Il complesso comprendeva, all’interno dell’area scoperta, anche le case del confessore e del custode, altri spazi di ortaglia, una porta “da mar” cioè sul canale sul rio degli Ognissanti, a occidente. Questo rio più tardi fu interrato e trasformato nel rio terà omonimo.

La chiesa annessa al monastero era stata costruita, in un solo anno, assieme al chiostro, in occasione del trasferimento delle romite da S. Marcuola a S. Trovaso (1694). È una chiesa barocca, attribuita a Giovanni Battista Lambranzi (attivo tra il 1666 e il 1695), architetto e pittore che costruì o progettò anche quelle di S. Margherita e di S. Marta a Venezia. È una chiesa molto semplice e povera, in puro cotto, all’esterno, verso il canale; come era tipico delle chiese progettate dal Lambranzi. Il soffitto raffigura al centro l’incoronazione della Vergine e, agli angoli, i quattro Evangelisti, attribuiti alla scuola del Balestra. Due tele ovali, con la resurrezione e la cena in Emmaus, sono poste nei soffitti dei coretti laterali all’altar maggiore. Da notare la pala di Palma il Giovane in sagrestia che rappresenta S. Girolamo e S. Agostino e la statua della Madonna del Rosario di A. Corradini. Il restauro della chiesetta è in corso da molti annie prossima alla conclusione, con ottimi risultati, nel 2021.

La chiesa portava al tempo delle Romite, dei Cavanis e anche al tempo attuale il titolo di “Gesù, Maria e Giuseppe”, in quest’ordine, e senza riferimento esplicito al termine in uso più tardi di “S. Famiglia”.

A proposito di questa chiesetta, importante per noi Cavanis perché P. Marco vi celebrò la S. Messa per tanti anni, e poi tanti confratelli, tutti i giorni, fino nella prima decade del 2000, si legge nelle Memorie dell’Istituto femminile, dopo aver detto che si erano invitati per l’inaugurazione della nuova sede i parroci di S. Agnese e di S. Trovaso, continua: “…e quest’ultimo, nella di cui Parrocchia veniva a stabilirsi la sud.ta Pia Istituzione adombratosi sui progressi che far potesse a danno de’ suoi diritti, presentò nel giorno stesso alli Direttori una Carta di Convenzione piena di restrizioni e legami che riuscivano assai molesti. Voleva che questa Carta fosse da lor sottoscritta, ma essi se ne astennero, e poiché l’ebbero assicurato che non era presentemente loro intenzione di aprir quella Chiesa, la qual cosa lo feriva assai vivamente, si mostrò ad essi molto amorevole, e non insisté di vantaggio per la sottoscrizion della Carta”.

Forse a questa chiesetta appartenevano, al tempo delle Romite, quattro pannelli marmorei con bassorilievi, che attualmente si trovano “incastonati” nelle pareti dell’andito dell’Istituto Canossiane Maria Immacolata: sulla parete di sinistra tre formelle di marmo bianco, purtroppo separate; una di formato più largo, con il Cristo Pantocrator, seduto in trono, con un Vangelo nella mano sinistra e con la destra benedicente; e due formelle strette, che insieme rappresentano un’Annunciazione: a sinistra Maria, a destra l’Angelo Raffaele.

Sulla parete di sinistra c’è un grande bassorilievo in marmo con una stranissima rappresentazione della Vergine Maria, detta del Beatus venter o del Beato Ventre. La Madonna è rappresentata riccamente vestita, con un grande mantello, la tiara o mitra, una stola su cui si trovano abbreviati alcuni frammenti di versetti del Magnificat. Sul petto e sul ventre porta la “mandorla” con il bambino Gesù, piuttosto grande, che occupa tutto il torso di Maria. Le tre formelle possono essere di età rinascimentale; quella della Madonna del beato ventre può sembrare più antica e proverrebbe dal romitorio originale.

Dopo le minacce prospettate sotto il Regno Italico nel 1806, il monastero delle Romite agostiniane a S. Trovaso fu di fatto soppresso e incamerato con processo verbale dell’8 gennaio 1810, in seguito al decreto del 26 aprile precedente e la chiesa fu chiusa. Rimase così per un anno e mezzo circa, fino all’arrivo dei Cavanis, il 10 settembre 1811.

Il 20 settembre 1810 l’architetto Lorenzo Pastori produsse una dettagliata descrizione del complesso edilizio, provvista di una pianta completa, disegnata da A. Minio Coronini.

Il complesso architettonico doveva sembrare più una fortificazione militare che un monastero, così come sembra ancora oggi se lo si guarda dal ponte Lombardo (tra la Toletta e campo S. Barnaba) o ancor più dal ponte de le Turchete, che porta dalla fondamenta di Borgo alla cale de le Turchete: si notano pochissime finestre provviste sempre di inferriate  (le finestre in genere erano rivolte verso i chiostri e cortili interni ad evitare la dissipazione delle monache), “mura alte e forti” e rozze e scure, bisogna aggiungere, soprattutto verso il rio Malpaga e verso il ramo occidentale del rio di Ognissanti.

Il complesso era poi, a quel tempo, chiuso in un’insula rettangolare, circondato quasi completamente da rii, come un castello pronto a un assedio: a nord il tetro rio Malpaga, senza fondamente da ambedue i lati; a est il rio delle Romite; a sud (dove il rio era ben più lontano dal monastero) e ad ovest il rio Ognissanti, poi interrato nella seconda metà dell’Ottocento nel suo ramo occidentale. A sud del monastero c’è una Cale dei frati, che ricorda la presenza dei Frati Minori, fino a poco prima del 1693, e una cale e corte Bonfadina, che si interrompe a metà della larghezza dell’Insula con un cancello inaccessibile ma non appartenente al convento della Canossiane, e che forse si continuava con la calletta Boldrini di cui si parla più sotto. Nella mappa del Catasto Napoleonico 1808-11 appare, a sud del Complesso che in quegli anni era occupato dai Cavanis e dalle loro Scuole di Carità femminili, una corte e calle Mocenigo, non più reperibile.

Apprendiamo che al tempo delle Romite agostiniane, si accedeva al monastero solo per tre ingressi, ossia dalle fondamenta delle Romite, dal ramo occidentale del rio di Ognissanti, attraverso la riva o entrata da mar, e infine dalla calletta Boldrini. Il primo era l’ingresso principale dal quale si entrava, con gli opportuni atri, nella chiesa e, dopo un cortile, nel coro; poco oltre, una stanza detta loza, quindi la cucina e la sala del capitolo. Notiamo in questo interno, una terrazza, la sacrestia interna e una piccola stanza sotto il campanile, nonché le stanze dette “il pozzetto” e la ricreazione, quindi il parlatorio interno. Di cinque corridoi, quattro guardavano sulla “grande corte”. Questo grande spazio aperto era diviso in tre parti, di cui quello centrale era suddiviso in quattro vanese, ossia “aiuole ottagonali” circondate da passaggi in selciato, così come erano pavimentati i due terzi laterali, separati da bassi muretti da quello centrale. Cogliamo ancora che una piccola corte interna, a uso di orto, era prossima al refettorio. Salendo di un piano, per mezzo di una scala monumentale a forbice, dove si trovavano le camere da letto, un corridoio prende luce dai balconi sul Rio Malpaga, quindi solo due stanze prospettano sul Rio Ognissanti, le altre si rivolgono al grande cortile. Oltre a questo vi erano altri ambienti coperti o scoperti e fra questi si vengono precisando la piccola corte detta la Buratta e la corte detta della sacrestia che si trova sul versante delle fondamenta delle Romite. Al secondo piano si trovano soprattutto stanze da letto o celle e gli affacci guardano particolarmente la corte principale.

Il 10 settembre 1811, come si è detto, i venerabili padri Antonio e Marco Cavanis ottengono di poter trasferire alle Romite le Scuole femminili di Carità. L’opera richiede una risistemazione dei locali e 55 anni dopo, nel 1863, con lo stabilirsi delle Figlie della Carità Canossiane, poi ancora con la nascita dell’istituto Magistrale nel 1922 e in seguito di nuovo con la creazione di altre scuole, saranno necessarie successive ristrutturazioni. Un’ultima ristrutturazione è recente e ha adattato la casa come struttura alberghera.

Tra l’altro, per ristrutturare il monastero come scuola, il piano terra, eccettuati l’andito, la cucina, il refettorio (ancora di stile monastico fino ad oggi), la lavanderia e la portineria, ospiterà aule scolastiche, la palestra da ginnastica e da gioco, inaugurata l’11 novembre 1929 (dividendo così la grande corte in due, sempre, al centro di ciascuna delle due parti così risultanti, con gli antichi pozzi). Il primo piano ospiterà aule scolastiche, l’aula magna, la sala professori, uffici di segreteria, biblioteca e i locali per il convitto, il secondo piano, invece, celle per le Suore e camere per le convittrici. Una delle celle, secondo la tradizione utilizzata dalla santa fondatrice delle canossiane, viene conservata con il povero mobilio religioso ottocentesco, a titolo di memoria e di venerazione.

Chiuse per motivi vari le scuole, dal 1998 il complesso di edifici è stato ristrutturato e la casa è divenuta, su suggerimento e richiesta del Patriarca Marco Cè, un ambiente atto ad accogliere le studentesse universitarie, nel seno di un piano più ampio e coordinato a livello diocesano di pastorale universitaria.

Oggi gli ingressi al complesso dell’Istituto Canossiane Maria Immacolata sono ben più numerosi, ci sono infatti due porte d’ingresso, con due analoghe finestrine al primo piano, sui due lati della grande porta (senza numero) della chiesetta, con il numero civico Dorsoduro 1326 a sinistra e, sulla destra, simmetricamente, un ingresso col numero 1325; la porta principale del convento ha il numero civico 1323A; ci sono poi due porte minori sulla fondamenta, a destra della porta principale, fino alla fine della fondamenta, la prima con il numero 1323 e la seconda, proprio all’angolo arrotondato conclusivo della fondamenta, il riquadro per il numero civico che è assente, di forma ellittica, come si usava anticamente. Attualmente l’ex-convento serve in parte per l’ospitalità a giovani universitarie, in parte come albergo per turisti di ambo i sessi, in modo che la casa possa provvedere al proprio sostentamento.

Non si conoscono ingressi attuali al lato sud del complesso e non ce ne sono al lato nord affacciato sul rio Malpaga. Sul lato occidentale, il convento dava solo sul canale, affiancato solo sul lato occidentale dalla fondamenta degli Ognissanti, mentre attualmente vi si trova il rio terà Ognissanti, con varie porte di ingresso dell’Istituto: in ordine, da sud a nord, 1451/A, 1451/B e 1451 C, che è l’ingresso posteriore principale.

Il passaggio della Pia Casa delle Scuole di Carità dal monastero dello Spirito Santo a quello già delle Romite portò con sé un altro avvenimento di cui ci parla il quaderno delle Memorie:

“2. settembre [1811]. Partì in questo giorno dall’Ospizio la Sig.a Bona Bussolina che nel giorno 10. 7bre 1808 erasi ricevuta per prima Maestra con cui si diede principio alla Istituzione. Nel corso di tre anni erasi conosciuto abbastanza non essere la medesima nell’età sua ben molto avanzata, atta per modo alcuno a reggere sotto la disciplina, e però, bramandosi di ridur l’Opera nel nuovo Locale al miglior sistema, fu risolutamente licenziata. Non fu poco a sortire di liberarsene senza perder la Maestra Fabris, molto buona e capace, e che avea per lei la maggior tenerezza di affetto: tutto peraltro colla benedizion del Signor riuscì con pace e senza verun immaginabile inconveniente”.

NOMI E AGGETTIVI RELATIVI ALLE RAGAZZE DELLE SCUOLE DI CARITÀ

Quando si fa riferimento alle ragazze per le quali i venerabili fratelli avevano istituito il ramo femminile dell’opera e della Congregazione, si parla di “periclitanti Donzelle”, nome e attributo molto antichi, antiquati e alquanto sgradevoli. In realtà, se si contano i vari termini utilizzati in tutto il quaderno delle “Memorie della pia casa di educazione delle povere fanciulle aperta lì 10 7bre 1808 nella Parrocchia di Sant’Agnese, Venezia” si trova la situazione seguente per i sostantivi e gli aggettivi:

  1. Il termine “periclitanti donzelle” non si trova mai 0 volte
  2. Il termine “donzelle periclitanti” non si trova mai 0
  3. Il termine donzelle o Donzelle 9
    1. Di cui: donzelle senza aggettivi 5

Povere donzelle 2

    1. Nostre donzelle 1
    2. Raccolte donzelle 1
    3. Figlie, si trova sette volte 7
    4. Di cui, senza aggettivo 3

Nostre figlie 2

    1. Povere figlie 2
    2. Povere figlie periclitanti 1
    3. Periclitanti figlie o figlie periclitanti 1

Figliuole 3

  1. Figlie e figliuole insieme, come omonimi 10

Fanciulle 3

  1. Di cui, senza aggettivo 1

Povere fanciulle 1

    1. Povere abbandonate fanciulle 1

Ragazze 1

  1. Giovani 0
  2. Bambine 0
  3. E, in fatto di aggettivi, povere 6

Nostre 3

  1. Raccolte 1
  2. Periclitanti 1

 

  1. Per quanto riguarda le signore che si occupavano delle ragazze e della casa, si usano i seguenti termini:

Maestre 8

  1. Maestra 5
  2. Signora 1
  3. Signore 0
  1. Si lascia poi chiaro che si ha un chiaro e formale “progetto di una Congregazione da istituirsi di Maestre delle Scuole di Carità”

Per quanto riguarda il nome della casa o opera o comunità femminile, i termini utilizzati sono i seguenti:

Istituto 21

  1. Istituto delle Scuole femminili di Carità 1

Pio Istituto 1

    1. Casa 18
        1. E in particolare: Pia Casa 2

Pia casa di educazione 1

    1. Casa di educazione 2
    2. Povera Casa 4
    3. Casa di ricovero 1
    4. Ospizio 16
  1. Rifugio 1
  2. Scuola di Carità 1
  3. Scuole di Carità 8

2. Elenco delle maestre e delle ragazze dell’Istituto femminile Cavanis il 10 settembre 1811

Si riporta in questa sede un documento contenuto nel fascicolo «Documenti riguardanti l’istituto femminile», conservato nell’archivio storico dell’istituto a Venezia (AICV). Si tratta di un elenco di maestre (e forse anche di altre collaboratrici, ma senza distinzione espressa) dell’Istituto femminile. Bisogna notare che questo, nel 1811, non era ancora un istituto religioso, anche se le pie donne vivevano informalmente in forma di una comunità religiosa; questa sarà riconosciuta congregazione a livello di diocesi di Venezia dal 1819, come il ramo maschile. I fondatori non faranno però richiesta di un riconoscimento a livello di chiesa universale e di erezione canonica dell’Istituto femminile nel 1835 presso la Santa Sede.

Quattro su quindici di queste signore incluse nella lista erano ex-religiose provenienti con ogni probabilità da istituti soppressi; una era vedova. Nessuna era sposata.

L’elenco che segue è invece una lista di una delle prime leve di queste povere ragazze accolte nell’Istituto femminile, e chiamate spesso nell’ambiente Cavanis attuale, e non solo, “periclitanti donzelle”. Quasi la metà erano orfane di padre (45,45%), una era stata abbandonata. Erano considerate, ma non in questo documento, «donne destinate ad andare in malora» cioè donne che rischiavano di perdere la loro innocenza e la loro virtù, sulla strada, data la situazione di abbandono e di estrema miseria in cui versavano.

Risulta interessante conoscere questi nomi e attraverso essi identificare queste persone che sono state amate da Dio e dai nostri fondatori. Le religiose attuali dette Suore Cavanis apprezzeranno particolarmente l’elenco delle maestre e delle fanciulle dell’ “ospizio” fondato dai fratelli Cavanis che si trasferirono dalla seconda sede nel convento e chiesa dello Spirito Santo alle Zattere a quella (terza) del convento detto alle Eremite a S. Trovaso,. il 10 Settembre 1811.

[MAESTRE]

  1. Sig.ª Catterina Rechiedei del fu Pietro, nativa di Brescia.
  2. Sig.ª Catterina Fabris di Florian.
  3. Sig.ª Angela Pedranzon di Cristoforo.
  4. Sig.ª Nicolosa Trevisan di Paolo.
  5. Sig.ª Elisabetta Zangiacomo detta Caldara del fu Giovanni.
  6. Sig.ª Maddalena Valenti, relita Costa, del fu Matteo.
  7. Sig.ª Maria Antonia Brombilla del fu Gio.
  8. Sig.ª Antonia in Religione chiamata M. Diletta
  9. Sig.ª Lucia M. Pelarin del fu Domenico.
  10. Sig.ª Teresa Raspoli di Sebastian.
  11. Sig.ª Marianna Zuliani del fu Sebastian.
  12. Sig.ª Elisabetta Lucia del fu Antonio.
  13. Sig.ª Maria Antonia Bagoni del fu Pietro, in Religione chiamata M. Serafina.
  14. Sig.ª Maria Soletti del fu Gio. in Religione chiamata M.a Maddalena.
  15. Sig.ª Maria Teresa Vardanego del fu Gio. Maria, nativa di Cittadella, in Religione chiamata M.a Crocefissa e trasferitasi in questo giorno, nel locale dell’Eremite mentre prima abitava in Calle S. Caterina al N. 3944.

DONZELLE

  1. Giovanna Bonin di Vincenzo
  2. Carolina Urbani di Gius. Nativa di Napoli
  3. Maria Venerandi di Marco.
  4. Marianna Rupano del fu Girardo.
  5. Maria Osboli del fu Bartolommeo.
  6. Catarina Donata del fu Bortolomeo.
  7. Margherita Pontenali del fu Antonio.
  8. Cecilia Valentini del fu Bernardo.
  9. Regina Donaja di Santo.
  10. Angela Coltrin del fu Giacomo.
  11. Angela Penso di Nicolò.
  12. Giacinta Caizof del fu Domenico.
  13. Antonia Paronello, del fu Giovanni.
  14. Anna Bresciani del fu Domenico.
  15. Antonia Darbo di Giuseppe.
  16. Angela Basletti di Nico.
  17. Domenica Fiorenton di Giacomo.
  18. Maria Ginevra di Genitori incogniti.
  19. Luigia Pitteri di Francesco.
  20. Rosa Meneghetti del fu Vincenzo.
  21. Anna De Luca di Bartolommeo.
  22. Libera Teresa Ciatto di Girolamo prima abitante nella Parrocchia dl S. Maria del Rosario in Calle dei Franchi.

Per concludere questo capitolo si dirà che qualche anno più tardi (1816) il numero totale degli allievi e allieve tra i due istituti, maschile e femminile era di 400 circa.

3. Alcuni episodi notevoli della Pia Casa di Educazione delle Scuole di Carità

“12. Maggio [1810] – In questa mattina, correndo giorno di Sabbato, le nostre Figlie si trasferirono ad abitare nel Monastero dello Spirito Santo. Nel giorno 3. di questo mese ivi si eran raccolti alcuni de’ nostri giovani nel ritiro de’ SS. Esercizj, e datovi compimento in questa mattina, sortiti questi vi sottentrarono le nostre Donzelle. Si portò il Parroco di S. Agnese alla casa ov’eran domiciliate, e colla sua scorta, e di qualche altro Religioso, e di alcune Dame vennero a due a due camminando con tutta la compostezza alla Chiesa dello Spirito Santo, ove celebrò il Parroco la S. Messa, e si cantò il Te Deum in ringraziamento al Signore che si apriva quel Monastero a ricovero delle povere Figlie periclitanti. Nell’atto stesso che si cantava quest’Inno s’intese la nuova che veniva attualmente posto il Sigillo alle Chiese de’ Regolari, e s’intimava per un Decreto Sovrano lo scioglimento alle Comunità Religiose; sicché tanto più si venne a rimarcare la grazia di Dio ottenuta di poter aprire quel Mon.ro.”

Il trasferimento a piedi deve essere avvenuto con il seguente percorso: dalla prima sede della Pia Casa si percorse il breve ramo de la Mula, si traversò la fondamenta Venier dei Leoni (quella dove, all’altra estremità, si trova la pinacoteca di Arte Moderna Peggy Guggenheim, si passò il ponte del formager, si percorse per breve tratto la fondamenta Ospedaleto, si entrò, passando sotto l’arco, nella corte e cale dei Sabioni, si percorse in buona parte il rio terà San Vio (che già era interrato a quell’epoca (o almeno dal 1821), si girò a destra e si percorse la lunga e stretta cale del Monastero per raggiungere la chiesa e la porta del monastero dello Spirito Santo verso le Zattere, oppure si entrò da una porta di servizio sita, ancora adesso, su rio terà de San Vio, che corrisponde alla porta attuale d’entrata del Liceo Artistico Statale.

“2. Giugno [1810] – Oggi essendo giorno di Sabbato si diede principio alla Scuola esterna nel Mon.ro med.mo con 4. figlie raccomandate alla Maestra Angioletta Pedranzon già prima molto bene addestrata a questo caritatevole uffizio da S.E. la Sig. Marchesa Maddalena de Canossa, la qual essendo alla direzione di un simile Istituto in Verona, erasi per sentimento di carità portata in Venezia per mettere in buon sistema la nostra povera Casa, al qual [7] oggetto trattennesi lungo tempo, e con somma piacevolezza si rese amabile a tutti e riuscì di comun edificazione.”

Un altro problema, per la sussistenza della nuova istituzione Cavanis, e per la sopravvivenza, più cara nel nuovo monastero, che bisognava riattare ed adattare alle nuove esigenze di una comunità di educande che crescevano di numero, e anche della recentemente istituita scuola esterna, che si veniva ad aggiungere al convitto, fu il pericolo di perdere il diritto di far passare per le calli di Venezia la cassella e il cassellante: la cassella era una cassetta fornita di una fessura e di una chiusura a chiave, che servirà a raccogliere l’elemosina per le comunità religiose, per le confraternite o per le opere pie; il cassellante era l’incaricato di percorrere le strade di Venezia con la cassella. Negli ordini mendicanti era un frate converso, e chi scrive si ricorda distintamente di questa pratica a Venezia, sia con la cassella, sia con una bisaccia di tela, di forma speciale, a due sacche (una restava sul davanti del questuante, l’altra dietro, come nella parabole di Fedro), con cui si raccoglieva il pane (raffermo in genere). Per le opere pie, il cassellante era, almeno nel caso specifico, uno che lo faceva per professione, ricevendo un compenso o una percentuale; ma qui non si specifica. L’episodio che segue ci spiega come sussistesse l’Istituto femminile, e probabilmente anche il maschile: non solo con l’elemosina maggiore, versata da personaggi, nobili, persone distinte, ma anche con le piccole elemosine del popolo. La concorrenza tra le istituzioni nella ricerca di elemosine tramite la questua o “cerca” era notevole; e la preoccupazione dei vari governi pure. Per esempio, il comune o la Congregazione municipale della Carità cercavano di impedire l’inizio di nuove opere pie per evitare proprio questa competizione.

“22. Ottobre [1810] – Oggi li Fabbricieri della Parrocchia si portarono a prendere in consegna, ed a ricevere nella loro amministrazione la Chiesa dello Spirito Santo, poiché venne costituita, come si è detto, per Sucursale.

18. Decembre [1810] – Dopo la dispersione delle Regolari Famiglie essendosi proibito agl’Individui appartenenti alle med.me di portarsi alla questua, il Cassellante dell’Ospizio, ch’era appunto un Laico Domenicano, all’udir questo avviso si ritirò dalla cerca. Fu citato quindi a comparire innanzi al Sig.r Comm.rio di Polizia del nro Sestiere [di Dorsoduro], ed ivi fu precettato a sospendere fin a nuov’ordine la sua Questua. Portossi allora il Direttor dell’Ospizio e dal pred.to Sig.r Com.rio, ed alla Polizia Gen.le, ed al competente Uffizio della Prefettura, onde fosse rimessa in corso la Questua, ma senza frutto; che anzi in quest’ultimo Uffizio cui si [8] era devoluto l’affare fu tolta ogni speranza al ricorrente di sortire l’effetto delle sue istanze, attesoché non era l’Ospizio formalmente riconosciuto dal Governo e approvato. Ridotta però in tali angustie la cosa si determinò il Direttore di presentarsi personalmente al Prefetto ed implorar l’opportuno provvedimento. Vi si determinò peraltro dopo molta incertezza, mentre non avendo mai data alcuna risposta alle varie informazioni ch’eransi a lui dirette intorno alla detta Pia Istituzione, ed avendone dimostrato ancora poca persuasione in addietro, temevasi di trovario mal prevenuto, e quindi forse di esporsi a qualche pericolo coll’azzardare una conferenza. Tuttavia stretto il Direttore dall’urgenza del bisogno, fece coraggio di presentarsi personalmente al Prefetto, ed ivi esposta la circostanza del crollo improvviso che ne risentiva la povera Casa per la impreveduta sospension della questua, implorò l’opp.no provvedimento. Aggiunse come sulla fiducia che non avesse la detta Questua ad incontrare verun ostacolo (essendosi il Prefetto suo antecessore dimostrato soddisfattissimo del proposto divisamento di mantener le raccolte Donzelle coll’elemosine de’ Fedeli) si prese animo di aumentar la Famiglia, la qual però per l’insorto emergente veniva a risentire un troppo grave sconcerto. Fu accolta l’istanza con molta bontà dal Prefetto, il quale mostratosi pieno di persuasione a favor dell’Opera, s’impegnò di abboccarsi colla Polizia Gen.le affinché fosse la Questua rimessa in corso, e nel Corrente giorno ne mandò il riscontro con Lettera cortesissima in cui significando di aver invitato il Commissario Gen.1e a permettere la detta questua, soggiunse che si farà sempre un piacere di adoperarsi al maggior incremento di questa Pia Istituzione.

29. Decembre [1810] – Fu segnato in questo giorno il Decreto [9] della Polizia Gen.le che permette di continuare la Questua, rendendone intesi circolarmente li Commissarj di ogni Sestiere. Così non solo fu assicurato il giro della Cassella, ma fu anche messa in libertà generalmente la Questua, ed il pericolo che si temeva ebbe fine con maggior vantaggio dell’Opera Pia.”

7. Ottobre [1811] – Essendosi portate in Venezia le loro Altezze II. e RR. il Principe Vice Rè e la Vice-Regina d’Italia, oggi alla Principessa medesima produssero li Direttori un Ricorso implorando qualche suffragio all’Opera istituita per educazione delle Donzelle.

Il Memoriale fu accolto con molta benignità da S.A. e pochi giorni dopo furono mandati a chiamare li Direttori alla Corte, ove il Sig.r Ciambellano Carlotti li assicurò che la Principessa avea sentito a parlar con lode di questa Pia Istituzione, che ne sentiva molto interesse, che questo solo Ricorso aveva conservato sul suo tavolino, e che avea stabilito di farne parola al Sig.r Prefetto, da cui essi avrebbero ricevuto il relativo riscontro. Eransi perciò [15] concepite delle belle speranze, ma poi svanirono senza frutto, poichè dopo la partenza di S.A. essendosi portato uno de’ Direttori dal Sig.r Prefetto, questi dichiarò di non aver ricevuto a nostro favore alcuna precisa commissione dalla Vice-Regina, ma solo al più qualche raccomandazione di benevolenza a quest’Opera. Chiese pertanto se ci occorreva qualche cosa, e noi siamo rimasti senza ottenere l’implorato suffragio. Non potendosi però dubitare intorno al sincero impegno dell’Altezza Sua per giovare a quest’Opera, convien dire ch’ Ella abbia creduto di farci più bene col raccomandarci al Prefetto per aver forse con metodo qualche ajuto dalla Cong.ne di Carità, di quello che col lasciarci un momentaneo suffragio. Ma poiché ad ottenere tali suffragj dalla Pub.ca Cassa noi abbiamo una massima ben ferma in contrario, così non abbiamo punto insistito per conseguirli, e quindi il nostro Ricorso andò a cader senza effetto.

11. Aprile [1812] – Giunse in questo giorno all’Ospizio S.E. la Sig.a Marchesa Maddalena de Canossa, conducendo seco due Maestre pel corso di varj mesi educate nel suo Orfanotrofio di Verona. Si trattenne poi Ella stessa fin all’ultimo giorno del seguente Luglio nel locale dell’Eremite, e ridusse l’Opera alla miglior discipina. Partì poi nel giorno p.mo di agosto, e si trasferì alla Croce per instituire le Suore di Carità.

18. detto [Aprile 1811] – In questa mattina il R.mo Parroco di S. Trovaso [17] si portò a celebrare la S. Messa nella Chiesa dell’Ospizio, e vi ripose per la prima volta il SS. Sacramento. Poi fu cantato divotamente dalle Donzelle nel Coro il Pange lingua, indi dal Parroco stesso fu tenuto un assai fervoroso ragionamento sulla grazia ottenuta, il qual discorso fu accompagnato da un gran sentimento di divozione e da molte lagrime; finalmente si reser grazie al Signore col recitare l’Inno Te Deum.”

C’era realmente di che ringraziare il Signore, con il Pange lingua e con il Te Deum: da parte dell’Istituto Cavanis, che aveva finalmente trovato una sede degna di un’opera così meritoria, e anche così ampia e bella, oltre al resto, vicina all’istituto maschile; e da parte delle ragazze, interne ed esterne, che avevano trovato dei padri e delle madri così generosi, in una sede così bella e nobile, provvista anche di un grande giardino e di un orto. Continuava però da parte soprattutto di P. Marco per la situazione giuridico-economica dell’Istituto femminile nell’ex-monastero delle Romite: sul capo c’era sempre la spada di Damocle della probabile vendita o messa all’asta del complesso monasteriale, e se ne parla spesso nelle Memorie della Pia Casa negli anni 1813 e 1814.

P. Marco interessa al problema varie persone: scrive o parla a un senatore, a un consigliere di Stato (del napoleonico Regno d’Italia), al direttore del demanio, alla regina (o vice-regina), ad altri. Al tempo stesso lotta per ricevere un compenso per gli importanti restauri realizzati nel monastero e chiesa dello Spirito Santo durante la loro breve permanenza in quella sede; ma ottenendo solo una miserabile proposta di sole lire italiane 150, una minuzia inaccettabile.

Intanto i Fondatori continuano a pensare alla fondazione della Congregazione e dei due rami, maschile e femminile, della stessa. Nelle Memorie della Pia Casa:

“28. Maggio [1814] – Supplica al S. Padre [Pio VII, Barnaba Chiaramonti] per poter istituire una Cong.ne Ecclesiastica dedicata alla gratuita assistenza della povera gioventù.”

La risposta non giunge soddisfacente; era troppo presto e l’Istituto doveva crescere anche a tal fine. Si noti però l’importanza di questa frase che esce dal cuore dei venerabili Fondatori: la Congregazione (maschile e femminile) è dedicata al gratuito servizio della povera gioventù; non specialmente o praesertim pauperes; ma proprio definitivamente per loro. Senza “se” né “ma”. In cambio:

13. 7bre [settembre 1814] – Decreto Patriarcale che accorda per tre anni la facoltà di conservare nella Chiesa dell’Eremite il SS. Sacramento, e di poter ivi confessare e communicare quelle che internamente ed esternamente appartengono alla Pia Istituzione.

22. 9bre [novembre 1814] – Pontificio Rescritto, che accorda varie Indulgenze.

24. detto [novembre 1814] – Lettera scritta a nome di S.S. che mostra soddisfazione del Pio Istituto, e accoglie favorevolmente il Piano della proposta Congregazione.”

I Padri Antonio e Marco dovranno attendere ancora cinque anni per ricevere l’approvazione (come Istituto maschile e Istituto femminile) a livello diocesano a mano del patriarca di Venezia Francesco Maria Milesi (16 settembre 1819), e anche l’approvazione civile, da parte dell’Imperatore d’Austria (19 giugno 1819). Poi dovranno attendere di avere un notevole aumento numerico dei membri preti, laici e seminaristi della comunità e anche di avere almeno due case, prima di aspirare e di ottenere l’erezione canonica soltanto per l’istituto maschile (16 luglio 1838). Nei tempi di cui si parla, poco dopo il trasferimento alle Romite, non esisteva ancora né una comunità maschile né una vera comunità femminile; si trattava più di due opere con alcuni addetti, che di due possibili comunità religiose.

L’anno seguente, 1815, ci fu un periodo di difficoltà nella Pia Casa di educazione Cavanis femminile; non si poteva pretendere che ragazze e bambine raccolte praticamente dalla strada fossero tutte sempre degli angeli. E ci fu una piccola rivoluzione alle Romite. Questa si risolse con la dolcezza e con l’abilità pedagogica di P. Marco e delle sue collaboratrici.

In Europa intanto, proprio in quel tempo, si teneva il Congresso di Vienna e si provvedeva all’inizio dell’illusoria Restaurazione, dopo il ventennio della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche. Il congresso fu una conferenza tenutasi presso il castello di Schönbrunn nell’omonima città, allora capitale dell’Impero austriaco, dal 1º novembre 1814 al 9 giugno 1815. Il congresso subì l’interruzione imprevista a causa de “I cento giorni” , cioè il periodo della storia europea compreso tra il ritorno di Napoleone Bonaparte a Parigi (20 marzo 1815) dall’esilio all’isola d’Elba e la restaurazione della dinastia dei Borbone sotto re Luigi XVIII (8 luglio dello stesso anno). Una nuova ondata di rivoluzioni in giro per l’Europa si avrà negli anni ’20 del secolo XIX, poco dopo la conclusione del famoso “Congresso danzante” e poi soprattutto negli anni ’30; poi ricominceranno le guerre.

Ma, ritornando al “mondo piccino” della Pia Casa:

“30. Maggio [1815] – In questo giorno si fece una novità nell’Ospizio assai decisiva. Sospesa da molto tempo l’attiva ingerenza del Direttore [P. Marco] nell’interna disciplina del Luogo per varie insorte difficoltà di sortirne un buon esito e per la speranza che fosse provveduto bastantemente al buon ordine della Casa dalla vigilanza di altre persone che vi si mostravano attente ed interessate con molto impegno, andarono intanto crescendo notabilmente i disordini, e il maggior numero delle figliuole faceva un’assai trista riuscita. Ciò pervenuto a notizia del Direttore medesimo, pensò egli a porvi un forte riparo, e prese per tal oggetto da cadauna delle Maestre le più precise e veridiche informazioni, determinò di allontanare lo scandalo dalle figlie ch’eran rimaste buone, e di cercare nel tempo di scuotere le cattive. In questa mattina dunque si fece una totale separazione di Oratorio, di tavola, di Scuola e di stanza fra le prime e le seconde, assegnandosi a ciaschedun dei due Corpi apposite Maestre con metodi differenti addattati alla qualità diversa delle figliuole. Nel numero delle buone furono collocate Bresciani, Pitteri, Franco, Fiorenton, Valentini, Squerarol, Penso e Ginevra; le altre tutte restarono nel Luogo di correzione; ed il Signore diede il conforto che una misura sì forte e affatto improvvisa, la quale potea produrre del turbamento, riuscì con pace, e che le figlie rimaste sotto al castigo non s’inasprirono a questa scossa come temeasi molto di alcune, per essere al sommo ardite, ma si umiliarono tutte e proruppero in largo pianto, e fecero sperare un sincero ravvedimento.

[21] 3. Giugno [1815] – Dopo d’aver procurato invano ne’giorni scorsi, riuscì finalmente in oggi di por in opera un mezzo molto efficace per riformare l’Ospizio ormai ridotto in assai grave disordine, cominciandosi appunto in questa sera i SS. Esercizj dal (sic) zelantissimo sacerdote D. Gio. Batta Dassi della Chiesa di S. Bartolommeo. Fu grande il commovimento fin dall’introduzione, e se ne spera un gran frutto.

6. detto [Giugno 1815] – Mons.r Vicario di S. Bartolommeo Zender portatosi in questa mattina all’Ospizio ad informarsi dell’esito dei SS. Esercizj, e venuto a cognizione dei disordini ch’eransi nella Casa introdotti, e di alcune figliuole da lungo tempo lontane dai Sacramenti, pensò di abboccarsi con M.r Vicario Delegato Luciani, e di eccitarlo a destinare alla Casa medesima un Confessore straordinario. La Curia pertanto mandò a chiamar tostamente il Direttore del luogo onde avvertirlo della presa risoluzione. Questo improvviso annunzio gli riuscì di grande sorpresa, ma vi si sottomise colla dovuta docilità. Non può peraltro dissimularsi che fu assai strana la condotta in questo caso tenuta dal Vicario Zender nel portarsi a domandare direttamente un provvedimento al Superior Ecclesiastico senza prima conferire col Direttore, da cui inteso avrebbe più esattamente le informazioni sull’interno dell’Opera, sulle direzioni tenute per impedire i disordini, sui giusti motivi di non escludere in questo momento i Confessori ordinarj, e sulla risoluzione che avea già preso di provveder di un estraordinario color che lo avessero desiderato.”

8. 9bre [novembre 1815] — Supplica a S.M. l’Imperadrice d’Austria e Regina per caritatevole sovvenzione.

12. xbre [dicembre 1815] — Supplica a S.M. l’Imp. Francesco I. per essere sollevati dal peso dell’affitto pel Monro [Monastero] dell’Eremite, e dal pagamento [23] degli arretrati.

20. xbre [dicembre 1815] — Lettera della R. Prefettura che ricerca informazioni sul sistema disciplinare e stato economico dell’Istituto per base delle Superiori risoluzioni sull’implorato suffragio.

1816. 5. Genn.o — Lettera di S.E. il Sig.r Co. Governatore Goëss che accorda un acconto sulla sovvenzione già prossima a darsi da S.M.”

Queste ultime annotazioni nelle Memorie della Pia Casa sono un esempio dell’insistenza disperata dei fondatori e particolarmente di P. Marco perché il governo imperiale-reale aiutasse l’opera con l’esenzione o la riduzione degli affitti da pagare al Municipio di Venezia per l’occupazione dell’ex-monastero delle Romite. L’otterranno molto più tardi.

Intanto essi continuavano a proporre alla S. Sede, soprattutto tramite la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, oggi, per quanto riguarda il nostro Istituto e gli altri istituti e società, Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica-CIVCSVA, una forma o l’altra di riconoscimento ufficiale, che permettesse loro una sicurezza di vita, la speranza di continuità e una specie di ottenzione della personalità giuridica canonica ossia ecclesiale che favorisse anche un riconoscimento della personalità giuridica civile da parte dell’Impero d’Austria e del Regno del Lombardo Veneto. I Cavanis d’altra parte non avevano ancora l’intenzione di chiedere alla S. Sede di formare due vere congregazioni, una maschile e una femminile, anche se a volte usano questo termine; dato che ancora non disponevano di membri per le comunità rispettive, sebbene avessero dei collaboratori. Si vedrà poi quanto resisteranno alla S. Sede, essi e i loro successori, fino almeno al 1891, con altri tentativi anche più tardi per non prendere la forma di congregazione religiosa; essi volevano fondare due pie unioni di preti (con laici inservienti) e di pie donne maestre (e collaboratrici logistiche), ma senza voti.

Questa particolare supplica del 26 gennaio ha anche lo scopo di poter comprare, affittare o comunque ricevere per proprio uso edifici che erano stati incamerati dallo stato napoleonico del Regno d’Italia, e poi erano rimasti di proprietà dello stato (o rivenduti o messi all’asta a favore di privati) anche sotto la “cattolicissima” dominazione austriaca, nello stato del Lombardo-Veneto. La Chiesa però continuava a considerarli abusivamente posseduti dallo stato – qualunque fosse – o dai privati che li avessero comprati e quindi anche gli stessi organi di Chiesa e gli Istituti e le opere religiose dovevano chiedere il permesso alla S. Sede per acquistare, prendere in affitto o in altro modo arrivare a disporre di questi beni. Ciò valeva per immobili e mobili, specie oggetti di culto, e si doveva chiedere licenza caso per caso, cosa onerosissima.

“26. detto [gennaio 1815] — Supplica alla S. Sede per essere premuniti di facoltà onde accettare e richiedere opportuni Locali di ragion Ecclesiastica nella occasione di essere per avventura chiamati dal Governo ad istituire o dirigere in qualche altra parte della Città Scuole di povera gioventù sì maschile che femminile.

Questa Supplica fu dalla Sacra Cong.ne dei Vescovi e Regolari rimessa con Decreto 13. Febb.o 1816 alle informazioni di Mons.r Vicario Delegato di Venezia, e non si sa se vi abbia egli dato risposta”

Una grossa soddisfazione e un grande respiro l’ebbero i fratelli Cavanis nel febbraio 1816:

“28. Febb.o [1816] — Lettera della R. Delegazione che significa essersi accordato dall’Augusto Sovrano il suffragio di F.ni 2000 all’Istituto delle Scuole di Carità maschili e femminili, e sollecita le informazioni richieste con lettera prefettizia 20 Xbre dec.so.

5. Marzo [1816] — Rapporto che le rassegna.”

D’altra parte rimaneva per ora frustrato il loro programma e desiderio di veder garantita la continuità delle loro opere, con la fondazione di una o due congregazioni (sensu lato); infatti anche l’Austria, detta “cattolicissima”, non voleva veder fiorire nuovi istituti religiosi, volendo meglio controllare, mediante gli uffici civili, l’assistenza e la carità:

“18. Maggio — L’Ecc.so Gov.no rimettendo ad altro tempo [24] il versar sul progetto della proposta novella Congregazione a mantenimento perenne dell’Istituto, eccita però vivamente a proseguire la caritatevole impresa.”

Continua l’altalena abituale tra i segni di benevolenza sovrana e la dura resistenza della burocrazia imperiale, contro cui i fondatori e soprattutto P. Marco dovranno sempre lottare. Per essi questo dualismo della dominazione austriaca a Venezia rimase sempre sorprendente e incomprensibile.

“17. detto [agosto1816] — La R. Delegazione communica il tenore di un Sovrano Dispaccio con cui viene assicurato benignamente il pio Istituto della particolar Protezione di S.M., e si aggiunge la consolante notizia d’essersi incaricato il Governo a vegliare alla sua conservazione e progresso.

30. 7bre [settembre 1816] — Supplica al Direttor del Demanio per essere sollevati dal pagamento dell’affitto del Monro dell’Eremite, per cui già hanno rassegnato una istanza all’Augusto Sovrano nel giorno 12. xbre dec.so.

17. 8bre [ottobre 1816] — Insiste il Direttore medesimo a ripeterne entro giorni quindeci il pagamento, locchè pure significa la Ricevitoria Fiscale con Lettera 21. 8bre corr.e.

23. 8bre [ottobre 1816] — Supplica all’Ecc.so Gov.no per sospension degli Atti già praticati onde stringere al pagamento degli affitti dec.si, e per definitiva esenzione da tale aggravio.”

Analogamente, troviamo qui un esempio dello stesso dualismo di simpatia e gratitudine personale delle autorità locali, che riconoscevano la bontà dell’opera maschile e di quella femminile dei Cavanis, ma al tempo stesso le osteggiavano in pratica, dovendo seguire l’interminabile catena gerarchica della legge e del potere.

Al 1° gennaio 1817 risulta particolarmente interessante il proposito dei Fondatori di estendere la loro duplice pia opera in favore dei maschi e delle fanciulle ad altre parti della città di Venezia, probabilmente su scala di sestrieri:

“ [24] [1. Genn.o 1817] — Supplica al Sig.r Com.rio di Polizia del Sestiere di Dorsoduro per ottener col suo mezzo dalla I.R. Direzion Gen.le un autentico documento che attesti la di lei soddisfazione sull’estendersi in altre parti della città, come pur brama la Cong.ne Municipale, il nostro pietoso rifugio di caritatevol educazione di giovanetti e donzelle.

20. Gennajo [1817] — La I.R. Direzione Gen.le di Polizia significa il particolare suo aggradimento per l’asilo interinalmente accordato dietro alle sue insinuazioni alla povera Catterina Canali, ed aggiunge il favorevole sentimento con cui vien riguardata la nostra Pia Istituzione anche da S.E. il Sig.r Co. Governatore Gen.le.

3. Marzo [1817] — Il Sig.r Com.rio di Polizia del Sestiere di Dorsoduro riscontrando la surriferita supplica esprime il maggior sentimento di bontà e di favore della I.R. Direzion Gen.le riguardo all’Istituto, soggiungendo però che non essendo di sua competenza il promuovere da se stessa la dilatazion delle Scuole di Carità, conviene a tal uopo rivogliersi alla Delegazion Prov.le.

12. Maggio [1817] — Supplica a S.E. Governatore per esenzione dal pagamento cui furono richiamati li Direttori dell’affitto arretrato sul Locale dell’Eremite.

13. detto [Maggio 1817] — La Ricevitoria Fiscale di Finanze e Demanio inerentemente al gov.vo Decreto 26 Febb.o p.o p.o richiama a firmare [26] una scrittura di obbligazione per pagare in 4. rate la somma di £ 1086: 52 per affitti arretrati.

21. Maggio [1817] — Supplica al Direttor del Demanio per ottenere almeno la proroga di due mesi a cominciare il primo trimestral contamento.”

Una delle più grandi gioie e sorprese della vita di Antonio e Marco Cavanis fu senz’altro il dono fatto dal papa Pio VII del prezioso palazzo barocco Ca’ Corner della Regina, a Calle Regina a S. Cassiano (Sestiere di san Polo), affacciato sul Canal Grando. Il Papa pensava forse che i fondatori volessero trasferire la loro opera, soprattutto l’Istituto femminile, nello splendido edificio. Antonio e Marco Cavanis erano rimasti stupefatti ed esultanti che il papa avesse pensato proprio a loro. Soprattutto, sentivano che la loro opera cominciava a essere conosciuta ed apprezzata anche a Roma. Pareva ed era tuttavia impossibile per loro il trasferimento dell’opera femminile così lontano dalla loro base a Dorsoduro, S. Agnese, dove si trovava e avrebbe continuato a funzionare la loro Scuola maschile di Carità. Inoltre, il palazzo era troppo grande per un’opera così umile, per due sacerdoti così semplici e per la cura di ragazze del popolo, abituate a vivere in tuguri. Il riscaldamento sarebbe stato impossibile; gli affreschi e i quadri di carattere mitologico, pur bellissimi, non sembravano opportuni; e la manutenzione sarebbe stata difficile e costosa. Chiesero pertanto al munifico benefattore papa Pio VII di poter disporre del palazzo in altro modo, come si accenna più sotto nel testo delle memorie, sempre a favore della Pia Casa per la povere fanciulle, e ne ebbero dal papa totale licenza; essi allora in una prima fase affittarono i vari appartamenti in cui era diviso l’immenso edificio; in seguito lo vendettero, purtroppo in tempi in cui, nella Venezia tanto impoverita, il mercato degli immobili, e specie degli immobili di prestigio, aveva subito un collasso.

24. Maggio [1817] — Lettera dell’Em.o Card.l Consalvi che dichiara la generosa risoluzione presa dal S.P. Pio VII di donare a benefizio dell’Istituto delle Scuole di Carità, onde il rivolga a suo uso, il palazzo magnifico che possiede in Venezia.

3. Giugno [1817] — Lettera del N.U. Cav.r Lorenzo Zustinian al sud.o Em.o Card.le che rassegnando gli ossequiosi rendimenti di grazie dei Direttori per tanto dono, dichiara insieme i motivi per cui non possono convertire in uso direttamente dell’Istituto, ed aggiunge quindi l’istanza perchè la donazione si faccia in modo assoluto, sempre però a benefizio della Pia Istituzione.

Supplica delli Direttori medesimi al S. Padre sullo stesso tenore.”

Ancora sullo stesso tema, continua la corrispondenza, con il Papa, tramite il suo segretario di stato, Card. Ercole Consalvi, queste volte nella colonna di sinistra, quella delle normali annotazioni degli eventi e della corrispondenza:

“6. 7bre [Settembre 1817] — Lettera di S.S. Pio VII che accorda in dono nel modo il più libero ed assoluto, a benefizio delle Scuole di Carità, il Palazzo magnifico che possedeva in Venezia.

27. detto [Settembre 1817] — Lettere dei Direttori al S. Padre ed all’Em.o Card.l Consalvi in rendimento di grazie.

11. 8bre [Ottobre 1817] — Lettera cortesissima di riscontro scritta dal sud.to Em.o Card.le”

“1°. Aprile [1818] — Affittanza stipulata col Sig.r Co. Gaetano Martinelli di una Casa per commodo del pio Istituto.”

Non si hanno altri riscontri su questa casa; si può supporre che essa fosse adiacente al complesso monasteriale delle Romite, e quindi che i Padri e le Maestre avessero bisogno ancora di spazio. Si ha l’impressione di un aumento, di personale o di servizi.

Di seguito si riportano notizie particolarmente gradevoli; si intrecciano quelle che riguardano l’operazione che i fondatori questa volta svolgeranno con successo per avere l’autorizzazione all’istituzione di due Congregazioni, una maschile e una femminile, ma qui si tratta soltanto di quella femminile, dato che stiamo leggendo le memorie dell’opera per la fanciulle; e le notizie felici, attese da tanto tempo, dell’intervento della Casa imperiale per pagare gli affitti arretrati del monastero delle Romite, di proprietà del demanio, e dell’impegno dello stessa Casa di pagare d’ora in poi l’affitto. Per P. Marco, soprattutto, ma anche per P. Antonio, quest’ultima notizia deve essere stata una vera benedizione, che permise loro di tirare il fiato.

“27. Luglio [1818] — Supplica a S.E. R.ma M.r Patriarca Fran.co M.a Milesi che rassegna il Progetto di una

Congregazione da istituirsi di Maestre delle Scuole di Carità.

12. Agosto [1818] — La R. Delegazione communica la Sovrana Risoluzione 14. Giugno dec.so con cui vengono accordati 600 fiorini per soddisfar gli affitti arretrati, e l’annua somma di F.ni 200 per supplire agli affitti correnti, da corrispondersi dal Tesoro dello Stato, finchè siasi ritrovato un apposito Fondo per sostenere tale dispendio.

22. detto [Agosto 1818] — Si communica in copia a S.E. R.ma M.r Patriarca Milesi la Lettera surriferita a maggiore appoggio della di lui caritatevole mediazione per sortire felicemente l’approvazion del Progetto rassegnato li 27. luglio dec.so per provvedere alla stabile sussistenza dell’Istituto.

14. 7bre [1818] — Copia della Lettera con cui da S.E. R.ma M.r Patriarca Milesi fu accompagnato favorevolmente al Governo il suddetto Progetto.

12. 8bre [1818] — S.E. R.ma M.r Patriarca Milesi rimette in copia la risposta avuta dall’Ecc.so Gov.no alla Lettera con cui fu rimesso il Progetto surriferito. Essa è piena di sentimento il più favorevole all’Istituto, ed esprime non abbisognare per ora di nuove approvazioni Sovrane. Quanto alla parte che riguarda le Scuole femminili osserva mancare il Fondo sicuro di sussistenza che reputa indispensabile [29] per formarne un’apposita Corporazione, si mostra disposto a promuoverla quando ciascuna Maestra portasse seco il proprio mantenimento, ed esprime il desiderio che tali Maestre si dedicassero ancora all’assistenza degli Ospitali.”

Questo certamente non stava nel progetto originario dei fondatori. Si trovava invece anche questo apostolato in favore dei malati, del resto preziosissimo, anche tra le Figlie della Carità Canossiane. I Cavanis dovettero senza dubbio accettare la richiesta del Patriarca, almeno in principio.

“14. 8bre [1818] — Si rassegna a M.r Patriarca il riscontro che pienamente accogliendo ciò che dall’Ecc.so Gov.no venne proposto, dichiara che d’ora innanzi non saranno ammesse le postulanti quando non sian provvedute pel loro mantenimento, e promettendo di passar di concerto colla Marchesa Canossa per addestrare le Maestre ad esercitare gli uffizj della lor carità anche verso le inferme raccolte negli Ospitali.

“14. detto. [Ottobre 1818] — Copia di Lettera con cui M.r Patriarca Milesi trasmise tali dichiarazioni al Governo.”

“ 1819. 22. Genn.o — Supplica alla S. Sede per ottener facoltà di ricevere e di richiedere o ad uso o in dono, e far acquisto di Locali di ragione Ecclesiastica o appartenenti ad altre Pie Fondazioni, con facoltà di ridurli a quella forma che fosse per convenire; e questa grazia non solo per benefìzio dell’attuale Istituto, ma anche in riguardo a pubbliche Scuole che fossero per assumere i Direttori, e sempre ad oggetto di provvedere alla educazion dei figliuoli sì dell’uno che dell’altro sesso. Inoltre per ottener la conferma dell’uso [30] attualmente in corso della Chiesa e Mon.ro dell’Eremite.”

Tale richiesta alla S. Sede dipende dal fatto che i beni incamerati dal demanio del governo napoleonico del Regno d’Italia agli Istituti Religiosi soppressi, per la S. Sede continuavano ad essere de jure, se non de facto, di proprietà della Chiesa; essi non potevano quindi essere acquistati o tenuti comunque in possesso o in uso da altri, stati, comuni o persone private. Anche gli enti ecclesiali dovevano quindi domandare licenza a Roma, per non incorrere in sanzioni (scomuniche ecc.). Pare che per il caso delle Romite, i Cavanis avessero bisogno di conferma dell’uso in atto, forse perché non avevano chiesto la licenza al momento dell’entrata in uso per affitto.

Nei testi che seguono, continuiamo a seguire i vari passi che i Fondatori compiono per assicurare – come in parte avverrà – che le due Congregazioni, maschile e femminile, siano approvate dalla S. Sede (in realtà saranno approvate a livello di Patriarcato di Venezia) e dall’impero austriaco.

25. detto [febbraio 1819] — Supplica all’Augusto Sovrano per sollecitare la sua Suprema Sanzione al Progetto della proposta novella Cong.ne per provvedere alla stabile sussistenza dell’Istituto.

27. detto [febbraio 1819] — Mons.r Arcivesco.vo D. Carlo Zen significa di aver umiliato al S. Padre la supplica 27 genn.o dec.so e sperarne un favorevole esaurimento.

16. Marzo [1819] — Supplica al S. Padre che profittando della favorevole circostanza dell’essersi l’Augusto Sovrano portato a Roma, implora che Sua Santità si degni di stabilire in un abboccamento la erezione canonica della proposta Cong.ne, implorando ancora che venga determinata la forma dell’abito conveniente.

[31]

7. Agosto [1819] — Mons.r Arcivescovo Zen in relazione alla Supplica presentata al S. Padre in data 27. genn.o dec.so riscontra che l’approvazion delle Regole della novella Congregazione dipenderà dalla S. C.[ongregazione] de’ Vescovi e Regolari cui fin sulle prime doveano essere indirizzate; che quanto agli acquisti di Beni Ecclesiastici si ricorra singulis vicibus, e che per ciò che concerne le Mansionerie, i pii Legati, e la sepoltura nella Chiesa o nel Coro ricorrasi all’Ordinario. Aggiunge infine riguardo al tenore dell’altra Supplica 16. Marzo (dal sud.o Prelato non intesa nel suo vero senso) aver riputato inutile il pregare Sua Santità a far parola dell’Istituto coll’Imperatore, poichè ben si avvide egli stesso in un colloquio con lui avuto, essere al maggior segno disposto per favorirlo.

20. Agosto [1819] — M.r Arcivesc.o Carlo Zen rimette la Supplica (si crede quella 16. Marzo che tratta sulla erezione della Congr.ne) per informazioni a M.r Patriarca, ch’era in quei giorni vicino a morte.

21. detto [Agosto 1819] — La R. Delegazione communica il tenore del Sovrano Dispaccio che accorda all’Istituto delle Scuole di Carità la Suprema Sanzione, ed assente alla unione dei Maestri e Maestre in apposita comunità”.

Si è voluto qui mettere in evidenza con il grassetto questa importante annotazione, che mette sullo stesso livello le due comunità maschile e femminile, e ne fa anche una comunità sola, al singolare. Si noti anche che il dispaccio governativo imperiale non parla di congregazioni ma di “unioni in apposita comunità”.

11. Settembre [1819] — Mons.r Vicario Gen.le Luciani communica la notizia della Sovrana Sanzione accordata da S.M. all’Istituto, e del suo Beneplacito per la unione dei Maestri e Maestre in Comunità.

“13. detto [Settembre 1819] — Rescritto Pontificio che conferma con Apostolica Autorità l’uso della Chiesa e Mon.ro dell’Eremite a favore dell’Istituto.

12. detto [Settembre 1819] — Supplica a S.E. R.ma M.r Patriarca Fran.co M.a Milesi per ottenere la Pastorale autorizzazione ad istituire la proposta Cong.ne delle Scuole di Carità già approvata nel Piano dal surriferito Sovrano Decreto.

13. detto [Settembre 1819] — Decreto Patriarcale che impartisce amplissima facoltà di dar mano alla fondazione, e dispor quanto rendesi necessario per averne poi la Canonica istituzione.”

Ecco il testo originale del decreto patriarcale che ci sia concesso, per una volta di eiprodurre nell’originale in latino:

FRANCISCUS MARIA MILESI

MISERATIONE DIVINA

PATRIARCHA VENETIARUM DALMATIAEQUE PRIMAS

S. C. R. A. MAIESTATIS AB INTIMIS CONSILIIS STATUS

A SUPREMIS DIGNITATIBUS

CORONAE REGNI LONGOBARDI VENETI CAPPELLANUS

R. ORDINIS LEOPOLDI MAGNAE CRUCIS EQUES

ETC. ETC.

  Dies tandem pervenit qua Deus, a quo bona cuncta procedunt, religiosissimi imperatoris et regis nostri Francisci I animum movit atque induxit, ut decreto suo diei XIX junii proxime praeteriti dato Perusiae, quemadmodum ex litteris excelsi gubernii sub die VII augusti ult. elapsi curren. anni MDCCCXIX n.° 23784/3163 P. ad nos missis reperimus piam ac perutilem Institutionem scholarum charitatis a perillustribus fratribus comitibus de Cavanis, presbyteris pietate, doctrina, et zelo animarum clarissimis pro hac regia civitate propositam et adhibitam approbandam ac stabiliendam fore et esse statueret ac confirmaret. Nos igitur, qui sicuti pastoralis est officii nostri, ad religionis incrementum et ad bonum gregis sollicitudinibus nostris commissi promovendum, intenti semper et inclinati sumus, statuta ac regulas Institutionis huiusmodi, sub diebus XXVII et XIV iulii et octobris (75) elapsi anni MDCCCXVIII nobis jam reverenter submissas et a nobis serio diligenterque perpensas, perutilesque evidenter perspectas, admittendas, laudandas atque approbandas dicimus, decernimus et declaramus, prout hujusce nostri decreti tenore admittimus, laudamus et approbamus, prelaudatis fratribus de Cavanis facultatem impertientes ut fundamenta Congregationis Sacerdotum Saecularium sub auspiciis s. Josephi Calsanctii, et mulierum sub protectione s. Vincentii a Paulo ad informandam intelligentiae ac pietatis spiritu iuventutem, puerorum praesertim et puellarum in egestate laborantium, iacere incipiant, et libere prosequi valeant.

   Volumus autem et mandamus, quod in duabus Congregationibus Scholarum Charitatis praedictis (fundatae stabiliter si quae fuerint) tam sacerdotes in una, quam mulieres in altera domo communem vitam perducere, educationem charitative et gratuito respective semper praebere, dictas regulas a praefatis sacerdotibus de Cavanis exhibitas, et a nostris sanctionibus sic confirmatas in omnibus observare, ac nobis et successoribus nostris in spiritualibus immediate subjicere debeant semperque teneantur; interdictis tamen in istiusmodi scholis semper manentibus quibusque philosophiae institutionibus, nec non mulieres ab obligatione visi-andi in noxocomiis ac adiuvandi infirmos liberae et solutae continuo censeantur. Praelaudatis sacerdotibus fratribus de Cavanis tandem committimus, ut quandocumque Deo adiuvante, ob fundationem istius pii et perutilis Instituti omnia necessaria atque opportuna parata et disposita fuerint, nos certioratos reddant pro dictarum Congregationum, ut supra, canonica fundatione et erectione facienda.

   In quorum fidem.

      Datum Venetiis ex palatio patriarchali

die Iovis XVI rm. septembris MDCCCXIX

                       L. LUCIANI Archid. vic. gen.lis

                   FORTUN. MRA ROSATA cancellar. pat.chalis.

Ecco una traduzione del testo integrale del decreto suddetto: la traduzione si può prendere a pagg. 198-99 del libro L’Ospizio arde ecc. Fare scansione, completare e controllare sul latino.

Si noti che “dispor quanto rendesi necessario per averne poi la Canonica istituzione” consistette principalmente nell’istituzione della prima comunità Cavanis maschile nella “casetta”, anche se già da alcuni anni esisteva in modo informale un piccolo gruppo di aspiranti riuniti in un tugurio o baracca nel cortile grande dell’Orto, senza che si pretendesse considerarlo o chiamarlo comunità. Come si scrive nella biografia del P. Pietro Spernich, fu questi che, facendo richiesta per essere ammesso, nel 1817, divenne uno dei primi compagni e discepoli dei fondatori. Bisogna anche dire che fu lui il primo aspirante o candidato Cavanis ad abitare nella casupola che c’era a fianco dell’orto dell’opera Cavanis, con il maestro don Pietro Loria e i giovani Domenico Todesco e Giovanni Greco, dal 14 maggio 1817, tre anni prima dell’inaugurazione della prima vera comunità Cavanis.

A seguito di questo decreto patriarcale, nell’Istituto maschile il 27 agosto 1820 avvenne l’inizio della vita comunitaria nella “casetta”, in occasione della festa di S. Giuseppe Calasanzio, patrono dell’istituto appena nato. P. Antonio lasciò dunque il suo palazzo per andare ad abitare con la sua nuova piccola comunità nella nuova modestissima e umida abitazione. P. Marco restò invece nella casa paterna con la madre, per assisterla sino alla morte, che avvenne molto più tardi, il 13 maggio 1832. Nell’Istituto femminile, invece, esisteva già la comunità di maestre (e di ragazze “educande”, ma queste non facevano parte della comunità), quindi la comunità Cavanis femminile era già esistente da tempo, prima di quella maschile, il che è notevole ma raramente, forse mai, ricordato.

“1820. 21. Genn.o [Gennaio 1820] — Supplica al S. P. Pio VII. che, rassegnando notizia del Sovrano e Patriarcale Decreto che autorizzando la Fondazione, implora un grazioso Rescritto in cui si dichiari: 1) il Beneplacito di Sua Santità [33] riguardo alla Fondazione medesima; 2) la facoltà di piantarla anche in altre Diocesi sempre di concerto col resp.vo Ordinario da cui si debba dipendere come da principal Superiore; 3) l’autorizzazione di portare ovunque nell’abito qualche particolare distintivo che approvato fosse in ciascheduna Diocesi dal respettivo Ordinario.

21. Gennajo [1820] — Altra Supplica al S. Padre Pio VII in cui esponendosi essere cosa facile che mentre stà per introdursi in Venezia un numero grande di scuole per giovanetti e Donzelle d’ordine di S.M., il Direttore delle medesime desideri di valersi per tal oggetto dell’opera del pio Istituto, s’implora di essere autorizzati a richiedere per tale esigenza e ridurre quei Locali i quali sembrassero convenienti, salvi quelli che fossero attualmente occupati dai loro legittimi possessori.

4. Marzo [1820] — Mons.r Arcivescovo Zen a cui si sono rimesse le due Suppliche surriferite significa essere necessario che Mons.r Vicario informi sulle medesime, e parimenti ricorda le commissioni già demandate con Lettera 20 Agosto 1819.

26. Marzo [1820] — Lettera nostra in risposta alla controscritta di M.r Arcivescovo Zen, in cui si avverte che Mons.r Vicario non ci è riuscito d’indurlo a dargli nemmeno privatamente le informazioni richieste, perché teme di compromettersi.

Durante marzo e aprile di quest’anno 1820 la regia delegazione, l’ispettore alle scuole e altre ripartizioni e uffici pubblici tormentano l’Istituto femminile con richieste continue di informazioni e richieste di assicurazioni di obbedienza alle leggi. I fondatori rispondono come qualmente. La lettera principale è la seguente:

“29. Aprile [1820] — La R. Delegazione inculca a nome dell’Ecc.so Presidio la necessità di osservar con ogni rigore nell’Istituto li metodi d’insegnamento prescritti dai Sovrani Regolamenti, senza poter deviarne in minima parte, facendo pure riflettere che la sussistenza dell’Istituto e della protezione accordata da S.M. unicamente dipende, secondo la Risoluzione Sovrana 8. Luglio 1819 dalla esatta osservanza del sistema e metodo d’insegnamento prescritto per tutt’i pubblici Stabilimenti di educazione; ed esigendo infine un riscontro ed una espressa [35] assicurazione intorno alla piena osservanza dei Sovrani voleri, dichiara che su tal punto starà il R. Delegato vegliando colla massima attenzione e con imparziale rigore.”

Più gradevole la lettera successiva:

“5. Maggio [1820] — La R. Delegazione communica il tenore di sovrana Risoluzione con cui si accorda all’Istituto un suffragio di fiorini 3000 e nuovamente inculca la rigorosa osservanza dei sovrani scolastici Regolamenti.

17. detto [Maggio 1820] — Rapporto alla R. Delegazione che riscontrando l’ordinanza 29. Ap.le dec.so assicura della disposizione dell’Istituto ad uniformarsi nel miglior modo possibile alla Sovrana Volontà, senza insistere in particolari sistemi d’insegnamento: indica le innovazioni che si son fatte; significa che dopo lunga conferenza tenuta con S.E. Governatore e col Cons.r Passy che presiede alla pubblica istruzione, venuti insieme a visitare le Scuole, restarono essi appieno convinti che gl’Istitutori non altro cercano che il vero bene della povera gioventù da loro assistita gratuitamente, e con molto frutto; e prega per la continuazione del grazioso favore finor benignamente accordato.

[36] 24. 9mbre [Novembre 1820] — L’I.R. Isp.re delle Scuole Elementari significando il tenore della recente Risoluzione Sovrana che affida l’insegnamento Elementare e Ginnasiale agl’Istitutori Fratelli, salva l’osservanza dei veglianti Regolamenti, dichiara quanto alle Donzelle che frequentano l’Istituto poter bastare l’insegnamento degli oggetti Elementari e dei più communi femminili lavori.

30. detto [Novembre 1820] — La R. Delegazione rimette in copia il surriferito Sovrano Decreto.

12. xbre [Dicembre 1820] — L’I.R. Direttore Gen.l de’ Ginnasj porge una eguale notizia.”

Così come per i ragazzi poveri, educati e istruiti dai padri Cavanis nelle Scuole di Carità maschili, il Governo austriaco non voleva che si arrivasse al liceo e sopportava soltanto il ginnasio, e i Cavanis dovettero lottare per un ventennio su questo problema, così per le Scuole di Carità femminili si insisté a tutti i livelli (vedi sopra i tre successivi dispacci) che le ragazze dovevano ricevere assolutamente il minimo possibile d’istruzione.

“3. Maggio [1821] — Supplica a S.E. R.ma M.r Giovanni Ladislao Pyrker per alcune facoltà relative a celebrazione di Messe, amministrazione di SS. Sacramenti, Esposizione della SS. Eucaristia nell’Istituto delle Scuole femminili di Carità.

19. detto [Maggio 1821] — Concesse per anni tre.

19. Giugno [1821] — Supplica al sud.o M.r Patriarca perchè si degni scortare all’Augusto Trono un Ricorso diretto ad indurre S.M. all’acquisto del Palazzo donato dal S. Padre per benefizio dell’Istituto.”.

Termina con questa richiesta del 19 giugno 1921 questo quaderno di memorie. Non è chiaro perché la sua redazione sia stata interrotta, mentre l’opera continuò per altri 42 anni, e delle memorie continuate fino al 1863 sarebbero state preziose. Dopo una breve memoria sul rapporto tra i Cavanis e la santa marchesa Maddalena di Canossa, si ritornerà a una cronaca delle Scuole femminili di Carità ricostruita sulla base delle cartelle o fascicoli di carte varie relative a questo Istituto.

4. I venerabili Cavanis e Santa Maddalena di Canossa

Negli inizi della loro opera femminile i fratelli Cavanis dovettero adattarsi ad assumere, come prime guide delle fanciulle, qualche pia donna. Tale fu quella Bona Bussolina, di cui si è detto. Non era certo l’ideale ed essi aspiravano, quindi, a un personale qualificato spiritualmente e pedagogicamente. È forse anche per questa ragione che tra le prime maestre troviamo quattro ex-religiose, fra le molte che la soppressione napoleonica aveva cacciato dai propri conventi o monasteri. Acquisto prezioso, per la sua grande pietà e la sua capacità, fu invece Catterina Fabris, entrata quasi trentenne, quando l’ospizio era ancora a S. Vio. In seguito fu più volte priora, ossia superiora alle Eremite. Volendo, dunque, provvedere a una migliore qualificazione delle maestre, i Padri Cavanis vi pensarono per tempo, e si rivolsero, a questo scopo, alla esperienza e al fine tatto pedagogico della marchesa Maddalena di Canossa.

4.1 Maddalena di Canossa è chiamata a Venezia

Maddalena di Canossa aveva iniziato il suo apostolato tra le fanciulle povere e abbandonate di Verona, 125 km a ovest di Venzia, fin dal 1801. Nel 1808 riuscì ad ottenere dal demanio l’ex monastero dei SS. Giuseppe e Fidenzio, e l’8 maggio vi entrava con le prime compagne e le fanciulle raccolte. In quello stesso anno a Venezia i Cavanis davano inizio alla loro opera femminile, che nello spirito e nelle finalità si avvicinava moltissimo a quella della Canossa. Essi entrarono in contatto con la santa donna tramite conoscenti comuni come la famiglia Guizzetti, di origine bergamasca ma residente a Venezia, P. Luigi Mozzi, il missionario apostolico canonico Luigi Pacifico Pacetti, il veronese P. Pietro Leonardi.

Sulla data dell’arrivo della Canossa a Venezia, senza dubbio con una o più compagne, P. Marco non dice nulla, ma ci soccorre opportunamente un’altra lettera della medesima alla Durini, scritta in data 8 maggio 1810. Si ricava che dovette giungervi la sera del venerdì 11 maggio 1810, in tempo utile per partecipare il giorno seguente, insieme con altre dame, al trasloco delle fanciulle da S. Vito allo Spirito Santo. Maddalena si fermò a Venezia per due mesi, ospite della dama Loredana Priuli, il cui palazzo era a breve distanza da quello dei Cavanis. Ogni giorno, o quasi, partendo di casa passava davanti al palazzo dei Cavanis e si recava al monastero dello Spirito Santo per avviare l’opera, sorvegliare, far catechismo, aiutare in tutti i modi. A proposito di questo prezioso contributo dato all’istituzione, P. Marco scrive: «[…] s.e. la sig.ra marchesa Maddalena de Canossa […], essendo alla direzione di un simile istituto in Verona, erasi per sentimento di carità portata in Venezia per mettere in buon sistema la nostra povera casa, al qual oggetto trattennesi lungo tempo, e con somma piacevolezza si rese amabile a tutti e riuscì di comun edificazione».

Durante questo soggiorno la Canossa non attese solo all’opera femminile Cavanis, ma, per ordine di don Luigi Pacifico Pacetti di Verona (non si sa a che titolo), si interessò pure di costituire a Venezia un gruppo di dame ospedaliere sul tipo di quelle di Milano (59). La sua attività quindi passava tra il monastero dello Spirito Santo e il vicino ospedale degli incurabili, divenuto ospedale civile. Finalmente, dopo due mesi, sulla metà di luglio poteva ritornare a Verona.

L’anno seguente Loredana Priuli la informava per lettera che i Cavanis erano costretti a lasciare il monastero dello Spirito Santo per passare in quello delle Eremite a S. Trovaso. Il 16 giugno ella si diede premura di scrivere a P. Antonio alcuni consigli, pieni di saggezza e di senso pratico. Sulla fine di settembre, la medesima Priuli conduceva a Verona altre due maestre da preparare per l’opera dei Cavanis, perché poi le riconducesse a Venezia. Nella primavera seguente essa ritornò nella città lagunare e l’11 aprile 1812 entrava nel convento delle Eremite: «Giunse in questo giorno – scrive ancora P. Marco nelle citate Memorie della pia casa – all’ospizio s.e. la sig.ra marchesa de Canossa, conducendo seco due maestre pel corso di varj mesi educate nel suo orfanotrofio di Verona. Si trattenne poi ella stessa fin all’ultimo giorno del seguente luglio nel locale dell’Eremite, e ridusse l’opera alla miglior disciplina. Partì poi nel giorno p.mo di agosto [1812], e si trasferì alla Croce (a Sant’Andrea) per instituire le Figlie di carità. Vi si era quindi trattenuta, questa seconda volta, per quasi quattro mesi, occupandosi specialmente della formazione spirituale delle maestre, e di tutto l’andamento della casa; facendo vita comune, prestandosi per la sorveglianza, tenendo allegre le fanciulle, radunando nelle domeniche anche ragazze adulte esterne.

Le relazioni dei fratelli Cavanis con la Canossa continuarono anche in seguito con reciproca edificazione e stima. P. Casara afferma che fu specialmente P. Marco a mantenere questa santa relazione, cercando consiglio e talora conforto nelle sue parole. Ma si sa che egli si interessò delle opere di lei, e che si rivolse alla collaborazione delle figlie della carità di S. Lucia per la formazione di altre maestre delle proprie Scuole di Carità. La Canossa dovette concepire di lui una grande stima, soprattutto vedendo con quanta fede e quanto spirito di sacrificio si era dedicato alla causa della gioventù.

Testimoni della stima che la Canossa nutriva per P. Marco furono le figlie della carità canossiane, alcune delle quali se ne ricordavano ancora nel 1853, quando P. Marco morì, ed esse vennero a vederlo, a fare le condoglianze al fratello e agli altri padri. P. Casara ricorda nel diario: «Le Figlie della Carità, udita la nuova della sua morte, benché n’abbian sentito vivo dolore, pure soggiunsero che Gloria Patri e non Requiem esse gli dicono poiché n’andò certo in Paradiso anche con le ciabatte. Ed avvi, tra esse, varie che il conosceano molto, e aveano udito il concetto che ne aveva la santa lor Fondatrice, marchesa Canossa, che lo solea nominare il mio Santo». Maddalena di Canossa, coetanea di P. Marco come si diceva, era già morta il 10 aprile 1835. 

Non fa perciò meraviglia se a lui e al fratello, in vita, Maddalena «chiedeva più volte i consigli di prudenza e sapienza pieni, e con riverenza li riceveva, e li eseguiva volonterosa». Da parte loro i fratelli Cavanis corrisposero con una stima ancora maggiore e veramente straordinaria; e, come ci fa fede P. Casara, ambedue ne parlavano con grande venerazione. A conferma ricordiamo che tali erano i sentimenti che P. Marco dimostrò commentando la notizia della di lei morte. Più eloquente ancora è il fatto che il giorno 11 dicembre 1850, passando per Verona di ritorno da Milano, egli volle visitarne la tomba a S. Zeno, ed ebbe dalla superiora di quella casa le regole dell’Istituto, alcune reliquie appartenute alla marchesa e un ritaglio del velo che le era servito sino alla fine della vita.

È molto interessante il commento conclusivo per punti che P. Aldo Servini tesse sul tema dell’influsso reciproco tra queste sante persone, in particolare tra P. Marco e la Canossa, e tra le loro istituzioni:

1) I due Istituti, della Canossa a Verona e dei Cavanis a Venezia, nascono in identiche contingenze di sofferenza storica.

  

2) Lo stesso fine anima i due Istituti, la carità, ricordata da entrambi anche nel nome.

3) In ambedue nasce quasi contemporaneamente, e indipendentemente, l’idea della scuola come mezzo di elevazione della classe più colpita dai traumi morali della miseria e dell’ignoranza.

4) La permanenza a Venezia e nell’ospizio dei Cavanis è per la Canossa un’esperienza determinante per l’orientamento che essa darà alla sua istituzione. È vero che tale orientamento risente nella sua genesi gli influssi molteplici di persone e fatti dell’ambiente veneziano, e non solo di esso; ma è anche vero che non si può escludere che una delle componenti passi per i Cavanis. Non ci sembra senza significato che a Venezia e non a Verona si sia maturato il vasto programma concepito dalla Santa per la sua Congregazione: scuole, ospedali, dottrine.

5) Non è tuttavia sempre facile definire in concreto e in termini precisi i limiti del reciproco influsso Cavanis-Canossa; e ciò tanto più se si tenga conto dell’alta stima che essa godeva presso di loro, e nel contempo della abilità con cui teneva loro nascosti i suoi progetti. Ciò premesso, passiamo a qualche caso pratico. Tra gli scopi comuni ai due istituti troviamo, accanto alla cura delle fanciulle povere e abbandonate e alla scuola, gli impegni di far catechismo nelle parrocchie, e di accogliere per alcuni giorni quelle donne che desiderassero fare gli esercizi spirituali. A noi sembra che nella genesi di queste due idee, e in particolare per quella degli esercizi, sia abbastanza evidente l’apporto dei Cavanis. Questi viceversa si richiamano esplicitamente agli esempi della Canossa, quando alle loro maestre assegnano anche l’obbligo di accogliere nell’istituto ragazze di campagna, per addestrarle a diventar buone maestre nei loro paesi. Altrettanto certo è che dalla medesima essi ripetono la prassi di non accettare alcuna postulante all’istituto, se non porti con sé i mezzi della propria sussistenza.

6) Da ultimo notiamo come la formazione spirituale e pedagogica delle maestre delle Scuole di Carità Cavanis si attui e approfondisca non solo all’ombra dei due fratelli, ma anche per diretto apporto della Canossa, mettendo così le premesse per una futura fusione dell’Istituto con quello canossiano.

Per la verità, parlare di fusione sembra eccessivo, si può parlare piuttosto di confluenza per esaurimento dell’Istituto femminile Cavanis. I Cavanis non erano riusciti a formare un Istituto femminile che avesse una sua consistenza e la possibilità di diventare una congregazione religiosa autonoma. In particolare non avevano trovato o non erano riusciti a formare persone adatte al suo governo. Basta pensare al fatto che essi stessi avevano bensì il progetto di fondare una congregazione all’inizio, e redassero un piano per la comunità femminile, e lo fecero approvare dal Patriarca di Venezia e dal governo imperiale austriaco nel 1818-19; ma poi essi stessi lasciarono cadere la cosa e non chiesero alla S. Sede nel 1835, con il famoso viaggio a Roma di P. Marco, di approvare anche l’Istituto Femminile come Congregazione religiosa a livello di diritto pontificio. Durante gli anni successivi all’erezione canonica dell’Istituto maschile, quello femminile continuò a vivere, senza espandersi in alcun modo, in totale dipendenza da P. Marco, e poi da P. Casara, indebolendosi gradualmente e perdendo espressione.

Prima di proseguire la cronaca dell’Istituto femminile Cavanis, dal 1821 in poi, per quello che sarà possibile, essendo terminato il quaderno delle Memorie della Pia Casa, scritto a mano di P. Marco, sarà bene trascrivere alcuni testi che descrivono la vita della casa, delle giovani e delle maestre, propri di questo primo periodo, dal 1808 al 1821.

1.4.2 Nuove notizie sull’Istituto femminile e il suo regolamento inviato dai fratelli Cavanis alla Congregazione di Carità (statale) di Venezia il 25 aprile 1810.

Il 10 gennaio 1810 la Congregazione di Carità passava ai Cavanis in copia conforme la lettera del prefetto Galvagna, e il p. Marco rispondeva con la relazione del 25 dello stesso mese. Il Galvagna non fu ancora soddisfatto, e, tramite sempre la suddetta congregazione, il 20 marzo faceva chiedere un ulteriore supplemento di notizie: egli voleva conoscere «non solo le regole generali per l’istruzione delle figlie della città, ma anche il regolamento disciplinare interno per le ammesse nella casa di ricovero […], il modo preciso con cui questo stabilimento viene presentemente diretto e sostenuto, e quali siano le donne a cui ne è ora affidata l’istruzione e l’educazione»106.

Il p. Marco stese con grande pazienza (si tenga presente che il fratello era ancora ammalato e tutto il peso dei due istituti gravava sulle sue spalle) anche questa relazione e i regolamenti richiesti; vi allegò un attestato del parroco Ferrari, e inoltrò il tutto in data 25 aprile.

Qui riportiamo questo documento, omettendo però l’allegato. In esso il p. Marco risponde punto per punto alle domande poste dal prefetto, esponendo: a) le regole generali per le scuole; b) il regolamelo interno per le fanciulle ricoverate; c) chi sono le donne a cui è affidata l’educazione delle fanciulle.

A proposito di questo documento osserviamo come i Servi di Dio si dimostrino preoccupati assai più di salvare le anime delle fanciulle, che di apparire originali nei metodi. Essi infatti affermano ripetutamente di ispirarsi al Regolamento delle scuole di carità per le povere figlie di Milano, composto dal p. Felice De Vecchi. Del resto un semplice confronto mette in evidenza che il testo dei Cavanis ripete quasi alla lettera le regole suddette. Era comunque anche questo un accorgimento prudenziale, necessario in tempi non certo favorevoli a iniziative da parte del clero. Se, infatti, — pensavano essi —, quel regolamento andava bene a Milano sotto gli occhi del governo nella capitale del Lombardo-Veneto, sede del Vicerè, a maggior ragione doveva andar bene a Venezia.

Né minore prudenza ci sembra dimostrare il p. Marco in questo rapporto, evitando di far conoscere i particolari che regolavano la vita quotidiana dell’ospizio, quali ci risultano invece da una minuta rimasta purtroppo incompleta: se bisognava pur dire quello che era richiesto dalle autorità, bisognava anche evitare il pericolo di dir troppo, specialmente con un prefetto come il Galvagna, che con la tempesta delle sue richieste di informazioni aveva dato l’impressione di essere tutt’altro che favorevole all’istituzione.

Finalmente la pazienza e la prudenza del p. Marco ebbero il premio: il Galvagna rimase persuaso della dirittura dei Cavanis e della bontà della loro opera: e ne diede prova sia nella relazione che egli spedì al ministro dell’interno, come vedremo, sia nell’occasione della proibizione della questua in città.

4.2 Lettera di accompagnamento

Alla Cong.ne di Carità di Venezia

Chiamati li Fratelli Cavanis da questa Cong.ne di Carità col suo foglio 20. marzo dec.so n° 776 a rispondere ad alcuni quesiti relativamente alle Scuole Pie che bramano istituire, non meno che riguardo alla Casa di ricovero che hanno già aperta a favor delle povere abbandonate Donzelle, presentano essi nell’annesso Allegato A le Regole Generali per le Scuole medesime, e nel Foglio B le discipline interne per le fanciulle nell’istituita Casa di ricovero radunate, e l’indicazion del modo con cui questo Stabilimento viene presentemente diretto e sostenuto.

Quanto poi alle Donne a cui è or affidata l’ispezione e l’educazione delle raccolte Donzelle, ch’è l’ultimo de’ proposti quesiti, rassegnano che due son le maestre attuali, l’una delle quali si chiama Bona Bussolina, l’altra Catterina Fabris, e che ambedue sono abilissime a sostenere l’uffizio di caritatevol educazione cui furono destinate, locchè pienamente risulta dall’annessa attestazione del Parroco marcata C.

Esaurite per tal modo tutte le fatte ricerche, non resta alli ricorrenti Frat.li se non che ripetere la sincera protesta del più vivo loro interesse per attendere alla caritatevol coltura della povera gioventù abbandonata, oggetto importantissimo e sacro cui son vivamente dalla Religione animati, e per cui si prestano di buon grado con tutte le loro forze e col sagrifizio ancora il più laborioso delle loro persone. [Grazie.]

25. Aprile 1810.”

4.3 “Regole generali per le Scuole di Carità

Sarà ciascuna di queste Scuole eseguita da due Maestre di età soda e di conosciuta saviezza e capacità, che non abbiano con sè ne’ marito, ne’ figliuoli, ond’esser più libere ad adempirne i doveri, e prese insieme sieno abili ad insegnare ogni maniera di lavori femminili, ed ancora a leggere e scrivere, e un po’ di conti.

La Scuola si terrà tutti i giorni indispensabilmente mattina e dopo pranzo: nell’Estate sarà alle ore otto della mattina; e nell’Inverno alle otto e mezza fin verso il mezzo giorno; al dopo pranzo nell’Estate alle tre ore, nell’Inverno alle due fino a mezz’ora prima di sera; e la Festa ancora v’interverranno quelle figlie che lasciate ai parenti si dissiparebbono, e perderebbono (sic) in tal giorno quanto hanno profittato nella settimana; non si eserciteranno però la festa che a leggere, scrivere e a far conti, e si condurranno alla Messa ed alla spiegazione del Vangelo quelle che possono profittarne, e tutte alla Dottrina Cristiana.

Venute che sieno le figlie alla Scuola la mattina, si faranno lor dire divotamente le brevi Orazioni a ciò destinate, e così pure la sera prima che partano; ancora la lettura di qualche buon libro si farà loro mattina e dopo pranzo per un quarto d’ora, e la Dottrina Cristiana tre volte alla settimana per mezz’ora sulle traccie del Catechismo Nazionale, ed una volta al mese si condurranno ai SS. Sacramenti quelle che ne sono capaci.

Non si accetteranno figlie che non sieno accompagnate dalla Fede del proprio Parroco, di buon costume e di povertà incapace a pagare altre Maestre: questa Fede sarà inspezione delle Signore Sopraintendenti di riconoscerla e conservarla, come ancora si conserveranno in Tabella a ciò formata il nome e cognome, l’età, la Parrocchia e la Casa ove abitano le figlie, e il tempo in cui furono ricevute; e non si riceveranno minori di cinque anni, né maggiori di quattordici, ma per quelle che sorpassano gli undeci anni si faranno ricerche più esatte sul costume, perché non s’introducano figlie già depravate a depravar le compagne; neppure si accetteranno figlie che abbiano immondezze  (=malattie, infezioni] o mali comunicabili alle altre.

Tutto il necessario per la Scuola sarà somministrato da’ Benefattori dell’Opera Pia, e tutto il prodotto de’ lavori delle Figlie sarà amministrato dalle Signore Sopraintendenti, le quali ne disporranno a vantaggio dell’Opera Pia, non lasciando peraltro di aver in vista le più bisognose e le più meritevoli, per animarle con premj o soccorsi proporzionati alla circostanza.

Le Figlie, che mancheranno di pietà e di buon costume o di applicazione al lor dovere, saranno dalle Maestre corrette caritatevolmente, ed al bisogno castigate ancora proporzionatamente all’età, ed al mancamento, non però mai con castighi che offendano il pudore, o la complessione delle Figlie; e quando si trovino incorregibili, prevenuti i parenti, saranno dalle Signore Sopraintendenti licenziate, perchè non sieno di mal esempio e di disturbo alla Scuola; ma quelle che dalle altre si distingueranno per saviezza, applicazione e buon riuscimento ne’ lor doveri, saranno maggiormente animate con qualche premio utile alla lor povertà.

Ciascuna finalmente di queste Scuole sarà affidata alla caritatevole vigilanza delle Signore Sopraintendenti, che visitandole a quando, a quando gioveranno a tenere le figlie nella debita soggezione, ed animarle al travaglio, a conservar il buon ordine della Scuola, ed a provvedere ad ogni occorrenza.

  • Regolamento disciplinare interno per le ammesse nella casa di ricovero.

L’oggetto di questa caritatevole istituzione è di provvedere alla sicurezza ed alla buona riuscita di alcune almeno di quelle povere figlie per cui sarebbe insufficiente il soccorso della semplice scuola, mentre o per esser orfane o per aver genitori trascurati o viziosi resterebbero in preda del più fatale abbandono.

Or siccome per queste non sarebbe bastante qualunque tenue sovvenimento, ma rendesi necessaria una continua sopraveglianza ed un provvedimento corrispondente al bisogno, così, raccolte che sieno nel divisato caritatevole ospizio, sono ivi intieramente provviste dell’occorrente riguardo al vitto ed al vestito, e vivono sempre sotto un’attenta e amorevole disciplina.

Non si accettano figlie senza premettere le più esatte informazioni sulla povertà, sul costume e sulla buona costituzione di lor salute, onde non defraudar del soccorso le più indigenti, o non introdurre alcuna donzella la qual abbia vizj o immondezze da cui possano aver danno le altre compagne.

Però debbono essere queste fanciulle munite di un attestato del proprio parroco comprovante la lor decisa povertà e buon costume, ed altresì debbon essere visitate dal medico dell’ospizio onde possa attestare che non abbian mali communicabili alle altre.

Tutta la giornata è distribuita con un orario corrispondente alle stagioni. Alla mattina, recitate in commune le quotidiane orazioni, si dà alle figlie un poco di pane per collazione. Poi ascoltano la s. messa, indi passano al lavoro, e dopo il mezzodì vanno a pranzo. Consiste questo in una tavola assai frugale, ma però sufficiente al bisogno, avendo sempre una minestra ed una pietanza per lo più di carne come la più economica, e l’occorrente quantità di pane. Hanno poi un’ora di ricreazione, dopo la quale tornano di nuovo al lavoro, ed un’ora prima del tramontar del sole sono istruite nella s. cattolica religione. Quando la stagione il permetta, lavorano anche la sera; poi presa la refezione, e recitate le consuete orazioni, vanno a prender riposo.

Le donzelle che saran per accogliersi dovranno avere per regola generale un’età non minore degli anni cinque, né maggiore degli anni undeci affinché si possa più facilmente riuscire nell’educarle senza trovarle guastate dalla malizia che siasi in loro radicata cogli anni. Si rimarranno queste donzelle nel luogo pio finché sian ridotte capaci di un opp.no collocamento, ed allora li direttori si daran ogni premura di procurarlo ad esse a tenore della loro abilità cercando appoggiarle a qualche buona famiglia ove coll’opera delle lor mani si procaccino il vitto, o quando fosser chiamate allo stato del matrimonio adoperandosi a provvederle dell’occorrente.

  • Modo preciso con cui questo Stabilimento viene presentemente diretto e sostenuto.

La direzione interna della Pia Casa è affidata alla diligenza delle due Maestre, le quali sono esattissime nel presiedere alla buona disciplina delle raccolte Donzelle, e dedicate con vero spirito di carità al loro bene non risparmian fatica, vigilanza, ed industria che giovar possa a tal fine.

L’opera si sostiene col prodotto de’ lavori di ago, di fuso ed altri secondo la capacità ed il genio di ciascheduna, i quali vanno a benefizio commune, e col concorso altresì di spontanee limosine offerte dalla pietà de’ Fedeli in somme assai tenui, ma che però nel complesso giungono a supplire di tempo in tempo ai bisogni. La Provvidenza Divina veglia amorosamente a sostenere quest’Opera, sicché quantunque dalli Fratelli Cavanis siasi aperta la Casa senz’aver da nessuno verun soccorso per provvedere ad una sola fanciulla, or la Famiglia è cresciuta a 17. Individui i quali benchè senza rendite e senza fondi non mai si trovano privi dell’occorrente al quotidiano sostentamento.

L’esibite elemosine, oltre all’esser libere affatto e spontanee, sono ancor per la tenuità della somma insensibili a chi le porge. L’impiego delle medesime è unicamente diretto a convertire a profitto delle abbandonate Donzelle quelle caritatevoli offerte che già verrebbero da loro stesse raccolte qualor si lasciassero nella propria mendicità, e riuscirebbero ad alimento dell’ozio, ed a lor totale rovina. Il frutto di questa caritatevole Istituzione è per Divino favore consolantissimo, riconosciuto pure per tale dalla Cong.ne di Carità nel local esame verificato l’anno decorso. Finalmente anche in seguito la mentovata Opera di carità non dovrà essere che dalla carità sostenuta. Gratuito, com’è al presente, dovrà esser sempre l’impiego de’ Sacerdoti applicati al bene delle raccolte Donzelle; gratuito l’impegno delle divote Persone destinate a presiedere all’economia, alla disciplina, e ai lavori delle fanciulle medesime, ed anche le Maestre stesse debbono esser tali che non per viste di privato interesse, ma per vero spirito di Cristiana pietà adempian le laboriose loro incombenze.

Diretta e sostenuta l’Opera unicamente con questo spirito, nell’atto stesso che si procura il bene spirituale delle povere Figlie, si viene pure a levare alla Civil Società l’obbrobrio ed il peso di molte giovani abbandonate, le quali se vivendo in seno all’ozio e al disordine sarebbero di puro aggravio e di danno e diverrebbero Madri un tempo d’altre Famiglie viziose al pari ed infelici, or si stanno addestrando ad una vita morigerata e virtuosa, a procacciarsi il vitto coll’onesto lavoro delle lor mani, e a divenir ancora buone Madri di Famiglia che abbiano cura della lor prole, e venga così a scemarsi il numero degli oziosi e degl’indigenti –”.

  • Testimonianza del parroco di S. Agnese sulla “Casa di privato rifugio” femminile dei PP. Cavanis (Allegato C)

“(Copia)    

S. Agnese di Venezia

Attesto io infrasc.o Pievano come nella mia Parrocchia si è aperta dalli piissimi Sacerdoti di questa mia Chiesa una Casa di privato rifugio a povere abbandonate Donzelle, le quali sono ivi caritatevolmente provvedute, educate, ed istruite nella pietà e ne’ lavori con ottima sorprendente riuscita, e con mia grande consolazione, vedendo tolte dal pericolo molte Figlie, ed incamminate ad essere buone Madri di Famiglia, e persone utili ed operose. Due maestre presiedono alla buona direzione delle sud.te Donzelle, l’una per nome Bona Bussolina, l’altra Catterina Fabris, ambedue d’irreprensibil condotta, e molto atte all’esercizio di caritatevol educazione cui furono destinate, e cui attendono con infaticavol applicazione, e con vero spirito di Cristiana pietà. Spero che il Signore benedirà, provvederà, e conserverà un sì santo istituto, mentre per l’estensione di questa mia Parrocchia riunita all’altre due, composta per la maggior parte di decisi miserabili, ed indigenti, avrò il conforto di poter impedire e togliere dal pericolo una qualche periclitante infelice Donzella.

Di Chiesa li 22. Marzo 1810

L.S.E.

In fede di che

Ant.o Ferrari Piev.o aff.mo

Di m.p. e con sig.o della Ch.a

  • “Piano” della Congregazione ecclesiastica delle scuole di Carità e della Congregazione delle maestre delle Scuole di Carità

Il documento presenta, dopo un’ampia introduzione di 19 righe, nella prima parte il “Piano” per le Scuole di Carità pe’ poveri giovanetti, nella seconda il “Piano” per le Scuole di Carità per le povere figlie presentato al patriarca F.M. Milesi, il 27 luglio 1818, in forma di lettera, anche se in realtà è un “Piano” ossia progetto dettagliato.

“27 luglio 1818

(A Mons.r Fran.co M.a Milesi Patriarca di Venezia)

“Eccellenza Rma.

Commossi li Sacerdoti Fratelli Anton’Angelo e Marcantonio de Cavanis al vedere il tristo abbandono in cui crescono tanti poveri figli o trascurati, o male assistiti dai Genitori, dedicati si sono spontaneamente a raccoglierli e ad educarli. Hanno perciò aperto due separati Stabilimentj l’uno per gli abbandonati figliuoli, l’altro per le periclitanti Donzelle, e per sostenerli impiegarono tuttavia assai di buon grado il sacrifizio della lor vita e delle loro sostanze. Scorsi ormai sono più di sedeci anni dacchè hanno assunto questa caritatevole impresa, e ben duemila poveri figli ne sortirono l’educazione fino al presente, e ne’varj rami si sparsero della Civil Società con una consolante riuscita. Animati gli Istitutoti dal frutto che col Divino favore veggono sorgere di continuo dal loro Stabilimento, e confortati dalla generosa soddisfazione di cui si compiacquero di onorarli le Autorità Superiori, e singolarmente dalla Paterna bontà con cui l’Augusto Sovrano si degnò esprimere e nell’occasione di una sua visita graziosissima, ed in un ossequiato Dispaccio spedito dalla I.R. Corte il clementissimo desiderio che quest’Opera abbia ad avere una stabile sussistenza, rassegnano a V. E. Rma su tal proposito gli umilissimi loro divisamenti.

Prima però sia permesso di dare brevemente un’idea del sistema e del fine di ambedue gli Istituti.

Scuole di Carità pe’ poveri giovanetti

(…)

Scuole di Carità per le povere figlie

Trattasi anche in questo Stabilimento di porgere gratuitamente un asilo alle periclitanti Donzelle, e dirigerle col soccorso di una provvida educazione a formare un morigerato costume e ad essere capaci di mantenersi coll’util lavoro delle lor mani, estirpando così fino dalla radice la scostumatezza e l’oziosità.

Tale Instituto trovasi stabilito nel Locale dell’Eremite nella Parrocchia de’ SS. Gervasio e Protasio.

Le Maestre attuali sono in numero di sedici, quali appunto vengono nell’unito Elenco descritte.

Il continuo loro esercizio è di tenere Scuole gratuite per l’educazione delle povere figlie, ammaestrandole nei doveri della S. Religione, nel leggere, e nei donneschi lavori, per ben disporle a vivere con una Cristiana condotta, e procacciarsi la sussistenza colle oneste loro fatiche.

Si prestano pure ad istruir nell’interno del Locale dell’Istituto le adulte povere e le fanciulle che non possono frequentare le Scuole.

Tengono ancor attenta custodia di alcune misere figlie, le quali sono continuamente raccolte e mantenute dall’Instituto, perché nelle particolari lor circostanze non sarebbe a lor sufficiente l’ajuto della semplice Scuola.

Le Donzelle che attualmente concorrono alla esterna gratuita Scuola sono in numero di cento circa; quelle poi che ivi sono caritatevolmente raccolte e provvedute del giornaliero sostentamento, sono in numero di cinquanta circa.

Essendo aperto questo Instituto a favore di figlie povere, non si riceve alcuna pensione o regalo dai respettivi Genitori, ma tutto si somministra gratuitamente.

Per consolidare anche questo Stabilimento s’implora che ne sia formata una Corporazione denominata di Maestre delle Scuole di Carità.

Come si è praticato finora, cosi pure dovrebbe osservarsi nell’avvenire, di non ricevere in tale Instituto se non che Vergini e Vedove d’irreprensibil costume, escluse sempre per regola inalterabile le maritate, benchè non vivessero unite al loro Consorte, e quelle altresì che per amore alla propria quiete avessero desiderio, o per necessità di riforma avesser bisogno di ritirarsi in un tranquillo soggiorno.

Queste Maestre di Carità dovranno vivere in una perfetta vita commune, e vestire modestamente un abito lungo di colore oscuro.

Faranno in forma semplice la Professione de’ consueti tre Voti, durevoli però soltanto finchè rimangano nell’Instituto, sicchè abbiano a restarne sciolte allorchè non più appartenessero all’Instituto medesimo.

Il numero delle Maestre occorrenti ad ogni Casa dell’Instituto sarebbe di trenta circa.

Saranno esse pure soggette all’Ordinario, e riguardo all’interna direzione ed economica Azienda dipenderanno dalla lor Superiora, la quale poi sarà sopravegliata dal Direttore della Cong.ne de’ Sacerdoti Secolari delle Scuole di Carità, da cui verrà proposto all’approvazione dell’Ordinario quel Sacerdote che riputasse opp.no ad assumere la spiritual direzione di dette Maestre, e si avrà cura di prestare assistenza alla povera instituzione ne’ varj bisogni che potessero insorgere tanto riguardo alla disciplina, quanto riguardo alla sussistenza.

Si porteranno esse Maestre nella propria Parrocchia ad assistere alle Dottrine in qualunque uffizio che venisse loro affidato.

Saranno altresì disposte ad accogliere per sette mesi dell’anno alcune ragazze di Campagna di buon costume, dirette loro dai Parrochi respettivi, per addestrarle a divenir buone Maestre nelle loro Terre e Villaggi, emulando gli esempj dell’illustre Matrona la Sig.a Maddalena Marchesa de Canossa, dacchè ne hanno ricevuto lo spirito, avendo essa caritatevolmente istruito le prime, che sotto la direzione de’ ricorrenti Fratelli si sono dedicate a queste Scuole di Carità.

Riceveranno due volte all’anno in tempi determinati nella Casa dell’Instituto in apposito distinto luogo per dieci giorni consecutivi quelle Dame che fosser desiderose di fare gli spirituali Esercizj sotto la direzione di Sacerdoti destinati coll’approvazione dell’Ordinario; dal che ne verrebbe anche a vantaggio della Società il buon effetto di renderle più sollecite nell’attendere al saggio regolamento delle respettive Famiglie, alla buona educazione de’ figli, alla frequenza delle Dottrine Cristiane, ed a sopravegliare nel tempo delle Villeggiature a quelle figliuole ch’educate nell’Instituto avessero aperte in Campagna delle Scuole di Carità.

Per la Sussistenza di questo Instituto l’esperienza fatta per molti anni ed anche di carestia straordinaria, ha palesato abbastanza come debba riporsi piena fiducia nella pietà de’ nostri Concittadini, al che si può aggiungere un qualche prodotto de’ donneschi lavori, e la sincera premura degl’Institutori Fratelli di concorrere come hanno fatto fino al presente colle proprie sostanze con ogni sforzo possibile al mantenimento di un’Opera che ognor più riconoscono indispensabile e vantaggiosa; ai quali sagrifizj e sollecitudini li eccita vivamente e il dovere del Sacro lor Ministero, da cui si trovano maggiormente impegnati a dedicarsi al bene de’ prossimi, e il desiderio altresì di appalesare nel miglior modo all’Augusto Sovrano l’ossequioso rispetto che gli professano, e la divota e viva riconoscenza che serbano altamente impressa nel loro cuore per la generosa bontà con cui si è degnato di confortarli a questa caritatevole impresa.

Esposto riverentemente il divisato loro progetto, alla ossequiata Autorità ed al paterno cuor lo assoggettano di V.E. Rma colla rispettosa fiducia di ottenere il dolce conforto che questa Pia Instituzione venga a piantare ferme radici e veggasi assicurata una stabile sussistenza. [Grazie.]”

Venezia li 27 luglio 1818”

Di v.e. r.ma umil.mi dev.mi servi e figli

D. Anton’ Angelo De Cavanis D. Marcantonio De Cavanis

La vita dell’Istituto femminile continua così, con questo stile e più o meno con questi numeri di personale educante e religioso, e anche di ragazze assistite.

Di alcuni eventi speciali, si è parlato sopra, nella biografia dei fondatori, come per esempio del fatto straordinario e graditissimo che il 4 aprile 1817 il Papa Pio VII donò all’istituto il prezioso palazzo Ca’ Corner della Regina sul Canal Grande, specificamente per l’istituto Cavanis femminile, ma con la libertà di usufruirne a loro piacimento.

Un altro aspetto della vita dell’istituto femminile, e se ne è parlato sopra, in un excursus sulla spiritualità e le devozioni dell’istituto, è che S. Vincenzo de’ Paoli era il patrono ufficiale del ramo femminile antico dell’istituto e, come si diceva sopra, fu anche il primo dei quattro santi «incaricati» ufficiosamente e poeticamente di proteggere e difendere i quattro angoli del convento e internato del ramo femminile Cavanis dalle cannonate dell’artiglieria austriaca durante l’assedio di Venezia nel 1849.

Molti piccoli riferimenti all’istituto femminile si fanno qua e là nel testo riguardante i Fondatori, la biografia del Casara, i capitoli generali e così via. La vita dei due istituti era in fondo una cosa sola, e P. Marco Cavanis prima, il preposito pro tempore poi si occupavano di tutto. Si è detto che uno dei problemi che hanno condotto alla fine dell’istituto femminile e alla sua confluenza con le Figlie della Carità Canossiane è stata proprio la sua mancanza di autonomia e la mancata formazione di suore preparate e governare l’Istituto.

4.4 Approvazione dell’Istituto Femminile da parte dell’Impero austriaco e del Patriarca di Venezia

La cosa accadde in modo molto graduale. Inizialmente, prima dell’approvazione vera e propria dell’opera (sia maschile che femmnile), il 15 aprile 1812 i due fratelli vengono riconosciuti come professori dallo stato (che era a quell’epoca il regno d’Italia, in realtà una creatura napoleonica) e la loro scuola è riconosciuta come pubblica a tutti gli effetti. Ciò valeva sia per la scuola maschile sia per quella femminile, con tutti i mezzi educativi annessi, almeno quelli permessi dall’occhiuto stato napoleonico, e più tardi dall’altrettanto occhiuto stato austriaco.

Nel 1816 i Cavanis redigono con somma cura un Piano dell’Opera delle Scuole di Carità indirizzato al governo imperiale. Non si tratta ancora di chiedere l’approvazione di una comunità religiosa (o di due, la maschile e la femminile) ma dell’approvazione dell’Opera come tale, cioè l’opera di educare gratuitamente l’infanzia e la gioventù, senza distinzione di età, di sesso, di classe sociale, ma soprattutto, anche se non esclusivamente, in favore quella più disagiata e abbandonata.

Il 12 ottobre 1818 il governo austriaco comunica di avere la disponibilità di accogliere ed eventualmente di approvare il progetto di creazione di due comunità Cavanis, rispettivamente i Chierici secolari delle Scuole di Carità e delle Maestre delle Scuole di Carità. Non si tratta però ancora del necessario decreto regio.

Le due entusiasmanti visite dell’imperatore (12 dicembre 1815 e 23 febbraio 1819) ad ambedue le opere, la maschile e la femminile, per l’educazione di bambini e bambine, ragazzi e ragazze, dell’Istituto Cavanis a Venezia, collaborarono fortemente con l’impresa dei fondatori di voler ottenere l’approvazione della loro opera con un decreto imperiale e regio, che comprendesse anche l’approvazione dell’istituto (e della comunità religiosa) femminile: “le due proposte congregazioni”, come scrive P. Marco. Si noti come l’intenzione ferma del P. Marco ed evidentemente anche del fratello senior, era quella di istituire due congregazioni, e che in tutte le espressioni usate nel Diario in questo periodo si trattino le due congregazioni a parità di condizioni.

Dopo numerosi tentativi andati a vuoto, nel 1919 i due fratelli Antonio e Marco Cavanis ottennero l’approvazione diocesana dei rami maschile e femminile dell’istituto per il patriarcato di Venezia, rispettivamente il 19 giugno 1819 e il 16 settembre 1819. Si trattava naturalmente di approvazione di diritto diocesano, non ancora a livello di Chiesa universale, che arriverà quasi vent’anni dopo solo per l’istituto maschile.

Il decreto imperiale della congregazione femminile come di quella maschile fu firmato dall’imperatore e re Francesco I il 7 agosto 1919: “7 agosto – In questo giorno dedicato al nostro S. Protettore Gaetano Tiene fu portato in Consiglio di Governo per la sua spedizione il sovrano Decreto che assente alla istituzione delle due Congregazioni di Sacerdoti e di Maestre addetti alle Scuole di Carità…”. I fondatori e le rispettive comunità ne ebbero notizia con grande gioia circa due settimane dopo: “15 Agosto – Oggi, giorno della B.V. Assunta, fu spedita dal Governo una lettera a M.r Patriarca per significargli essersi dal Sovrano approvato il piano delle due proposte Congregazioni, e nel giorno 21 corrente ne fu pur dato l’avviso alli Direttori col mezzo della R. Delegazione”.

Il 27 agosto 1820, nella solennità di S. Giuseppe Calasanzio, inizia la vita comunitaria di una embrionale comunità religiosa maschile nella «casetta»; la comunità femminile della “Maestre delle Scuole di Carità” invece, pur vivendo esse insieme in comunità, non formeranno una vera comunità religiosa e rimangono come in un limbo; sono chiamate infatti “pie signore”, “figliuole” e con altri termini, ma – sembra – mai religiose o suore, nonostante l’approvazione di principio.

Il 16 luglio1838 avviene come si sa l’erezione canonica della Congregazione delle Scuole di Carità (ramo maschile). Le Costituzioni sono approvate ed entrano in vigore con questa erezione. L’istituto femminile non sarà mai eretto canonicamente a livello di Chiesa universale; e questo (anche?) perché i fondatori non credettero opportuno chiederlo alla S. Sede, al tempo della visita a Roma, e personalmente al Papa, da parte di P. Marco Cavanis.

In questo, essi lasciarono la loro opera parzialmente incompiuta e non ne sappiamo esattamente i motivi. Senza dubbio per loro era molto duro portare avanti e organizzare compiutamente due istituti; pare che non fossero riusciti a formare nell’istituto femminile una possibile “classe dirigente”, ben preparata a governare una congregazione religiosa, anche se potevano educare delle bambine e delle ragazze. Di fatto, non lo chiesero alla S. Sede, anche se probabilmente avrebbero potuto ottenerlo, dato il contatto personale di amicizia che avevano con il papa Gregorio XVI.

4.5 Elenco delle Maestre nel Locale dell’Eremite in Parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio

Priora

Sig.a Catterina Fabris

Maestre

Sig.a Catterina Riboli o Ribolsi

Sig.a Angela Favetta

Sig.a Angela Predanzon

Sig.a Angela Testa

Sig.a Vittoria Capellina

Sig.a Antonia Violin

Sig.a Elisabetta Caldara

Sig.a Antonia Garagò

Sig.a Lucia Girardi

Sig.a Maria Verona

Sig.a Margherita Pantanali

Assistenti alle Maestre

Sig.a Maria Orboli

Sig.a Paola Rodella

Sig.a Angela Ronchi

Sig.a Giovanna Ombrelli

In questa lista di maestre, in esercizio nella Casa delle Eremite nel 1818 e membri della proposta Congregazione di Maestre delle Scuole di Carità, si possono notare alcune cose:

  1. Sono ben meno numerose di quanto esposto nel piano, dove si proponeva come necessario il numero di 30 maestre per ogni casa; il che può significare che, anche dopo 10 anni dall’istituzione dell’opera, era difficile trovare candidate per l’Opera.
  2. Non si vedono nomi di famiglie nobili, per lo meno non dei più conosciuti. Le “Dame” di cui spesso si parla nel testo del Piano probabilmente collaboravano con offerte, offrirono una volta la loro gondola per un trasferimento, avranno aiutato in qualche evento, ma nessuna giovane di famiglia nobile o nobile vedova era entrata nell’Istituto.
  3. I cognomi, con poche eccezioni, non sono tipicamente veneziani. Ciò può dipendere dalla presenza di ex-monache, venute a Venezia da altre regioni, e ridotte obbligatoriamente allo stato laico per imposizione del governo napoleonico durante le grandi soppressioni di ordini e congregazioni religiosi del 1806 e 1810.
  4. Si nota anche che la Priora della comunità era la sig.ra Catterina Fabris (con un cognome veneziano, o almeno veneto), che aveva sostituito la prima responsabile della piccola comunità iniziale, ossia la sig.ra Bona Bussolina di cui era collaboratrice o “vice”; e che troviamo citata nelle memorie e nella lista di maestre del 1811.
  5. Si nota che nella lista del 1818 qui sopra trascritta, solo tre o forse quattro sono presenti nella lista di maestre del 1811: La Fabris, la Pedranzon, la Caldara (che era però un nomignolo; il nome vero e completo era Elisabetta Zangiacomo detta Caldara del fu Giovanni, nella lista del 1811) e forse la Violin o la Caragò, ambedue di nome Antonia. C’era quindi un ricambio molto elevato, il che, a prescindere dal fatto che ciò poteva dipendere dall’eventuale età avanzata delle maestre della lista del 1811 e quindi di un naturale ricambio di carattere demografico, può indicare uno scarso indice di perseveranza.

Quattro anni dopo, il 22 aprile 1822, la situazione del personale dell’istituto femminile invece è la seguente, e sembra di assistere a un tracollo dell’opera, dato che il numero delle maestre e assistenti diminuisce drasticamente:

“Le Maestre sono cinque, cioè le Sigg.re Lucia Girardi, Maria Verona, Giulia Ottolini, Angela Ronchi, e Margherita Pantanali, con tre Assistenti le quali sono le Sigg.re Angela Favetta, Catterina Tonata, e Maria Osboli. Oltre a queste altre ivi domiciliate, a presiedere a varj officj  dell’interno Convitto; e si chiamano Catterina Fabris, Catterino Riboli, Angela Testa, e Vittoria Capolina. Tutte le suddette Maestre sono di ottimi costumi , e piene di zelo e di carità nel reggere ai pesi dell’Istituto.”

4.6 – Anni opachi

Negli anni successivi, anzi nei successivi decenni, la situazione è meno conosciuta e meno evidente. Si ha l’impressione che la conclusione del diario dell’istituzione femminile corrisponda anche a un lento, graduale indebolimento dell’opera, e a una diminuzione dell’interesse nella documentazione. Ci limiteremo ad annotare qui acuni eventi e testi più notevoli, rinviando, per il resto, alla preziosa antologia organizzata da P. Bruno Lorenzon, con suor Agnese Durante.

Il 6 agosto 1825 l’istituto femminile, come il maschile, ricevette la gradita visita dell’imperatrice regnante d’Austria Carolina Augusta di Baviera, moglie di Francesco I, e ne ricevette anche un’offerta.

Il 9 ottobre dello stesso anno si viene a sapere che la Priora dell’istituto femminile, in quell’anno era Giulia Bardelli in Ottolini, che, rimasta vedova, era entrata nella pia opera; essa era la nuora della contessa Ottolin [sic] che provvedeva normalmente ogni mese a pagarle una pensione; ma essa, “in debito di cinque mesi per la pensione della Priora non avea soldi al momento”.

Una lettera del 21 ottobre di quell’anno ci fa sapere, cosa rara, qualcosa dell’abito delle Maestre: dei veli neri. “Quel buon cristiano intanto – scrive P. Marco – che mi albergò l’altra volta, penetratissimo dal dolore al sentir l’intiero abbandono in cui era io rimasto, cercò nell’angustia del tempo ogni strada per procurarmi conforto; ed avendogli consegnato zecchini tre per comprare i veli neri ad uso del nostr’Ospizio, egli mi portò i veli e a tutta forza mi lasciò ancora i zecchini.”

Nel 1826, P. Marco in una lettera del 17 marzo ricorda “il molto numero delle povere figlie tolte con questo mezzo alla perdizione, ed il continuo frutto di radicale emendazion del costume che per divina grazia se ne raccoglie, e il grave peso che giornalmente sostengono gl’infrascritti fratelli nel provvedere al mantenimento di quest’Opera dispendiosa, …”.

Da un rapporto e prospetto del 17 marzo 1826, di mano del P. Marco, si viene a sapere che “ L’Opera si può ritenere intieramente gratuita; poiché le Scuole esterne in cui concorrono più di cento donzelle si esercitano senza giammai ricevere nemmen un tenue regalo; e nell’interno convitto si mantengono trenta individui fra Maestre e figliuole, senza esservi che due sole le quali dalla loro famiglia vengono provvedute.”

Nonostante questa gratuità praticamente totale (una delle due che erano mantenute dalla famiglia doveva essere la priora, come si è detto sopra), una almeno delle fanciulle doveva avere dei beni, ma questi erano mal amministrati e/o carpiti disonestamente da un amministratore; P. Marco allora corse in difesa dei diritti della sua pupilla, minacciando anche adire a vie legali.

Nel 1827 si apprende che i due Padri non avevano ancora desistito dall’idea di istituire due vere congregazioni, una maschile e una femminile (mentre poi rinunceranno a far erigere formalmente la femminile). Così infatti scrive P. Marco a una contessa (candidata a) benefattrice Laura Cicceri Visconti di Milano: “… Per poter appunto non solo sostener l’attuale Istituto, ma dilatarlo anche altrove, stiamo adesso formando due nuove apposite congregazioni l’una di Sacerdoti l’altra di Maestre delle Scuole di Carità; e queste novelle corporazioni tengono già il loro piano…”.

L’8 marzo 1828 i fondatori ebbero la gioia, e con essi i loro collaboratori, figli e figlie, di ricevere una lettera apostolica del Papa, che nel frattempo era Leone XII (28.9.23-10.2.1829), lettera piena di elogi e di appoggio: praticamente un Decretum Laudis, che ricorda espressamente anche l’istituto femminile.

Non si conosceva con sicurezza la data della dedicazione dell’antica chiesetta delle Eremite, fondata dalle antiche monache agostianiane, come si è detto, anche se ristrutturata e praticamente ricostruita; e non si sapeva perciò quando celebrare l’anniversario della dedicazione e analogamente la festa patronale. La chiesa era dedicata a Dio e poi a “Gesù, Maria e Giuseppe”, in quest’ordine oggi inconsueto; ma non esisteva a quel tempo una festa della Sacra Famiglia. Si scrisse al patriarca Jacopo Monico, il 10 gennaio 1829, chiedendo come comportarsi. Il patriarca fece rispondere dal cancelliere di Curia che la dedicazione doveva essere celebrata la prima domenica di agosto di ogni anno; e la festa patronale nella festa di S. Giuseppe.

Da lettera del 20 luglio 1829 si viene a sapere che la collaborazione della S. Maddalena Canossa con i fondatori continuava ancora, e che i padri si affidavano ancora per alcuni aspetti della formazione e/o per l’appoggio e il consiglio alle loro Maestre alle Canossiane del convento di S. Lucia a Venezia, dove ci sarà più tardi  la stazione ferroviaria.

Nel dicembre 1830 l’Istituto femminile riceve la visita pastorale del patriarca Monico.

Il Papa Gregorio XVI, il 13 agosto 1831 elogia e benedice le due opere, maschile e femminile e incoraggia i due fratelli, con una lettera apostolica che sarà poi introdotta come prologo alle costituzioni dell’Istituto maschile del 1837.

Il P. Luigi Paoli, uno degli antichi compagni dei Fondatori, appena ordinato prete, celebrò la prima messa solenne nel giorno di Pasqua, il 25 aprile 1832, nella chiesetta delle Eremite; in seguito ottenne dal patriarca, sempre Jacopo Monico, un decreto che lo autorizzava a istruire e predicare in ambedue gli istituti, maschile e femminile. Si suppone che in seguito avrà aiutato P. Marco nella celebrazione dei sacramenti e nella catechesi alle Maestre e alle ragazze; lo fece realmente fino al 1835 almeno.

Merita qui, a proposito dell’anno 1833, una menzione e trascrizione parte della lettera inviata a P. Marco Cavanis da don Federico Bonlini, il sacerdote diocesano amico dei fondatori e particolarmente collega e amico di Marco, che collaborava tanto con l’Istituto, e particolarmente con quello femminile. Il 13 marzo 1833 raggiunse con la sua lettera P. Marco in fermo posta a Gratz, in Stiria, Austria meridionale, al ritorno dalla sua gloriosa vittoria ottenuta a Vienna dopo tanti anni e tanti affanni. Si cita qui soltanto un brano della lettera che ben esprime l’affetto e la riconoscenza dell’Istituto femminile per il loro caro P. Marcantonio.

“Incaricato dalla Superiora del suo Ospizio ad esternarle i teneri e rispettosi sentimenti suoi, non men che quelli delle sue figlie, ed approvata dal buon fratello la cordiale dimostrazione, eccomi ad eseguir volentieri il dolce incarico che mi si affida.

Il rispetto, l’amore, la gratitudine son tutte in gara nel cuore di queste sue figlie onde manifestarsi al buon Padre, e male han sofferto fin qui di ritardare, timide troppo, a farle conoscere non essere meno dei figli suoi premurose d’ogni suo bene e consolazione del colto frutto dalle sue fatiche e dall’instancabile zelo della causa di Dio, di cui Ella si sente divorata da tanto tempo. Mi sembra pertanto in questo momento di essere qual giardiniero in un fiorito giardino a raccogliere i più bei fiori, e odorosi, onde formare un mazzolino gradito al padron del giardino.” Il buon Don Bonlini prosegue poi ricordando in dettaglio i sentimenti personali di alcune delle varie maestre e figlie.

Una lettera interessante è quella del P. Matteo Voltolini, uno dei primissimi compagni dei Fondatori, che nel 1833 scrive a un francescano riformato di Pergine (TN) a riguardo di due giovani donne di quel paese o dintorni che desideravano entrare nell’Istituto femminile: ne parla come di autentiche postulanti che faranno presto il noviziato come Maestre delle Scuole di Carità. Si viene a sapere anche che ciascuna doveva portarsi i mobili; e che la somma di 200 “fiorini abusivi” era considerata piuttosto bassa come dote per una suora Cavanis; che tuttavia i superiori, per loro bontà, avrebbero accettata la giovane. Più tardi si vide che era necessario stringere le regole su questo punto, per dare la necessaria autonomia alla congregazione femminile; ma non ci si riuscirà.

Da una relazione o rapporto di P. Marco alla Congregazione Municipale di Venezia, dello stesso anno, si viene a sapere che in quell’anno “il locale dell’Eremite non essendo dedicato a collegio, ma a sole Scuole esterne di Carità, quindi non raccoglie educande di permanenza, ma solo giovani che concorrono alle Scuole stesse, le quali attualmente sono settantasei, e la Direttrice attuale è la Sig.ra Vittoria Capelin.”

Particolarmente utile una lettera dei due fratelli Cavanis insieme, da Lendinara, il 12 marzo 1834, alla comunità femminile, per comprendere elementi della spiritualità Cavanis nell’istituto femminile. Così scrivono, tra l’altro:

“Pregate dunque e vegliate per crescere d’ora innanzi nella umiltà e nel fervore: umiltà che renda la superiora e le maestre sempre sollecite nel coltivare lo spirito di orazione, il dispregio di se medesime, la sofferenza e la carità; e le figlie altresì attentissime ad ascoltare le correzioni e ad osservare la disciplina; fervore che ponga ognuna in santa gara di servir meglio il Signore con purità d’intenzione, con vivo amore alla pace ed alla fatica, e con instancabile zelo nel promuovere la maggior gloria di Dio e la santificazione propria ed altrui. Sono questi que’ sentimenti di cui ardentemente bramiamo che per divina misericordia sian penetrati e compresi li cuori di tutte voi.”.

Preziosa la lettera del P. Marco del 27 dicembre 1834 al Curato di Valfloriana, don Domenico Marcantoni, per conoscere molti dettagli delle cose che erano necessarie per entrare nella congregazione femminile dei Cavanis. Doveva essere molto simile il complesso di condizioni per l’entrata a quella maschile. Una minuta della lettera è conservata in calce in forma di nota. Così scrive:

“1834 27 Xbre.

Lettera al controscritto, che dichiara non potersi accettar la figliuola coll’offerto assai scarso provvedimento, la eccita a confidar nel Signore e procurarsi qualche soccorso, e per suo conforto si avverte che saremo per contentarci della pensione di sole austriache lire una, anziché di £ 1: 14, occludendo a sua norma il seguente foglio delle condizioni che si ricercano per accoglier le postulanti.

Indicazione di quanto richiedesi per una donzella che brami di aggregarsi al Pio Istituto delle Scuole di Carità di Venezia.

1 ° – Fedi di Battesimo, di buoni costumi e di buona salute.

2° – La dote di un Franco al giorno, cioè austriache £. 1: 14 legalmente assicurata; oltre al provvedimento del letto e qualche discreto allestimento da portar seco al suo ingresso.

3° – Il capitale di questa dote tanto sarà minore quanto si potrà aver maggiore l’annua sua rendita costituendola vitalizia in relazione alle circostanze del caso.

4° – Servirà questa dote a mantenimento della donzella tanto dentro che fuori dell’Istituto; mentre se dovesse sortire, porterebbe con sè il diritto di riscuotere la sua vitalizia pensione.

5° – Se uscisse dalla comunità dentro il primo anno di prova, le verranno restituiti i mobili e il letto che vi avesse portato; ma se sortisse dopo la sua aggregazione, non avrà diritto di ripetere cosa alcuna se non che il suo letto in quello stato in cui allora si ritrovasse, e gli abiti che terrà indosso.

6° – Prima di accoglier la postulante nell’Istituto, dovrà stabilirsi in Venezia una idonea persona che abbia l’impegno di riceverla senza ritardo o difficoltà, quando per avventura fossero i Superiori costretti a licenziarla, ovvero essa non volesse restarvi.”

Del 26 gennaio 1835 è questa descrizione dell’Istituto femminile, molto chiara sebbene schematica, scritta da P. Marco anche a nome del fratello senior in forma di una informazione, richiesta dalla Congregazione Municipale di Venezia. Vale la pena di citarla integralmente:

“Le ossequiate ricerche espresse da questa Cong.ne Municipale colla riverita Ordinanza 22. genn.o corr.e N° 1768/6659 intorno al Pio Istituto delle Scuole femminili di Carità eretto in Venezia dalli Sacerdoti fratelli de Cavanis, porgono agli umilissimi Istitutori un nuovo motivo assai consolante di risovvenirsi più vivamente della sovrana benignità con cui furono confortati alla caritatevole impresa.

Dovendo infatti indicare l’epoca e il modo della superiore approvazione dell’Istituto medesimo, non è già a ricordarsi una sola suprema Risoluzione, ma in più occasioni e in più modi si è degnata S.M. di esprimere il sovrano suo graziosissimo beneplacito. Lo dichiarò a viva voce nei due faustissimi giorni 12. Xbre 1815. e 23. febb.o 1819. in cui onorando personalmente la suddetta pia Istituzione, si compiacque benignamente di appalesare una piena soddisfazione. Poi con sovrano Dispaccio 13. luglio 1816. il di cui tenore venne communicato con lettera della Cesarea R. Delegazione 17. agosto dell’anno stesso N° 12397/4447, non contento il paterno cuore di S. M. di decretarne una semplice approvazione, ebbe la singolare bontà di confortare gl’Istitutori fratelli coll’accertarli di aver preso l’Istituto medesimo sotto l’Augusta sua particolar protezione. Finalmente colla sovrana Risoluzione 8. luglio 1819. partecipata con lettera della sullodata I. R. Delegazione 21. agosto di detto anno N° 11581/1339 ne pronunciò la definita suprema Sanzione per avvalorarne la stabile sussistenza.

Siccome tutte queste generose dimostrazioni della sovrana bontà derivarono dall’aver l’Augusto Monarca riconosciuto che lo scopo principale del pio Istituto è il provvedere con varj mezzi e con caritatevole paterna cura a formare il cuor degli allievi, e traendoli dalla ignoranza, dall’ozio e dall’abbandono, educarli con massime religiose e dirigerli al buon costume, così ben chiaro apparisce che il piano della educazione morale e religiosa principalmente interessa le attente sollecitudini degl’Istitutori fratelli, e vien posto in opera colla maggior estensione. Non si restringe pertanto al semplice insegnamento della Cristiana Dottrina in cui si ammaestrano giornalmente le raccolte donzelle, e nella spiegazione che vi si fa in ogni festa dai Direttori, ma si estende ancora a prestare ogni amorosa assistenza per agevolarne la pratica, invigilando a correggere le nascenti loro passioni, tenendole assai difese con attenta custodia dagl’imminenti pericoli, confortandole nei particolari loro bisogni, ed assistendole per frequentare con divota pietà li SS. Sacramenti, donde ne sorge per divina grazia quel comune e consolante frutto di morigerati costumi, che la stessa Cong.ne Municipale dichiara di riconoscere nel suo grazioso Certificato 24. Gennajo 1833 n. 934/428.

La interna disciplina per ultimo del pio Istituto ch’esercita questa caritatevole educazione è tale qual fu proposta nell’anno 1818. e riconosciuta e approvata col surriferito sovrano Decreto 8. luglio 1819. Consiste nell’aggregazion di pie donne le quali vivono insieme in perfetta Comunità sotto la direzione immediata di una di esse che si denomina la Priora, e la sopraveglianza del Direttore dell’Istituto, il qual dipende dall’Ordinario. Le ore sono distribuite tra gli esercizj di Religione, le faccende domestiche e la occupazione delle gratuite scuole le quali senza intervallo si aprono tutt’i giorni, raccogliendosi pure nella mattina e nel dopo pranzo di ciascun giorno festivo le aggregate donzelle per impedire che vadano errando per le pubbliche vie, e per occuparle in pratiche di cristiana pietà ed in ricreazioni innocenti.

Esaurito così pienamente ogni articolo della surriferita Ordinanza, non resta agl’infrascritti fratelli se non che esprimere la consolante loro fiducia della graziosa continuazione del superiore compatimento.

26 gennajo 1835.

L’anno più drammatico per il ramo femminile delle Scuole della Carità –secondo la mia opinione–, è stato il 1835. In quell’anno, come si sa, dall’11 febbraio 1835 al 7 settembre, P. Marcantonio Cavanis andò e rimase a Roma quasi sette mesi per impetrare l’approvazione pontificia della Congregazione delle Scuole di Carità, loro creatura, a livello di diritto pontificio, e delle Costituzioni. Di questi quasi sette mesi di viaggio e permanenza fuori sede a Roma, esiste un’estesissima corrispondenza, e anche il diario del “Viaggio fatto a Roma”. Questo fu un ottimo successo e un’avventura dura ma formidabile e preziosa. Ma fu questo successo totale?

Venne chiesta, e ottenuta, solo l’approvazione e quindi l’erezione canonica del ramo maschile. La richiesta dell’approvazione dell’Istituto femminile non fu avanzata e/o non fu ottenuta. Gli storici successivi dovranno porsi le seguenti questioni: con quale intenzione esattamente partì per Roma P. Marco? Con quali istruzioni da parte di suo fratello Antonio? Con quale accordo tra i due fratelli e con quali comuni intenzioni partì da Venezia, a riguardo dell’Istituto femminile? Le Maestre e suore dell’Istituto femminile, si aspettavano l’approvazione della Santa Sede anche per loro?

E ancora: fu a Venezia prima di partire, a ragion veduta, che i due fratelli decisero di non proporre l’approvazione dell’Istituto femminile, viste la sua debolezza e la sua scarsa autonomia, oppure P. Marco, a Roma, spinto dal realismo e dallo spirito giuridico dell’ambiente romano, dovette rinunciare a far approvare l’Istituto femminile, che così non fu mai approvato? Rimangono qui le questioni e il dubbio.

Chi scrive propende per la seconda opzione, ossia che i due fratelli, a Venezia, prima della partenza, si proponessero di far approvare a Roma ambedue gli istituti, maschile e femminile, e che ancora a Roma P. Marco stesse impegnandosi per  compiere questo programma; ma che poi dovette desistere dall’impresa dell’approvazione del ramo femminile.

Un indizio – ma soltanto indizio – ne è la lettera di P. Marco a P. Antonio, spedita da Roma, in data, già molto avanzata, cioè a questione ampiamente discussa e in andamento nei dicasteri romani, del 25 giugno 1835:

“(…) Un’altro punto massiccio mi ha sorpassato colla sua furia il mio carissimo Ab. Spernich, ch’è quello della esortazione fattavi col di lui mezzo di presentare una brevissima Supplica all’E.mo Card. Patriarca pregandolo a scrivere a Roma per mostrarsi desideroso che sia approvato (come più volte mi disse a voce) dall’Autorità Apostolica l’Istituto. Sappiate che questa è cosa che importa più di quanto possiate pensare, e che io avrei rimorso a non farvela a tempo considerare. Lo esige in primo luogo il rispetto verso il nostro Prelato, che non si lasci d’implorarne l’appoggio, mentre da noi si tratta un affare sì decisivo, poiché altrimenti si mostrerebbe di contarlo per nulla, mentre pur conta tanto. In secondo luogo ciò rendesi necessario per tor di mezzo una grave difficoltà. Ho inteso infatti che nelle informazioni recate da Mons.re dopo il suo abboccamento col Patriarca, ci è tutto l’elogio più generoso dell’Opera, ma si aggiunge esser mal ferma in quanto ai mezzi di sussistenza, e per quanto mi è sembrato di rilevare, si giudica che sostanzialmente si appoggi sull’ elemosine le quali dopo la nostra morte si pensa che non avranno più corso. Vedete qual brutto scoglio ch’è questo! Io avrei un bel dire, ma se il medesimo E.mo Patriarca meglio informato, non corregge la informazione, poco potrei esser creduto. Per questo dunque è necessarissimo che voi presa la occasion della supplica gli occludiate quel piccolo bilancio che vi ho spedito, onde conoscendo essere il nostro stato diverso da quel ch’ei crede, possa a tempo riparare lo sconcio. Non lascierete ancor di avvertire che le figliuole medesime hanno esse pure tra rendite, pensioni, e limosine un’annuo fondo soprabbondante. Fate questa supplica anche a mio nome, osservando a voce che io mi sono astenuto dal disturbarlo colle mie lettere, avendo un fratello a Venezia che fa per me. Credete certo che questi termini di rispetto non si debbono trascurare. Fatemi sapere come si scrive a D. Lorenzo Barbaro perché ne ho bisogno. Vale charissime.

Vostro aff.mo fratello.”

Sembra dunque che al 25 giugno di quel periodo di lavoro a Roma P. Marco pensasse ancora di far approvare ambedue le Congregazioni, la maschile dei Chierici Secolari delle Scuole di Carità e quella femminile delle Maestre delle Scuole di Carità, convincendone la Congregazione dei Vescovi e Regolari e il Papa stesso della fattibilità della cosa, anche tramite l’appoggio e la testimonianza del patriarca Monico di Venezia.

Il dato di fatto è comunque che si chiese e si ottenne soltanto l’approvazione della congregazione maschile. Non è ancora chiaro quando e come si sia arrivati alla decisione, senza dubbio non facile, di non chiedere l’approvazione del ramo femminile dell’Opera. È un tema da studiare. Nel corso dell’esposizione di questa Storia, più volte si è accennato a motivi e cause possibili o probabili di questa esclusione. E tuttavia la cosa deve essere studiata e risolta, con eventuali documenti che ne rendano conto oggettivamente.

Durante tutto il viaggio e la permanenza a Roma, P. Marco fu accompagnato dalle preghiere, dai sacrifici, dall’affetto dei membri dell’Istituto femminile, come da quelli dell’Istituto Maschile.

Al ritorno, alle Eremite si recitò o si cantò con gioia il “Cantico delle Figlie dell’Ospizio Cavanis all’arrivo del loro Padre Co. D. Marcantonio Cavanis in Venezia da Roma”. Era un cantico di 33 quartine, con rime alterne. Lo recitarono e lo cantarono e fecero festa le suore, nonostante in fondo fossero state escluse dall’approvazione a livello di Chiesa universale, il che depone in favore della loro bontà e dell’amore della congregazione e dei due fratelli fondatori.

Poco conosciuto in congregazione, il suddetto “Cantico delle Figlie dell’Ospizio Cavanis” merita di essere qui riprodotto integralmente e ricordato, anche perché ci fa sentire i sentimenti di queste antiche sorelle:

***NB: Metto un numero ad ogni strofa per indicare l’ordine delle stesse, perché non riesco a ordinare in due colonne regolarmente, pagina dopo pagina, le strofe stesse; per uso di chi preparerà la versione definitiva. Poi i numeri vanno tolti.

CANTICO

DELLE FIGLIE DELL’OSPIZIO CAVANIS

all’arrivo del loro Padre Co. D. Marcantonio Cavanis in Venezia da Roma

1. Dai sette colli un’Angelo

t’accompagnò di Dio.

Ritorni, o Padre amabile,

alfin al suol natio.

2. Alle tue figlie tenere

in sì bel dì felice

no, di starsen mutole

no, buon Pastor, non lice.

3. E se non ponno un cantico

tesser di laude degno,

soffri che almen ti mostrino

del loro affetto un segno.

4. D’affetto tal che accoppisi

col ben dovuto omaggio

a Superior benefico,

a Direttor sì saggio.

5. Di quell’amor che in gemito

ci tenne in lunghi giorni,

di quell’amor che in giubilo

ci mette or che ritorni.

6. Moveasi il cuor a cogliere

di tanti doni il frutto

ed a lodar l’Altissimo

da cui discende il tutto.

7. Udiasi in quelle i fervidi

voti d’un cuore amante,

che per l’amor dei prossimi

pene soffriva e tante.

8. Or sotto ai raggi vividi

di solioni ardenti,

or pesto i piedi celeri

da alpestri vie pungenti.

9. Fra brevi sonni scorrere

le notti pensierose,

più sopra duri aculei

che sopra piume o rose.

10. E i cibi stessi deboli

che non porgeano aita

al fianco lasso e logoro

d’una stentata vita.

11. Solo ed ignoto correre

per l’ampie vie di Roma,

senza conforto e regime

a sostener la soma.

12. Ma quel gran Dio che mise

alla grand’opra e pia

si fa sostegno e guidalo

per l’aspra oscura via.

13. Quel Dio che l’agne gravide

qual buon Pastor si prende

sopra le spalle e portale

alle bramate tende.

14. Che lo conforta ed anima

con tanti obbietti e tanti

recessi venerabili

di Martiri e Santi.

15.Che caro il rende e amabile

ai Porporati Augusti,

che assai benigni accolgono

li bei suoi prieghi e giusti.

16. Che del Supremo al Solio

Pastor gli apre l’accesso

e d’impetrar moltiplici

grazie gli vien concesso.

17. Quella ch’ogn’altra supera

premio di sua costanza,

e dei futuri secoli

consola la speranza.

18. Quella che del magnanimo

suo cuor fu sempre il voto,

onde d’un Opra stabile

riempiere il tetro vuoto.

19. Opra che a tanti miseri

figli di padri inetti

soccorso appresta e guidali

per bei sentieri e retti.

20.Opra che in far degli abili

Ministri ai sacri altari,

dei Padri forma anch’utili

a questi figli e cari.

21. E noi che pur siam minime

in tanto grandi oggetti,

noi pur saprà congiungere

a figli suoi diletti.

22. E la bontà che i teneri

Padri mostraro a noi,

non verrà meno in seguito

nei pii seguaci suoi.

23. Ammiratrici or umili

di tante eroiche imprese,

lodiam quel Dio che l’Opera

or sì gloriosa Ei rese.

24. E lo preghiam che s’emule

del lor zel, giammai

esser potrem degeneri

noi siam dai patrii rai.

25. E nol sarà se docili

ai lor paterni avvisi,

se in lor mai sempre vigili

terremo gli occhi e fisi.

26. Se un cuor sempre magnanimo,

se un sofferente cuore,

se avremo un cuor dolcissimo,

un cuor ch’arda d’amore.

27. Un cuor che sia consimile

al cuor de’ nostri Padri,

ond’esser noi benefiche

a chi facciam da Madri.

28. Ecco, o gran Padre, i fervidi

voti che noi facciamo,

per noi, per Te che meriti

l’amor che ti mostriamo.

29. Vola, consola i gemiti

per così lunga assenza,

del tuo fratel che spasima

goder di tua presenza.

30. E ne solleva il languido

ed abbattuto fianco,

tu che di pesi e palpiti

par che giammai sii stanco.

31. Ben nei malor provvidelo

di forza e di coraggio

il braccio dell’Altissimo

nei dì del suo gran viaggio.

32. E noi godemmo starsene

d’un Altro Padre in seno,

sempre con noi benefico,

sempre con noi sereno.

33. Grazie alla man benefica

d’un Dio che a noi vi dona,

e tu, Padre dolcissimo,

al rozzo dir perdona.

Era stato preparato inoltre un sonetto acrostico per lo stesso evento, forse da essere recitato alla fine del pranzo festivo, con la stessa segnatura nell’AICV:

AL LORO PADRE AMOROSO

reduce gloriosissimo da Roma

Le Figlie del suo Ospizio

SONETTO ACROSTICO

D ono di Dio sei Tu: l’Opra ne gode,

M erito del tuo zel, oggi il gran frutto;

A 1 tuo ritorno trionfal non s’ode

R isuonar che letizia, ov’era il lutto.

C hiara tributa a Te sincera lode

O gnun che sia de’ bei fatti istrutto,

C he ben sa ancor che sai fuggir la frode

C he toglie il merito al Donator del tutto.

A h! che bel dì vedrai, quando disciolto

V errai dal fral che t’impedisce il volo

A 1 Sommo Ben, cui tieni il cuor rivolto.

N on più pene e timor, ma gaudio solo

I  nnonderatti il cuor; frutto raccolto

S ol dai travagli del terrestre suolo.

Le Maestre-suore delle Scuole di Carità Cavanis nel luglio 1838 senza dubbio avranno assistito alle celebrazioni relative all’erezione canonica della Congregazione, presieduta dal card. patriarca Jacopo Monico (16 luglio 1838); almeno con alcune rappresentanti. E forse, ma questo sembra improbabile, qualcuna di loro assistette anche alla vestizione e professione religiosa di P. Anton’Angelo (il 13 e rispettivamente il 14 luglio 1838) e tanto più alla vestizione e professione dei primi altri religiosi Cavanis (15 luglio 1938), tra cui P. Marcantonio. Erano passati 36 anni dall’inizio dell’opera Cavanis, quindi dal 2 maggio 1802.

Non ci fu naturalmente l’erezione canonica dell’istituto femminile. Non ci è dato conoscere in proposito i sentimenti delle Maestre delle Scuole di Carità. Si sa però che il buon patriarca card. Jacopo Monico, dopo il pranzo festivo seguito alla celebrazione dell’erezione canonica, nel refettorio della comunità maschile, cui egli aveva accettato di partecipare, contro le previsioni, questi volle visitare benignamente anche l’Istituto femminile. Così ne scrive P. Marco ai confratelli di Lendinara “Né contento di averci fatto sì bella grazia si degnò pure di consolare nel giorno stesso le nostre buone figliuole all’Eremite visitandole e ricreandole con paterna amorevolissima carità.”. Forse avevano proprio bisogno di consolazione; però questo termine era spesso usato e abusato nell’ ‘800.

Una lettera di P. Marco del 1839 contribuisce a chiarire, probabilmente, il motivo vero per cui non era stata chiesta e quindi non era stata autorizzata l’erezione canonica dell’Istituto femminile. P. Marco rispondeva alla richiesta di un parroco trentino, di un allora sperduto villaggio, che intercedeva presso i Cavanis a favore di una giovane desiderosa di entrare come religiosa nel loro istituto alle Eremite, ma non aveva una dote sufficiente:

“Molto Reverendo SignoreHo tardato a riscontrare la preg.ma sua 14 corrente parte per causa delle continue mie occupazioni e parte per non saper in qual modo determinarmi a rispondere.

Io credo bene che la proposta donzella sia ottima e sia mossa da buono spirito a domandare d’essere accolta nel mio Istituto, ma ciò non basta; perché ci vorrebbe ancora il conveniente provvedimento. Ella non offre che sole 1250 Svanziche, e su queste non si può fondare una dote. Io d’altronde troppo mi trovo ormai aggravato dal peso di mantenere ben molte prive di dotazione; ed ho già preso la massima di non accrescerne il numero, ma di rivoglier piuttosto tutti i miei sforzi per vedere se mi riesca di far qualche fondo all’attuale Comunità, onde provvederne alcune di dote, e togliere il solo ostacolo che rimane alla erezione canonica del pio Istituto, ch’è la mancanza dell’indispensabile requisito di un numero sufficiente di dotazioni. Tuttavia non ho cuore di respinger la istanza, ecc.”.

E di fatto P. Marco accettò la ragazza come postulante, anche con la sua piccola dotazione. Ma il principio, e il problema, erano chiari: l’istituto femminile Cavanis non poteva essere eretto canonicamente a congregazione nella Chiesa universale a causa della mancanza di autonomia economica, secondo la legislazione canonica e i costumi dell’epoca. Questo è quindi un documento importante, anche se diretto a un corrispondente casuale e in qualche modo improbabile.

L’istituto delle Maestre delle Scuole di Carità continuava intanto il suo cammino sereno, semplice ma estremamente fruttuoso. P. Marco poteva scrivere di loro a un suo corrispondente di Grigno in Valsugana, a riguardo di una giovane trentina che desiderava entrare nella comunità delle Eremite:

“Sappia ella dunque non esser questa una Comunità Religiosa canonicamente approvata, ma una pia Casa dove sotto buona e discreta disciplina stanno raccolte circa trenta donzelle che vivono in santa pace fra loro, ben provvedute di ogni spirituale e temporale soccorso, e s’impiegano secondo le disposizioni della obbedienza nel caritatevole ministero della educazione gratuita di molte povere figlie nel timor santo di Dio e nei lavori più proprj alla lor condizione. Non si è potuto finora implorare la canonica erezione dell’Opera, perché manca negl’individui che la compongono il requisito indispensabile della Dote; è però assicurata abbastanza la sussistenza del pio Istituto, poiché tiene per fermo appoggio la cura che se ne prende la nostra Ecclesiastica Congregazione già formalmente eretta e riconosciuta. Quando piacerà al Signore di mandar quì un numero sufficiente di Maestre provvedute di dotazione, allora potrà pensarsi a stabilire la Comunità nelle forme solenni; ed in tal caso, secondo il nostro progetto, sarà sempre da noi proposta la libertà di sortire o di essere escluse con giusta causa dall’Istituto, per ciascheduna delle componenti una tale Corporazione, la quale a somiglianza della Ecclesiastica nostra Congregazione delle Scuole di Carità, brama si che abbia il vincolo dei Voti semplici, ma non perpetui, e soltanto locali, sicché al partire cessano di obbligare chi si allontana dal pio Istituto.

Aggiungerò in fine che la buona Famiglia attualmente raccolta mi dà una grande consolazione, vedendo tutte contente, docili ed applicate con molto zelo e con molto frutto nell’istruire le figlie periclitanti, le quali generalmente corrispondono in modo sì consolante, che si vede l’Opera prosperata dalla divina benedizione e porge occasione di molto merito a chi la esercita, ed insiem di molta allegrezza.”.

Un’altra lettera che chiarisce le caratteristiche e lo spirito dell’Istituto femminile, è del 1842. Parlando all’inizio del tipo della casa di educazione, che si vuol lasciar chiaro che non è (più) un convitto, P. Marco dice:

“…nessuna vi si raccoglie a dozzina, ma vi è soltanto una Comunità di pie donne le quali per sentimento di vocazione e di carità son dedicate a custodire e ad ammaestrare gratuitamente nel buon costume e nei donneschi lavori, a guisa di Madri, un copioso numero di donzelle bisognose di educazione. Convien dunque indicarlo invece nel modo seguente: Istituto delle Scuole femminili di Carità all’Eremite. Questa pia Istituzione venne fondata dalli Sacerdoti Anton’Angelo e Marcantonio Fratelli Cavanis ad oggetto di porgere caritatevole ammaestramento ed educazione cristiana alle donzelle o troppo scarse o mancanti della domestica disciplina. La Comunità dedicata a tale pietoso uffizio gratuitamente, è composta di 25 individui, parte dei quali si occupa nei varj domestici ministeri, e parte nell’istruire, nel custodire e nell’educare con sentimento di zelo e di carità le figliuole che vi concorrono giornalmente in numero di 140. Direttrice la Sig.ra Marianna Santi.”.

Nella primavera del 1844 il comune di Venezia effettua utili lavori di consolidamento della fondamenta de le Eremite, cioè la via sita tra il canale e il monastero e chiesa dell’Istituto Femminile; ma l’edificio ne soffre nella sua statica. P. Marco scrive alla Congregazione Municipale di Venezia. Questa non volle saperne, e in seguito P. Marco dovette ricorrere più in su alla I.R. Intendenza di Finanza, non si sa con quali risultati:

“La rinovazione della Fondamenta dell’Eremite avendo recato uno sconcerto sensibile al Monastero che vi stà sopra, ove trovasi l’Istituto delle Scuole femminili di Carità eretto dai Sacerdoti Fratelli Cavanis, rendesi necessaria una pronta riparazione.

Siccome finora sono riusciti vani gli eccitamenti dati per tale oggetto alle persone addette all’imprenditore di tal ristauro, così li Fratelli stessi, cui spetta l’obbligo di preservare quel fabbricato, sono in necessità di rivogliersi a quest’inclita Cong.ne Municipale pregandola ad ordinar efficacemente all’imprenditore medesimo di riparare colla dovuta sollecitudine ed esattezza li danni cagionati dalle sue operazioni.

12 ap.le 1844.”

Nella stessa primavera, fu necessario ricorrere all’I.R. Magistrato Camerale per chiedere che non fosse aumentato l’affitto dell’edificio delle Eremite, che sembrava voler lievitare in modo impossibile. Risulta quindi che, nonostante tante domande di donazione dell’edificio, esso era ancora in situazione di pesante locazione, 33 anni dopo l’ingresso della comunità femminile e della loro opera. Resterà così nell’anno successivo 1845 e fino alla fine della presenza Cavanis.

Il 19 dicembre 1844 come si sa entrò in congregazione don Vittorio Frigiolini. Oltre a divenire più tardi (1852) il secondo preposito generale, anche se purtroppo per poco tempo, egli sarà anche un prezioso aiuto per l’Istituto femminile, al quale dedicherà uno speciale affetto. Tra l’altro, durante l’assedio di Venezia da parte delle forze armate dell’impero austriaco, sarà proprio lui a trattenersi, come si è detto sopra, a confortare, dirigere, benedire quelle pie Maestre e le fanciulle assistite, senza paura delle bombe austriache.

Nel 1845, al 6 agosto, l’istituto femminile continuava a condurre soltanto una scuola esterna per bambina e ragazze, senza convitto; si viene a sapere anche che la comunità delle Maestre e altre signore addette alla scuola erano in numero di 25; e che le allieve erano 120.

Una lettera dell’11 novembre dello stesso anno, il carteggio relativo e il commento dettagliato che ne fa P. Aldo Servini ci danno molte interessanti informazioni sulla dote che, come principio, le postulanti dovevano portare con sé entrando in religione, non solo nell’istituto di cui si parla ma in genere; e inoltre sui rapporti economici tra la congregazione (diocesana) femminile delle Scuole di Carità, la religiosa e la famiglia della stessa. Qui si trattava della religiosa Marianna Beber (o più probabilmente Weber), la cui situazione economica e familiare e ancora il suo personale carattere dettero molte noie e dispiaceri all’istituto femminile e ai fondatori, particolarmente a P. Marco. Il governo dell’Istituto femminile e delle sue religiose non era sempre, come si vede, un compito facile. P. Marco scrive in proposito, tra l’altro:

“Non avrei creduto mai che l’accogliere con vero sforzo di carità la donzella Beber, che quì mi giunse troppo mal provveduta, mi avesse poi a costare tanta molestia. Pure, partita appena, insorse colla strana pretesa di ricuperare il Capitale della sua Dote convertito già di comune consenso e secondo le intelligenze precorse, in rendita vitalizia. Poi si rivolse al Sig.r Avvocato in Pergine D.r Pietro Chini, interessandolo a frapporsi qual mediatore onde combinar la vertenza amichevolmente dichiarandosi aliena dal promuovere alcun litigio. Egli però mi scrisse chiedendomi dettagliate notizie sull’argomento, ed io le inviai veridiche ed esattissime colla mia lettera 16 febbraio decorso. Or son passati due mesi, e non ne ho ancor ricevuto alcuna risposta. Quello che più mi sorprende è di non vedere nemmeno alcuno il qual munito di legal facoltà e delle dovute cauzioni venga a riscuotere il canone convenuto dal giorno 11 di 9bre 1845 a’ 25 febb.o p.p., in cui è scaduto il primo trimestre, su di che ho scritto una nuova lettera allo stesso Sig.r Avvocato Chini, rimasta essa pure senza riscontro. Intanto ci avviciniamo alla scadenza di un nuovo trimestre che andrà a maturarsi li 23 del venturo maggio, e così si aggravano le partite senza saperne il motivo. Questa oscurità a me non piace per modo alcuno, tanto più che ho fatto conoscere colla citata lettera 16 febb.o decorso con tal evidenza la ingenuità della nostra condotta e la insussistenza della spiegata pretesa, che dubitare non posso di non essere stato inteso. Per togliermi da sì molesto imbarazzo non ho altro mezzo se non che rivogliermi alla di lei gentilezza pregandola d’indurre codesto Avvocato a favorirmi senza ulterior dilazione la conveniente risposta, ed a far mettere in corso la soddisfazion delle rate che si son convenute.

   È tanto chiaro il mio titolo di essere riscontrato, che un semplice cenno il qual ne faccia risovvenir la memoria basterà certamente a farmi avere il dovuto riscontro. In attenzione sollecita di un cortese suo foglio mi pregio di essere ec.

17 aprile 1846.”.

Varie lettere del 1847 affermano ancora chiaramente che non si era potuto chiedere e ottenere dalla Santa Sede l’erezione canonica dell’Istituto femminile a causa dello scarso numero di doti e di altri provvedimenti economici, che ne assicurasse l’autonomia: tra queste, si vedano lettere del 20 aprile, del 2 maggio e del 28 maggio di quell’anno. Si può concludere da questi documenti e da altri citati più sopra con maggior dettaglio, che l’Istituto femminile, pur avendo avuto al suo inizio il sostegno e l’appoggio economico di alcune dame dell’alta società e della nobiltà veneziana, ne era stato poi dimenticato; e che le religiose appartenenti a detto istituto non appartenevano a quella società benestante o ricca, ma erano in genere povere, spesso proletarie, alcune volte analfabete, spesso prive di dote o negli altri casi provviste di doti giudicate del tutto insufficienti nelle forme e nelle misure corrispondenti ai costumi dell’epoca. Da notare che nel decennio degli anni ’30 e ’40 del XIX secolo, almeno, la maggior parte di membri dell’Istituto femminile proveniva dalle valli più interne del Trentino, e principalmente dalla Valsugana, dalla Val di Cembra e a volte dalla Val di Fiemme. Così risulta da numerose lettere citate sopra, e da altre dello stesso ventennio. Casualmente forse, sarà così anche, in tempi molto più recenti, per quanto riguarda le religiose della Pia Società del Santo Nome di Dio, dette Suore Cavanis. P. Marco dice inoltre che, a quelle somme che essi avevano fornito dai loro beni personali e di famiglia, totalmente donati per la manutenzione dei due istituti, maschile e femminile, si aggiungeva in quel tempo soltanto “qualche tenue soccorso della pietà dei fedeli”. Bisogna aggiungere che era venuto a mancare il principale, sistematico e generoso benefattore, il conte Giacomo Mellerio (morto il 10 dicembre 1847), anche se giungeva ancora per parcelle successive il grosso lascito da lui dedicato alle opere Cavanis nel suo testamento. E si può ancora far notare che buona parte delle entrate dell’Istituto andavano al prosieguo del restauro e quasi rifacimento della chiesa di S. Agnese, fino al 1857.

Della situazione dell’istituto femminile delle Scuole di Carità durante gli anni 1848-49, ossia quelli della rivoluzione contro l’Austria, della prima guerra d’indipendenza italiana, delle Repubblica di S. Marco e dell’assedio sofferto da Venezia, si è detto a sufficienza nel capitolo specifico. Basti citare e trascrivere tre lettere di quell’ “agosto di fuoco”, che riguardano specificamente la comunità femminile dell’Istituto. La prima è del P. Vittorio Frigiolini, che era con le suore alle Eremite:

“Padri miei amorosissimi!

Sia ringraziato il Signore, che ci benedisse nella passata notte, notte di spavento e di orrore. Quasi quasi potrei dire con verità che dalle nove ore di sera alle sette di questa mattina fummo sotto una grandine di palle, le quali tutte parevano cadere dentro il nostro recinto. Mercè del validissimo presidio che veglia a nostra difesa, tre sole colpirono in diverse parti il convento, senza danno però di alcuna persona.

Questo è quello che ci consola in mezzo alla tempesta, di veder preservate le persone e la chiesa ad onta che jeri dalle 10 e mezzo antimeridiane alle 12 due palle cadessero una nella camera di Barbara, e l’altra sulla porta della cantina; e delle tre di questa notte una cadesse vicinissima alla chiesa. Di tutto sia Dio benedetto e ringraziato. Non posso dissimulare che queste povere figlie non siano spaventate e sospirano il momento di cantare un Te Deum; tuttavia sono edificato assai della loro rassegnazione e fiducia in Dio. Padri miei desideratissimi, diano lume per carità ad un povero cieco; essi sanno d’avermi dato carta bianca pel governo interinale di questa casa: se ci fermassimo qui tranquilli e quieti sotto il manto di Maria sarà presunzione; e nascendo qualche disgrazia (ciò che tengo per fermo non sia per avvenire), sarei tacciato giustamente d’imprudenza? Voglio sperare che la cosa non andrà più tanto in lungo; ad ogni modo il loro parere mi sarà un farmaco giovevolissimo. In questo punto cade sulla Fondamenta vicina una palla. Nessuna di queste figlie mai mi mostrò desiderio di riparare altrove, e con noi sono anche quelle figlie Convalescenti. Fra’ Cherubino darà loro più dettagliate notizie. Io grazie a Dio sto benissimo e spero che il Signore mi benedirà sino al fine, e mi stimerei troppo fortunato se la mia vita potesse servire a placare il suo giusto sdegno. Fiat voluntas Dei in omnibus, in omnibus, in omnibus.

Bacio loro le mani in un con tutte le loro figlie aff.me, e mi consolo nel potermi chiamare ed essere

Dall’Eremite li 8 corr[ente].

Loro aff.mo umilissimo Figlio

P. Vittorio Frigiolini

delle Scuole di Carità.

Tramite il “corriere” fra’ Giovanni Cherubin, P. Marco rispondeva a stretto giro di “posta”:

Car.mo P. Vittorio

Quantunque noi ci troviamo, quanto alla casa, finora illesi dai colpi, pure le palle che tempestano dappertutto, e specialmente sopra codesta dilettissima Comunità, ci piombano proprio sul cuore e non mi lasciano tanta lena nemmen da scrivere poche righe a loro conforto. Non saprei esprimere in nessun modo la tristezza e la compassion che ci opprime. Povere figlie e povero Padre che con tanto zelo le assiste, quanto son tribolati! Ed è tanto più vivo il nostro dolore perché non sappiamo come poter sottrarle da tanta angustia, essendo ormai la città tutta esposta ai colpi ed al fuoco. Se il Parroco Salsi, che ha pur tante relazioni meglio di me, non può sottrarre al pericolo le sue figlie, come potrei io, che non so nemmeno come poter muovere un passo? Noi ci siamo interinalmente salvati perché la Provvidenza ce ne ha dato il modo, e sarebbe stato un pretender miracoli senza necessità rifiutandolo; ma chi non può trovare altro asilo, non può se non che abbandonarsi con piena rassegnazione e fiducia nelle amorose mani di Dio. Sì che il Signore benedirà codeste Serve fedeli che in lui confidano e che tutte son dedicate alla maggior sua gloria e alla salute delle anime a lui sì care. Noi non possiamo se non che offrire il palazzo delle Scuole, se lo credesse opportuno, ed il pieno contentamento ad ogni disposizione che il Signore ispirasse a lei di prendere in momenti per cui non basta qualunque umano consiglio. Preghiamo la divina bontà colla maggior effusione del nostro cuore a degnarsi di benedire codesta amata Famiglia, e lo speriamo assai fermamente. t doloroso il conflitto, ma tutto induce a pensare che anche sia breve. Creda pure che noi prendiamo parte assai viva del loro affanno, e non sappiam nemmeno per tanta calamità gustar la pace del tranquillo nostro soggiorno. Il Signore c’illumini e ci conforti e ci ajuti a trarre dall’attuale flagello quel frutto per cui ce lo ha mandato amorosamente, e sarà allora molto maggiore la consolazion della pena. Mio Fratello esprime col mezzo mio questi medesimi sentimenti, ed assicura la di lei magnanima carità di tutta la sua gratitudine, e la buona Comunità di tutto il suo sentimento, e benedice di tutto cuore e saluta meco con ogni affetto e Padre e figliuole, mentre io facendo altrettanto ho il piacere di protestarmi

       8 agosto 1849

Di lei

Obblig.mo Aff.mo Amico

P. MA. Cavanis.

Come scrive P. Aldo Servini, dopo aver fatto avere al p. Vittorio la lettera precedente, il P. Marco gli inviò Fra’ Angelo Facchinelli per fargli sapere di aver trovato un rifugio anche per quella comunità così provata. Ma alla proposta di trasferirsi, la comunità tutta d’accordo risponde: «[…] noi ci fermiamo dove siamo Li». Allora il p. Vittorio, con le lacrime agli occhi per la commozione, scrive la seguente, che fa avere, forse, per mezzo dello stesso fratello laico.

“V.G.V.M. V.S.A.L.

Padri miei amorosissimi!

Io vengo in questo punto dalla comunità raccolta cui ho fatto leggere la lettera del P. Marco per non averla potuta leggere io, non reggendomi il cuore ai loro affanni. Non posso scrivere, ché mi trema la mano e mi sgorgano le lagrime; dirò solo con somma mia consolazione che tutte ad una voce dissero: noi ci fermiamo dove siamo. Dio e Maria ci benediranno e i Padri pregheranno per noi. In quanto a me volentieri animam meam pono pro animabus, se Dio mi crede degno.

Prostrati tutti ai loro piedi chiediamo la santa benedizione e mi credano

Dall’Eremite li 8 corr[ente].

Loro Figlio attaccatissimo

P. Vittorio Frigiolini

Delle Scuole di Carità

Più tardi P. Marco scriverà che “Essendo cadute circa 40 palle di cannone sul locale dell’Eremite nel recente bombardamento della città”, chiedeva “le convenienti riparazioni”. E, della guerra, satis.

Intanto P. Marco scriveva al fratello del P. Matteo Voltolini, Antonio Voltolini, che era parroco a Lavarone, delle notizie sulla sua salute e sulle sostanze, situazione piuttosto disastrosa; e scrive in un contesto che riguarda l’Istituto femminile e le numerose ragazze senza dote o con dote scarsissima (da mezza svanzica al giorno!), che volevano entrare nell’istituto delle Eremite, già fortemente impoverito:

“Sappiate intanto che le due turbe delle mie dilettissime pecorelle mi hanno mangiato ormai non che tutte le familiari sostanze, ma eziandio le forze e quasi affatto la vita. Sul termine dell’anno scorso tanto mi è convenuto moltiplicare gli sforzi, che mi parea di essere stirato sopra l’eculeo, e tratto tratto non potea muovere i passi con piede fermo, sicché mi trovava costretto a farmi condurre a casa per mano altrui, che le slogate giunture non mi reggevano in piedi. Anche il sangue ben lungamente fu stretto in un torchio sì doloroso di crudo gelo per continuo rifiuto anche di tenui soccorsi, che n’ebbi a soffrire forti e frequenti accensioni al capo, colle quali tornato a casa dovea tosto al tavolino sforzarmi a scrivere, e quindi ne restavan offesi li nervi ottici, e mi si è offuscata ed indebolita la vista senza speranza di recuperarla mai più, mentre pure a fronte della età ottuagenaria l’avea sempre goduta assai vigorosa.

Con questa premessa lascio a voi giudicare se mi convenga assumere nuovi pesi e non contentarmi di aver cinquanta persone che da me aspettano in ciascun giorno il provvedimento in ogni lor ordinaria ed estraordinaria necessità, oltre ad un turbine di altre spese e di occupazioni incessanti.”

Le ultime lettere di P. Marco, anche a nome del fratello, per la salvezza dell’Istituto femminile che era in grave pericolo, sono del 1853, pochi mesi prima della sua morte del P. Marco. Tra queste sono tre lunghe lettere, due al patriarca Mons. Pietro Aurelio Mutti e una al nuovo imperatore, Francesco Giuseppe. Esse riguardano l’ultimo pericolo della comunità femminile e della loro scuola, perché l’Intendenza delle Finanze intendeva vendere all’asta l’edificio delle Eremite e l’Istituto si trovava nell’impossibilità di disporre dei fondi necessari per partecipare all’asta e vincerla, L’intervento dell’imperatore fece desistere l’Intendenza delle Finanze dalla vendita e dall’asta. L’intervento del patriarca era stato senza dubbio importante e una richiesta di informazione da parte del governo imperiale aveva frenato l’Intendenza, in attesa di una sua decisione, che non venne. In ogni caso, le Maestre delle Scuole di Carità e le povere fanciulle assistite poterono rimanere alle Eremite. Nell’operazione, oltre P. Marco, entrò anche P. Sebastiano Casara, che dal 1852, dopo il breve mandato del P. Vittorio Frigiolini, era diventato preposito generale.

Dopo la morte dei due benedetti fratelli, numerose grazie occorsero soprattutto nella comunità femminile, dove la devozione ai fondatori era molto forte. Si trattava sia di grazie della salute a malate gravi, sia alla sanificazione dell’acqua del pozzo del monastero delle Eremite, nel 1875, che da imbevibile, per intercessione dei fondatori divenne ottima e totalmente potabile.

D’altra parte, dopo la morte di P. Anton’Angelo, avvenuta il 12 marzo 1858, sembrava ancora più difficile mantenere in piedi l’Istituto femminile, quando anche il maschile si trovava in situazione precaria dal punto di vista economico.  Arrivò quindi il momento di pensare ad altro.

4.7 L’Istituto femminile confluisce nella congregazione della Figlie di Carità Canossiane

Già nel Capitolo provinciale ordinario del 1861 (14-17 settembre 1861), tre anni dopo la morte dell’ultimo dei fondatori, si era trattato, nella parte conclusiva, dell’istituto femminile. “La casa, che attingeva costantemente alle entrate della congregazione, andava incontro a un avvenire meno incerto: esisteva infatti fin dal 21 febbraio di quell’anno un progetto di unirla alla congregazione della Canossa. Nel frattempo il Comune [di Venezia], dopo tanto interessamento del Casara, acquistò il monastero delle Eremite e aveva già pronto un atto di cessione d’uso”.

P. Casara era infatti da tempo in trattative: il 21 febbraio 1861 scrive nel Diario: “Scrivo ai due PP. Definitori in Lendinara intorno all’idea di unire il feminile Instituto all’Eremite con quello delle Canossiane. Di che racconto la storia dell’andamento delle cose fin qui, e unisco una Carta del P. Marco, una del P. Giovanni e una mia. Ingiungo loro di rimettermi tutto, anche la lettera che ho scritto io, non avendone potuto far copia”. Scrive in seguito: “La Superiora delle Canossiane in Verona mi risponde (v. n. 114), non trovando difficoltà per l’accettazione del Progetto, ma che sarà necessaria una gita colà”.

La “gita” a Verona fu realizzata il 10 aprile successivo. P. Casara scrive nel Diario: “Con la seconda corsa mi son recato a Verona, e, giuntovi, mi son recato subito a S. Giuseppe dalle Canossiane. Avvisato e venuto anche il loro Superiore, R.do Piatti Economo Spirituale in S. Zenone, si è discorso a lungo sulla proposta unione, e si è conchiuso:

1°. Che io sentirò i Compagni sul punto, che possa essere Superiore delle Canossiane all’Eremite anche chi non fosse il Preposito, ma il fosse stato.

2°. Che saprò dir loro precisamente qual somma annua la Congr.ne s’impegnerebbe di aggiungere alle attuali rendite del feminile Instituto, e ciò finché non si fosse dalla Congreg.ne stessa trovato per esso Instituto altra rendita ecc.

3. Che manderò la Nota delle attuali ivi viventi con la età rispettiva.

4. Che, combinata la cosa, la M[adr].e Annetta Rizzi verrà a stare alquanti giorni nell’Instituto, e dietro quello che si vedrà decideranno il da farsi in seguito”

Il 22 aprile 1861 P. Casara scrive nel Diario: “Ier sera [21 aprile] ho convocati i due Definitori di qui, ed ho riferito loro quanto avevo trattato con le Canossiane a Verona (vedi ai 10 [aprile]) come avevo già fatto coi due di Lendinara e si deliberò com’è detto nel relativo processo verbale”.

E il 24 aprile: “Scrivo alla Superiora delle Canossiane in Verona, conformemente alle deliberazioni fatte Domenica, e tra le altre cose domando che sia detto da loro il quanto annuo che credono dover domandare pel mantenimento della Casa, tutto compreso”.

Da una nota del 27 aprile 1861, si viene a sapere che i Cavanis continuavano a pagare l’affitto del monastero delle Eremite, e che ricevevano però un sussidio dalla Luogotenenza; e ancora che tale sussidio era in ritardo e non veniva versato da 10 mesi. I fiorini corrispondenti, 175,-, una grande somma, come si apprende dalla gioia espressa da P. Casara nel Diario, furono versati il 28 maggio successivo.

Il 10 maggio il padre “compiega” in una lettera all’amico rosminiano Angeleri una lettera per la Superiora delle Canossiane che continua il dialogo e risponde a una sua.

Si tiene pure un capitolo locale della comunità (maschile, naturalmente!) di Venezia per dibattere la questione della fusione con le canossiane.

Il 24 maggio 1861 P. Casara scrive: “Mando alla Superiora delle Canossiane in Verona, dietro il convenuto nell’ultimo Capitolo (n. 195), tutte le condizioni a cui si adottò di fare la unione. Alcune di queste sono espresse privatamente nella lettera, dieci in apposito Foglio”.

L’8 giugno successivo si viene a sapere che l’Istituto femminile riceve ancora una richiesta di una giovane che vuol entrarvi, con l’appoggio del Maestro di Camera del patriarca e con l’aiuto economico di una pia signora. Non sappiamo se fu ricevuta.

Una risposta piuttosto negativa fu ricevuta da P. Casara dalla superiora delle canossiane l’8 giugno: alcune delle condizioni proposte da lui, col consenso della comunità, anzi qualcuna “principale”, cioè importante, non vengono accolte, e la questione dell’unione si vede più lontana.

Venerdì 14 giugno 1861 il preposito riunì la comunità e lesse la lettera giunta da Verona: i padri “non trovarono di piegarsi a sostenere, oltre il tempo di prova, anche il mantenimento di due Canossiane, come dichiarava necessario la detta Superiora. Le scrivo perciò oggi che dunque bisogna sospendere, e, per ora almeno, riconoscere che Iddio non vuole la unione desiderata. Aggiungo, che la M.e Rizzi non troverebbe la difficoltà che apprenda; e chiudo dichiarando che conviene continuar a pregare; e chi primo avrà qualche cosa di nuovo, primo scriverà”. La superiora risponde il 21 giugno, a giro di posta, rispondendo che “ogni trattativa resta per ora sospesa affatto, e vedremo se piacerà a Dio che si riprenda.” Seguirà un lungo silenzio da ambe le parti.

Nel DC, si fa un rapido riassunto dei lavori del capitolo provinciale del luglio 1861, ma non si parla del caso dell’unione delle Maestre delle Scuole di Carità con le Canossiane.

Il 29 ottobre 1861 P. Casara riunisce il capitolo locale di Venezia e insieme decidono di “invitare le Figlie della Carità di Verona a visitare l’Instituto feminile, per poi tornare a far la prova della unione desiderata”. Sono i nostri allora che avevano più bisogno dell’unione, forse perché aumentava su di loro il peso a livello di personale e di spese. La superiora risponde avvertendo che il 17 novembre visiterà l’istituto femminile a Venezia, assieme alla Sr. Rizzi.

Il 16 novembre P. Casara riceve una lettera dalla superiora delle canossiane: “La Superiora delle Canossiane in Verona, che fu qui con la M.e Rizzi, come aveva promesso (v. n. 477), mi scrive ciò che troverebbe necessario per la effettuazione della unione desiderata”.

“Sabbato (14). Scrivo alle Canossiane a Verona, rispondendo all’ultima loro (n. 489) che non c’è alcuna difficoltà, e che desidero molto la lettera che mi annunzi quando verranno”. Le suore rispondono il 18 dicembre, a stretto giro di posta: “La M.e Elisabetta Nespoli, rispondendo all’ultima mia (n. 529) mi dice essere la M.e Rizzi con le due compagne destinate per nostro Instituto in libertà, e che disponga io quando debbon venire”.

A questo punto bisognava ricorrere alle autorità del patriarcato di Venezia (che del resto dovevano già essere a conoscenza delle trattative in corso), dato che “l’unione desiderata” si avvicinava e cominciava a concretizzarsi. Il 21 dicembre, tempo poco opportuno invero, durante la novena di Natale, P. Casara scrive nel Diario: “Estendo al Revmo M.r Vic.o Gen.le Cap.re il Rapporto di ciò che si è conchiuso con le Madri Canossiane riguardo al feminile nostro Instituto, e ne domando l’approvazione e la benedizione.”

Il 23 dicembre, il Casara invia gli auguri (di Natale) alla N.D. Morosini e “così le do la notizia del feminile nostro Instituto, che sta per divenire una Casa di Canossiane”. Martedì 24 dicembre poi scrive: “Scrivo alla M.e Elisabetta Nespoli, che le tre Religiose, destinate per le Eremite, venissero Lunedì 30, per cominciare il loro Governo il primo dell’anno, sotto gli auspicii del santissimo amabilissimo e potentissimo Nome di Gesù.” La superiora però risponde che non possono il 30 dicembre e che verranno il giovedì 2 gennaio 1862.

L’arrivo delle suore canossiane e la nuova fase della casa delle Eremite iniziano dunque con l’anno 1862: “Giovedì (2). Come aveano promesso, sono oggi venute le MM. Canossiane, che devono fermarsi nel nostro feminile Instituto, accompagnate dalla Superiora di Verona che ha pure un’altra pel ritorno: cinque in tutto. Sono state accolte dalle nostre sorelle con grande allegrezza, e fatto capire a farne sperare un felicissimo riuscimento. Il loro Superiore di Verona, Don Francesco Piatti, non potendo accompagnarle di persona, le accompagnò con lettera, in cui si assicura, che anche le due compagne date alla M.e Rizzi sono bravissime ed ottime Religiose”.

Il 13 gennaio 1862 il Diario annuncia: “Le cose delle Eremite procedono mirabilmente: l’ordine, l’osservanza, la contentezza vi sono ogni dì meglio; e vi cresce anche molto il concorso. Ne scrivo dunque, a consolante notizia, alla M.e Nespoli in Verona”. Era realmente una buonissima notizia. Si può immaginare con quale difficoltà, oggi come allora, possano essere accolte delle suore di un altro istituto che vengano a governare nel proprio istituto; e la storia ci insegna, attraverso molti casi, la difficoltà della buona riuscita di simili unioni, che pure sono utilissime, dato il numero eccessivo di istituti religiosi. Se ne parlava anche nel Concilio ecumenico Vaticano II: “Le federazioni tra i religiosi. 22. Gli istituti e i monasteri sui iuris, secondo l’opportunità e con l’approvazione della santa Sede, promuovano tra di loro federazioni, se appartengono in qualche maniera alla stessa famiglia religiosa; oppure unioni, se hanno quasi uguali le costituzioni e gli usi e sono animati dallo stesso spirito, soprattutto se sono troppo esigui; oppure associazioni, se attendono alle stesse o a simili opere di apostolato.”.

Eppure da allora ben pochi istituti si sono federati, pochissimi si sono uniti o fusi. Nella maggioranza dei casi, anche istituti religiosi “troppo esigui” si rifiutano di unirsi, per non aver l’impressione di venir schiacciati dalla preponderanza di istituti simili e fraterni, ma maggiori.

Un caso classico è quello della tentata unione (nel 1613) tra la congregazione, ancora informale, degli Scolopi (più tardi ordine dei Chierici regolari delle Scuole Pie, fondato da S. Giuseppe Calasanzio) e quello della Chierici regolari della Madre di Dio (fondato da San Giovanni Leonardi). L’unione tuttavia in pratica non funzionò e fu annullata; e Paolo V, con un breve del 6 marzo 1617, eresse la Congregazione paolina dei poveri della Madre di Dio delle Scuole pie, avente lo scopo di istruire gratuitamente i bambini, e nominò Giuseppe Calasanzio superiore generale del nuovo istituto. Fu data la possibilità ai membri dei Chierici regolari della Madre di Dio (detti anche “i lucchesi”) di divenire membri della nuova congregazione e il Beato Pietro Casani, con pochi altri, accolse l’invito. Il 25 marzo 1617, alla presenza del cardinale Giustiniani, i primi quindici membri del nuovo istituto ricevettero l’abito, primi tra tutti Giuseppe Calasanzio e il Casani. Altri compagni lo avrebbero ricevuto più tardi.

Tanto più stupisce e dà gioia dunque questa unione tra le Canossiane e le Maestre delle Scuole di Carità, il cui numero era realmente scarso e non tendeva a crescere, al contrario diminuiva (erano 14 o 12, secondo le fonti, al momento della fusione), mentre le Canossiane erano in espansione. Ne era soddisfatta, come P. Casara, così anche la superiora delle Canossiane: “La M.e Elisabetta Nespoli, Superiora delle Canossiane a Verona, risponde molto contenta delle due ultime mie (nn. 25 e 33); ed esprime molta speranza di ottimo riuscimento”.

Intanto l’istituto maschile si preoccupava ancora dell’istituto femminile, anche se a questo punto avrebbe potuto lasciarne la responsabilità e l’onere alle Canossiane, che stavano per assumerlo; ma si sa come sono fatti i preti! P. Sebastiano Casara continuava ad occuparsi di tutto, per lasciarlo in buone condizioni; così, al 2 febbraio 1862, troviamo nel Diario: “Questo nostro Municipio mi accompagna la minuta dell’Instromento di cessione del Convento dell’Eremite ad uso perpetuo del feminile Instituto; acciocchè, valutatala, gliela rimetta ecc.”. E il 9 febbraio 1862: “Scritta jeri sera una privata Informazione e Preghiera per darla al Podestà ed a ciascuno degli Assessori municipali, ad impegnarli così a favorirci in quello che dovrò rispondere nel ritornare la minuta del Contratto di Cessione (n. 66), le cui condizioni non possiamo assolutamente accettare”. La risposta sarà poi inviata dal Casara al Municipio il 14 febbraio.

Il 30 aprile 1862 P. Casara scrive nel Diario: “Scrivo alla M.e Elisabetta Nespoli Superiora in Verona, sull’ottimo andamento delle cose nel feminile Instituto, per la cui fusione col Canossiano [Istituto] converrà cominciare ad intenderci sulle prossime disposizioni, e le parlo dell’abito in relazione alla mia del 23 maggio e la sua risposta del 4 giugno dell’anno passato”. La madre risponde il 15 maggio, con le scuse per il ritardo; si rallegra della situazione, è d’accordo sull’abito e sul fatto che “per qualche cosa converrà scrivere a Roma”. Il sabato successivo 18, P. Casara annota: “Fo supplica al Mr Vicario Gen.le Cap.re, perchè ci ottenga dalla Santa Sede la grazia di antecipare la vestizione e poi la professione alle sorelle del feminile Instituto, dopo effettuata la unione con quello delle Canossiane; e ciò in relazione a quanto mi scrisse da Verona la Superiora (n. prec.)”. Un’altra lettera che comunica buone notizie alla superiora in Verona è del 10 agosto 1862.

Ancora sulla cessione dell’edificio delle Romite: “Il Municipio mi comunica la deliberazione del Consiglio comunale riguardo al Convento delle Eremite, approvata dal Collegio provinciale; e mi invita a concertare col Notajo per la stipulazione del Contratto di Cessione (v.n.n. 66 e 85)”. P. Casara tuttavia rinuncia a procedere con il contratto davanti al notaio, e chiede siano finalmente eseguiti i restauri richiesti da sì lungo tempo. La discussione prende a volte la forma di una vera lite con il municipio a proposito dei restauri, e poi dell’esenzione delle imposte della chiesetta di Gesù, Maria e Giuseppe e per parte dell’edificio dell’istituto femminile; tale situazione continuerà lungo tutto il 1862, e se ne troveranno spesso le tracce nel diario della congregazione.

Il 6 novembre 1962, troviamo nel diario: “Scrivo al Patriarca per un Attestato, da passare poi al Municipio, acciocchè ottenga la esenzione della Chiesa delle Eremite e delle Scuole dalle pubbliche imposte.” L’attestato è poi ricevuto dal Patriarca, e inviato al municipio.

Fino alla fine del 1862, si trova nel Diario solo riferimento agli auguri di buone feste inviate dalla superiora delle Canossiane in Verona ai padri di Venezia.

La prima comunicazione tra i due istituti nel 1863 è trascritta qui per ridere: “Scrivo alla Superiora [generale] delle canossiane a Verona, pregandola di farmi avere un disegno con relativa descrizione di un ordigno per rimestare e cuocere la polenta. Le parlo con tale occasione del feminile Instituto.” Di altri dettagli pratici e minimi si parla qua e là nel DC nei primi mesi del 1863. Fa impressione pensare che il preposito generale dell’Istituto maschile dovesse occuparsi, consultasse e fosse consultato su cose tanto minime! In un altro caso deve occuparsi lui stesso di “rovinassi” che erano stati gettati nel canale delle Eremite.

Ma si arriva a decisioni più importanti. Il 7 maggio 1863, P. Casara annota: “Scrivo al Patriarca, significandogli che si vorrebbe fare la vestizione e la fondazione all’Eremite il giorno 2 del p.v. Luglio, e pregandolo che si compiaccia fare una visita all’Istituto, per riconoscervi di persona lo stato delle cose”.

E il 16 successivo: “Scrivo alla M.e Elisabetta Nespoli sulle cose che si vanno disponendo all’Eremite e sulle consolazioni che ivi ne sentono tutte, ed io con esse”.

La risposta del Patriarca Giuseppe Luigi Trevisanato, ora cardinale, giunge ben presto: “Risponde in modo di grande conforto l’Em.mo Patriarca al mio Rapporto per l’Eremite (n. 216), e promette di recarsi a visitare quanto prima quell’Instituto. Ma la lettera è giunta dopo ch’egli vi avea già fatta la visita. Vi è stato jeri dopo pranzo alle due ore, ed ha sentito singolarmente ciascuna, Canossiane e nostre; e si è dichiarato molto contento di ciò che conobbe personalmente”.

“Lettera della M.e Nespoli. È consolatissima delle notizie avute: verrà qualche dì prima della fondazione: desidera prossimamente notizie del come saranno stabilite le cose pel giorno della erezione”.

Importante la notizia che segue nel diario: “Martedì (2) [giugno 1863]. Ho portato al M.r Cancelliere una Memoria di ciò che può o deva essere espresso nel Decreto Patriarcale per la erezione del feminile Instituto in una Casa di Canossiane – Scrivo anche al Municipio, perchè, nell’Instromento di cessione del Convento, sia aggiunto un articolo addizionale, pel caso di scioglimento o successivo ripristino dell’Instituto”.

“Sabbato (13 giugno). Il Municipio mi avverte di aver adottato l’articolo addizionale da me domandato nell’instromento pel Convento dell’Eremite, ed essere stabilito il giorno 22 del corr.[ent]e [mese] per la stipulazione”.

“Martedì (23). Recatomi oggi in Patriarcato vi ho trovato non ancora stabilito con precisione quanto e come sia da esprimere nel Decreto di fondazione del feminile Instituto; e il M.r Cancelliere, incaricato di prepararlo, su alcuni punti molto indeciso. Ne ho parlato quindi con M.r Berengo, il quale ne tratterà col Cancelliere; e gliene fo una Memoria in iscritto”.

A quel tempo i parroci veneziani (e probabilmente di altre città) si preoccupavano dell’eccessivo numero di chiese conventuali, religiose, di confraternite e di altro tipo presenti in città e un particolare nel territorio delle loro rispettive parrocchie, che potevano fare e facevano concorrenza alla chiesa parrocchiale. La situazione era ben meno grave che nel periodo anteriore alle due grandi soppressioni di istituti, di confraternite e di chiese avvenute nell’epoca napoleonica; pur tuttavia esisteva ancora, ed esiste in parte anche oggi. Da questa la nota seguente nel Diario: “Avuto jeri colloquio col Paroco di S. Trovaso sul diritto di aprire la Chiesa dell’Eremite, subito che sia canonicamente fondato l’Istituto, gli comunico oggi in copia i passi del Breve Apostolico e delle Regole delle Canossiane che a questo punto si riferiscono”.

Sempre P. Casara, scrive nel Diario: “Ho ricevuto oggi il Decreto per la erezione del feminile Instituto in una Casa di Canossiane. È pienamente conforme a quanto io avevo proposto, sì pei nostri patti colle stesse Canossiane, sia riguardo ai diritti propri del nuovo Instituto.”

Il 30 giugno 1863 infatti il Patriarca Giuseppe Luigi Trevisanato aveva emanato il seguente decreto, di cui diamo qui il testo completo, in una nostra traduzione italiana per comodità dei lettori; è interessante pubblicarlo integralmente, sia perché si tratta di un documento che rende conto di un evento importantissimo (e spiacevole) della Congregazione delle Scuole di Carità, che ridusse, spinti dalla necessità, alla metà l’opera dei fondatori; sia anche perché alcune importanti condizioni non sono mai state osservate dalla comparte:

(Stemma del patriarca a due colori, rosso e nero)

GIUSEPPE LUIGI TREVISANATO

CARDINALE PRESBITERO DI SANTA ROMANA CHIESA

CONSIGLIERE INTIMO DI SUA CESAREA REGIA AUGUSTA MAESTÀ

CAVALIERE DI I CLASSE DELL’IMPERIALE ORDINE AUSTRIACO DELLA CORONA FERREA

E PRELATO CAPPELLANO DI SUPREMA DIGNITÀ

DELLA CORONA DEL REGNO LOMBARDO-VENETO

ABATE COMMENDATARIO PERPETUO DI S. CIPRIANO DI MURANO

PER MISERICORDIA DIVINA

PATRIARCA DI VENEZIA, E PRIMATE DELLA DALMAZIA

ECC. ECC. ECC.

Al nostro carissimo in Cristo il Reverendissimo D. Sebastiano Casara, Preposito della Congregazione delle Scuole di Carità in questa Città, e a tutti gli altri qualsivoglia, ai quali riguardi la Nostra presente, Salute nel Signore.

Essendo giunto il tempo, con l’aiuto di Dio Ottimo Massimo, in cui, avendo completato l’esperimento non solo di sei mesi, affinché la pia casa delle Eremite istituita dai presbiteri fratelli conti de’ Cavanis, fondatori in questa città della Congregazione delle Scuole di Carità, le Figlie della Carità, a. f. r. Marchesa di Canossa popolarmente chiamate Canossiane possano d’ora in avanti prenderne cura e direzione, dal primo giorno di gennaio 1862, in cui cominciò la prova, compiendosi col primo del p.v. Luglio 18 mesi, che, giusta le Costituzioni delle medesime Figlie della Carità si ricercano perché possano esser ammesse alla vestizione dell’abito le addette alla prefata casa dell’Eremite; Noi, inerendo al Decreto di questo Ordinariato Patriarcale del dì 27 dicembre 1861, sotto il N° 780/400 Sett. II, dato in S[ede]. V[acante]. e molto volentieri annuendo alle istanze della predetta Congregazione delle Scuole di Carità abbiamo giudicato nel Signore di dover decretare la incorporazione ed unione della stessa Casa delle Eremite con la Famiglia delle Figlie della Carità, e di due Istituti o Congregazioni erigerne e fondarne una sola; come in effetto con le presenti, per l’Autorità Nostra Ordinaria di cui fungiamo in questa parte, vogliamo che essa dal giorno 2 del p.v. mese di Luglio sia eretta e per tutti i futuri tempi sia fondata; lo vogliamo, la erigiamo e la fondiamo.

A questo effetto pertanto, come condizioni immutabili del Decreto di questa erezione e fondazione, decretiamo e stabiliamo le cose che seguono, cioè:

1. Che la nuova Congregazione o Famiglia così eretta di figlie della Carità conservi in perpetuo il nome di Istituto Cavanis, perché si abbia la riverenza dovuta ai piissimi Fondatori.

2. Che il Padre spirituale ossia Superiore della detta Famiglia sia o il Preposito o un altro Sacerdote della Congregazione delle Scuole di Carità, che le Figlie stesse abbiano riconosciuto ad esse opportuno; riservata però a Noi e ai Nostri successori l’approvazione del medesimo superiore, se egli ci parrà conveniente.

3. Che a Confessori straordinari da assegnarsi nei tempi stabiliti regolarmente alla stessa Famiglia, si scelgano sempre altri Sacerdoti (assolutamente non addetti alla prefata Congregazione delle Scuole di Carità), e siano dal Patriarca pro tempore approvati.

4. Che non essendo ancora la nuova Casa provveduta di proprie rendite sufficienti, la suddetta Congregazione delle Scuole di Carità, a cui i venerandi Fondatori affidarono l’Istituto delle Eremite, di cui sopra è detto, sia tenuta a supplire e somministrare il necessario per 17 Figlie, pagando cioè annualmente alla Casa stessa la somma di Fiorini nuovi austriaci 1861 e 50 soldi, distribuita in rate trimestrali, ossia Fiorini 465,37 1/2 per trimestre: la qual somma corrisponde alla pensione quotidiana di soldi 30 per ogni Figlia. Se poi qualcuna delle 14 donne che erano addette al precedente Istituto delle Eremite venga a mancare di vita, questa pensione proporzionalmente si diminuisca, finché restino alle Figlie della Carità le rendite proprie dell’attuale Istituto che devono rimanere in perpetuo a loro vantaggio. Le Figlie della Carità poi sono tenute a provvedere per due delle cinque che ora si trovano nella Casa come per quelle che vi ammetteranno.

5. Che quanto è nell’Istituto e nella Chiesa annessa, sia per quanto riguarda la Chiesa come la Casa e il personale alla stessa addetto, passi tosto in dominio delle Figlie della Carità.

6. Che la Congregazione delle Scuole di Carità sia tenuta a provvedere ogni giorno, senza stipendio alcuno, alla necessaria celebrazione della Messa nella chiesa della Casa eretta.

7. Che la chiesa, le persone e la casa della famiglia delle suddette Figlie della Carità siano esenti d’ora in poi dalla giurisdizione parrocchiale, e siano immediatamente soggette a Noi e ai nostri successori.

8. Che sia ufficio dei confessori della stessa famiglia l’amministrazione della Santa Sinassi Pasquale, del Sacrosanto Viatico, e dell’Estrema Unzione sia alle figlie della Carità sia alle fanciulle interne educande, sia alle donne interne per causa di Esercizi che, durante la loro abitazione nella Casa, si ammalassero gravemente.

9. Che, se venisse a morire qualche Figlia della Carità, o fanciulla, il diritto dei funerali si conservi integro e inviolato nelle mani del confessore; i funerali siano eseguiti senza nessuna pompa e del tutto a norma delle Costituzioni.

10. Che secondo le stesse Costituzioni nella Chiesa instituita annessa [alla] casa si possa conservare il Sacramento dell’Eucaristia, sotto le condizioni stabilite al riguardo dai sacri canoni, e che la chiave del tabernacolo sia custodita diligentissimamente dalla Superiora dell’Istituto.

11. Che la porta di detta Chiesa possa essere aperta, durante la celebrazione della Messa, e l’amministrazione dei Sacramenti.

12. Che le funzioni mattutine della Settimana Santa si possano compiere a porte aperte, purché esse siano terminate prima che comincino nella Chiesa Parrocchiale, e che siano eseguite, secondo prescritto dalle Costituzioni, senza musica.

Così esigiamo, fondiamo, risolviamo e stabiliamo, ardentemente confidando nel Signore, che per il resto con questa nuova Casa in questo modo eretta sorgano abbondanti nuovi frutti per maggiore gloria di Dio, per vantaggio delle anime, come pure per l’educazione principalmente cristiana delle fanciulle: al fine poi che tutto ciò si possa compiere più facilmente, impartiamo di tutto cuore a te, Reverendissimo Padre, e a tutte le figlie addette alla stessa Casa la benedizione Pastorale.

Dato in Venezia dalla Curia Patriarcale

Il dì 30 giugno 1863

(firmato) + Giuseppe Luigi Trevisanato Card. Patriarca

(firmato) Gio. Batta Can.co Ghega Cancelliere Patriarcale

Sigillo patriarcale        

Concorda

      Jo. Bapta Ghega Cancell. Patr.

Il giovedì 2 luglio 1863 si giunse allora, finalmente, alla celebrazione dell’unione o fusione del ramo femminile dell’Istituto Cavanis con le suore Canossiane. Il Diario di Congregazione ricorda così l’evento, per mano come al solito del preposito generale, P. Sebastiano Casara: “Alle ore 9, com’era stabilito, venne l’Emin.mo Patriarca all’Eremite. Le Figlie del primo Instituto, dodici di numero, erano in Chiesa, vestite già da Canossiane la sera inanzi, e vi erano poi Canossiane da Verona con la M.e Nespoli, una da Bassano, tutte quelle di San Gregorio, varie di S. Alvise, il confessor di quelle di Treviso e il Superior di Verona, il Cav.r Piombazzi Delegato, il Consiglier del culto C.te Barbaro, due Assessori Municipali, il C.te Grimani cioè e il Sig.r Visinoni, e alquanti nobili e pie signore. Col Patriarca eran venuti il M.r Andreotta Vic.o Gen.le e Superiore di S. Alvise, il M.r Cancelliere, i due Preti Scordilli e Sambo; ed era venuto prima il M.r Berengo, superiore di S. Gregorio, e qualche amorevole sacerdote. Fatta l’adorazione e la preparazione della S. Messa, il Patriarca si vestì dei suoi indumenti e con Piviale, Mitra, e Pastorale ascoltò la lettura del Decreto di fondazione, fatta dal M.r Cancelliere. Cantò quindi il Veni Creator Spiritus coi versetti e le orazioni proprie, poi benedisse col rito pur proprio i veli e le immagini. Consegnò gli uni e gli altri alla M.e Nespoli, che assistita dalla M.e Rizzi gl’impose alle 12 che venivano aggregate. Dopo ciò, la stessa M.e Nespoli andò a ricevere dal Patriarca il libro delle Regole, e rispose coll’apposito versetto alle parole del Patriarca col consegnarglielo. Deposto allora il Piviale e indossata la Pianeta, cominciò e celebrò la santa Messa, assistito come prima dai due Mons.ri Ghega e Berengo. Finita la messa tenne brevi e affettuose parole, ed intonò quindi il Te Deum laudamus, dopo il quale diede solennemente la Pastorale Benedizione. Ogni cosa procedette, grazie a Dio, in perfetto ordine e con universale sodisfazione. Indicibile fu poi l’allegrezza delle nuove e delle vecchie Canossiane per la fondazione di questa Casa e l’assicurazione data alla vita piena e vigorosa dell’Istituto. E questa allegrezza continuò tutto il giorno, essendosi dette fermate fino alla sera, ed erano tutte insieme quaranta. Fu veramente un giorno di consolazione, come si denomina la festa ricorrente Sta Maria della Consolazione. La Madonna benedetta visitò e consolò quelle buone Figlie, e fece loro esultare di questo il cuore nel petto. Sia ringraziato di tutto Dio, Autore e Fonte, e la Madonna SS.ma Mediatrice e Canale, e i Santi tutti Patroni e Intercessori e siane gloria anche ai venerandi nostri due Fondatori e alla Veneranda Fondatrice, che ne godettero certo assai in Paradiso”.

Anche dopo che si era realizzata la fusione, o meglio la confluenza delle Maestre Cavanis nell’Istituto Canossiano, P. Casara dovette in più occasioni occuparsi ancora delle Eremite: Per fare un solo esempio, nell’agosto 1863: “L’ i[mperial]. r[egio]. Ufficio di Commisurazione aveva intimata una imposta di F.ni 1142.37.5 per la cessione fattaci dal Municipio del Convento dell’Eremite. Rimetto tale Diffida al Municipio a cui toccherebbe pagarla; osservando però che si sbagliò certamente e di molto nel commisurarla, anche se deva pagarsi, e, di più, che anzi non si dovrà pagare nulla”. Del resto, a questo punto, avrebbero dovuto, caso mai, pagare le canossiane.

E più avanti, il 29 agosto 1863: “Scrivo alla M.e Nespoli, Superiora della Canossiane a Verona, per cosa rilevante e relativa al loro Instituto”. Questa pare essere l’ultima annotazione di P. Casara nella sua prima prepositura (o meglio gruppo di mandati triennali), perché rinuncia all’incarico, e nel successivo capitolo generale (detto provinciale, come si sa) viene eletto il P. Giovanni Battista Traiber.

Due altre volte P. Casara, ormai vicario e non preposito, si occuperà ancora del decreto (detto Instromento) di cessione della casa, di cui riceve il testo autentico e completo, approvato dal Consiglio provinciale (dello stato, non di provincia religiosa), datato 22 giugno 1863, quindi – si noti – prima che l’Istituto alle Eremite passasse alle canossiane. Particolarmente importante poi l’annotazione del 21 giugno 1864 nel Diario, a mano di P. Casara che, come vicario generale (il preposito era P. Traiber dal 1863 al 1866) era stato incaricato di redigere il diario di congregazione: “L’intendenza di Finanza domanda indicazioni di cose appartenenti alla Chiesa e al Convento delle Eremite. Il P. Casara risponde, che il fabbricato fu acquistato dal Municipio, di cui è di proprietà, e non appartiene quindi più all’Amministrazione della Finanza”.

E qui ci sembra necessario interrompere la relazione sui nuovi rapporti tra l’istituto Cavanis e l’istituto delle Eremite e la congregazione delle Canossiane che lo reggevano, anche perché le notizie, per molto tempo, sono ridottissime e relative più che altro a scambio di auguri e simili. La terza guerra di indipendenza d’Italia (1866), l’unione del Veneto al Regno d’Italia, la soppressione dell’Istituto e l’incameramento di tutti i suoi beni nel corso del 1866-67 (e analogamente di beni delle canossiane e di tutti gli altri istituti religiosi veneti, maschili e femminili) cambierà del tutto la situazione e la congregazione dovrà per lungo tempo occuparsi di cose ben più prementi.

Una vicenda più dolorosa, di cui sarebbe lungo dare relazione punto per punto, fu, un ventennio dopo, una lite tra le canossiane dell’istituto delle Eremite, con le loro superiore, e l’istituto Cavanis, inizialmente nella persona del preposito P. Casara, rieletto nel 1866, e poi soprattutto, dal 1° settembre 1885, il suo successore P. Domenico Sapori. Se ne trova traccia, nel diario di congregazione, volume V. Si trattava di problemi giuridici ed economici seri e molto costosi, fra Canossiane e Cavanis, in cui fu chiamato in causa un notaio e poi il patriarca, e in seguito una commissione di tre monsignori. Il nuovo preposito da poco eletto, P. Domenico Sapori, rimase molto contrariato con le canossiane, per il fatto e per il modo. Fu una lite interminabile e molto cara per le spese processuali.

In seguito, risolta la crisi, i due istituti presero la loro strada e si allontanarono come era logico, nel senso che erano due istituti del tutto distinti e reciprocamente autonomi, dipendenti dai rispettivi superiori (o superiore) anche se si ripresero ben presto delle relazioni cordiali: le canossiane delle Romite impegnate nell’educazione di bambine e ragazze, e i Cavanis impegnati nello stesso ministero dell’educazione in favore di bambini e giovani. In più, come si è accennato sopra, i padri Cavanis mantennero abitualmente e fino a tempi recenti (fino ai primi anni del secolo XXI) la celebrazione quotidiana della santa Messa per le suore alle Eremite, nella chiesetta e più tardi nel coretto dietro l’altare maggiore della chiesetta, come pure il ministero del sacramento della riconciliazione.

Vale la pena forse di conchiudere questo capitolo, ricordando che il 10 settembre 2008 si celebrò a Venezia il bicentenario della fondazione dell’Istituto femminile, cioè delle “Maestre delle Scuole di Carità”, ma più esattamente con la dicitura: “Bicentenario delle Suore Cavanis”, in modo un po’ ambiguo e storicamente inesatto. La celebrazione, a richiesta del preposito generale P. Alvise Bellinato, si effettuò principalmente presso l’Istituto delle Figlie della Carità Canossiane alle Romite, appunto nella casa dove, dopo i primi due timidi inizi a San Vio e allo Spirito Santo, si erano stabilite l’opera e il ramo femminile dell’Istituto della Maestre delle Scuole di Carità, poi confluite nella Congregazione delle Figlie della Carità Canossiane. Tale celebrazione fu compiuta nella casa delle origini, grazie alla cordialissima ospitalità della Canossiane stesse.

5. Breve storia delle Suore della Pia Società del Santo Nome di Dio dette “Suore Cavanis”

Si dice con una certa frequenza che la Congregazione religiosa di diritto diocesano delle suore della Pia Società del Santo Nome di Dio sia la rinascita, dopo circa un secolo, del ramo femminile dell’Istituto Cavanis e che ci sia quindi una continuità morale e storica tra le due realtà.

La prima delle costituzioni della Congregazione, nel capitolo “Natura e fine della Pia Società” del libro attuale delle Costituzioni, recita, nella seconda parte di detto articolo: “Essa (ovvero, la Pia Società del Santo Nome di Dio, Suore Cavanis) riconosce la propria origine dalla Congregazione femminile delle Scuole di Carità, ideata dai Padri Antonio Angelo e Marco Antonio Cavanis, ed è animata dallo spirito che i Venerabili fratelli hanno lasciato in eredità ai loro figli e alle loro figlie”. Anche P. Agostino Zamattio, uno dei massimi promotori della comunità religiosa femminile, da preposito, scriveva: “Mi ritornò più forte l’idea di formare le nostre Suore, secondo il nostro spirito”. Ora, il nostro spirito è, prima di tutto, l’educazione della gioventù, praticata prima come padri che come maestri.

In realtà, è difficile sostenere la teoria della continuità (o della ripresa) dell’antico istituto delle Maestre delle Scuole di Carità con la Pia Società del Santo Nome di Dio. Il ramo femminile Cavanis ottocentesco era stato fondato da P. Antonio e P. Marco Cavanis come casa per l’accoglienza amorosa, come “privato rifuggio” (sic), “casa di ricovero”, porto sicuro e familiare e come istituzione per l’educazione delle ragazze povere e “periclitanti”; e le numerose maestre, come le chiamavano i fondatori, più le altre signore e ragazze che svolgevano lavoro di appoggio logistico, erano educatrici e venivano formate dai fondatori e tra di loro come tali ed erano chiamate perciò maestre. Nella richiesta di approvazione delle due Congregazioni, maschile e femminile, da parte del patriarca di Venezia e dell’imperial regio governo austriaco (1818), i fratelli Cavanis chiamano l’istituto femminile “una corporazione denominata di maestre delle scuole di carità”, e ancora “Scuole di Carità per le povere figlie”, parallelamente al nome dell’Istituto maschile che era: “Scuole di Carità pe’ poveri giovanetti”.

Dalla suddetta richiesta di approvazione patriarcale e imperiale delle due Congregazioni, maschile e femminile, si ricava la seguente descrizione della congregazione Cavanis femminile, che ci sia concesso ripetere qui, data l’importanza del testo:

“Tale instituto trovasi stabilito nel locale dell’Eremite nella parrocchia de’ SS. Gervasio e Protasio.

Le maestre attuali sono in numero di 16, quali appunto vengono nell’unito elenco (all. G) descritte.

Il continuo loro esercizio è di tenere scuole gratuite per l’educazione delle povere figlie, ammaestrandole nei doveri della s. religione e nei donneschi lavori, per ben disporle a vivere con una cristiana condotta, e procacciarsi la sussistenza colle oneste loro fatiche.

Si prestano pure ad istruir nell’interno del locale dell’istituto le adulte povere e le fanciulle che non possono frequentare le scuole.

Tengono ancor attenta custodia di alcune misere figlie, le quali sono continuamente raccolte e mantenute dall’instituto, perché nelle particolari lor circostanze non sarebbe a lor sufficiente l’ajuto della semplice scuola.

Le donzelle che attualmente concorrono alla esterna gratuita scuola sono in numero di cento circa; quelle poi che ivi sono caritatevolmente raccolte e provvedute del giornaliero sostentamento, sono in numero di cinquanta circa.

Essendo aperto questo instituto a favore di figlie povere, non si riceve alcuna pensione o regalo dai respettivi genitori, ma tutto si somministra gratuitamente.

Per consolidare anche questo stabilimento s’implora che ne sia formata una corporazione denominata di maestre delle Scuole di Carità.

Come si è praticato finora, cosi pure dovrebbe osservarsi nell’avvenire, di non ricevere in tale instituto se non che vergini e vedove d’irreprensibil costume, escluse sempre per regola inalterabile le maritate, benché non vivessero unite al loro consorte, e quelle altresì che per amore alla propria quiete avessero desiderio, o per necessità di riforma avesser bisogno di ritirarsi in un tranquillo soggiorno.

Queste maestre di carità dovranno vivere in una perfetta vita commune, e vestire modestamente un abito lungo di colore oscuro.

Faranno in forma semplice la professione de’ consueti tre voti, durevoli però soltanto finché rimangano nell’instituto, sicchè abbiano a restarne sciolte allorchè non più appartenessero all’instituto medesimo.

Il numero delle maestre occorrenti ad ogni casa dell’instituto sarebbe di trenta circa.”

Al contrario, la pia associazione, poi l’istituto secolare e in seguito la Congregazione dal nome di Pia Società del Santo Nome di Dio sorta a Porcari a partire dalla fine del primo quarto del secolo XX era stato istituito da alcuni padri Cavanis (e con l’accettazione da parte delle pie signorine che appartenevano alla comunità e che sembravano approvare questo progetto, con preziosa ma forse un po’ pigra umiltà) non per essere “maestre”, ma per dare ai religiosi Cavanis un appoggio logistico alle loro comunità, ai loro seminari e alle loro scuole. Lo scrive lo stesso P. Agostino Zamattio, considerato dalle suore il principale fondatore, quando era ancora superiore locale a Porcari: “Il pensiero di formare le nostre Suore, mi venne in Possagno, quando trovai molta difficoltà per avere in collegio personale idoneo”: “personale idoneo”; non maestre, non educatrici, non catechiste, non professoresse. Non Cavanis.

E così fu. Almeno fino al 1967 – anno dell’erezione canonica della Congregazione della Pia Società del Santo Nome di Dio – o al 1969 – anno del legame passeggero della nuova Congregazione con il Pontificio Istituto delle Missioni Estere-PIME e dell’inizio della missione in Guiné Bissau – le suore della Pia Società del Santo Nome di Dio erano occupate nelle varie case dell’Istituto Cavanis come cuoche, guardarobiere, aiuto-sagrestane, sarte, donne di servizio incaricate delle pulizie degli ambienti scolastici, e in genere – per non usare termini più contundenti – come personale di appoggio alle case dell’Istituto. Per capire meglio, si può citare una frase spesso ripetuta come frase divertente e spiritosa, ma in realtà triste; frase pronunciata in dialetto veneto da quella santa donna, nella sua semplicità, che era suor Chiara: “Mi saree per i lavori pesanti come: spazare”, cioè “Io sarei per i lavori pesanti, come: spazzare”.

Le suore del S. Nome fino alle date sopra citate, della fine degli anni ’60, non ebbero mai o quasi mai compiti educativi e pastorali, e non erano incoraggiate o avviate agli studi necessari a ottenere i relativi diplomi e soprattutto le relative competenze. Il nome stesso dell’Istituto, probabilmente di proposito, non fu quello di “Congregazione delle Maestre delle Scuole femminili di Carità” o altro analogo; ma un nome del tutto differente, “Pia Società del Santo Nome di Dio”, che in se stesso indica tutt’altra indole e tutt’altro scopo e tutt’altra spiritualità. Tra l’altro manca il nome “Cavanis” nel titolo della Congregazione e qualsiasi riferimento all’educazione: la spiritualità dell’Istituto, di cui si dirà qualche cosa più sotto, è completamente differente; il patrono non è San Giuseppe Calasanzio. Solo molto tardivamente, proprio per questo, l’Istituto poté entrare, nella Famiglia Calasanziana, fondata nel 1989.

E ci fu di peggio: nei capitoli degli anni Trenta si parla anche di disporre d’allora in avanti della collaborazione delle suore dell’Istituto delle Figlie della Divina Volontà di Bassano (Vi), per dirigere e/o per sostituire le donne di servizio nelle case di Possagno e di Porcari. A Porcari, questo fatto creerà delle difficoltà con le pie donne che alcuni padri avevano riunito come associazione, con l’intenzione di trasformarla in un istituto religioso, e che ora si vedevano alla dipendenza non solo dei padri Cavanis, ma addirittura di un’altra Congregazione di suore.

Ci sia permesso adattare a questa dolorosa situazione, in forma accomodatizia, ma con vero spirito di pentimento – come era intenzione e obbiettivo del profeta –, una frase del profeta Geremia (2, 13a): “Il mio popolo (l’Istituto Cavanis maschile, nel caso) ha compiuto due iniquità:”

  1. Per indecisione, contraddizioni e continui dissensi interni nell’istituto maschile, ha tenuto sulla corda ingiustamente dal 1921 al 1946 (per un quarto di secolo), quel gruppo di semplici, pie e generose donne che sarebbero diventate la Pia Società del Santo Nome di Dio, prima di condurle nel 1946 a una struttura accettata ufficialmente dal ramo maschile dei Cavanis, e nel 1947 a divenire un istituto secolare approvato da una chiesa locale e nel 1967 una congregazione religiosa.
  2. Non ne ha fatto un ramo femminile dell’Istituto Cavanis, secondo il piano originario dei fondatori, ma una Congregazione di servizio al ramo maschile dell’Istituto Cavanis e alle sue opere educative.

Dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, la Pia Società del Santo Nome di Dio prese la via dell’apostolato dell’educazione, conquistandosi così, di propria iniziativa, il diritto di essere considerate, troppo tardivamente (e non poer colpa loro), una continuazione del ramo femminile fondato dai padri Antonio e Marco Cavanis. Fu infatti soltanto dopo essersi staccate per un tempo dall’Istituto Cavanis maschile e in ambiente africano, da quel continente e da povere isole atlantiche al largo della costa africana che, avendo dichiarato la loro autonomia fraterna, poterono organizzare e gestire proprie case di educazione, principalmente asili nido e scuole per l’infanzia, case di formazione, importanti attività sportive di forte impronta educativa; più tardi alcune delle religiose Cavanis hanno potuto frequentare corsi di Scienze Religiose e insegnare religione; altre hanno svolto lavoro realmente pastorale nelle parrocchie. Verso la fine della prepositura Incerti (1979-1989) e/o durante la prepositura Leonardi (1989-1995) esse hanno cominciato a chiamarsi finalmente “Suore Cavanis”.

Ma vediamo in dettaglio, brevemente, la loro storia, in forma di una semplice e breve cronologia.

1919 (9.11) — Apertura formale della casa Cavanis, come comunità religiosa maschile e scuola per bambini e ragazzi, solo maschi per vari decenni, di Porcari (Lucca).


1921 —P. Giovanni D’Ambrosi istituisce a Porcari una Pia Associazione femminile, i cui
membri sono soprattutto delle signore e ragazze, che facevano parte del personale come cuoche, donne di servizio o altro come appoggio logistico del collegio di Porcari, e una Congregazione mariana femminile in paese. In realtà però, con queste iniziative, P. Giovanni già stava coltivando l’idea di istituire un istituto religioso femminile.


1924 — Il capitolo generale dell’Istituto Cavanis rigetta il progetto del P. D’Ambrosi e trasferisce il religioso alla casa di Venezia. Egli prima di partire lascia la cura pastorale del piccolo gregge al P. Mansueto Janeselli.


1928 — P. Agostino Zamattio è nominato rettore della casa di Porcari. È favorevole al progetto del P. D’Ambrosi.


1928 (7.10) – P. Agostino Zamattio accoglie nel collegio di Porcari le due prime aspiranti della comunità femminile:
Annunziata Del Carlo e Adilia Toschi. Esse pronunciano la promessa solenne.


1928-1934 — Altre aspiranti dalle province di Trento e di Treviso s’aggiungono alla piccola comunità.


1934-1935 — Tuttavia il numero dei membri della piccola comunità subisce una diminuzione, a causa di malattie, delle critiche, delle difficoltà che sorgevano tra le pie donne di cui si parla e le suore di un’altra comunità religiosa femminile, chiamata alla direzione logistica del nostro internato di Porcari. Un nuovo capitolo generale dell’Istituto Cavanis (1935?) decide di dissolvere la comunità femminile.

Le pie donne accettano con obbedienza straordinaria la decisione, ma, per consiglio di P. Agostino Zamattio, continuano il loro umile lavoro e le loro riunioni di preghiera, e mantengono P. Mansueto Janeselli come loro accompagnatore spirituale.

Segue un periodo doloroso in cui si ha l’impressione che l’idea di aprire il nuovo istituto fosse stata ormai abbandonata. P. Aurelio Andreatta, preposito generale, consiglia la prudenza e lo spirito d’attesa. Segue un tempo di corrispondenza tra i padri Andreatta e Zamattio, e di P. Andreatta con suor Livia Janeselli, trentina di Bosentino (TN), sorella del P. Mansueto Janeselli e di altri due religiosi Cavanis, che nel frattempo era entrata nel gruppo e vi stava assumendo una posizione informale di punto di riferimento.


1941 (15.12) —P. Aurelio Andreatta, preposito generale, scrive un “Piano per una fondazione di suore”, che poi invia all’arcivescovo di Lucca.


1944 —P. Andreatta scrive a suor Livia Janeselli che il periodo della guerra non permette delle nuove iniziative, ma che lui, come superiore generale, e il suo consiglio, riconoscono e manifestano la loro stima alla comunità femminile di Porcari
. Nomina inoltre P. Giovanni D’Ambrosi come accompagnatore spirituale del gruppo.


1945 (29.6) — P. Andreatta, dopo aver realizzato dei contatti esplorativi, che danno dei risultati negativi, con il patriarca di Venezia, con l’arcivescovo di Lucca e con il vescovo di Treviso, scrive a suor Livia Janeselli che non si può far niente e che l’esperienza deve essere considerata definitivamente conclusa.


1946 (16.6) —P. D’Ambrosi, tuttavia, prepara la minuta di un documento «Sommario
sul carattere dell’Istituzione», che presenta al preposito e al consiglio.


1946 (9.11) — Istituzione di una Pia Associazione, con le sue regole e la sua propria struttura.


1947 (2.2) — Pubblicazione della Costituzione apostolica «Pia Mater Ecclesia» del Papa Pio
XII, che istituisce nella chiesa gli istituti secolari.


1947 (2.7) – L’arcivescovo di Lucca approva le regole per l’Istituto, preparate da P. D’Ambrosi, come per un istituto secolare.


1948 (12.12) — Le regole sono approvate dalla Congregazione per i religiosi.

1949 (2.1) — Viene pubblicato il decreto d’erezione canonica dell’Istituto secolare da parte dell’arcivescovo di Lucca mons. Antonio Torrini, quindi a livello diocesano, con il necessario consenso della Santa Sede. La celebrazione dell’erezione canonica fu realizzata nella cappella della Villa dell’Orologio (detta dai Cavanis Villa San Giuseppe) a Vicopelago (Lucca), la domenica 2 gennaio 1949. Dopo la lettura del decreto, ebbe luogo la professione dei voti di povertà, castità e obbedienza da parte delle prime nove ascritte all’Istituto. La celebrazione fu presieduta dal preposito generale, che all’epoca era ancora P. Aurelio Andreatta. Egli, come si usa, ricevette la professione dei voti delle prime suore. Inoltre, nel pomeriggio, con l’imposizione del velo, tre postulanti erano ammesse al periodo di formazione e particolarmente al noviziato.

La prima sede dell’Istituto fu la suddetta Villa dell’Orologio a Vicopelago (Lucca), già seminario minore dell’Istituto maschile. La casa generale fu spostata più tardi come sede definitiva a Porcari.

La forma d’istituto secolare era stata colta e scelta come una forma provvisoria, puramente progmatica, cioè come un espediente perché l’Istituto fosse approvato finalmente a livello diocesano; ma la vera intenzione era quella di farne appena possibile un vero istituto religioso e di fatto l’istituto funzionava e le consacrate vivevano come membri di un istituto religioso, non come un vero istituto secolare.


1962 – L’Istituto secolare si costruisce finalmente una casa generale, come sede della curia generalizia, e proprio a Porcari. L’evento dell’inaugurazione, cui erano presenti l’arcivescovo di Lucca Mons. Antonio Torrini, il preposito Generale dell’Istituto Cavanis P. Giuseppe Panizzolo, il sindaco e altre autorità di Porcari e della provincia di Lucca, avvenne il 18 marzo 1962. La rivista Charitas, nell’occasione, pubblica un lungo riassunto della storia dell’Istituto femminile.


1964 – (luglio) Inizio formale e iscrizione alla Federazione di Roma del Basket delle squadre di ragazze che praticavano questo nobile sport negli ambienti dell’Istituto, già presenti informalmente dall’anno precedente (1963).


1967 (6.10) — Circa 18 anni più tardi l’Istituto secolare si trasforma de facto e de jure in Congregazione religiosa di diritto diocesano, con il nome di Pia Società del santo Nome di Dio.


1969 — Su consiglio del Pontificio Istituto Missioni Estere-P.I.M.E., cui le suore si erano avvicinate, cercando una maggiore autonomia rispetto all’Istituto Cavanis, le suore aprono nel 1969 una missione a Suzana nella Guinea Bissau, piccolo e poverissimo paese dell’Africa occidentale, già colonia portoghese, che al tempo dell’arrivo delle suore aveva appena raggiunto l’indipendenza. Più tardi le suore amplieranno la loro presenza e attività anche nell’arcipelago delle Isole Bijiagós (più particolarmente nell’isola di Bubaque), nell’oceano Atlantico, isole che appartengono allo stesso paese. Nel 1983 le suore del S. Nome di Dio missionarie in Guiné Bissau erano:


A Suzana: in questa località sul continente, in ambiente di boscaglia equatoriale e di delta, dalle regioni coltivate a le risaie, infestate dagli ippopotami che venivano a distruggere le piantagioni e a mangiare il riso, sr. Rosetta Furlan, sr. Maria Serafin, sr. Adelia Toffolo, che avevano anche la responsabilità di dispensari e altre attività pastorali e assistenziali nei villaggi di Cassòlol e Catão.


A Bubaque: sr. Augusta Fedel, sr. Teresa Gargani. Con loro c’era anche sr. Gina Polesel, che in quell’isola morì il 15 marzo 1975, per un attacco violento di malaria, probabilmente malaria cerebrale. La sua tomba è rimasta a Bubaque. Prima di partire per la missione, era rimasta molti anni, con altre consorelle, in appoggio logistico fraterno alla comunità Cavanis di Roma-Torpignattara, dove era molto stimata e amata.

In quell’estremo lembo occidentale del continente africano, le suore davano appoggio pastorale alle rispettive parrocchie, soprattutto nella catechesi; ma si occupavano non solo di curare gli spiriti ma anche i corpi, come infermiere, e ancora come maestre, insegnando con infinita pazienza l’importanza e i metodi per mantenere la salute e l’igiene tra le donne Felup o Felupe. Avevano organizzato e mantenevano in piedi tra molte difficoltà scuole di taglio e cucito. Riuscivano meglio con le ragazze, più aperte, che con le donne adulte, più tradizionaliste ma soprattutto più occupate nel duro, quotidiano lavoro agricolo nelle risaie e della raccolta di alimenti naturali, frutta, erbe e tuberi e di legna nella foresta.

All’epoca dei loro inizi in Guinea, le suore parlavano ancora di Guinea portoghese, perché questo piccolo paese (uno dei più piccoli dell’Africa continentale) proclamò l’indipendenza dal Portogallo il 24 settembre 1973 e poi fu riconosciuta come indipendente e ebbe il nuovo nome di Guinea-Bissau o, in portoghese, Guiné Bissau, il 10 settembre 1974. Le suore abbandoneranno la difficile missione in Africa nel 1992.




1983 (9 ottobre) – L’Istituto del S. Nome di Dio festeggia in casa generalizia a Porcari il 50° anniversario dell’entrata in religione delle prime sorelle.


1983-1987 — Lavoro per l’aggiornamento delle regole dell’Istituto femminile alla luce del Concilio ecumenico Vaticano II. L’Istituto del Santo Nome di Dio si riavvicina all’Istituto Cavanis, dopo la fase di legame con il PIME.


1984 (4.12) — Inizio delle missioni della Pia Società del S. Nome di Dio in Brasile. L’Istituto comincia accettando di collaborare con la diocesi di Palmas-Francisco Beltrão, nel Sudest del Paraná, nella parrocchia di Renascença (con la prima équipe costituita da Sr. Augusta Fedel, Sr. Teresa Gargani, Sr. Elsa Bezzi.


1997 (9.2) – Inizio delle missioni nell’Ecuador, a Quito.


1998 (29.4) – Muore a Porcari Madre Livia Janeselli, la prima superiora generale della Congregazione.


1998 – Prima elezione di Madre Giuseppina Nicolussi a superiora generale. Tale elezione viene rinnovata fino al 2009, con un totale di tre mandati.


Luglio 2009 – Elezione di Madre Elsa Bezzi, che operava come missionaria in Brasile, a Superiora generale.


2 giugno 2014 – Si celebra a Porcari il 50° anniversario dell’istituzione della squadra femminile di basket o pallacanestro organizzata e mantenuta con straordinario successo sportivo (anche a livello nazionale) ed educativo da parte delle suore del S. Nome, da cinque decenni e per molti anni ancora. La S. Messa viene celebrata nel campo di basket, con grande concorso di popolo. Per la prima volta viene eletta vicaria generale una suora non italiana, suor Lourdes Colombo, brasiliana.

29 giugno 2018 – Muore la superiora generale, Madre Elsa Bezzi, nella casa generale di Porcari, dopo una serie di degenze e di operazioni chirurgiche nell’ospedale di Lucca. Il funerale si tiene alle ore 15 di domenica 1° luglio nella chiesa parrocchiale di Porcari. Elsa Bezzi era nata a Ossana (Val di Sole, Trento) il 22 marzo 1942. Entrata a Porcari presso la Pia Società del Santo Nome di Dio il 16 luglio 1963, emise la professione religiosa il 15 agosto 1965. Dal 28 giugno 1985 era stata impegnata nelle missioni dell’Istituto in Brasile sino alla sua elezione come Madre generale, quando era rientrata in Italia, alla sede della Casa generale. Aveva dedicato la sua vita all’educazione dei ragazzi e giovani e particolarmente delle ragazze, oltre che alla formazione, manifestando concretamente la carità per i più bisognosi.

Assume il governo interino della Congregazione Madre Lourdes Colombo, vicaria generale, brasiliana.

Dalla lettera datata 29.12.2018, del P. Pierluigi Pennacchi, che era delegato dell’arcivescovo di Lucca al capitolo generale: “Oggi 29 dicembre 2018 è stato un giorno particolare per le nostre sorelle della Pia Unione delle Suore del Santo Nome di Dio – Suore Cavanis. La M. R.da Madre Lourdes Colombo è stata eletta VI Superiora generale per il sessennio 2018 – 2024 e sono state scelte quale collaboratrici assistenti le Rev.de Suore, Sr. Miriam Navarro e Sr. Sandra Perez Barrera.”

6. Considerazioni conclusive

Giunto alla fine di questo lavoro, dopo più di sedici anni di ricerca di archivio e di archivi, e di ore infinite al PC, sono pronto a presentare questo libro; lo presento soprattutto, ma non esclusivamente, ai miei confratelli che vivono e operano in dieci paesi del mondo, e che conosco di persona praticamente tutti, e ai confratelli futuri. Lo do in mano principalmente a quelli che si sforzeranno di leggere l’italiano, questa lingua non molto conosciuta nel mondo, eppure lingua utile per la congregazione e per i congregati, perché la sua conoscenza ci permette l’accesso agli scritti fondazionali, redatti in italiano antico, e quindi anche un po’ più difficile di quanto sia l’italiano attuale; e lingua che è oggi anche l’idioma ufficioso nella Chiesa universale.

Presentando questo libro nel corso del XXXV capitolo generale ordinario (Morlupo-Roma, 2019), e continuando a aggiornarlo in seguito, sento vicini a me non solo i confratelli viventi, ma, in spirito, i Fondatori amati, P. Antonio e specialmente P. Marco Cavanis, a me più congeniale – mi perdoni P. Antonio! –; e P. Vittorio Frigiolini e P. Sebastiano Casara e fratel Giacometto e il giovane religioso Giovanni Giovannini, zio di P. Basilio, e P. Augusto Tormene e P. Carlo Donati e tanti altri religiosi Cavanis antichi che ho conosciuto e frequentato solo “nelle carte”, e altri meno antichi come per esempio il giovanissimo P. Cleimar Pedro Fassini; al punto che li ho sentiti vivi e vicini e reali attorno a me. Tanti poi che ho conosciuto viventi e con i quali ho convissuto e collaborato, e che mi hanno preceduto nella vita e nella morte. Mi sono immerso a lungo e a tal punto tra le loro carte e i loro quaderni e i loro oggetti da sentirli vivi, ed essi lo sono infatti, nella fede comune.

Mi rivolgo volentieri tuttavia principalmente ai giovani confratelli Cavanis dei vari continenti, postulanti, novizi e studenti, con particolare affetto a quelli della Repubblica Democratica del Congo, e dell’Africa sub-sahariana, per i cui novizi questo lavoro e quest’opera sono cominciati nel 2006.

La storia è un pozzo senza fondo e si sarebbe potuto continuare per anni, o meglio, si può continuare per sempre a scrivere su questo tema. Ma bisogna anche saper mettere un punto di conclusione, pur senza considerare impossibile che io stesso possa riprendere in mano il lavoro per una terza edizione, ancora più completa, se il Signore mi darà vita e vista e costanza; naturalmente dopo un conveniente tempo di riposo e un po’ di tempo da dedicare a pubblicazioni su dinosauri e di altri animali fossili del Brasile e del Congo e d’Italia che mi aspettano, da paleontologo dei vertebrati che sono.

Ma è ora che un altro subentri nella cura dell’archivio storico e nella storiografia dell’Istituto.

Invito poi soprattutto i giovani della congregazione, gli studenti di filosofia e di teologia, nelle università e nelle facoltà dei loro rispettivi paesi, e quelli che studiano a Roma o in altre città universitarie e in altri paesi, di prendere seriamente in considerazione la possibilità di disporsi a preparare e a difendere tesi di baccellierato, di licenza e di dottorato su temi Cavanis e poi di pubblicarle: per esempio sulla teologia e l’ecclesiologia dei Fondatori; sulla loro visione politica del mondo; sulla Bibbia come la leggevano loro; sul sistema filosofico di P. Casara; sulla pedagogia e la didattica tipicamente Cavanis; sulla storia di una casa antica in dettaglio; sulle opere d’arte conservate nelle case dell’Istituto e, per esempio, sulle opere librarie conservate nella biblioteca di Venezia con le sue cinquecentine e i suoi incunaboli e pergamene e altri manoscritti; e tante altre cose preziose. C’è materiale archivistico e ci sono momenti storici emozionanti da pubblicare in dettaglio, come per esempio (per farne uno solo) gli anni 1848-49 con la Repubblica (rivoluzionaria) di San Marco. Ci sono casi e problemi “Cavanis” di diritto canonico che meritano di essere discussi in tesi di dottorato; e c’è tanta e tanta storia ancora da studiare, da meditare, da pubblicare, da far conoscere. C’è qualcuno che voglia prendere posto nell’archivio storico della congregazione? Ce n’è per tutti, e c’è bisogno di qualcuno che cominci ad appassionarsi di questo splendido lavoro. C’è un sito, in internet, che si chiama: “LA BELLEZZA NEGLI ARCHIVI”. Provare per credere!

Raccomando anche – come del resto fanno le nostre costituzioni e norme – a tutti i superiori (generale, responsabili di parti territoriali, locali), di mantenere aggiornato il rispettivo diario: è infatti molto più difficile scrivere la storia della Congregazione o di una sua parte territoriale o casa, se non si dispone in primo luogo dei diari nei diversi livelli. E raccomando a tutti che gli archivi in ogni casa e attività e in ogni livello siano organizzati, conservati, preservati da distruzioni, valorizzati: sono la memoria della congregazione e, ancora una volta, un popolo senza memoria è un popolo senza futuro.

E della (e alla) Congregazione delle Scuole di Carità, l’Istituto Cavanis, che cosa dirò alla fine di questo libro? Parafrasando arditamente frasi bibliche, con immenso amore, alla congregazione dirò:

“… e tu, così piccola per essere tra i capoluoghi… (anche) da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele” (Cf. Mi 5,1).

E ancora:

“Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno” (Lc 12,32).

APPENDICI

Appendice 1

Preghiera attribuita ai fondatori dell’Istituto Cavanis, più particolarmente a P. Marco, che con uno sguardo alla storia futura dell’Istituto, riproduciamo qui, alla conclusione di questo libro.

O cara Madre Maria, volgete verso di noi miserabili gli sguardi vostri pietosi e movendovi a compassione delle angustie e strettezze in cui ci troviamo, pregate il vostro divin Figliolo, affinché si degni di assisterci con la sua grazia, onde possiamo con forte lena operare la nostra ed altrui santificazione.

O cara Madre Maria, non riguardate, ve ne preghiamo, la nostra indegnità, ma il dolcissimo vostro materno amore, ed impetrateci la bella grazia di veder crescere il pio Istituto con sempre nuovo vigore, a maggior gloria di Dio e a salute di tanti abbandonati figlioli.

O cara Madre Maria, voi che siete così terribile a tutto l’inferno, reprimete col poter vostro l’orrenda strage che fa il demonio di tanta povera figliolanza dispersa e proteggete col validissimo patrocinio vostro gli sforzi coi quali ci adoperiamo per raccoglierla, custodirla e indirizzarla alla bella patria del cielo.

A questa preghiera associamo l’immagine in musaico di Maria, con i due ragazzini che rappresentano l’educazione della mente e del cuore, dell’intelligenza e della pietà, della scienza e della vita spirituale. Nel suo complesso, possiamo dire che questa immagine rappresenta Maria, madre e regina (con il diadema di gemme, e sono dodici, come le stelle) delle Scuole di Carità. Musaico a sfondo dorato, realizzato su cartone di Luigi Tito (o di Lino Scattolin? Vedi sopra nel capitolo sulla casa del S. Cuore), dalla Cooperativa Mosaicisti di Venezia. Questo musaico si trova al centro del tiburio della chiesa del S. Cuore, nella casa di ritiri omonima.

Appendice 2

La gratuità delle scuole dei fondatori e dei Cavanis

Ogni forma di generosità, disponibilità e gratuità è solo una partecipazione della misericordia di Dio. Di qui dunque parte il nostro discorso. Già nell’Antico Testamento le generosità di Dio verso gli uomini, cioè la grazia, viene messa in grande risalto. Ecco come Dio si presenta in un momento particolarmente solenne, sul Sinai: «Jahweh, Dio clemente e misericordioso, longanime, grande nella benevolenza e nella fedeltà» (Es 34,6).

Quale il motivo di tanto amore? Nessuno, secondo il nostro modo di giudicare; o meglio, uno solo: «D’amore eterno ti ho amato, perciò ti ho conservato la mia pietà» (Ger 31,3).

La grazia di Dio, presente e operante anche sotto l’antica legge, doveva giungere alla sua completa manifestazione solo alla pienezza dei tempi: l’attesa giunge al termine, e l’amore divino si concretizza in Cristo, per mezzo del quale abbiamo accesso alla grazia (Rm 5,2). Questa è, come dice il termine stesso, essenzialmente gratuita (Rm 3, 24): non veniamo chiamati alla fede perché giusti, né siamo salvati perché meritevoli per le nostre opere: tutto è dono (Ef 2, 6-8).

Cristo venne a portarci l’immagine del buon pastore che cerca la pecora smarrita per solo amore; del padre che accoglie il figlio peccatore senza chiedergli nulla, ma dandogli tutto; del buon samaritano, che soccorre, mosso da pietà, il poveraccio incontrato per strada.

Egli mostrò soprattutto se stesso, morente sulla croce per noi, non perché lo meritassimo, ma quando eravamo ancora nel peccato (Rm 5,8). Non perché si aspettava un contraccambio, ma perché ci amava.

Anche in altro modo Cristo ha dimostrato il disinteresse del suo amore: avrebbe potuto nascere in una classe sociale ricca, ma volle lavorare per mantenere sé e la madre (Mt 13,55; Mc 6,3). Durante le sue peregrinazioni, non riceveva denaro dai poveri cui annunciava la buona notizia, ma alcune donne e qualche amico assistevano lui e gli apostoli con offerte (Lc 8,1-3). Queste venivano riposte nella cassa della piccola comunità e Gesù ordinava di tanto in tanto di prenderne delle offerte per i poveri (Gv 13,29). Eppure la cassa non era, evidentemente, troppo ben fornita.

E veniamo a noi. Tutti i cristiani sono invitati a imitare il Padre nella sua perfezione (Mt 5,48) in particolare nella sua liberalità: «Fate del bene, date a prestito senza sperare niente: allora la vostra ricompensa sarà grande, e voi sarete figli dell’Altissimo, perché egli è buono con gli ingrati e coi cattivi. Siate dunque misericordiosi come il Padre vostro» (Lc 6, 35).

Gesù su questa difficile strada è sublime modello. È significativo in proposito il passo che S. Paolo rivolge ai Corinti, invitandoli ad imitare la generosità di Cristo che «si fece povero per voi, pur essendo ricco, per arricchire voi con la sua povertà» (2 Cor 8,1-15).

I religiosi fanno professione di imitare Gesù più da vicino cioè di seguire ciò che è più perfetto, di rinunciare ai beni della terra, per testimoniare i beni del cielo, di servire il prossimo: devono dunque imitare Gesù anche nel suo amore disinteressato, nella gratuità della sua opera a favore degli uomini, memori della parola del Signore: « È cosa più beata il dare che il ricevere » (At 20,35).

Gli apostoli, cioè quanti si dedicano in un modo o nell’altro alla predicazione del Vangelo e costituiscono come un canale della grazia di Dio, sono tenuti in modo particolare a donare senza secondi fini di interesse, specie quando si tratta del proprio ministero, del Vangelo, della grazia. L’apostolo riceve gratis da Dio l’apostolato (Rm 1,5; 1 Cor 3,10; Gal 1,15 ecc.); perciò il Signore dice: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).

Certo, «l’operaio merita il suo nutrimento» (Mt 10,10) o «la sua mercede» (Lc 10,7; 1 Tim 5,18); ma non si parla nel Vangelo o negli scritti apostolici di tariffe o di stipendi che diano una continuità nella retribuzione e una completa tranquillità economica. Subito prima di parlare di “mercede” il Signore dice: «Non prendete né oro né argento, né moneta nelle vostre cinture: né bisaccia da viaggio; né due tuniche, né calzari, né bastone» (Mt 10, 9-10). Ossia: vivete e viaggiate come i poveri del vostro tempo senza pensare a riserve né a comodità.

E la “mercede” consiste nel dimorare nella casa in cui si predica, «mangiando e bevendo quello che ci sarà presso di loro perché l’operaio ha diritto alla sua mercede» (Lc 10,7).

Non si vuol dire con questo che una comunità religiosa con intenti apostolici, vivente e operante nel nostro tempo, possa sussistere e raggiungere i suoi scopi senza quei mezzi materiali consigliati anche dalla prudenza cristiana; si vuole solo sottolineare che nella vita apostolica l’incertezza economica è una caratteristica, non una eccezione: è una testimonianza della fiducia dell’apostolo nella provvidenza e nei beni futuri; che viceversa certe comodità tipiche della vita borghese e soprattutto lo stipendio fisso non sono le forme più idonee secondo il Vangelo.

Gli Apostoli evidentemente ricevevano dai fedeli quanto occorreva per vivere, ma si trattava dello stretto necessario: Pietro disse chiaro: «Non ho né argento né oro» (At 3, 6) e quello che disse all’inizio della sua attività, lo poté certo ripetere fino in fondo.

Paolo accettò denaro per i poveri; ne ricevette anche per sé, solo quando le circostanze lo rendevano veramente povero, perché inabile al lavoro, ad esempio malato o in prigionia; ma poteva dire in coscienza: «Io non ho desiderato né l’oro né l’argento né le vesti di nessuno: queste mie mani, come voi ben sapete, hanno provveduto al bisogno mio e di quelli che erano con me. Ho potuto mostrarvi in ogni maniera che si deve lavorare così, per soccorrere i deboli e ricordarsi delle parole del Signore Gesù, perché egli disse: «È cosa più beata il dare che il ricevere» (At 20,33-35. Si veda anche 1Ts 2, 9; 2Ts 3, 7-10; 2Cor 11, 7-10; 12, 13).

E quanto a sicurezza sociale ed economica del tipico apostolo, si legga quanto dice lo stesso Paolo: «Fino a questo momento noi soffriamo la fame, la sete, la nudità; siamo schiaffeggiati e andiamo randagi, ci affanniamo a lavorare con le nostre mani; insultati benediciamo; perseguitati, sopportiamo; diffamati, esortiamo con bontà; siamo diventati come i rifiuti del mondo, la spazzatura di tutti fino ad ora» (1Cor 4,2).

È vero, nella Chiesa è normale e giusto che chi serve all’altare viva dell’altare, lo dice lo stesso San Paolo (1Cor 9,1-18); ma egli accenna anche al suo timore che ciò possa creare ostacolo al Vangelo, e ritiene più perfetto astenersi dal diritto di vivere dell’altare (ibid.). Ai giorni nostri forse con più certezza pensiamo di poter dire che, vivere dell’altare, cioè del ministero sacro, crea spesso ostacolo al ministero stesso e offusca, almeno in parte, la limpidezza della testimonianza; lo pensano molti vescovi, sacerdoti e religiosi, che cominciano a studiare altre forme di sussistenza.

Un detto popolare afferma che: «I ricchi con i ricchi e i poveri con i poveri». I sacerdoti e i religiosi, con la loro tranquillità economica, anche se in genere modesta, e con i loro mezzi di sussistenza assicurati, non sono oggi capiti e amati dalla massima parte dei poveri, perché essi stessi, sacerdoti e religiosi, con frequenza non sanno comprenderli e amarli.

Queste considerazioni valgono in modo speciale quando ci si riferisce al ministero dell’educazione dei giovani, nella scuola in particolare. Perché il ministero della confessione e della predicazione non presenta particolari spese, e una parrocchia si manda avanti in tanti modi, ma una scuola o comunque un ambiente di educazione giovanile richiede fondi notevoli che generalmente, almeno in Italia, possono venir reperiti solo col sistema delle rette scolastiche, o simili, il che opera infallibilmente una cernita tra i soggetti: ai ricchi e ai benestanti si insegna e si spezza il pane della parola di Dio, ai poveri no.

La gratuità dell’insegnamento e in genere dell’opera educativa sebbene sia ovviamente difficile da attuare, e richieda un personale dedito all’educazione per pura vocazione, elimina questo pericolo, perché, come scrive P. Anton’Angelo, «Così resterà libero il maestro dagli umani rispetti, e potrà esercitare la sua carità senza pena verso i più poveri e rozzi, e si sfuggirà il gran pericolo di si fatte pie Istituzioni, che cominciate per ben dei poveri, vanno sì facilmente a finire a vantaggio solo dei men bisognosi, o di ricchi».

I due fratelli, Antonio e Marco Cavanis, all’inizio dell’Ottocento si affacciavano alla vita, e si guardavano attorno con un gran desiderio di rimboccarsi le maniche e di far qualcosa per migliorare la situazione religiosa, morale e sociale del loro tempo.

Il rapido evolversi della società contemporanea, susseguente alla Rivoluzione francese, accanto agli indubbi e preziosi progressi apportati soprattutto nel campo sociale e culturale, causava anche una serie di contraccolpi pericolosi in campo religioso e morale; e, come suole avvenire, i primi a soffrirne erano i giovani, esposti com’erano a ogni ventata di novità, privi quasi sempre di una efficace educazione familiare, non seguiti con particolare cura dalle istituzioni religiose, tenuti lontani — se si eccettua una stretta cerchia di privilegiati — dall’istruzione e dalla cultura.

Si aggiunga che a Venezia, ex capitale della Repubblica Serenissima, umiliata da Napoleone e venduta all’Austria, la situazione socio-economica era pressoché fallimentare; con le conseguenze del caso. I due fratelli compresero che la grande battaglia per la salvezza dei valori più profondi dell’umanità andava combattuta — come in ogni tempo — nella radice e nella sorgente: dovevano essere educati al bene i giovani, e in particolare quei moltissimi che non ricevevano alcun genere di educazione ed erano preda della miseria, dell’ozio e dei vizi. Perciò la loro opera educativa — tutta improntata a spirito di famiglia, come deve avvenire tra padri e figli — fu affatto gratuita, se si eccettua qualche raro caso nei primissimi anni.

Il problema del denaro, che a tutti i livelli e in tutti i tempi crea delle odiose barriere tra le classi sociali, non doveva in alcun modo impedire a tutti i giovani di essere educati ed istruiti, per potersi formare una personalità, una coscienza, una cultura e una posizione nella società.

A nessuna classe sociale fu chiuso l’Istituto dei Cavanis; perché in tutte c’è bisogno di educazione, cioè di formazione del cuore; ma fin dall’inizio i poveri vi furono accolti con amore e con cura tutto particolari. Per evitare umiliazioni, nei confronti dei più disagiati, e ogni sospetto di interesse materiale, non si accettava retribuzione o dono neppure da parte dei ricchi: tutto si faceva «per puro impulso di vocazione e di carità».

L’impresa fu abbastanza facile da principio, quando pochi ragazzi venivano raccolti ed educati in casa Cavanis o negli ambienti della parrocchia di S. Agnese. Ma anche quando cominciò ad aumentare il numero dei giovani e si rese necessario cercare una sede apposita, con aule e cortili, e affrontare spese pesanti per il personale insegnante, il mobilio e il materiale didattico, i Cavanis esclusero nel modo più assoluto di imporre rette scolastiche: alienarono invece progressivamente i beni familiari, giungendo a vendere perfino i gioielli della madre; e nel frattempo cominciarono, essi conti e benestanti, a battere alla porta di nobili e ricchi per chiedere l’elemosina per i loro ragazzi, e ricevere spesso rifiuti e umiliazioni.

Abbastanza presto i fratelli Cavanis progettarono l’istituzione di una corporazione religiosa che continuasse la loro opera e l’ampliasse anche fuori di Venezia, e nel 1836 poterono raggiungere anche giuridicamente il loro scopo con l’approvazione canonica della Congregazione, consacrata poi dall’erezione canonica nel 1838.

Uno dei punti fermi del loro piano fu sempre questo: i membri della nuova Congregazione avrebbero lavorato a favore soprattutto della gioventù, animati soltanto da vero spirito apostolico, e da purissima intenzione di servire Dio e i fratelli al di fuori di qualsiasi ricompensa pubblica o privata, e contenti di vivere modestamente, anzi poveramente, per arricchire gli altri di cultura e di educazione cristiana. I Padri, infatti, erano convinti che «tutto il complesso più lusinghiero di splendide protezioni, di generosi soccorsi, di vasti e comodi fabbricati e di amplissime approvazioni a nulla vale qualor non siavi chi ne faccia un buon uso, ma tutto cada per avventura alle mani di avidi mercenarj».

Sono passati centosettant’anni dall’inizio dell’attività dei fratelli Cavanis e l’Istituto ha attraversato periodi molto duri dal punto di vista economico: l’incameramento dei beni del 1866-67, guerre, mutamenti della situazione storica e sociale, crescenti esigenze per l’attrezzatura, il materiale didattico e per gli stessi ambienti educativi. A che punto siamo con la gratuità del ministero specifico della Congregazione?

Bisogna ricordare prima di tutto che l’opera dell’Istituto si rivolge, fin dal 1857 e saltuariamente anche da prima, a due categorie ben distinte di ragazzi: allievi interni ed esterni. I primi frequentano i collegi, vivendo abitualmente in essi, durante l’anno scolastico. I secondi frequentano la scuola, e talora anche il doposcuola, nei collegi o negli esternati. Il trattamento economico delle due categorie è ovviamente diverso.

È logico che gli interni paghino le spese per il vitto, la conduzione, il personale: in una parola le spese vive; e inoltre l’alloggio, dal momento che un capitale come quello di un collegio (immobile e mobili) è giusto che dia i suoi frutti. L’insegnamento (come tutta l’opera degli educatori) invece viene impartito in modo gratuito, secondo le Costituzioni e la tradizione costante dell’Istituto. Checché se ne dica, si nota una considerevole differenza tra le rette dei Collegi Cavanis e quelle di analoghe istituzioni.

Gli alunni esterni, sia nei collegi, sia negli esternati, non pagano nulla, all’infuori di una modestissima quota annuale di funzionamento, solo per alcune spese vive, praticamente un semplice rimborso-spese per segreteria, cancelleria e varie. Tale quota venne in uso molto presto, certamente almeno dal 1860; forse addirittura dal tempo dei fondatori.

Non è facile evidentemente per una Congregazione reggersi economicamente quando l’attività specifica e diretta, cioè l’educazione e l’insegnamento, per principio non rende nulla sul piano economico; ma la posta in gioco, e cioè l’efficace educazione della gioventù, specie della più disagiata, la testimonianza di povertà e di disinteresse e il mantenimento del caratteristico spirito dell’Istituto ha spinto il Capitolo speciale attualmente in corso a rinnovare e riconfermare l’impegno di educare gratuitamente la gioventù.

Le obiezioni che si possono portare contro la gratuità dell’educazione sono parecchie, ma ad esse si può rispondere abbastanza facilmente. Eccone alcune.

Sembra stupido lavorare gratis, cosa che non si usa in questo mondo. Ma con S. Paolo potremo dire, pur senza voler giudicare nessuno: «Noi stolti per Cristo, voi sapienti in Cristo, noi deboli, voi forti, voi onorati e noi disprezzati» (1Cor 4, 10).

In moltissimi Istituti di educazione si ricevono denari dai ragazzi. È vero, ma ognuno ha la sua strada, a ciascuno il Signore chiede una particolare forma di impegno e di testimonianza. Senza stimarci per questo migliori degli altri, seguiamo con coraggio e decisione la nostra strada che è certamente bella e degna di essere seguita.

Non riusciremo ad ampliare le opere dell’Istituto e il numero dei suoi membri senza entrate fisse. Ma con S. Paolo potremo rispondere: «Considerate…la vostra chiamata, o fratelli: Iddio ha scelto le cose deboli del mondo per confondere le forti; e Iddio ha scelto le cose umili e disprezzate del mondo e quelle che non sono, per ridurre a nulla quelle che sono, affinché nessun uomo possa vantarsi davanti a Dio». (1Co 1, 26-29, citato spesso dai Padri e da P. Casara).

Quello che conta non è il numero o la potenza. Davanti a Dio (e spesso anche davanti agli uomini) una piccola testimonianza di vero spirito evangelico può valere più di ogni altra cosa.

Se resteremo saldi nella nostra vocazione Cavanis, il Signore si servirà di noi per i suoi scopi, quando e come vorrà, come di uno strumento umile sì, ma docile ed eletto.

Appendice 3

Commento di P. Antonio Cavanis al punto delle costituzioni sui doveri dei congregati nel ministero dell’educazione dei giovani

3.1 Pueros et juvenes paterna dilectione complecti

Dunque eccitare ed accendere sempre più una particolare tenerezza verso la gioventù, a ciò spinti dal gusto che si dà a Dio, che l’ama con affetto distinto, e dal gran bene che si fa ad essa, occupandosi a difenderla da tante cadute, ed apparecchiandole grandi aiuti a ritornare sul buon sentiero, se mai per disgrazia cadesse nei lacci dei suoi spirituali nemici. Tenerezza che tenda infine a procurare che i giovani aprano il loro cuore ai precettori, e si trovino assai disposti ad ascoltare con riverenza le parole, ed a seguire docilmente i loro avvisi e comandi. Questo amor paterno verso dei giovani domanda principalmente vigilanza, sollecitudine, pazienza, speranza di frutto, e orazione. Sono cinque atti virtuosi, e però operosi, ma potran farsi animosamente pensando di farli in onore delle cinque piaghe di Gesù Cristo. Egli è il nostro esemplare, e noi faremo infinitamente meno di Lui, oltreché non soffriremo con tutto questo nemmeno il dolor di una piaga. La vigilanza e la pazienza potremo usarle ad onore delle due piaghe delle sacre mani di Gesù Cristo, le quali ci ricordano quanta cautela e costanza si vuol usare con le mani, se si accingono ad un qualche lavoro assai fino e prezioso. La fortezza e il coraggio, che nasce dalla speranza, si potranno offrire ad onore delle due sacre piaghe dei piedi, i quali accompagnati da tali doti, fanno riportar la vittoria nei più duri cimenti. Finalmente l’orazione, prodotta dalla carità verso i giovani, si potrà offrire alla piaga del sacro Costato di Gesù Cristo, che apre a tutti l’ingresso a quel Cuore divino, che si fe’ per noi tutti vittima di carità. Nell’esame [di coscienza] della sera potrà riflettersi se si sieno esercitati questi atti, e pentirsi se si trovasse d’aver mancato, considerando di non aver custodito in noi stessi sì bella immagine del divin nostro Capo.

3.2 Gratis educare

Dunque guardarsi da qualunque cosa potesse essere di nostro interesse, e non accettare né regali né inviti, né in città né in villa, né da essi, né dalle loro famiglie. Così resterà libero il maestro dagli umani rispetti, e potrà esercitare la sua carità senza pena verso i più poveri e rozzi, e si fuggirà il gran pericolo di sì fatte pie Istituzioni, che cominciate per ben dei poveri, vanno sì facilmente a finire a vantaggio solo dei men bisognosi, o di ricchi. Quod Deus avertat.

3.3 Sollicita vigilantia a saeculi contagione tueri

Il mondo è sì corrotto, che non vi si respira che un’aria pestilenziale. Esso spira da tutte le parti corruzione e peccati, e questa corruzione si insinua per tutti i nostri sensi. Ciò che si vede e si sente reca un veleno mortale, il quale entra per gli occhi e per le orecchie, e giunge poi ad infettare anche il cuore. Si procuri dunque d’impedire che i giovani si frammischino col mondo, e questo coll’inculcar loro quelle gran massime: omne quod in mundo est concupiscentia carnis, etc.; e vanitas vanitatum et omnia vanitas et afflictio spiritus; coll’allettarli alle pratiche di pietà, ed agli studj, e finalmente col presentare giusta le regole, oneste ricreazioni ai tempi e giorni assegnati. Si tenga per fermo che il procurare ad essi onesti sollievi è far cosa assai decisiva per la loro buona riuscita, e però ognuno sia pronto a prestar in questo l’opera sua. Avvertano poi che in ciò fare devono usare maniere dolci, onde non sentano il peso della soggezione a coloro che li devono sorvegliare; devono usare vigilanza, onde non incorrano in pericoli di corpo per la loro vivacità, o d’anima per domestichezza con talun dei compagni, e santa destrezza onde scoprir la loro indole, con che potranno poi meglio dirigere la loro condotta; e finalmente far quanto richiedesi per giungere a questo termine che gli allievi prendano fiducia ed amore di figli verso di essi, cosa che frutterà poi tanti vantaggi che non si possono, né esprimere, né immaginare. Si pensi ben tutto questo, mentre è là ciò appunto che formar deve il carattere distintivo dell’Istituto di Scuole, ma Scuole di Carità. Ogni scuola deve esser tale, ma distintamente la nostra, che va fregiata di questo nome, non comune alle altre, per questo appunto che nella carità deve distinguersi e primeggiare. Però a lei tocca in particolar modo fregiarsi dei pregi distintivi di essa, e fra questi della pazienza, benignità, disinteresse ecc. Charitas patiens est, benigna estnon quaerit quae sua sunt, omnia sperat, omnia sustinet, .. . nunquam excidit (1Cor 13,4. 5. 7. 8).

3.4 Spiritu intelligentiae ac pietatis quotidie erudire

La perfetta istituzione dei giovani è composta di due elementi: educazione propriamente detta ed istruzione. All’educazione spetta ciò tutto che riguarda la pratica della Religione, della moralità, e tende a formare il cuore; all’istruzione spetta l’infonder nel giovane le cognizioni opportune che gli rischiarino l’intelletto. In una parola l’educazione riguarda lo spirito di pietà, e l’istruzione l’intelligenza.

Ora l’istruzione deve riguardare più la pietà che l’intelligenza, poiché tra le istruzioni la più importante è la cura dell’anima, e questa esige che si coltivino le virtù, mentre l’intelligenza non fa che illuminare l’uomo: or è certo che i lumi non sono le virtù. Non tutti sono obbligati di esser dotti, ma tutti sono obbligati di viver bene. Gli Istitutori della gioventù sono incaricati da Dio e dalla natura del loro uffizio di fare buoni cristiani, più che dei maestri: tutto il resto non è che un mezzo.

L’istituzione dei giovani riguarda tre cose: il corpo, l’ingegno, ed il cuore; ma quest’ultimo è il più importante, e quindi è il lavoro più essenziale di una saggia istituzione. Che giova, infatti, che un giovane sia sano ed agile nel corpo, quando sia dissoluto e corrotto nel cuore? Che giova che un giovane sia ricco di cognizioni, quando sia guasto e malvagio nei suoi costumi? La scienza non unita colla virtù, e piantata sulla religione, non riesce che vana e pericolosa. Vana perché non soddisfa al dovere dell’uomo che deve essere più saggio nella condotta, che nell’intelletto. Si stimi assai la dottrina, poiché è molto meglio che l’uomo sia insieme religioso e dotto, che non religioso soltanto; ma chi potrà darsi a credere essere meglio che l’uomo diventi erudito e letterato, che virtuoso e cristiano? La perfezione e la felicità di un uomo dipende tutta dalla virtù e dalla religione, ma nulla o poco assai dalla scienza. Dio che vuole il nostro miglior bene non chiese mai il capo a nessuno, ma bensì il cuore a tutti. Dinanzi a Dio nulla conta la scienza, ma le virtù, coll’esercizio delle quali si ottiene la vita eterna. Surgunt indocti, dice S. Agostino, et rapiunt regnum coelorum, mentre i dotti si rivoltano nel fango e nelle sozzure, per cui precipitano nell’inferno. E Gesù medesimo (Matth. 11, 25) glorifica l’Eterno Padre perché si compiace di manifestarsi e dispensare le sue grazie agli idioti e ai piccoli secondo il mondo, mentre le nega ai sapienti e prudenti del secolo, i quali essendo gonfj della pretesa loro scienza, mettono un ostacolo agli influssi salutari della grazia di Dio, che viene conceduta agli umili e negata ai superbi. Confiteor tibi Pater, Domine coeli et terrae, quia abscondisti haec a sapientibus et prudentibus, et revelasti ea parvulis.

Si è detto ancora pericolosa. In questi tempi più specialmente si sono osservati tutti i pericoli di una scienza carnale, e si sono scoperti i funesti effetti d’una istruzione separata dall’educazione. Se si dirà che questo non è che l’abuso della scienza, si dirà ciò che è vero; ma resta d’aggiungere che nella presente turbazione del mondo, questo abuso è troppo comune e troppo facile. Uomini gonfj del loro sapere diventano insensati al segno di non credere ad altra scienza che a quella dell’uomo, né ad altra verità che a quella di una materiale filosofia. Niente ci turba, dice il Grisostomo, niente ci sbalordisce, quanto una scienza umana, che prende il suo linguaggio dalla terra, e che non vuol essere illuminata dall’alto. I ragionamenti terrestri sono in guisa di una fangosa palude, e noi abbiamo bisogno delle fontane più pure del cielo, acciocché il fango restando al fondo, ciò che vi ha di più puro nel nostro spirito spieghi il suo volo, e s’innalzi fino ai dogmi divini. Nihil enim tantas parit tenebras, quantas humana ratio, quae terrena semper loquitur, neque supernam illuminationem admittit. Luteas quippe versat, et terrenas cogitationes. Ideo supernis nobis fluentis est opus, ut, luto deposito, quidquid in mente purum est sursum feratur, et cum divinis dogmatibus commisceatur (S. Jo. Chrys., Hom. 24 in Jo) .

A questo pericolo presenta il rimedio l’educazione morale e religiosa. Ella corregge le nostre passioni e ne dirada le tenebre, purifica le nostre anime e le solleva dalle cose materiali alle eterne. Dispone che l’istruzione non cada tra le spine, ma su buon terreno, che renda frutto d’eterna vita. Guida le lettere e la filosofia alla loro origine e fa che servano alla cognizione di Dio, ed alla pratica dei proprj doveri; in una parola fa della scienza la vera sapienza. Una confessione, una comunione, una predica, qualunque opera di pietà, a cui dispone l’educazione morale e religiosa, oh quanto facilmente produce sì grandi effetti!

Non si dimentichi quanto si accresce il bisogno di questa educazione in un secolo quale è il nostro, in cui tanto si affatica per dilatar l’istruzione con apertura di scuole a innumerabile turba, nelle quali con ogni sforzo si cerca di sottilizzare la mente, e con immenso numero di libri, di compendj, e dizionarj, ed altre opere di egual calibro, che facilitano quella mezza dottrina, che è più pericolosa dell’ignoranza. Che se si riguardino solo le scuole di leggere e scrivere, che sono aperte per tutti, oh! Quanto riusciranno dannose a chi non sarà provveduto di questa educazione morale e religiosa, onde saper guardarsi dalla lettura di tanti libri che inondano, pessimi per i costumi, ed empj per la guerra che fanno alla Fede, che pur basta saper leggere, perché recare ci possano immensi danni.

Si ricongiungano adunque l’istruzione e l’educazione, come già un tempo, e si rifondano con un piano ben ordinato, e cospirino insieme al medesimo scopo, per cui ne derivi il risultato di una istruzione veramente cristiana.

Appendice 4

I fondatori e la Bibbia: analisi dei riferimenti biblici e della spiritualità biblica nella corrispondenza tra i due venerabili fratelli durante il viaggio di P. Marcantonio Cavanis a Roma

P. Giuseppe Leonardi

4.1 Il metodo

Era mio desiderio presentare non delle vaghe considerazioni sul tema, ma un saggio originale, che potesse fornire nuovo alimento di meditazione e di vita a tutti noi. Il progetto iniziale era di leggermi tutto l’Epistolario e le Memorie, ma mi sono dovuto restringere a una piccola parte soltanto, per la mole delle citazioni bibliche esplicite e implicite presenti nel testo dell’Epistolario dei nostri Padri, che già da sole testimoniano come la spiritualità e la vita dei venerabili fondatori fossero impregnate della parola di Dio. Ho scelto il periodo del viaggio a Roma di P. Marco, tra l’11 febbraio e il 7 settembre 1835 (periodo le cui lettere sono contenute nel volume IV) perché si riferisce all’epoca della stesura delle Costituzioni e dell’approvazione pontificia della Congregazione, ma anche perché la corrispondenza tra i due fratelli Cavanis era in quel periodo particolarmente sistematica e abbondante. Un tempo molto speciale, come dicono gli stessi Padri: «Questo è un dei tempi più belli di nostra vita – scriverà il P. Marco al fratello – in cui possiamo avere la grazia di patir qualche cosa per amor di Dio. Quante anime aspettano il buon esito del presente combattimento! Ci saranno tanti avvocati al Trono della Divina Misericordia. State allegro, allegro, allegro, che io lo son pure per la grazia di Dio» (◙ lettera n. 873).

Sono state esaminate 508 pagine del IV volume (7-515), per un totale di 177 lettere e altre carte, compreso il diario del viaggio a Roma; di queste, 104 (58,8%) sono a mano di P. Marco; 73 (41,2%) sono di P. Antonio con aggiunte di altri religiosi. Sono qui riportati 81 brani che contengono citazioni bibliche esplicite o implicite, oltre a un campionario di altre espressioni abituali nelle lettere. Esse costituiscono qui anche una piccola antologia per nostra comune e personale lettura e riflessione.

Il lavoro di copiatura dei testi qui riportati in forma di breve antologia è stato reso ben più facile dall’uso del prezioso CD (=Compact disk, dischetto) con tutti i testi degli otto volumi dell’Epistolario e delle Memorie, compilato con passione, diligenza e infinita pazienza da P. Nicola Del Mastro.

Suggerisco che questo lavoro di ricerca, che si deve considerare soltanto un esperimento e un campione, potrebbe essere completato in seguito per tutti gli “scritti fondazionali”. Il tema potrebbe anche essere occasione di una tesi di dottorato di teologia biblica o di spiritualità, o anche di storia della chiesa. Suggerisco in questo caso di prendere in mano, tra gli strumenti del lavoro, un breviario e un messale dell’epoca, usati dai nostri, e esaminare se i testi che i Fondatori citano appartengono soltanto al testo delle letture dell’Ufficio e della Messa, o se provengono dal testo biblico in genere.

Il lavoro è stato lungo e non sempre facile. La parte senza dubbio più complessa è stata quella di riconoscere e localizzare nella Bibbia le citazioni implicite, di cui probabilmente esisteranno altri casi da me non avvertiti. Non sempre è stato facile trovare le citazioni esatte, cioè la localizzazione nel testo della Bibbia, anche nei casi di quelle esplicite, che non sono mai –purtroppo – riportate nel testo originale dei fondatori. Questo, d’altra parte, indica che non infioravano essi le lettere di frasi cercate nelle pagine del sacro testo, come facciamo noi a volte, ma che queste uscivano ex plenitudine cordis (“dalla pienezza del cuore”, Lc 6,45). Ciò è confermato dal fatto che parecchie citazioni sono ad sensum. Mi sono servito per questo lavoro di un esemplare settecentesco della Volgata latina e di una concordanza biblica della stessa epoca, pure in latino, oltre a altre concordanze contemporanee. Ambedue i volumi settecenteschi appartengono alla biblioteca della casa madre di Venezia.

Si noti che il testo biblico in italiano, messo tra parentesi dopo le frasi citate dai fondatori in latino della Volgata, per facilità di chi non leggesse il latino, non è esattamente una traduzione, ma la forma corrispondente italiana moderna tradotta dai testi originali della Bibbia.

4.2 Le Costituzioni e la Bibbia

Molto prima del Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965; ~130 anni prima), che ha valorizzato di nuovo la Sacra Scrittura nella Chiesa Cattolica, le Costituzioni del 1835 – pubblicate nel 1837 – danno spazio alla Sacra Lettera, cosa che mi risulta non essere comune nelle costituzioni di altri istituti di quel tempo; ma che dovrebbe essere accuratamente controllata.

Infatti, la cost. 132, nel capitolo sulla lettura spirituale (capitolo IV) prescrive: «Sacerdotes insuper et Clerici caput unum, vel saltem viginti versiculos Novi Testamenti flexis genibus et nudo capite, cum vero studio sui profectus, devote ac attente percurrent». («Inoltre i Sacerdoti e i Chierici leggeranno devotamente e attentamente un capitolo o almeno venti versetti del Nuovo Testamento in ginocchio e a capo scoperto, con vero desiderio del proprio profitto»). Dal contesto del capitolo si intende che tale lettura deve essere quotidiana.

Le costituzioni del 1969-70, pubblicate nel 1971, ampliano tale lettura a tutta la Bibbia, specificano che tale lettura deve essere quotidiana e mettono più in risalto, nella posizione e nella struttura generale del testo, tale dovere dei religiosi. Ecco i due articoli principali:

“cost. 15. Leggano ogni giorno con venerazione e con desiderio di profitto la Divina Parola che è saldezza della fede, sorgente pura e perenne della vita spirituale.”

“cost. 80. Si dedichino volentieri all’orazione, rendendola familiare e continua mediante l’ascolto quotidiano della Parola di Dio; abbiano fame dell’Eucaristia e amino con tenerissimo affetto di figli la Madre di Dio, S. Giuseppe, sposo di Maria, gli Angeli custodi e S. Giuseppe Calasanzio, protettore della Congregazione.”

Della Bibbia, sotto le voci: Vangelo, Sacra Scrittura, Parola (di Dio), scritti paolini, si parla in termini espliciti o impliciti nelle nostre Costituzioni e norme (edizione 2008) ai numeri: 4, 12, 12/e, (15), 16/a, 16/e, 24/a, 45, 59, 67/c, 78, 93, 116, 188, 198.

Queste nuove Costituzioni e norme inoltre sono molto ricche di citazioni e altri riferimenti alla Sacra Scrittura. Peccato che le citazioni a pié di pagina, che risultavano nel testo originale predisposto nel corso del Capitolo generale straordinario speciale del 1969-70, siano state eliminate nei libretti successivi delle Costituzioni e norme.

4.3 I fondatori e la Bibbia

I fondatori inserirono la lettura quotidiana del Nuovo Testamento tra le pratiche di pietà obbligatorie, perché essi stessi avevano la Parola in carne e in sangue, non solo per quanto riguarda il Nuovo, ma anche l’Antico Testamento, come si deduce chiaramente dalla loro vita e dai loro scritti, ma come non è stato mai dimostrato sufficientemente. Lo schema forzato della Positio ha purtroppo impedito di mettere in luce in quell’opera questo aspetto importante della loro spiritualità, della loro fede, della loro vita di cristiani, di presbiteri, di apostoli della gioventù, di religiosi. La strada da percorrere può essere proprio una ricerca di questo tipo.

4.4 Generalità

Si può supporre, che essi esercitassero la lettura continua della Bibbia. Le citazioni non sono quasi mai accomodatizie, ma corrette e fondate: le citazioni esplicite sono riprese dalla Volgata, anche se nella loro biblioteca quasi certamente non mancavano traduzioni italiane della Bibbia, mentre quelle implicite sono in italiano. Rimane aperta la domanda se leggessero e conoscessero la Scrittura solo dal breviario e dal messale, o da una sistematica e continua lettura del sacro Testo. Un indizio è costituito dal fatto che spesso citano esattamente i testi, anche se talvolta sembra che citino a memoria, ad sensum. Evidentemente avevano comunque una spiritualità imbevuta di Sacra Scrittura.

P. Marco cita la Bibbia, nel campione prescelto, molto più spesso di P. Antonio; ma si noti che le lettere di P. Marco sono ben più numerose (e ben più lunghe) di quelle di P. Antonio nel periodo, e anche nel campione; ma resta il fatto, anche proporzionalmente al rispettivo numero di lettere, come si dimostra più sotto.

4.5 Statistica

Dal punto di vista statistico, i dati e le percentuali sono i seguenti:

  • Delle 177 carte esaminate, 104 (58,8%) sono a mano di P. Marco; 73 (41,2%) sono di P. Antonio con altri religiosi.
  • Da tutte le 177 carte, sono stati estratti 81 brani, a volte dalla stessa lettera, che contengono (almeno nella mia lettura un po’ dinamica) citazioni bibliche esplicite o implicite, e che provengono da un totale di 54 lettere con citazioni (30,5% delle lettere del campione).
  • Di queste 54 lettere contenenti citazioni bibliche, 42 sono di P. Marco (77,8%); 12 sono di P. Antonio (22,2%).
  • Degli 81 testi contenenti citazioni bibliche, 67 sono di P. Marco, corrispondendo allora al 82,7% del totale di brani; 14 sono del P. Antonio, corrispondendo al 17,3% del totale dei brani.
  • Confrontando poi la percentuale delle lettere di P. Marco nel campione di 177 lettere (58,8%) e quella delle lettere di P. Antonio (41,2%), con la percentuale delle lettere di P. Marco contenenti citazioni bibliche (77,8%) e quella delle lettere di P. Antonio contenenti citazioni bibliche (22,2%), o meglio ancora confrontando con le citazioni bibliche di P. Marco (82,7% del totale di brani) e con le citazioni di P. Antonio (17,3% del totale dei brani), rimane dunque confermato che, almeno nel breve ma significativo periodo studiato, il P. Marco, oltre a scrivere più spesso e più lungamente, citava anche molto più spesso la Sacra Scrittura.

Dal campione risulta quindi probabile che, almeno nel periodo preso in esame, la spiritualità di P. Marco fosse più improntata alla Sacra Scrittura di quella di P. Antonio.

4.6 I libri biblici preferiti

Il calcolo non è esattamente matematico, soprattutto per quanto riguarda i sinottici, in cui si rimanda ai testi paralleli; lo stesso quando un testo dell’Antico Testamento è citato nel Nuovo; si veda per esempio la lettera 781, in cui la prima lettera di Pietro cita un salmo. Inoltre alcune citazioni implicite possono far riferimento a vari testi, “gonfiando” così il calcolo.

Le citazioni esplicite sono 48, mentre le citazioni implicite sono almeno 50. In totale, le citazioni, tra implicite ed esplicite, sono dunque un centinaio. Tra queste, la frase più citata, di cui troviamo quattro citazioni esplicite e una implicita, è senz’altro quella dell’Esodo 12, 13, ripresa per mediazione dagli scritti di S. Giuseppe Calasanzio: [Mosè rispose: «Non abbiate paura!] Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi».

I libri più citati sono i vangeli sinottici (almeno 29 citazioni, di cui 11 esplicite e 18 implicite) mentre stupisce ed è caratteristica (almeno per il campione esaminato) la quasi completa assenza di testi del vangelo di Giovanni (una citazione implicita certa, una implicita possibile).

Tra i sinottici, tolti i testi che possono venire da uno dei testi paralleli in tre o due evangelisti sinottici, è più citato Luca, soprattutto nelle parabole della misericordia (4 citazioni esplicite, almeno 5 implicite; la parabola della pecorella smarrita è citata almeno 4 volte da P. Marco, che si considera tale, nel viaggio a Roma; due volte è citato esplicitamente il Benedictus; interessante e curiosa la citazione della parabola del buon Samaritano (Lc 10,29-37), riferita a lui stesso come pellegrino abbandonato, salvato dalla buona accoglienza di comunità religiose di Roma; e divertente e, perché no, anche commovente una delle citazioni di Lc 15,4-7, ove P. Marco si immagina come pecorella smarrita riportata a Venezia da Lendinara, sulla via del ritorno da Roma, sulle spalle del fratello P. Antonio, rappresentato qui come buon pastore! Queste ultime sono evidentemente citazioni accomodatizie, ma senza dubbio tenere e commoventi.

Marco e Matteo, al di fuori dei testi paralleli nei vari sinottici, sono citati raramente. Luca sembra più caratteristico del patrimonio biblico dei fondatori e particolarmente di P. Marco, con i suoi temi della misericordia e della gioia.

I sinottici in genere sono citati comunque soprattutto a riguardo della misericordia e generosità di Dio e fra persone; della fiducia in Dio; del non dover dubitare né temere; della fede; della preghiera e dei suoi risultati; della tempesta sedata; del consiglio ai discepoli di seguirlo portando la croce; del Padre nostro, particolarmente sulla frase “Sia fatta la tua volontà”; del buon Pastore e della pecorella; della gioia.

Nella frequenza dei libri citati, dopo i vangeli, seguono i Salmi, che evidentemente i venerabili fratelli conoscevano quasi a memoria dalla quotidiana preghiera liturgica delle ore: almeno 18 citazioni, di cui 11 esplicite e 7 implicite.

Dell’Antico Testamento esistono inoltre citazioni dai seguenti libri: della Genesi è citato implicitamente Gen 22 (il sacrificio di Isacco), sul fatto che il Signore provvede, spesso all’ultimo momento decisivo; dell’Esodo si è detto, e il libro è citato solo nella frase “calasanziana”; forse 2 Cronache 20, 17 è citato indirettamente, sulla fiducia in Dio; il cantico di Anna (1Sam 2,6) è citato esplicitamente 2 volte, con la frase di speranza “Si Dominus mortificat, Dominus etiam vivificat” (“Il Signore fa morire e fa vivere”).

Dei libri sapienziali, oltre ai salmi, i fondatori citano implicitamente quattro volte Giobbe, sul fatto che il Signore va benedetto anche quando colpisce (2,10); forse i Proverbi (14,13); quattro volte il Siracide (2, 3.6), sulla fiducia in Dio; una volta la Sapienza (Sap 8,1), sull’azione forte e soave di Dio sapiente.

L’argomento del Nuovo Testamento citato maggiormente, oltre ai sinottici, sono le lettere del corpus paolino con dieci citazioni esplicite e otto implicite. Nel complesso, il testo più citato è la Seconda lettera ai Corinti, con tre citazioni esplicite e tre implicite, due volte sul fatto che Dio ama chi dona con gioia (frase che si ritrova anche nelle Costituzioni; 2Co 9,7; cf. Sal 22,8), altre volte più come pretesto per usare frasi ad effetto. Segue la Seconda lettera a Timoteo (2 Tm 1, 12), che è citata tre volte con la frase “Patior sed non confundar: scio cui credidi” (“Soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto”), completa o in parte; la Prima lettera ai Corinti, citata una volta esplicitamente e una implicitamente; bella la frase “estote fortes in Fide (Siate forti nella fede; 1Cor 16,13); la lettera ai Romani, citata due volte implicitamente. Della lettera ai Galati si cita “bonum autem facientes non deficiamus; tempore enim suo metemus non deficientes.”(“E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo”) (Gal 6,9); di quella agli Efesini (4.1) “Ego autem vinctus in Domino” (“Io, il prigioniero nel Signore”), con accomodatizio riferimento alla “prigionia romana” di P. Marco, infine della lettera agli Ebrei c’è (forse) un riferimento implicito. È da notare il tono fortemente paolino della spiritualità biblica di P. Marco.

Gli Atti degli Apostoli sono citati cinque volte, in genere con riferimento alla situazione concreta a Roma di P. Marco, o alle sue visite ai luoghi sacri; da notare però la frase “cor unum & anima una” (“Un cuore solo e un’anima sola”) (At 4,32-35), applicata letteralmente nella comunità della “casetta”. L’Apocalisse, infine, è citata in 12,9 e 20,2, a proposito dell’ “antico serpente”.

4.7 I temi biblici preferiti

Questa parte riguarda soltanto gli ottantuno testi selezionati, perché contengono citazioni bibliche, e compresi nell’annesso piccolo florilegio o antologia. Non si è fatta differenza tra le lettere del P. Marco e quelle di P. Antonio, ma sarebbe utile farlo. Nell’esaminare i testi, possono giovare i simboli posti alla fine di ciascun brano, di cui esiste la legenda all’inizio del florilegio. Naturalmente l’apporre dei simboli relativi ai temi comporta un certo livello di soggettività.

LA FIDUCIA, LA SPERANZA, LA CONFIDENZA

È il tema presente nel maggior numero di casi: sono quarantasette testi, cioè il 58% dei testi presenti nella “antologia” tratta di questo tema, evidentemente molto caro ai fondatori. Queste caratteristiche, la fiducia soltanto in Dio (e non nei Prìncipi) unite alla povertà della loro vita e al loro spirito di servizio per i più poveri sono caratteristiche dei “poveri di JHWH” o poveri del Signore; un concetto e uno stile di vita molto biblico dei nostri Fondatori.

PROVVIDENZA, BONTÀ, GENEROSITÀ, MISERICORDIA DEL SIGNORE

Sono 32 testi (39,5% del campione), su un tema carissimo a Antonio e Marco Cavanis: la fede e la speranza nella provvidenza, bontà, generosità, misericordia del Signore Dio, in Cristo Gesù. Questi attributi divini sono la causa della speranza, della fiducia, dell’affidamento totale dei nostri Padri, causa anche della loro gioia, pur sulla croce; causa del loro buon umore, delle lettere frizzanti, dell’incoraggiamento reciproco. Scrive spesso P. Marco: “Scio cui credidi!” (“So a chi ho creduto!”) (2Tm 1, 12).

LA CROCE, LA PAZIENZA, LA SOTTOMISSIONE ALLA VOLONTÀ DI DIO

Sono 27 testi (33,3% del campione) sulla pazienza e sulla croce; croce abbracciata con fede, coraggio, amore, buon umore. Basta leggere come definisce P. Marco il duro periodo di cui stiamo parlando: “Questo è un dei tempi più belli di nostra vita, in cui possiamo avere la grazia di patir qualche cosa per amor di Dio. Quante anime aspettano il buon esito del presente combattimento! Ci saranno tanti avvocati al Trono della Divina Misericordia. State allegro, allegro, allegro, che io lo son pure per la grazia di Dio» (◙ lettera 873).

L’ORAZIONE

Sono 20 testi (24,7% del campione) in cui, uno all’altro, i venerabili fratelli si invitano a pregare, chiedono preghiere: “mi raccomando quanto so e posso – scrive per esempio P. Marco al fratello – che più s’insista nelle orazioni, dacchè se il Signor non continua ad accompagnarci colla sua santa benedizione, si può naufragare anche in porto. (◙ lettera 858).

LA GIOIA

Sono 19 testi (23,5% del campione) che parlano della gioia, della serenità, dell’impegnarsi volentieri nell’opera del Signore. La gioia discende dalla fiducia in Dio e dall’affidamento completo alla sua volontà e provvidenza. P. Marco, più di P. Antonio, è scherzoso e divertente nelle sue lettere; ma è una gioia (in tutti e due) che proviene da solida virtù e soprattutto dalla speranza e dalla fede -nuda fede- perché è gioia nella sofferenza. Si veda per esempio questo testo di P. MARCO: “Scrivo queste cose perché non pensiate che io qui mi fermi a far bella gamba; tenete pure per fermo ch’è questo un dei tratti più travagliosi della mia vita, e che ho bisogno di uno speciale ajuto delle vostre orazioni” (P. MARCO a don Matteo Voltolini, lettera 795, 25 aprile 1835). Si noti, di passaggio, quante volte si parla di gioia nelle nostre Costituzioni dell’Istituto Cavanis, sia quelle scritte dai Nostri, sia quelle attuali. Può essere una buona lettura.

CORAGGIO, COSTANZA, FORTEZZA

Sono almeno quattordici testi (17,3% del campione) che parlano di questi temi tanto necessari, allora come oggi.

TEMI NON BIBLICI

In molte lettere, e in sette dei brevi testi selezionati, si nota o esplicitamente si manifesta un grande amore dei due fratelli tra loro, per la comunità e per l’Opera: “La cara vigna” (P. Marco a P. Antonio, lettera 767) .

Viceversa, sembra strano che, mentre sono numerosi i riferimenti amorosi ai confratelli ancora seminaristi, non si parli generalmente dei giovani e molto poco dell’educazione della gioventù, a differenza di tante altre lettere e documenti di altri periodi. Probabilmente nei sette mesi del viaggio a Roma, l’interesse era concentrato sulla comunità che stava diventando Congregazione.

MESSAGGIO DI FONDO

Senza dubbio, messaggio centrale di queste lettere è proprio la spiritualità biblica di cui sono impregnate, a nostro insegnamento ed esempio venerabile: “Fiat, fiat” (“Amen, amen”).

4.8 Testi biblici nelle lettere dei fondatori

(Excerpta, in forma di florilegio, in ordine cronologico)

LEGENDA – SIMBOLI

// = e testi paralleli

cf. = citazioni implicite o ad sensum

cf.? = citazione implicita possibile

ss = e seguenti

♦ = P. Anton’Angelo

◙ = P. Marcantonio

☺ = testi sulla gioia

♥ = testi sulla provvidenza, bontà, generosità, misericordia del Signore

♣ = testi su speranza, fiducia, affidamento

+ = testi sulla pazienza, accettazione della croce, sottomissione alla volontà di Dio

۩ = testi sulla preghiera

* = testi sulla costanza, la fortezza, il coraggio

♫ = testi di amore per la Congregazione

◙ Lettera 737. P. Marco a P. Francesco Appendini, 12 gennaio 1835, a proposito della morte del fratello P. Urbano Appendini: “Ma se così piacque al Signore, dobbiam adorare le sue supreme disposizioni e conformarvici pienamente”. (Cf. Gb 1,20; 2,10).

◙ Ciò nondimeno il Signore mi ha provveduto, poiché non appena arrivato, un buon Prete trovato per la strada mi ha ottenuto cortesemente ogni cosa. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 747, 19 febbraio 1835). (cf. Gen 22,8.14). ♥

◙ Domani ci tocca passare la Montagna di Somma, vedremo come andrà il nostro viaggio. Io però mi sono consolato mai sempre fra queste pene, e non ho avuto paura; e se qualche cosa provava di pena, mi rallegrava subito pensando al fine per cui fu da me intrapreso tal viaggio; e col dir fra me stesso scio cui credidi (so a chi ho creduto), si rallegrava il mio cuore. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 748, 21 febbraio 1835). (2Tm 1,12). ☺♣♥+♫

◙ Non sapea veramente muovere un passo; era esule e pellegrino, ma ho detto dentro me stesso: niente paura; la Provvidenza mi ajuterà. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 750, 21 febbraio 1835). (cf. Sir 2,6). ♣♥

♦ Mio buon fratello coraggio, serviamo un Dio molto ricco e molto buono, che largamente ricambia i brevi nostri travaglj. (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 754, 5 marzo 1835). (cf. Mt 19,29 e //; cf. Rm 8,18). ♣♥+*

♦ Ora ho veramente bisogno di soldi. Ma, come vi scrissi nell’altra mia, non vi prendete travaglio per questo. Sappiamo già chi sia il vero Adiutor in necessitatibus (Cf. Il Signore sarà un riparo per l’oppresso, in tempo di angoscia un rifugio sicuro): Egli può provvedere a ogni cosa. (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 754, 5 marzo 1835). (cf. Sl 9, 10, ad sensum; 46(45),2, ad sensum). ♣♥

◙ …godendo solo di poter patir qualche cosa per una causa sì bella. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 755, 5 marzo 1835). (cf.? At 5,41). ☺+♫

◙ Io umilmente risposi di non avere altra volontà che la sua, ma insieme ancora lo supplicai a dilatare in sì propizia occasione le viscere della paterna sua carità, ed egli facendo mostra di acconsentirvi fece di proprio pugno la rimessa della prodotta Supplica all’E.mo Card. Seg.[reta]rio della S.C. dei Vescovi e Regolari, indi la ritornò alle mie mani perchè io medesimo gliela recassi in persona. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 755, 10 marzo 1835). (cf. 2Cor 6,12; 7,15; cf. 1Gv 3,17).

♦ Non posso a meno di ripetere quello che già sapete, e che si è sparso ad un punto per tutto il mondo, la mancanza dir voglio dell’Augusto nostro Monarca così inaspettata, la quale non può non riuscire sensibilissima a noi, già a lui stretti con tanti vincoli di benefizj e favori, di cui ne dovrem conservare indelebile la memoria. Quì si son fatte, e si faranno preghiere per suffragio della sua anima. Faccia il Signore che la sua morte non apporti alcun nuovo ostacolo al bene degl’Istituti. Quest’è il momento di ricordarsi: bonum est sperare in Domino, quam sperare in Principibus (“È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nei potenti”). (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 756, 8 marzo 1835). (Sl 118(117), 9). ♣

◙ Il Signor ci ajuterà. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 759, 12 marzo 1835). (cf. Sir 2, 6). ♣♥

◙ Il caro P. Generale Baccari a cui unicamente avea continuo e aperto l’accesso, entro la prima settimana passò d’improvviso a vita migliore; sicché io son rimasto orfano e derelitto; Dominus autem assumpsit me (=ma il Signore mi ha raccolto). Io stò bene per divina grazia, e se quì non trovo il conforto che tanto desiderava, di conversare con una esemplare comunità, com’è appunto questa, nemmen nell’ore della comun ricreazione, la Provvidenza mi diede un Padre ed un Consigliere amoroso nel Rmo Generale dei Ministri del’Infermi, conosciuto, come vi ho scritto altra volta per lettera giuntami, senza che il pensassi, da Modena. Religioso di gran mente, di gran relazioni, e di grandissimo cuore. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 759, 12 marzo 1835). (Sl 27(26), 10). ♥

◙ Coraggio, non dubitate; il Signore vi ajuterà. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 759, 12 marzo 1835). (cf. Es 14,13) ♣♥*

◙ La infausta notizia della morte di S.M. l’ho purtroppo intesa da varj giorni, e mi ha trafitto il cuore. Tu autem D.ne in aeternum permanes (Ma tu, Signore, rimani in eterno). Confidiamoci in lui. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 759, 12 marzo 1835). (Sl 102(101), 13; anche Sl 9, 8, ad sensum, ). ♣

♦ Queste notizie mi sono giunte in jeri nel punto stesso che ho ricevuto la vostra lettera, ed ho rimarcato palpabilmente il corso ordinario di Provvidenza che si va sviluppando costantemente miscens gaudia fletibus (=mescolando gioie alle lacrime). (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 761, 15 marzo 1835). (sui problemi con il sig. Francesco Marchiori a Lendinara). (da un inno liturgico di S. Giuseppe, citazione frequente nei Fondatori e loro figli; ma cf. anche Pr 14,13). ☺♥+

♦ Già il modo straordinario con cui ho potuto supplire sin qui ad ogni cosa, mi dà a veder chiaramente che il Signore v’ha ispirato di lasciarmi in mezzo alla gran procella, ed ha egli vegliato amorosamente alla mia difesa. (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 762, 17 marzo 1835). (cf. Lc 8,22-25 //).♥

◙ Gli ho detto ancora che a somiglianza di Lazzaro contentandomi delle miche, in tanto grande abbondanza di arredi sacri che si trovano in Roma ne imploravo uno scarso provvedimento per allestire un po’ meglio li molti miei Oratorj, non dimenticandomi di fargli conoscere che ci occorreva anche qualche calice, ed un ostensorio decente, avendone uno soltanto di rame ch’è troppo misero e mi fa freddo nel cuore. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 764, 19 marzo 1835). (cf. Lc 16,20-31).

◙ …peraltro ci sto di cuore [a Roma] trattandosi di sperare che rifiorisca la cara vigna. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 767, 24 marzo 1835). (cf. tanti testi biblici sulla vigna del Signore, che qui però rappresenta in modo accomodatizio la Congregazione e/o l’Opera). ☺♣♫

◙ Oggi ho venerato la colonna che conservasi nella chiesa di S. Prassede, alla quale fu flagellato il N.S. È una colonna assai bassa, sicché l’amabilissimo Redentore rimase esposto per ogni parte ai flagelli. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 767, 24 marzo 1835). Altri riferimenti alla passione, all’ultima cena ecc. sono fatti da P. Marco, con riferimento alle varie reliquie che vede e venera con commozione nei santuari romani.

◙ Poi sono stato all’altra Basilica di S. Croce in Gerusalemme, ove nella Cappella di S. Elena edificata nel luogo stesso in cui dimorava la Santa, ho veduto una lapide che indica starvi sotto racchiusa una quantità di terra del monte Calvario da essa portata in Roma, sopra di cui fu sparso dal divin Redentore il prezioso suo sangue; ma non ho potuto vedere alcune altre insigni reliquie le quali in un sacro recinto son conservate, quali sono fra l’altre una porzion ben grande della S. Croce, il titolo che vi fu sovraposto, un chiodo della crocifissione, due spine della sacra corona, il dito che S. Tommaso introdusse nel costato divino di G.C. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 770, 25 marzo 1835). (cfr., tra l’altro, Gv 20,24-29)

♦ Ad ogni modo, non vi vogliono melanconie. Il Signor certo provvederà voi e me. (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 771, 26 marzo 1835). (cf. Gen 22,8.14). ♣♥

♦ Quanto agli Squarcj è vero mi sono giunti, ed ho veduto il disordine; ma io pensava che ci volesse pazienza. Credete voi che tutti leggano i fogli? Io penso che pochi li leggano di quelli che leggono il nostro libro. Anche quì si può appropriare: Necesse est ut veniant scandala (“È inevitabile che avvengano scandali”). Però se volete difendervi, fatelo pure, purché non punghiate alcuno, mentre io preveggo che ciò potrebbe essere più dannoso. (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 772, 28 marzo 1835). (Mt 18,7 e //).

◙ Convien prendere di buon cuore quel che Dio manda. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 774, 30 marzo 1835). (cf. Hilarem datorem diligit Deus (Dio ama chi dona con gioia): 2Cor 9, 7). ☺♣+

◙ Tuttavia egli è certo che or conviene durarla a guerra finita, e se al Signore piace adesso di travagliarci, sia benedetto; ma dopo, io spero, si compiacerà consolarci. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 774, 30 marzo 1835). (Parla della necessità di rimanere a lungo a Roma fino a ottenere l’approvazione pontificia, e sulla necessità di avere pazienza; cf. Gb1, 20; 2,10). ♣+

◙ State in fede che quando meno cel penseremo verrà l’ajuto opportuno. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 774, 30 marzo 1835). (cf. Gen 22,8.14; 2Cr 20,17; Eb 4,16). ♣♥

♦ Vedete Provvidenza! Io mi trovava già alle strette tra pochi giorni, ed or mi si prolunga l’ajuto. Che sì che verranno al momento opportuno i sospirati ajuti di cotest’alma città? Io lo spero moltissimo. (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 775, 31 marzo 1835). (cf. Gen 22,8.14). ♣♥

◙ Sia fatta sempre la volontà del Signore. Voi sostenete la vostra croce, io la mia, con coraggio e con allegrezza, e non dubitiamo del divino ajuto amoroso e del più prospero riuscimento di ogni nostra fatica. Constantes estote (spesso dicea il nostro Santo ai suoi figli, e io il dico a voi) et videbitis auxilium Domini super vos (=Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi). (P. MARCO a P. Matteo Voltolini, lettera 777, 2 aprile 1835). (Es 14,13; ma anche riferimento al Padre Nostro, cf. Mt 6,10 //; e ancora Mt 10,38 sul portare la croce). ☺♣+*

◙ Item ho pregato quanto ho potuto a segnar traccie ai miei passi per cambiare in denari la dura pietra che per sì lunga strettezza porto sul cuore, ma resto ancora pecorella smarrita. Il buon Pastore mi accoglierà. Coraggio, fate orazioni, e non dubitate. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 779, 4 aprile 1835). ( cf. i molti testi biblici sul buon Pastore, nell’AT e NT, particolarmente Sl 23(22); Is 4,11; Ger 31,10; Ez 37,24ss; Mt 9,36 e //; Lc 15,4-7 e //; Gv 10,11ss). Sull’esortazione a non dubitare; cf. Mt 14,31 e //; 21, 21; Mc 11,23 e //; Gc 1,6. ♣۩*

◙ Assicuratevi insieme con tutta tuttissima verità che non siete soli a patire, ma che io pure patisco molto per non poter consolarvi, e mi affatico quanto mai posso, e mi si rende molto amareggiato il buon boccone di questo viaggio di Roma che se non fosse con tali angustie, e se non mi trattenesse lontano dal caro nido sì lungamente, sarebbe riuscito deliziosissimo. Ma che ho da dire? patior sed non confundar: scio cui credidi (=soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto). Continuo intanto ad offrir Sacrifizj e a pregare nei Santuarj, e con ciò mi conforto nella mia pena, e ravvivo ed accresco la mia speranza. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 779, 4 aprile 1835). (2Tm 1, 12). ♣۩+

♦ Ma voi ricordatevi, non vi prendete pena; perché il Signor ve lo vieta in quella divina sentenza: omnem sollicitudinem projicientes in eum, quoniam ipsi est cura de nobis (=Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno, mai permetterà che il giusto vacilli). Quì dunque ambedue fermiamo ogni nostra fiducia. State anzi allegrissimo, e continuate le vostre fervorose preghiere, ed i divoti e teneri pellegrinaggj. (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 781, 9 aprile 1835). (Sl 55,23; 1Pt 5,7). ☺♣♥۩

◙ Sostenetemi colle orazioni, e non dubitate, che il nostro buon Dio benedirà questi sforzi, e li farà riuscire felicemente. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 782, 9 aprile 1835). (Sull’esortazione a non dubitare; cf. Mt 14,31; 21,21; Mc 11,23//; Gc 1,6). ♣♥۩

◙ Io per me dico mea culpa, e poi mi consolo con quella bella sentenza della Divina Scrittura che ricordate nella carissima vostra lettera 9 corr.te: Omnem sollicitudinem projicientes in eum, quoniam Ipsi cura est de nobis (=Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno). Fidiamoci del Signore che certamente l’ottimo Padre ci ajuterà. Io sono per la Dio grazia sano e tranquillo, e godo al sentire che anche voi stiate fermo nella fiducia, e riposiate tranquillamente nella Provvidenza divina. Tante Messe celebrate per l’Istituto, e tante visite ai Santuarj, e tante vostre orazioni avranno al certo un esito felicissimo. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 784, 14 aprile 1835). (Sl 55,23; 1Pt 5,7). ☺♣♥۩♫

◙ Il gran male si è che ho un cuor troppo piccolo e troppo freddo, e quindi troppo sono meschine le mie orazioni. Ajutatemi dacché legatione fungor pro vobis (Noi fungiamo quindi da ambasciatori [per voi]), e non temete. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 784, 14 aprile 1835). (cf. 2Cor 5,20). ♣۩♫

◙ Fidiamoci del Signore che certamente l’ottimo Padre ci ajuterà. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 784, 14 aprile 1835). (cf. Sirac 2, 6). Questo tipo di espressione è assolutamente comune e frequente negli scritti del P. Marco. Non la citeremo più in questo saggio. ♣♥

♦ Il Signore permette che insorgano delle nubi talora, ma poi le scioglie. (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 785, 16 aprile 1835). (cf. Mt 8,24//).♣

♦ Vi sarà nota la mancanza a vivi dell’ottima Marchesa Canossa. Gran danno a tante Opere buone da Lei piantate! In somma abbandoniamoci a Dio, che ogni altro appoggio non è che vano. (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 785, 16 aprile 1835). (cf. Sl 117,8-9). ♣

Alleluja Alleluja. (Spesso nelle lettere da Roma, e in particolare nella lettera 789 di P. MARCO a don Matteo Voltolini del 16 aprile 1835). ☺

◙ Ma ecco che tutte queste afflizioni si convertono in allegrezza. Tutto questo scambievole patimento si soffre per procurare la maggior gloria di Dio, e la salute delle anime: tanto basta perché siam lieti e contenti. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 793, 23 aprile 1835). (cf. Gv 16,20-23). ☺+

◙ Concluderò colle belle parole della Divina Scrittura: bonum autem facientes non deficiamus; tempore enim suo metemus non deficientes (E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo). Dio ci doni la grazia di sentirne vivo nel cuore l’eccitamento, e di coglierne il frutto. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 793, 23 aprile 1835). (Gal 6,9). ♣

◙ Confidiamo ad occhi chiusi nella Provvidenza e il Signore ci ajuterà. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 793, 23 aprile 1835). (cf. Mt 6,25-34//).♣♥

Si Dominus mortificat, Dominus etiam vivificat (=Il Signore fa morire e fa vivere); preghiamolo dunque con gran fervore e fiducia ad aver pietà del povero pellegrino, e tutto andrà bene. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 793, 23 aprile 1835). (cf. 1Sm 2,6; Cantico di Anna). ♣♥۩

◙ Buone orazioni e non dubitate. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 793, 23 aprile 1835). (cf. Mt 14,31; 21,21; Mc 11,23//; Gc 1,6). ♣۩

◙ Tuttavia quando penso che tutta questa pena la soffro per amore di Dio, io debbo dir con l’Apostolo: patior sed non confundor, scio cui credidi (soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto). Scrivo queste cose perché non pensiate che io quì mi fermi a far bella gamba; tenete pure per fermo ch’è questo un dei tratti più travagliosi della mia vita, e che ho bisogno di uno speciale ajuto delle vostre orazioni. (P. MARCO a don Matteo Voltolini, lettera 795, 25 aprile 1835). (2Tm 1,12). ♣۩+

◙ Soffrite ancora voi con pazienza la vostra dolorosa tempesta. Il Signore ci ajuterà. Videt laborantes in remigando (Vedendoli però tutti affaticati nel remare). (P. MARCO a don Matteo Voltolini, lettera 795, 25 aprile 1835). (Mc 6,48). ♣♥+

◙ Saluto tutti in osculo Domini (nel bacio del Signore, o nel bacio santo). Pregate per me povero pellegrino, e credetemi, Vostro aff.mo fratello. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 799, 28 aprile 1835). (cf. Rm 16,16; 1Cor 16, 20; 2Cor 13,12; 1Ts 5,26; 1Pt 5, 14). ۩

◙ Dio vuol da noi questo sacrificio: facciamolo volentieri. Era pur tanto facile finirla presto, ma il Signore ha disposto altrimenti: sia benedetto. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 802, 2 maggio 1835). (cf. Gb 1,20; 2,10). ☺+

◙ …ma conviene aspettare il tempo che al Signor piaccia di benedire le mie fatiche (cf. Sl 127, 1). Mi tengo però tranquillo e sicuro che il viaggio abbia a riuscir di conforto anche pel riguardo economico; ma bisogna dar tempo al tempo, e non usar imprudenza, e levar rumore nocivo al principale oggetto della mia presente missione. Lasciamo fare a Dio, e riposiamo tranquilli nelle amorose mani di lui che prima mortificat poi vivificat (“Il Signore fa morire e fa vivere”). (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 803, 4 maggio 1835). (1Sm 2,6; cantico di Anna). ♣♥

◙ Non è meraviglia se si stenti a raccogliere una messe la quale non corrisponde al seme che spargo. Piuttosto è facile ad accadere, come succede continuamente, che le parole non fruttino che parole. Ma già tenete per fermo che il Signore provvederà. Constantes estote, spesso dicea il nostro Santo, e dicea molto bene, et videbitis auxilium Domini super vos (Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi). (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 806, 7 maggio 1835). (Es 14,13). ♣♥*

◙ Datevi un coraggio massimo da leone, e dite meco con fede: in Deo meo transgrediar murum (=con il mio Dio scavalcherò le mura). Dio ci ha posto all’impresa: Egli ci ajuterà. Sappiate per vostra consolazione che io stò benissimo, ed è una manifesta e speciale grazia di Dio, perché veramente patisco assai per riguardo a me e per riguardo anche a voi. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 814, 16 maggio 1835). (Sl 18(17),30). ♣♥*

♦ Ma l’altro affare oimè! ci gittò in un abisso. Basta, vi sembra che questa fosse volontà del Signore; e se così era, io ben volentieri godo delle sofferte fatiche. P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 817, 19 maggio 1835). (cf. molti passi di S. Paolo). ☺+

◙ Ringrazio tutti di vero e ampio cuore di questa bella consolazione con cui hanno raddolcito la pena del lungo esilio presente, e soprattutto rendo grazie al Signore che si degna d’infondere tanto spirito nella nostra diletta comunità, e lo supplico istantemente a renderei in questo spirito ognora più fervorosi e perseveranti. Quando sarà nella nostra casa cor unum & anima una (=un cuore solo e un’anima sola), beati noi! lo intanto prendo sempre lena maggiore, e nel dare l’ultima mano alle regole, stiano tutti pur certi che io tengo sempre per guida la più amabile discrezione. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 829, 4 giugno 1835). (At 4,32-35). ☺۩♫

◙ Bella quella visita del Co.[nte] Mellerio! Se tornate a vederlo, come vi ha fatto sperare, ringraziatelo col maggior sentimento anche a mio nome. Bella anche la prontezza nel riscuotere il grande affitto! Vedete come il Signore ci ajuti coll’amorosa sua Provvidenza! Pare che ci ripeta alle orecchie del cuore: estote fortes in Fide (=state saldi nella fede) (1Cor 16,13), & pugnate cum antiquo serpente (=e combattete con l’antico serpente) (cf. Ap 12,9; 20,2). Orsù dunque coraggio: la gran bella parola ci vien poi dietro: & accipietis Regnum aeternum (=e riceverete il Regno eterno). (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 831, 6 giugno 1835). ♣♥*

◙ Alle stesse frasi bibliche si riferisce il testo: combattendo da forte (P. MARCO a don Matteo Voltolini, lettera 836, 11 giugno 1835). *

◙ Ma già state allegri e in fiducia, che il Signore provvederà. Scit enim Pater vester coelestis quia his omnibus indigetis (=il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno). (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 846, 20 giugno 1835). (Mt 6,32). ♣

◙ Subito dopo sono andato dal R.mo P. Consultore, ed ho trovato sì consolante risposta che mostra disporsi bene la grazia. Sia benedetto il Signore. Ora vedete chiaro che se io pensassi partire, tutti mi darebber del matto. Stà ormai l’affare per essere definito dalla Sacra Congregazione, e promette anche bene: basta così. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 858, 4 luglio1835). (Benedictus Dominus…; (= Benedetto il Signore) cf. Lc 1,68) ecc.

◙ Mi affretto, com’è dovere, a communicarvi la mia improvvisa consolazione, e mi raccomando quanto so e posso che più s’insista nelle orazioni, dacché se il Signor non continua ad accompagnarci colla sua santa benedizione, si può naufragare anche in porto. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 858, 4 luglio 1835). (cf. Sl 127(126)). ♣۩

◙ Jeri mattina, sapendo ch’erano esposte nella chiesa di S. Pietro in Vincoli le di lui sacre catene, mi sono portato a celebrar ivi la S. Messa, e non sol le ho vedute, ma me le ho prese in mano, me le ho baciate, ho toccato con esse la mia corona, e ne ho provato dolcissima tenerezza. Santo Apostolo, gridai col cuore, anch’io mi trovo in catene sicché non posso muovere un passo; ajutatemi ad andare felicemente pe’ fatti miei. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 858, 4 luglio1835). (cf. At 12,1-19). ۩ +

Benedictus Deus et Pater D.ni Nostri Jesu Christi, Pater misericordiarum, & Deus totius consolationis, qui consolatur nos in omni tribulatione nostra (=Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione). Mentre voi patite per me, ed io patisco per voi, oltre al carico delle gravi sollecitudini ad ambedue pur communi, si compiace il Signore benignamente di farmi pervenire il conforto di liete notizie da voi, e di potervi anch’io rallegrare con buone nuove. Sia benedetto in eterno. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 860, 6 luglio1835). (2Cor 1,3-4). ♥+

◙ Vi dico il vero: era propriamente in affanno; né osai di aprire quel foglio senza preparar prima il cuore alla dovuta rassegnazione, ripetendo quelle sante parole piene di conforto e di pace: fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra (sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra). (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 862, 9 luglio1835). (Mt 6,10b e //).☺♣+

◙ Io stò così scarso che non ho quattrini per fare il viaggio: immaginatevi se anch’io mi trovo sul fuoco! Che dovrem dire? Jacta super Dominum curam tuam, et Ipse te enutriet (Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà nutrimento). Non dubitiamo. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 862, 9 luglio1835). (Sl 55(54),23). ♣♥+

◙ Anche riguardo ai soccorsi spero che in fine il viaggio di Roma riuscirà vantaggioso, ma bisogna dar tempo al tempo: sustine sustentationes Domini (≈Sopporta le prove [che vengono] dal Signore). (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 865, 11 luglio1835). (Sir 2, 3, numerazione della Volgata; citata ad sensum; in realtà il testo dice: “sustentationes Dei”). + (Se volete, si potrebbe citare qui anche le “lotte divine”, in altro senso, di Rachele contro sua sorella (Gen 30,8), con la bellissima espressione ebraica “neptulé ‘elohim niptalti”!).

◙ Preghiamo il Signore a dar pazienza, rassegnazione e fortezza ad ambedue, sicché portiamo con merito quella croce ch’egli si degna d’imporci. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 868, 14 luglio1835). (cf. Mt 16,24 e //). ۩ +*

◙ Abbiamo fede, e l’amoroso Signore, che videt laborantes in remigando (Vedendoli però tutti affaticati nel remare), accorrerà certamente a porgerei l’opportuno conforto. Le fondazioni sempre costano assai, ma fruttano anche assai più di quello che costano. È una grazia non meritata che Dio ci fa nell’impiegarci a tal fine: non ci sgomentino i sacrifizj; ma facciam di buon cuore col di lui ajuto ogni sforzo per corrispondervi» (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 868, 14 luglio1835). (Mc 6,48). ♣♥+*

Constantes estote & videbitis auxilium Domini super vos. (=Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi) (Es 14,13). Coraggio dunque, pazienza, e orazioni. Vediamo intanto chi sia più presto nel consolare; se voi col dirmi che Paoletto vi abbia aiutato, o io col mandarvi qualche soccorso. Certo anch’io aspetto delle risposte. Diciamo ambedue con fede: levavi oculos meos in monte[s] unde veniet auxilium mihi (=Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto). (Sl 121(120), 1). (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 872, 16 luglio1835). ♣۩+*

◙ Or io ricordo piucché mai S. Paolo nella presente tribolazione perché assai mi confortano li suoi esempj e le sue sante parole. Nell’avvicinarmi a Roma, considerando il motivo per cui quì mi recava, mi sentiva sempre ripetere al cuore quello che il S. Apostolo disse quando si avviò verso Gerusalemme: vincula et tribulationes Jerosolymis me manent (=mi attendono catene e tribolazioni a Gerusalemme) (At 20, 23b). È impossibile, dicea fra me stesso, che trattandosi di adoperarmi per rassodare e rinvigorire un Istituto da cui si aspetta tanta guerra l’inferno, non faccia il demonio tutti gli sforzi per attraversare l’impresa. Facendo però sentir la natura le ripugnanze più vive nell’affrontar questa lotta, ricordava subito a mio conforto le parole che seguono: sed nihil horum vereor, nec facio animam meam pretiosorem quam me, dummodo consummem cursum meum (…) (Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa) (At 20,24). Queste così elette parole continuo a ricordarle con mia grande allegrezza, e a fronte di mangiar male, di stentar più volte a dormire, di camminare sui sassi colla carrozza delle mie gambe, di languir molto, e di star sempre col batticuore di qualche nuovo colpo improvviso, stò per divina grazia saldo in coraggio e in salute, poiché di fatto qual motivo ci è da temere e di rattristarsi nel trattar la causa di Dio, e procurar di adempiere la santa sua volontà? (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 873, 18 luglio1835). ☺♣+*

◙ Caro il mio buon fratello: facciam volentieri il nostro sacrifizio ambedue: hilarem datorem diligit Deus (=Dio ama chi dona con gioia). Questo è un dei tempi più belli di nostra vita, in cui possiamo avere la grazia di patir qualche cosa per amore di Dio. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 873, 18 luglio1835). (2Cor 9,7; citata ad sensum, manca “enim”). ☺+

◙ Il buon Mons.r Traversi ha sciolto qualunque difficoltà con pieno trionfo e con intiera soddisfazione di Mons.r Seg.[reta]rio Soglia, sicché le difficoltà medesime hanno prodotto il sommo vantaggio d’interessare nell’argomento il suddetto Prelato Traversi, che quotidianamente conversa col S. Padre, onde con piena cognizione di causa e con maggior espansione di sentimento viene ad esserci protettore. Benedette traccie adorabili della Provvidenza divina! (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 876, 21 luglio1835). (cfr.? Sl 65(64), 12; Sl 85(84), 14). ♥

Nota: P. MARCO parla spesso delle tracce della provvidenza; forse si deve pensare alle orme del Signore nel mondo e nella terra [agricola], come nei salmi citati, oppure ai passi del Signore Gesù nella Passione, ricordando certe rapresentazioni paraliturgiche popolari per la settimana santa. L’idea di venerare i passi del Signore nella sua passione è però più propria del Portogallo e del Brasile, dove Gesù è venerato, in molte chiese e nel periodo di Quaresima e della settimana santa, come Bom Senhor Jesus dos Passos. Si celebra anche la “procissão dos passos”. I “passos” del Signore in questo caso corrispondono più o meno alle stazioni della via crucis, con numero variabile.

◙ Ma il Signor vuol così e tanto basta. Ogni sacrifizio si dee pur far volentieri per adempiere la sua santissima volontà. Preghiamolo che ci ajuti ad esser fermi e costanti sino alla fine, e saremo ancor noi nell’avventurato numero di coloro che euntes ibant et flebant mittentes semina sua: venientes autem venient cum exultatione portantes manipulos suos (=Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni). (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 879, 23 luglio1835). (Sl 126(125), 6). ☺♣+*

◙ Basta, sembra che il Signore a poco a poco vada rischiarando le oscurità, e fortiter, et suaviter (=con forza e con soavità) disponga ogni cosa. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 879, 23 luglio1835). (Sap 8,1). ♣♥

◙ È imminente l’agosto in cui senza dubbio partirò da Roma, se al Signor piaccia, siccome spero. Pazienza ancora per poco.

Ricordiamoci che patientia opus perfectum habet (=la pazienza completi l’opera sua in voi). Non cessate di raccomandarmi al Signore, e sperate consolazione. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 883, 28 luglio1835). (Gc 1, 4). ♣۩+

◙ Continuate intanto a pregar con fervore, fate ricorso filiale a Maria SS.ma e a S. Giuseppe, e consolatevi colle più liete speranze. Purtroppo il Giona, qual io mi sono, fa suscitar le tempeste; ma se farete buone orazioni, il Signore riguardo ad esse farà che la nave arrivi al porto felicemente. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 883, 28 luglio1835). (Gn, 1). P. MARCO fa riferimento spesso al suo “affare” come a un viaggio marittimo, da buon veneziano; e si considera umilmente il Giona della Congregazione, esplicitamente come qui o implicitamente altrove. ♣۩

Ego autem vinctus in Domino (io, il prigioniero nel Signore,) bacio con tenerezza i legami che quì mi stringono, vedendo che me li ha posti il Signore. Ed egli pure mi ajuta a sostenermi vegeto e sano in mezzo ai travagli ed alle fatiche. Ringraziamolo sempre e confidiam in lui lietamente. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 892, 6 agosto 1835). (Ef 4, 1; con piccola variante di citazione ad sensum, con l’aggiunta di “autem”). ☺♣♥+

◙ Non so se sia stato allora più grande il mio dolore o la mia sorpresa. Ma se così ha disposto il Signore convien rassegnarsi, e portar volentieri anche questa giunta di croce. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 893, 8 agosto 1835). (cf. Gb 1,20; 2,10; cf. Mt 10,38 e // ecc.). +

◙ Abbraccio tutti di cuore. Pregate per la povera pecorella smarrita. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 902, 19 agosto 1835). (cf. Lc 15,4-7 e //). ۩

◙ Quando poi sia arrivato a Bologna, ivi mi aspetta il Superior della casa della Missione, ed il Superior parimenti dei Missionarj mi attende di buon cuore a Ferrara, e D. Matteo mi prepara buona accoglienza in sua casa, e voi venite a portarmi sulle vostre spalle a Venezia. Io ne sono consolatissimo. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 903, 21 agosto 1835). (cf. Lc 15,4-7 e //). ☺♫

◙ Ricorsi quindi di nuovo ai buoni Padri Filippini, e mi feci coraggio di muoverli a compassione del povero pellegrin derelitto, ed essi prontissimi con tutta la carità mi diedero ajuto e consolazione e ristoro. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 903, 21 agosto 1835). (cfr.? Lc 10,29-37).

◙ Oltre il piacere di essere accolto e trattato con amorosa ospitalità, ci è la inesplicabile consolazione di abitare sulla piazza della Basilica, ov’è racchiusa la S. Casa, sicché la ho sempre sotto degli occhj, e più impiego di tempo ad andarmene dalla mia cella alla porta, che dalla porta del collegio all’insigne Santuario. Vedete in qual prezioso rifugio di pace e di sicurezza si è degnata di collocarmi dopo le sofferte tempeste la Provvidenza divina! lo certo ci vado spesso e vi porto quanti mai siete nel cuore. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 903, 21 agosto 1835). (cf. Lc 8,22-25 e //).♥۩♫

♦ Vi ripeto che non trovo possibile di farmi vedere a Lendinara pelle adotte ragioni, ed inoltre per quella ancora dei soldi. lo non ne ho neppur uno per la gran Sagra. Ma già il Signore provvederà. (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 906, 23 agosto 1835). (cf. Gen 22, 8.14). ♣♥

◙ Io sono propriamente pecorella smarrita. Far il viaggio di Roma solo soletto senza il minimo appoggio nelle città in cui si dee pernottare, è non piccola impresa. Oggi sono rimasto quasi derelitto sulla pubblica strada. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 907, 24 agosto 1835). (cf. Lc 15,4-7 e //).+

◙ Sappiate dunque che dopo d’esser partito da Rimini donde vi ho scritto, passando per Cesena mi san recato a Forlì, ed ivi trovandomi pecorella smarrita, mi sono rifugiato all’ovile dei PP. Gesuiti, dalla di cui carità sono stato raccolto con pieno cuore. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 910, 27 agosto 1835). (cf. Lc 15,4-7 e //).

◙ Addio, mio carissimo. Quanto più crescono sopra di noi le divine benedizioni, tanto più preghiamo per crescere in coraggio e fervore. Fiat, fiat (=Amen, amen). Vale et valete. (P. MARCO a don Matteo Voltolini, lettera 912, 1 settembre 1835). (Sl 41(40), 14). ۩ *

♦ Siete dunque costì? In patria, in casa, in mezzo ai figli carissimi, e sano e salvo e consolatissimo? Benedictus Deus (Benedetto Dio), dunque diciamo tutti, Benedictus Deus; e grazie rendiamo pure umilissime e affettuosissime alla cara Madre Maria ed ai nostri Santi sì potenti e amorevoli Protettori, che tanti beni ci trassero dalla divina bontà. (P. ANTONIO a P. MARCO, lettera 915, 6 settembre 1835). (cf. Lc 1,68).

CITAZIONI PIÙ GENERICHE E SPARSE

Frasi frequenti, di sapore biblico: “non temete”, “non dubitate” ♣

Molto frequente la frase: ◙ Vedete la Provvidenza! (per es. in P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 858, 4 luglio1835). ♣

Frequenti riferimenti alla croce, alle croci, alle spine della corona del Signore, alla colonna della flagellazione e così via; come per esempio nella ◙ lettera 869 di P. MARCO al chierico Sebastiano Casara: “…e quel sentirmi sul cuore il dolor della lontananza e i gravi pesi che restano a mio fratello, egli è pure un bel complesso di spine! Ma S. Bernardo mi dice: pudeat sub capite spinoso membrum esse delicatum (=ci si vergogni di essere delicato sotto un capo coronato di spine); e così queste spine si abbracciano di buon cuore”.+

Frequenti riferimenti alla misericordia del Signore, come in questa: ◙ Continuate con fede le vostre orazioni, ed il Signore per sua misericordia ci ajuterà. (P. MARCO a P. ANTONIO, lettera 851, 27 giugno 1835). ♣

Appendice 5 – Edifici storici

Appendice 5.1. Il palazzo natale dei fondatori

Ci affacciamo alle finestre gotiche che danno sulla fondamenta delle Zattere, la lunga via che si stende fra le abitazioni e il canale della Giudecca. Guardiamo verso la chiesa di S. Eufemia, dirimpetto. È l’ora dell’Angelus e ci pare di sentire il suono di quelle campane; del campanò festoso accompagnato da schioppi e mortaletti che sottolinearono la nascita di Antonio Angelo conte de’ Cavanis.

Siamo al secondo piano della casa avita e natale dei fondatori, sulle Zattere ai Gesuati, vicino al Ponte Longo, alcuni padri della comunità di Venezia (P. Angelo Guariento, P. Franco Degan) il Consiglio al gran completo (i PP. Angelo Moretti, Pierluigi Pennacchi, Danilo Baccin, Rocco Tomei) e io, ospiti della signora Cecilia Pasotto, psicologa-pediatra, attuale proprietaria del palazzo, che fu a suo tempo proprietà dei Conti Cavanis per varie generazioni.

I venerabili fondatori la lasciarono l’uno dopo l’altro, compiendo il loro esodo verso la “casetta”: Antonio nel 1820, Marco nel 1832, dopo la morte della madre. In seguito, la casa fu affittata per molti decenni a terzi e nel 1905 venne venduta dall’Istituto a privati.

Ci accoglie la signora Cecilia, gentilissima. Fin dalla porta e su per le scale ci assale la commozione. In realtà, pensando bene, camminiamo “sulle pedate” dei nostri padri anche nell’edificio delle scuole, nella sua parte più antica, che è il Palazzo da Mosto; per esempio nell’androne, che è l’entrada del palazzo, nell’aula magna, che è stata l’oratorio domestico della nostra comunità di Venezia, e nello stesso tempo l’oratorio delle elementari, che al tempo antico però era il portego, cioè la sala nobile, molto ben conservata .

Ma qui c’è il sapore della novità, il gusto quasi del “proibito”, dopo circa novant’anni di assenza. C’erano volte che, per entrare in qualche modo nella casa fondatori, andavo a comperare magari delle cartoline o dei fazzoletti di carta dal tabaccaio aperto in uno dei magazeni del palazzo. Ci riuniamo nella sala, chiacchieriamo con l’ospite, ammiriamo il mobilio e l’ornato. Visitiamo tutti gli ambienti del secondo piano e poi anche il terzo. Tutto è stato rinnovato, dopo un secolo e mezzo; ma le finestre, la vista, i pavimenti a mosaico alla veneziana, i soffitti con i travi scoperti a vista, sono quelli.

Sembra di vedere Apollonia, Antonio, Marco correre, bambini, per la casa, prendere lezioni dalla Cattina, scrivere poesie proprio in quella data stanza, suonare musica barocca nella “camera rossa”, inginocchiarsi piamente per pregare nella cappellina di famiglia. Sembra di vedere il Conte Giovanni mettersi la vesta (la toga nera da funzionario della Repubblica) e sistemarsi la parrucca da vesta, con il codino, per partecipare a qualche ricorrenza formale; la Contessa Cristina dare disposizioni a Iseppo Gramegna, il servitore, mentre sua moglie Teresa Grones in cucina con l’aiutante comincia a organizzare il pranzo.

5.1.1 Il palazzo veneziano

La struttura generale della Ca’ Cavanis si può ricostruire con buona probabilità in base alle conoscenze della tipica abitazione dei nobili veneziani negli ultimi secoli prima della caduta della Serenissima e anche, per qualche tempo, in seguito.

Anticamente, un palazzo veneziano era occupato interamente da una sola famiglia nobile, proprietaria. Il piano terra era attraversato da un grande androne o entrada, che in genere andava dalla porta da mar, sul canale, usata dai padroni e dagli ospiti per entrare e uscire in gondola e per i trasporti di merce con la barca, alla porta da tera, che si apriva invece sulla calle e che serviva per la servitù e per i fornitori. Ai lati dell’entrata si trovavano i magazeni, depositi per le merci o per la legna, e più recentemente per il carbone per il riscaldamento. Tra il pianterreno e il primo piano, vi era il mezzanino o ammezzato, introdotto nel diciassettesimo secolo anche nei palazzi gotici, caratterizzato da ambienti piuttosto bassi, occupati in genere dagli uffici amministrativi della famiglia e della ditta familiare. Il primo era il cosiddetto “piano nobile” o di rappresentanza, destinato a feste, ricevimenti, concerti e visite. Era costituito da una grande sala (pórtego), che si estendeva da un lato all’altro del palazzo per una lunghezza che poteva arrivare fino a 20 o 30 metri; ai fianchi di questo salone si aprivano sale intercomunicantiper visite, sale da riunioni, per la musica e la biblioteca. Il soffitto, alto anche 5 o 6 metri, era ornato da stucchi, quadri o affreschi. Il secondo piano era riservato, invece, all’abitazione della famiglia proprietaria. Era anch’esso strutturato con un lungo pórtego, fiancheggiato da stanze quasi sempre intercomunicanti, adibite a camere da letto, tinelli, cucina. La servitù, infine, veniva sistemata in ambienti bassi ricavati nelle soffitte. I piani erano collegati tra loro da due scale simmetriche: una più modesta e omogenea era la scala di servizio, che dai magazzini arrivava fino al terzo piano adibito alla servitù; l’altra invece cominciava come scalone nobile, tra l’androne e il piano di rappresentanza, e poi continuava in tono minore fino al piano di abitazione dei padroni. Sul tetto solitamente si apriva una terrazza, soprattutto verso la parte anteriore, oppure delle altane, terrazze panoramiche in legno. Non mancavano i caratteristici camini veneziani a tronco di cono rovesciato, oggi tanto rari.

Questo schema, con le varianti sopra descritte, passò attraverso i vari stili (bizantino, gotico, rinascimentale, barocco, settecento) senza subire modifiche sostanziali. I palazzi veneziani spesso avevano dei giardini, ma generalmente non avevano il cortile centrale, tipico invece dei palazzi fiorentini; con l’eccezione dei palazzi veneziani delle famiglie più ricche e nobili.

5.1.2 Il palazzo dei Cavanis

Il palazzo già dei Conti Cavanis è un palazzo gotico degli inizi del Quattrocento, che segue lo schema tipico dei palazzi veneziani, tranne che per l’assenza del mezzanino. Le dimensioni tuttavia sono piuttosto anomale: il palazzo è, infatti, più largo che lungo, cioè la facciata (30 m circa) è più lunga dei fianchi (15 m circa), e piuttosto basso (più largo che alto). Di conseguenza, i piani sono ben più bassi della media e il portego è accompagnato su ciascuno dei fianchi non da una, ma da due file di stanze, elemento assai raro nei tipici palazzi veneziani.

Il primo piano si apre verso le Zattere con una quadrifora nel pórtego, accompagnata da due monofore ogivali per parte; il secondo piano invece presenta una trifora nel salone centrale, accompagnata da tre finestre monofore ogivali ad ogni lato. Anche qui c’è un terzo piano di recupero, costruito per recuperare spazio abitabile nelle soffitte, che in origine probabilmente era adibito alla servitù. C’è anche un grande giardino dietro la casa e pure la doppia scala, con la differenza però che qui le due scale sboccano ambedue sulla facciata principale. Si può avere l’impressione erronea che il palazzo fosse diviso verticalmente in due parti autonome, invece i piani sono, ancora adesso, indivisi.

Il palazzo, nelle due porte esterne, rappresentanti due diversi ingressi con i rispettivi androni o entrade, e gli scaloni indipendenti, corrisponde attualmente ai numeri civici 920 (porta orientale, che porta al primo piano o piano nobile) e 921 (porta occidentale, che porta al 2° piano, dove abitava la famiglia Cavanis) del sestiere di Dorsoduro. La numerazione delle case è cambiata almeno una volta, probabilmente due, a Venezia durante le varie dominazioni austriache, e al tempo in cui Marco e P. Antonio abitavano ancora nel loro palazzo con la madre, la porta che conduceva alla loro abitazione corrispondeva all’indirizzo esatto “Zattere, n° 991”, come P. Antonio dichiarò per iscritto in un formulario di sua mano alle autorità austriache come indirizzo della sua scuola privata, che praticava ancora all’inizio del 1804 come scuola domestica, a casa sua.

Un’altra caratteristica che distingue il palazzo dalla tradizione è che la facciata non sorge direttamente da un canale, ma sulla fondamenta delle Zattere, una via compresa tra un canale e una fila di case. Manca quindi la porta da mar e la possibilità di imbarcarsi direttamente da casa; ciò vale del resto, per tutte le case e i palazzi con facciata sulle Zattere.

Bisogna ricordare che, anche se il palazzo non sorge sulle rive del Canalasso o Canal Grando, zona più alla moda e di maggiore prestigio, allora come oggi, la posizione sulle Zattere è senz’altro interessante, permettendo di godere di luce, sole e aria pura tutto l’anno e di un’invidiabile vista sul Canale della Giudecca, oggi molto frequentato da imbarcazioni di tutte le stazze, comprese le navi passeggeri, tra cui anche le “grandi navi” da crociera e da trasporto merci. Talvolta tuttavia era scomoda la vicinanza delle numerose barche e zattere che attraccavano su questa lunga fondamenta, detta appunto fondamenta dele Zatere, per rifornire la città di mercanzie, di legna da cantiere e da bruciare e ancora di pietre e mattoni per la costruzione e per i selciati, e quindi di folti gruppi di barcaioli e “battellanti” che a volte disturbavano gli abitanti con il loro gioco d’azzardo, i loro litigi e le loro parolacce, a volte anche le sassate.

La famiglia Cavanis, benché benestante e nobile (non però patrizia, come qualche volta si è scritto erroneamente), disponeva di una modesta fortuna e non possedeva tutto il palazzo, ma solo il secondo piano e alcuni ambienti del terzo piano, probabilmente adibito all’abitazione della piccola (cioè poco numerosa) servitù; il piano nobile, invece, era abitato dalla famiglia Priuli.

Non si è riusciti a sapere quale fosse il nome del palazzo a quei tempi; forse appunto palazzo Priuli. Recentemente però (2020), in Google Maps, il palazzo ha ricevuto il nome, probabilmente improprio, ma che fa piacere, di “Palazzo Cavanis”; anche se esso ormai dal 1904 non appartenga più neanche parzialmente ai Cavanis (cioè all’Istituto di questo nome).

La disposizione degli ambienti era probabilmente analoga a quella sopra descritta. La grande cucina con l’antica cappa del camino si trova ancora oggi al suo stesso posto, nel lato occidentale dell’appartamento; la camera da letto dei genitori dei fondatori ha le finestre rivolte verso il canale, dalle quali si può vedere da vicino la lapide infissa nel muro esterno tra le due finestre, tante volte contemplata dalla strada:

I.M.I.

QUI NACQUERO

ANTONANGELO E MARCANTONIO

DEI CONTI CAVANIS

FONDATORI

DELLE SCUOLE DI CARITÀ

VERI PADRI

DELLA GIOVENTÙ

Lasciando il palazzo, ora più conosciuto e più vicino al cuore, non si può mancare di considerare con maggior fondamento il cammino prezioso dei fondatori dell’Istituto Cavanis: dal palazzo nobiliare alla casetta umida e scomoda; dalla condizione di famiglia servita e riverita a quella di servi dei poveri e dei giovani; da famiglia benestante a una povera comunità. Un’opzione per i poveri, per i giovani, per il Signore, dalla quale anche oggi, in un mondo che cerca solo il benessere, abbiamo molto e molto da imparare.

Appendice 5.2. Breve storia della “Casetta”

Il 27 agosto 1820, giorno dedicato alla festa di S. Giuseppe Calasanzio, in una casa situata a S. Agnese, sulla fondamenta dei Arsenalotti, ora Rio terà Foscarini, si riunì la prima comunità dell’Istituto Cavanis. A quel tempo la Congregazione era approvata canonicamente solo a livello diocesano, ma i suoi componenti, uniti “dal vincolo della carità e della uniforme vocazione”, venivano ad abitare insieme per meglio attendere alla comune vocazione di educatori di giovani.

Ecco la scarna cronaca che troviamo nelle Memorie dei Padri: «Ricorrendo in questo giorno la Festa del nostro principal Protettore S. Giuseppe Calasanzio, si cominciò ad abitare la Casa ch’erasi preparata alla nuova Congregazione. Vi entrò il più anziano de’ Direttori dovendo l’altro restarsi a tener cura della Madre ottuagenaria e vi si unirono il Chierico Pietro Spernich, Matteo Voltolini, ed Angelo Cerchieri, e in qualità di Servente il giovane Pietro Zalivani, tutti con animo di appartenere al nuovo Istituto. La nuova Casa erasi prima benedetta dal nostro Parroco, e Dio Signor si degni di farla sempre fiorire colla sua santa benedizione».

Non si trattava solo di una sistemazione pratica di fronte alle scuole: dal testo risulta che proprio in questa data nasceva la prima vera comunità della nostra Congregazione. L’estrema povertà della casetta rifletteva quella di Nazaret e il piccolo gruppo di ecclesiastici e di laici che vi abitava, vivendo nell’amore fraterno, nella perfetta comunità dei beni, nella preghiera e nel servizio del prossimo, dimostrava di voler imitare da vicino la Sacra Famiglia e la prima comunità cristiana di Gerusalemme. Al gruppo iniziale si aggiunsero gradualmente altri religiosi, laici o sacerdoti, e tra questi dobbiamo ricordare soprattutto P. Marco, che dopo la morte della madre (1832) venne ad abitare con ardore e con profonda umiltà assieme al fratello e ai primi figli.

La Congregazione fu approvata dalla Santa Sede, il numero dei confratelli aumentò, sia pure tra difficoltà di ogni genere, ma la casa della comunità rimase per numerosi decenni la stessa. Ivi vissero e morirono i due venerati fratelli, ivi vennero formate alla santità di vita e allo zelo per le anime le prime generazioni di religiosi dell’Istituto Cavanis.

La “casetta” però era eccessivamente misera e malsana: i muri trasudavano umidità, al pianterreno “l’acqua alta” invadeva le camere, molto basse rispetto al livello del vicino canale, e si moltiplicavano i casi di giovani confratelli stroncati dalla tisi e da altre malattie polmonari. Bisognava provvedere.

P. Casara, succeduto ai fondatori e a P. Frigiolini nel governo dell’Istituto, pensava da tempo di costruire una nuova abitazione per la comunità; ma la grave spesa, e preoccupazioni più urgenti di ogni genere, tra cui a partire dal 1867 la perdita di tutti i beni della Congregazione e dei singoli religiosi, espropriati e demaniati dolo la III guerra d’indipendenza italiana, gli impedirono a lungo di realizzare il progetto. Il 24 settembre 1867 anche la “casetta” con l’orto annesso venne incamerata dallo Stato Italiano che era appena entrato nel Veneto l’anno precedente; tuttavia i Padri poterono continuare ad abitarvi, ma come in casa d’altri.

Il 15 dicembre 1870, la casetta e l’orto vennero riacquistati all’asta, al prezzo piuttosto caro di 17.314,94 lire. Era ben curioso il fatto di dover riacquistare col proprio denaro la propria casa, che già era costata tanti sacrifici; ma P. Casara non era tipo da piangere sul latte versato, e dopo il primo momento di doloroso stupore, si era subito rimboccato le maniche, e si era accinto al riacquisto degli immobili più necessari alla vita e all’attività della Congregazione.

Dopo circa dieci anni trascorsi in questo pesante ma fruttuoso compito, P. Casara, confidando più nella Provvidenza che nel conto in banca cronicamente anemico, il 20 gennaio del 1877 benedisse la prima pietra di una nuova ala di fabbricato, che poté essere completata tra molte difficoltà di carattere economico solo dopo quattro anni e finalmente il 20 gennaio 1881 la comunità poté trasferirsi nella nuova abitazione, sempre modesta e povera, ma più ampia e più salubre: è la stessa casa in cui vivono attualmente i Padri.

In una lettera del primo marzo 1886, P. Domenico Sapori narrava al Patriarca la serie degli avvenimenti: «Si poté nullameno di fatto conservar l’uso di questi due stabili, continuare così la convivenza nostra, e la osservazione delle nostre Regole, e l’esercizio delle Scuole, finché la Provvidenza ci aiutò a ricuperare e Casa e Scuole sull’asta pubblica, ed averne di nuovo il possesso. Dei Membri della Congregazione, benché per la soppressione provvisti di pensione (…) nessuno si ebbe che vi si distaccasse. E fu anche per questo che, continuando ogni maniera di introiti a confluire nella cassa comune della Congregazione, si poté anche noi concorrere non in piccola parte colle elemosine dei pii e generosi Fedeli, ed al riacquisto di alcuni altri dei Fondi perduti con la soppressione, e ad un enorme dispendio incontrato non pure in restauri indispensabili e miglioramenti molto opportuni, ma inoltre nella erezione dai fondamenti di due nuove ali di fabbrica, di cui si sentiva da lunghi anni il bisogno, ma alle quali non si era mai potuto efficacemente pensare».

La “casetta” rimaneva dunque libera e ben presto la comunità la cedette in prestito ai Padri Somaschi, che avevano dovuto rinunciare alla direzione dell’orfanotrofio del vicino convento dei Gesuati, e poco tempo dopo, nel 1884, la Contessa Morosini Gatterburg, su invito di P. Casara, acquistò la casa dall’Istituto per 22.000 lire, per donarla ai Padri Somaschi, favorendo insieme questi di una abitazione e i Padri Cavanis di una forte somma, che servì per contribuire alla costruzione dell’ala “nuova” delle scuole.

Dopo varie vicende, la vecchia casa divenne proprietà del Banco S. Marco, noto istituto bancario di Venezia, che nel 1916 la offrì al Patriarca La Fontaine quale sede di una “Casa del soldato”, luogo di ritiro per i soldati acquartierati in città durante la Grande Guerra. I Padri Cavanis si assunsero volentieri la direzione della casa e la cura spirituale dei militari ed ebbero così occasione di rientrare, sia pure come ospiti, nella “casetta”. Dopo la guerra, i Padri adibirono la casa, per desiderio del Patriarca, a pensionato e sede di un circolo universitario, mentre il cortile annesso venne messo a disposizione del primo reparto Scout di Venezia. Il 12 maggio 1919, il Banco S. Marco offrì in vendita la casa con il cortile all’Istituto Cavanis, al prezzo di 130.000 lire. I Padri colsero l’occasione, e riuscirono poi lentamente a pagare la forte somma, con l’aiuto generoso dello stesso Istituto bancario, che concesse un pagamento rateale al tasso del 4%, poi ancora abbassato al 3%; e condonando infine la somma residua di 25.000 lire. Il 2 maggio 1934 P. Aurelio Andreatta, allora preposito generale, poteva annunciare ai confratelli che il debito era del tutto estinto. Così la prima abitazione della comunità Cavanis ritornava all’Istituto ed è tuttora in suo possesso. Nei decenni successivi essa sarà sede del Circolo Calasanzio, della Congregazione Mariana e della Gioventù maschile di Azione Cattolica (GIAC), di aule scolastiche, della tipografia dell’Istituto, del teatro e sala cinematografica per gli allievi e dello studentato teologico. Nel fondo annesso (“Orto”), che in massima parte servì e serve ancora come cortile per le ricreazioni e le attività sportive dei ragazzi dell’Istituto, negli anni Cinquanta vennero costruiti la palestra per l’educazione fisica (1953) e il pensionato universitario “Domus Cavanis” (1959). Purtroppo, durante tutti quegli anni e attraverso servizi differenti, la “casetta” aveva perso quasi del tutto il suo aspetto originario, e quasi niente ricordava l’aspetto che aveva nel tempo in cui era abitata dai Padri. Essa venne infine abbattuta quasi del tutto nel 1961 per far posto alla “Domus Cavanis”.

Della “Casetta” originale, che aveva forma di “L”, con il ramo orientale verso il Rio Terà Foscarini e il ramo settentrionale verso l’antica Cale Baleca, rimane soltanto una parte del braccio orientale, dipinta di colore arancio, mentre il più importante braccio settentrionale, dove si trovavano tra l’altro le camere dei fondatori e la cappella di comunità, è completamente scomparso. A ricordo, rimangono solo le due lapidi alle pareti della stanza a pianterreno che corrisponde all’area della camera in cui morirono i due Padri fondatori. Eccone il testo:

HIC

ANTONIUS.ANGELUS.ET.MARCUS .ANTONIUS

COMITES.DE .CAVANIS

CONGREGATIONEM.CLERIC.SAECUL.

SCHOLARUM.CHARITATIS

FUNDARUNT

HINC

SANCTITATIS.LAUDE.CLARISSIMI

IN.COELUM.EVOLARUNT

FILII.PP.AN.MDCCCLXXXIV

CUBICULUM HOC

TOT DOMESTICIS MEMORIIS

INSIGNE

A.D. MCMXXXVIII

A CONGR. SCH. CHARITATIS

CANONICE CONSTITUTA

PRIMO RECURRENTE SAECULO

IN SACELLUM MUTATUM FUIT

Appendice 5.3. La cappella del Crocifisso a Sant’Agnese. Memoriale dei fondatori

Spoglia e semplicissima, senza stile proprio, perché in essa non c’è nulla di artistico da citare, la cappella del Crocifisso annessa alla chiesa di Sant’Agnese a Venezia è però importantissima per l’Istituto Cavanis, sia perché in questa cappella iniziò la sua storia, sia perché essa costituisce il memoriale dei nostri fondatori, che vi sono sepolti fin dal 1923. È importante del resto anche per la Chiesa universale, che nel 1985 riconobbe ufficialmente l’eroicità delle loro virtù e per la Chiesa locale di Venezia che venera in loro due dei suoi presbiteri. Non si conosce per ora la data di costruzione della cappella del Crocifisso, che era comunque già vecchia e decadente alla fine del secolo XVIII.

La chiesa di Sant’Agnese, antichissima in termini veneziani, costruita attorno al 1000 e in buona parte distrutta dal grande incendio del 1105, fu ricostruita con lineamenti di impressionante bellezza nella semplicità delle sue povere pareti in cotto, con le lesene raccordate da doppi archetti ciechi sui fianchi e sull’abside. Dopo la ricostruzione, fu riconsacrata soltanto nel 1321. Per i membri dell’Istituto la chiesa è particolarmente importante, perché in essa Antonio e Marco Cavanis furono battezzati e vissero tutte le tappe della loro vita cristiana giovanile, con la pia famiglia.

Il panorama aereo della città di Venezia raffigurato nella splendida e gigantesca xilografia di Jacopo de Barbari (1500) rappresenta la chiesa vista da sud-est, quindi dalla parte dell’abside. Dietro alla facciata, s’intravede un atrio o eso-nartece aperto, costituito da una tettoia a tegole e da pilastri probabilmente lignei, simile a quello visibile ancora oggi nella chiesa di S. Giacometto a Rialto. L’atrio occupava l’area del sagrà o sagrato ed era adibito in parte a cimitero con arche addossate alla facciata e tombe a inumazione sotto il pavimento. Esso venne probabilmente chiuso da un cancello nel secolo XV. Nel corso dei restauri del 1843, eseguiti dai fondatori, nell’atrio furono rinvenute molte sepolture sotto il pavimento, mentre dalla cappella del Crocifisso, che era adibita fin da tempi antichi a cimitero dei bambini, furono trasportati altrove numerosi scheletri di bambini che, nello sfascio del pavimento, apparivano mischiati alle macerie. Purtroppo nella pianta della chiesa nel corrispondente quadernetto sulla localizzazione delle sepolture non risulta la localizzazione di questi sepolcri della cappella del Crocifisso. Il concetto teologico soggiacente a tale sistemazione delle sepolture nell’atrio della chiesa era che i morti rimanevano fuori dalla chiesa, mentre la comunità dei viventi stava dentro; tra gli uni e gli altri, nelle antiche basiliche come per esempio a Torcello, si collocava il mosaico del giudizio universale, sulla faccia interna del muro della facciata.

Non s’intende qui narrare la storia della chiesa di Sant’Agnese, ma accennare brevemente ad alcuni momenti particolari di ristrutturazione e restauro, che ci permettano di seguire l’evoluzione nel tempo della cappella del Crocifisso e delle aree adiacenti. Numerosi e poco documentati sono stati i restauri e le ristrutturazioni nelle età gotica, rinascimentale e barocca. Alla prima, probabilmente, va attribuita l’aggiunta del portico davanti alla chiesa. In un momento che per ora non conosciamo venne addossata alla facciata, come era costume abbastanza diffuso a Venezia, una canonica. Ci sono notizie di abbellimenti e restauri attorno al 1604 e nel 1670. Nel 1733 il prete, probabilmente parroco, Salvatore Bertella, fece restaurare l’atrio, nella cui area si trova anche la cappella che ci interessa. Altri importanti restauri e rifacimenti, una vera “rifabbrica” come la definisce P. Zanon, furono realizzati a partire dal 1795 e agli inizi del XIX; i lavori progettati non erano ancora conclusi nel 1810, al momento del primo esproprio da parte dello stato napoleonico. L’aspetto della chiesa venne radicalmente trasformato secondo il gusto del tempo, con un controsoffitto a volta, colonne addossate agli antichi pilastri, forse anche i finestroni a lunetta.

Per testimonianza di P. Francesco Saverio Zanon, nel secolo XVIII una porta immetteva dall’atrio della chiesa alla cappella. La porta fu più tardi murata (1902), lasciando soltanto l’accesso dall’interno della chiesa; ma venne riaperta in seguito. Essa era aperta comunque nel 1802, al tempo degli inizi della Congregazione mariana, secondo quanto risulta dalla narrazione della processione della nascente Congregazione.

Al tempo dei fondatori, la cappella del Crocifisso apparteneva, come la chiesa, alla parrocchia di Sant’Agnese, era in condizioni pietose e rappresentava un ambiente del tutto squallido. P. Zanon nel 1925 scrive: «A sinistra di chi entra nell’atrio di questa chiesa, una porta, ora murata, metteva in una cappella assai rozza e disadorna, dalle pareti in parte ricoperte da tavole, in parte da carta lacera. La cappella era dedicata al SS. Crocifisso. Era un ambiente assai poco attraente, ma in mancanza di meglio bisognava contentarsi di quello». Fu dunque a questa cappella che i fondatori ricorsero, come seconda risorsa, quando vollero istituire la Congregazione mariana e dar così inizio al nostro Istituto. La lettera del 21 novembre 1802 della nostra Congregazione mariana a quella di Noventa di Piave così descrive l’ambiente: «…una cappella posta nell’atrio della chiesa di S. Agnese, che non sembrava però pienamente acconcia né per la località, né per la sua ampiezza al contemplato disegno… ». Anche P. Sebastiano Casara definisce la cappella «Negletto e diroccato Oratorio (…) ch’era in nessun conto tenuto».

Vale la pena di ricordare che prima della cappella del Crocifisso fu ricercata come sede, senza successo, una delle cappelle della parrocchia di S. Gregorio, a pochi minuti a piedi da S. Agnese, vicino alla basilica della Salute. Avendo visto la necessità di adattarsi alla cappella del Crocifisso, la richiesta al parroco di S. Agnese fu presentata, stranamente, non da don Antonio Cavanis, che apparteneva al clero della parrocchia, ma da mons. Luigi Co. Mozzi, già della soppressa Compagnia di Gesù, ispiratore della Congregazione mariana. Così raccontano le Memorie: «…verso la fine di Aprile dell’anno 1802, Monsignor Mozzi prima di portarsi a Vicenza per fare le S[ante]. Missioni avvertito della opportunità di profittare di una cappella posta nell’atrio della chiesa di S. Agnese, venne tosto a chiederne l’uso, ed a proporre per direttore quel Sacerdote che ne aveva promosso l’Istituzione. Annuendovi di buon grado il Parroco ed ottenuto l’assenso di Monsignor Vicario Generale Capitolare, nel giorno primo di Maggio al dopo pranzo vi si raccolsero per la prima volta nove giovani fondatori della Congregazione. Nel giorno seguente furono i giovani formalmente aggregati e si cominciarono li consueti esercizj con somma edificazione del Popolo, che udivasi ad alta voce acclamare il nuovo Istituto». Così prosegue il racconto P. Zanon: «Il giorno seguente, 2 maggio 1802, fu inaugurata la novella Congregazione eretta sotto il titolo principale dell’Assunzione della Beata Vergine Maria e l’invocazione di San Luigi Gonzaga. Era giorno di Domenica e la pia confraternita si raccolse al mattino, nella sua cappella (…) il piccolo drappello mosse dalla cappella del Crocifisso e processionalmente per l’attigua porta maggiore si portò in chiesa dove già il popolo era raccolto». Aumentato il numero dei congregati mariani e anche il numero dei patroni o benefattori, la cappella subì in breve un primo necessario restauro: «Pel giorno appunto in cui vennero offerti i fiori [= i fioretti, o corona di fiori], videsi addobbato in forma molto decente quest’oratorio dapprima già indecentissimo … ».

Al momento non abbiamo dati sulla sede successiva della Congregazione Mariana e sull’uso fatto dai Cavanis della cappella del Crocifisso, che apparteneva alla parrocchia e non all’Istituto, dopo che questo ebbe una sede propria nell’Orto e poi nel Palazzo da Mosto, sede attuale della Casa Madre e della Curia generalizia. La cappella e la chiesa vennero comunque ben presto espropriate e profanate nel 1810 dall’apparato statale napoleonico e la cappella tale rimase, con vari usi e da ultimo adibita a deposito di legname da ardere, fino all’acquisto mediante asta da parte della Congregazione nel 1839, con il generoso contributo soprattutto del Conte Francesco Revedin. Dato che tutto era in pessimo stato, furono eseguiti restauri radicali, con il sostanziale contributo finanziario del Marchese Fagnani in forma di legato e del Conte Mellerio, con il progetto e la direzione dell’architetto Franco Carlo Astori, nel periodo 1842-1854.

Fu costruita in questa occasione anche una nuova facciata, anzi tutto un avancorpo che occupava lo spazio dell’atrio precedente e della canonica. Scrive P. Casara: «Essendo stata demolita la indecente Canonica parrocchiale che nascondeva del tutto la facciata di mezzo e minacciava rovina, si scoperse che la facciata interna mancando di questo appoggio era pericolante, e conveniva assolutamente sfabbricarla dalle fondamenta». Così si fece purtroppo; era il metodo di “restauro” comune nell’Ottocento. Si cominciò lo scavo per le fondamenta della nuova facciata il 28 aprile 1842. Essa era in stile neoclassico non puro, con reminiscenze barocche, in rosso veronese, pietra d’Istria e marmorino color mattone, abbastanza semplice e alquanto austera, ma in completo contrasto con lo stile della chiesa antica. L’avancorpo comprendeva a pianterreno la cappella del Crocifisso, qui inglobata e illuminata dal soffitto tramite un lucernario, l’atrio della chiesa, probabilmente a pianta ottagonale, due ambienti “per uso di suppellettili” ai lati dell’atrio, e la scala di accesso al piano superiore; il primo piano consisteva di una lunga galleria adibita a biblioteca dell’Istituto, cui si accedeva inizialmente dalla scala di cui si è detto e in seguito, dopo la costruzione del nuovo grande edificio delle scuole da parte di P. Giovanni Chiereghin, dal primo piano di queste.

La chiesa venne chiusa nel 1866, a causa delle gravi ferite inferte alla struttura muraria dal collasso dei sedimenti e delle fondazioni provocata dall’esplosione di acqua, fango, torba e sabbia, probabilmente sotto la pressione di gas metano, con produzione di una specie di geyser in campo Sant’Agnese. Il fenomeno, dolorosissimo per la comunità, avvenne a seguito della perforazione di un pozzo artesiano per uso di una vicina fabbrica di birra e birreria.

La chiesa con la cappella fu nuovamente espropriata con tutte le suppellettili il 24 settembre del 1867, questa volta dallo Stato italiano, dopo la riunificazione del Veneto all’Italia, e passata in proprietà del Regio Demanio, dopo appena 27 anni dall’acquisto da parte dei nostri. Fu di nuovo recuperata, questa volta come prestito, nel 1871, mediante cessione dall’Intendenza delle Finanze del Demanio al patriarca Trevisanato e da questi all’Istituto. Dopo nuovi restauri e nuovi arredi, nel 1872 fu riaperta al culto. Non è chiaro quale uso specifico fu fatto della cappella del Crocifisso nell’intervallo 1854-1866, né in quello 1872-1902. Sembra che l’ambiente non fosse restaurato né utilizzato e che non avesse aspetto di cappella almeno nella prima fase, dato che nel 1850 si giunse a preparare un progetto e un preventivo per la ristrutturazione del vano dell’atrio in forma ottagonale (che probabilmente venne realizzata) e per “ridurre ad uso di cappella il locale a sinistra dell’Atrio” cioè, come scrive P. Zanon, “l’antico sacello del SS. Crocifisso”; ma per mancanza di fondi e per dare la priorità ai più urgenti restauri della chiesa non se ne fece nulla. Pare si debba anche intendere come progetto di un rifacimento parziale o più probabilmente totale della cappella un foglio dell’Astori del 9 ottobre 1843. Anche P. Giovanni Chiereghin del resto nel Diario di Congregazione parla almeno tre volte in proposito della “nuova cappella”; nuova, appunto, nel 1902.

In occasione del primo centenario dell’Istituto, il 2 maggio 1902, si restaurò finalmente la cappella del Crocifisso, che era rimasta disadorna e senza uso liturgico o devozionale fin dal lontano 1810, quando la parrocchia di S. Agnese venne abolita e chiusa dallo stato napoleonico. P. Zanon scrive: «Murate le due porte che mettevano nell’atrio e al corridoio esterno della chiesa, fu aperta comunicazione della cappella con la chiesa stessa; sopra questa porta fu collocata una lapide, la cui iscrizione fu dettata dal valente letterato D. Angelo Zaniol, professore nel Seminario Patriarcale». Il testo della lapide si può leggere anche oggi sopra la porta dai listelli di marmo roseo di Verona della cappella, aperta appunto nel 1902 sulla parete ovest della chiesa:

QUESTO SACELLO

SEPOLCRO UN GIORNO DI INNOCENTI

NELL’ANNO MDCCCII

AI 2 DI MAGGIO

DAI FRATELLI ANTON. E MARCANT.

DEI CONTI CAVANIS

APERTO ALLA CONGREGAZIONE MARIANA

D’ONDE LE SCUOLE DI CARITA’ EBBERO GLI AUSPIZI

NELL’ANNO MCMII

AI 2 PURE DI MAGGIO

DAI FIGLI DEVOTI GRATISSIMI AI FONDATORI

CON LE ELEMOSINE DE’ GENEROSI

ALLA RELIGIONE RIVENDICATO

AI POSTERI

COL NOME E LA SANTITA’ LORO

SPLENDIDI ESEMPI DI VIRTU’ GRANDI

RICORDI

  

La cappella di cui si parla, a partire alla celebrazione del primo centenario dell’Opera Cavanis, fu chiamata, ma solo per qualche decennio, la “Cappella del Centenario”, sebbene qualche volta, erroneamente, questo nome sia stato dato in errore alla cappella che esisteva nella ex-Casa del Soldato, sita di fronte al palazzo Da Mosto, delle scuole, nel luogo della Casetta. Fu ripreso in seguito, almeno dal 1950 il nome di Cappella del Crocifisso che porta anche oggi.

In questa fase di restauro (1902) si era costruito un altare al posto della porta murata verso il sagrato (verso sud), dentro una nicchia, proprio di fronte alla parete dove ora si trovano il sepolcro e la lapide dei fondatori. Sull’altare c’era una pala e non un crocifisso; fu soltanto il 28 febbraio 1919 che «Nella Cappella del centenario fu posto, in luogo della Pala, il Crocifisso come doveva esserci all’inizio della Congregazione Mariana nel 1802». La pala è conservata oggi nell’archivio storico dell’Istituto per evitare il culto dei fondatori e dei loro primi compagni prima della futura beatificazione e canonizzazione. P. Augusto Tormene nel Diario di Congregazione scrive infatti: «Fu tolta la Pala, che è riproduzione d’una di S. Gius. Cal. orante dinnanzi la Vergine, circondato da Angeli, perché sorse il dubbio che quei Religiosi che vi sono dipinti in luogo degli Angeli, volessero essere nella mente del pittore (ignoto) dei primi compagni dei nostri Padri, e forse fra loro i nostri stessi Fondatori, il che sarebbe ora di pregiudizio, nella Causa di beatificazione, benchè si possa con tutta verità affermare che non vi fu mai prestato culto, anzi non se ne sa nulla di certo. Tuttavia ad cautelam…». Il soffitto di stile ottocentesco a cassettoni che si vede ora fu collocato in opera probabilmente in questa occasione, ma ciò resta da dimostrarsi.

Un anno decisivo nella storia della cappella del Crocifisso fu il 1923. Le salme dei venerabili fondatori giacevano, secondo il loro desiderio, in un’urna di pietra viva sotto il pavimento del presbiterio della chiesa di S. Agnese, dietro l’altar maggiore; ne esiste ancora in situ la lapide, con scritta uguale a quella, più recente, dell’arca attuale nella cappella del crocifisso. La salma di P. Marco, morto nel 1853, vi era stata traslata dal cimitero cittadino di San Michele nel 1854; quella di P. Antonio vi fu sepolta direttamente alla morte, nel 1858. Nel 1923, in occasione dell’inizio del processo informativo per la causa di beatificazione dei fondatori, a livello del Patriarcato di Venezia, venne realizzata la ricognizione delle salme e il loro trasporto dalla tomba situata nel presbiterio della chiesa, dietro l’altare maggiore, alla cappella del Crocifisso.

Non si vuole qui dare relazione di tale ricognizione. Si vuol ricordare soltanto che essa fu eseguita appunto nella cappella di cui parliamo e che le salme vennero poi inumate in un loculo scavato per l’occasione nella parete nord della cappella e sporgente verso il corridoio esistente tra la chiesa e le scuole, che in realtà è una calle divenuta privata e ricoperta. La parete nord della cappella è anche muro maestro del fianco nord della chiesa di S. Agnese.

Alla fronte del loculo venne applicata una lapide di bardiglio, di color grigio scuro, sulla quale sono incise in lettere dorate le stesse parole della precedente lapide della sepoltura nel presbiterio:

A  +  Ω

SERVI DEI

FRATRES

ANTONIUS ANGELUS

ET

MARCUS ANTONIUS

COMITES DE CAVANIS

IUVENTUTIS VERE PARENTES

ET CONGREG. KLERIC. SAECUL. SCHOL. CHARITATIS

AUCTORES

Da questo momento la cappella del Crocifisso, già memoriale degli inizi dell’opera dei Cavanis e informalmente della fondazione dell’Istituto, divenne anche memoriale dei due benedetti fratelli stessi, i cui corpi qui aspettano la risurrezione.

Nel nostro secolo, il restauro più notevole della chiesa e, secondariamente, della cappella fu però quello eseguito dall’architetto F. Forlati, allora sovrintendente ai Monumenti (all’Arte medievale e moderna) di Venezia.

Durante tale restauro, chiamato all’epoca “ripristino” e realizzato in due fasi (1937-1940 e 1949), in occasione soprattutto dei preparativi per il centenario dell’erezione canonica dell’Istituto (1938-1939), venne abbattuto tutto il corpo avanzato con il suo prospetto neoclassico, nel quadro del progetto mirato a ridare alla chiesa l’aspetto originario. Fu un provvedimento molto discusso, anche perché la facciata originale romanico-bizantina non si poté ritrovare; essa in realtà era stata purtroppo abbattuta perché fatiscente e ricostruita ex novo dai fondatori nel 1842-1843, a quanto suggerisce Zanon e a quanto si intuisce dal citato manoscritto di P. Casara. Bisognò allora “inventare” una facciata, aprendo nel muro del 1842-1843 un rosone e un’entrata principale di forma rettangolare, cui venne adattato un portale rinascimentale, del tutto fuori stile, portato dalle fabbriche di S. Marco. Dopo l’abbattimento del corpo avanzato, stranamente non si ricostituì l’atrio di legno per completare il ripristino, ma se ne lasciò soltanto indicata l’area con un pavimento in cotto e in pietra bianca ancora visibile nel sagrato. Il suo bordo in pietra bianca ricorda il margine della facciata ottocentesca con le due grandi lesene frontali.

Per motivi storici e affettivi, si salvò anche la cappella del Crocifisso, ormai sacra alla memoria dell’Istituto. La sua conservazione, pur fuori del contesto dell’atrio o dell’avancorpo, è stata criticata dal punto di vista estetico. Essa fu lasciata, molto opportunamente, ben distinta dal corpo principale della chiesa (che è in cotto), anche dipingendola a questo fine di color “rosso veneziano”. In questa occasione si accorciò la cappella, eliminando l’alcova in muratura che conteneva l’altare sulla parete sud, verso il campo, che fu ricostruito sulla parete ovest, di fronte alla porta di accesso alla chiesa. Inoltre venne opportunamente riaperta la porta verso il sagrato e il campo “per permettere la visita ai Fondatori direttamente dalla strada”. Non è chiaro se la cappella originariamente, prima di tale raccorciamento, raggiungesse verso sud la “corsia” di pietra bianca che nell’attuale sagrato rappresenta probabilmente il passaggio tra la porta interna e la porta esterna della chiesa, cioè l’atrio propriamente detto.

Fu in questa occasione, verso il 1940, che si sistemò all’esterno della parete ovest della cappella, verso il Rio terà Antonio Foscarini o dei Alboreti, il “capitello” o immagine della Madonna Assunta che si conserva lì fino ad oggi e il cui significato non è molto chiaro.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la cappella fu particolarmente valorizzata da P. Giorgio Dal Pos, allora sacrista di S. Agnese: la cappella, risistemata e resa più accogliente, venne aperta al pubblico come ambiente di preghiera, mantenendo aperta la porta sulla strada; una targa sul muro esterno invitava ad entrare e pregare – a prendere la perdonanza, si diceva una volta a Venezia; era a disposizione dei visitatori materiale in più lingue sui fondatori; come pure un registro in cui si potevano scrivere richieste di preghiera, dichiarazioni di grazie e osservazioni sui Fondatori. Si stimolava a pregare soprattutto per la loro beatificazione e per le vocazioni all’Istituto Cavanis. In seguito purtroppo la cappella venne di nuovo in pratica chiusa al pubblico, essendo abitualmente chiusa sia la sua porta esterna, sia quella esterna della chiesa di S. Agnese.

Attorno al 1978 si realizzò a cura di P. Fernando Fietta, allora economo della casa di Venezia, un’altra serie di restauri. Vennero eseguite le contropareti per creare delle intercapedini e proteggere gli intonaci dall’umidità e dalla salsedine, impresa difficile a Venezia; il pavimento venne rifatto in cemento e coperto da una moquette verde; fu tra l’altro sostituito il vecchio altare a muro di stile preconciliare con un altare in legno, di forma cilindrica, rivolto verso il popolo, o meglio situato al centro della cappella. In questa occasione si eliminò anche il pannello damascato che fungeva da sfondo al bel crocifisso settecentesco restaurato a suo tempo da P. Aldo Servini e si scoprì allora una piccola nicchia preesistente, ove fu inserito un più piccolo crocifisso settecentesco. L’origine della nicchia è incerta, comunque non sembra esistere nelle fotografie del 1923 relative all’esumazione delle salme dei fondatori.

L’ultimo restauro della cappella del Crocifisso fu quello del 1994-1995. Esso fu realizzato in parte a conclusione del sostanziale restauro conservativo della chiesa di S. Agnese eseguito nel 1991-1994 dal Magistrato alle Acque, quindi dal Demanio; in parte dalla Curia generalizia dell’Istituto e dal Comitato per l’Anno Cavanis presieduto da P. Diego Beggiao, su progetto dell’architetta suor Michelangela Ballan dell’Apostolato Liturgico. Detto restauro venne portato a termine, in buona parte a spese di benefattrici che desideravano mantenere l’incognito, in occasione dell’ “Anno Cavanis” 1994. Si risistemarono e completarono con una buona dose di speranza probabilmente vana le intercapedini tese a evitare la rapida decadenza degli intonaci e del pavimento a causa dell’umidità e della salsedine; si rifece il pavimento in marmo rosso ammonitico di Verona e in marmo bianco “Botticino” pure di Verona, si costruì un bell’altare in pietra di Grosseto al centro della cappella, attorniandolo di stalli in legno di taglio moderno, per favorire la preghiera di piccoli gruppi e specialmente quella della nostra comunità. I due busti dei Fondatori, che purtroppo sono in gesso e non in marmo, vennero portati all’esterno della cappella e sistemati ai due lati della lapide succitata, sopra la porta di ingresso dall’interno della chiesa. Nella nicchia sullo sfondo si sistemò ancora un altro crocifisso, più grande, forse seicentesco, probabilmente in legno di bosso.

La cappella rinnovata fu inaugurata e il nuovo altare venne benedetto dal preposito in occasione della sessione inaugurale solenne del XXXI Capitolo generale, il 16 luglio 1995, nella Memoria della Madonna del Carmine e nella Festa del Redentore.

Al giorno d’oggi, la cappella del Crocifisso non è soltanto un piccolo edificio, povero e disadorno, dalle incerte vicende storiche. Per i padri Cavanis rappresenta un centro di devozione e di memoria. La cappella ha visto, soprattutto dal 1923, le celebrazioni liturgiche e le preghiere silenziose di tanti religiosi: giovani recentemente professi o neo-ordinati, missionari di ritorno dalla loro missione, membri della comunità della casa madre, prepositi generali in cerca di maggior luce sul modo di realizzare nell’oggi il carisma di fondazione, religiosi in difficoltà e religiosi colmi di gioia e di gratitudine. La cappella è servita come ambiente di preghiera e di riunione per gruppi informali, per associazioni e movimenti, quali la Gioventù maschile di Azione Cattolica, l’Oasi organizzato da P. Servini negli anni Cinquanta e il Rinnovamento nello Spirito negli anni Settanta e Ottanta. Vi si sono celebrate cerimonie intime come gli anniversari di professione religiosa, o solenni come quelle di giubilei d’oro o di diamante dei nostri presbiteri e la dichiarazione di apertura del XXXI Capitolo generale.

Nei tempi migliori e in varie occasioni solenni questa cappella è rimasta aperta al pubblico, facilitando un contatto della Chiesa veneziana con due dei suoi presbiteri che hanno esercitato eroicamente le virtù, come la Chiesa universale ha proclamato nel 1985; si trova ora purtroppo, soprattutto durante e dopo i restauri del 1991-1994, piuttosto dimenticata. Bisogna trovare il modo di rilanciarla come centro di preghiera e di riflessione, di conversione e di speranza.

Appendice 6. Le missioni Cavanis all’estero

Appendice 6.1. Spiritualità Cavanis in Brasile

1.1 Introduzione

Ho 57 anni di vita religiosa e questi si dividono equamente tra Italia e Brasile. Ho fatto vent’anni di scuola in senso stretto, e ho dedicato tutta la mia vita all’educazione della gioventù. Da quasi cinque anni sono stato eletto dagli universitari brasiliani, legati alla chiesa, loro assistente nazionale, e vivo presso la Conferenza dei Vescovi brasiliani (CNBB) come loro consulente e animatore nazionale della Pastorale Universitaria. Sono stato anche parroco per un breve periodo.

Siamo vicini al ventesimo anniversario della presenza Cavanis in Brasile, e a me, come a tutti noi, italiani e brasiliani, si presenta la domanda: come realizzare il carisma e la spiritualità dei Cavanis in Brasile? Come ripercorrere, oltre l’Atlantico, l’itinerario spirituale e pastorale dei Fondatori?

In primo luogo e con grande soddisfazione, ci siamo accorti che il loro itinerario è lo stesso -anticipato di 180 anni- che la Chiesa latinoamericana e brasiliana in particolare sta percorrendo oggi, attraverso Medellín e Puebla. Non l’equazione semplicistica:

Schema 1

I FONDATORI AGIRONO COSI PERCIÓ NOI AGIREMO COSI

Ma l’operazione più complessa, che è assolutamente tipica della riflessione teologica e pastorale della Chiesa che è in Brasile, della teologia della Liberazione:

 

Schema 2

NEL 1802 A VENEZIA I FONDATORI AGIRONO COSI. OGGI IN UN DATO POSTO NOI CAVANIS AGIREMO COSI.

Cioè partiamo dallo studio della congiuntura politico-socio-economica di Venezia nei tempi della caduta della repubblica, della Rivoluzione francese, di Napoleone, della restaurazione, studieremo la genesi e lo sviluppo della spiritualità e dell’azione pastorale dei Fondatori dentro di quel contesto, studieremo la congiuntura attuale del Brasile e vedremo come possiamo vivere in quella congiuntura lo stesso carisma. Lo stesso ovviamente, fatto il debito adeguamento, vale per le altre parti territoriali.

1.2 La congiuntura veneziana

La Venezia dei fondatori era una capitale decaduta, tradita, venduta. Una città senza impero (impoverita), senza porto e senza arsenale (disoccupata), senza ideali e senza speranze (smitizzata), culturalmente decadente, senza università, arti, scuole, con una chiesa debole, spesso venduta allo straniero.

La gioventù del popolo, oziosa, viziosa, abbandonata alla quale si deve aggiungere il problema del clima molto freddo nel periodo, i cattivi raccolti nell’entroterra, le varie guerre con il passaggio disastroso di eserciti stranieri, i sette passaggi di governi nel tempo della vita dei Fondatori.

1.3 I Cavanis

In questo triste scenario nascono i fratelli Cavanis. Non è qui il caso di raccontare la genesi della loro vocazione, ma è importante ricordare che non sorse a tavolino, ma che avvenne all’interno di un contesto vitale, a partire dalle circostanze e a partire dalla loro prassi. Si veda lo schema seguente, che corrisponde perfettamente a quello più amato dalla pastorale brasiliana:

Cioè, non sarebbe mai sorta la spiritualità Cavanis se i due fratelli non si fossero scomodati, dedicati alle scuole, scesi dal palazzo avito all’umile casetta, ecc. Lo stesso succede per noi. Lo stesso è successo alla Chiesa latinoamericana e brasiliana.

1.4 La spiritualità Cavanis

 

1.4.1 Opzione per i poveri e opzione per i giovani

P. Anton’Angelo e, poco dopo, P. Marcantonio fecero la loro opzione per i giovani e la loro opzione per i poveri, ossia, la loro opzione per i giovani poveri (la “figliolanza dispersa”) circa 180 anni prima della Terza Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano a Puebla (Messico, 1979), una conferenza, e un documento, che, come quelli di Medellin (1968) è fondamentale per la Chiesa Latinoamericana e brasiliana e per la sua attività pastorale. In altro continente e in altra epoca, ma in situazione analoga sotto molti aspetti, sentirono, ricevettero, praticarono lo stesso spirito e lo stesso carisma.

A loro accadde ciò che succede adesso in Brasile: non serve molto parlare -come si fa moltissimo- dell’opzione per i poveri e diventare dottori -come si diventa spesso- in Teologia della Liberazione: esse si capiscono (e si forma la corrispondente spiritualità) solo quando uno si scomoda, lascia il suo piedestallo, lavora e lotta per i poveri e soprattutto con i poveri, e arriva ad essere perseguitato con loro e diventa povero con loro, tanto quanto è possibile.

1.4.2 Il nome della Congregazione: paternità e carità

Come osservò P. Orfeo Mason nel 1986, i Cavanis partirono da una visione teocentrica e cristocentrica: teocentrica in quanto Dio è amore e Padre; cristocentrica poiché per loro i giovani poveri erano preziosi “come il sangue di Cristo”.  Le virtù che giudicano necessarie per l’educatore Cavanis sono comparate alle cinque piaghe di Cristo (un tema caro al XIX secolo, si pensi al Rosmini).

La loro non è una forma qualsiasi di carità, è la carità di Dio, rivelata in Cristo. Ai giovani abbandonati, senza amore paterno e materno, senza amore della società e della Chiesa, i Cavanis mostrarono l’amore di Dio Padre, che altrimenti essi non avrebbero potuto scoprire. Per questo motivo, e non per la gratuità dell’insegnamento, il nome della Congregazione è “Congregazione delle Scuole di Carità”. Le scuole dei Cavanis sono le scuole in cui i bambini e i giovani -soprattutto quelli più poveri- sono amati con lo stesso amore con cui Dio li ama: “Il titolo per cui si presta a coltivare la gioventù è sacro perché deriva da un sentimento di carità”.

La paternità, allora, è fondamentale. È un termine che oggi abbiamo paura di usare, nel timore che sia confusa con il paternalismo. Eppure di quanto amore di padri ha sempre bisogno la gioventù! Il compito dei Cavanis è “compito di padri più che di maestri” (cost. 47). Paternità è amare ogni ragazzo come se fosse l’unico; amare senza preoccuparsi con la fatica, l’orario, la spesa; amare facendo uso di tutti “i mezzi opportuni”.

      

1.4.3 L’educazione

L’amore paterno portò i nostri Padri a dare ai giovani ciò di cui più avevano bisogno: l’educazione, la scuola, la possibilità di crescere e di diventare qualcuno. Le caratteristiche principali dell’educazione Cavanis, elencate nella costituzione n. 3 al punto 2, sono la gratuità, l’uso di tutti i mezzi e gli sforzi, la cura dell’intelligenza ma soprattutto del cuore, la “sopraveglianza” ossia la convivenza costante, amorosa, vigile, la pazienza e la costanza, il giusto equilibrio tra affetto e fermezza.

Come si può imparare a essere Cavanis se non lo si fa nell’ambiente di educazione e dentro del Carisma Cavanis? Come si può farlo in una parrocchia? Come si può farlo se i ragazzi che frequentano le nostre scuole non sono di condizione modesta? Mi sento di toccare questo tasto perché per un lato vedo così poco praticato l’amore ai giovani, la pratica dell’educazione come dono, la gratuità, la pazienza, la fiducia, in tutti gli ambienti pastorali del Brasile dove vivo, e mi preoccupa che non abbiamo ancora un nostro spazio di vita e di formazione dove si pratichi e si impari questo tipo di educazione. E mi sento di toccare il tasto perché per lunga esperienza, prima in ambiente più tradizionale (in dieci anni di scuola a Roma) e poi in ambiente e situazione nuovi (in quindici anni di educazione in Brasile) ho constatato che in tutte le situazioni, lo stile dei Padri Cavanis funziona benissimo. Per esempio, in un caso ben differente da quello classico italiano, della scuola, e cioè nel centro di Pastorale Universitaria, di Ponta Grossa, ho visto che la gratuità totale, la disponibilità in qualsiasi orario, l’interesse e l’affetto personale per tutti e per ciascuno, la pazienza e la fiducia funzionano sempre e lasciano il segno profondo nei giovani; nel caso, universitari di estrazione sociale relativamente bassa, dentro l’universo della popolazione studentesca.

Credo anche che la fiducia datami dagli studenti universitari cattolici brasiliani eleggendomi nel 1984 e rieleggendomi poi due volte, a loro assistente nazionale, sia stata fiducia concessa non tanto alla mia persona, ma allo stile che io ho imparato dai Cavanis. Ho visto, inoltre, che questo stile si adatta tanto al mondo brasiliano, che, preparando un documento di 300 pp. in nome della Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani, vi ho introdotto due volte esplicitamente la menzione dei venerabili Padri fondatori, e ve ne ho ampiamente descritto, senza citarli sempre, lo stile e il metodo.

1.4.4 La gratuità

Dalla paternità deriva chiaramente la gratuità, perché nessun padre fa pagare al figlio l’educazione e tutto quello che fa per lui. La gratuità delle scuole Cavanis, mantenuta intatta dal 1804 agli anni Settanta del secolo scorso, è segnale, profezia e testimonianza della gratuità della grazia di Dio: il padre Cavanis agisce senza discriminazione (poveri e ricchi), come il Padre che fa spuntare il sole e manda la pioggia su buoni e cattivi, ricchi e poveri. Gratuità che si è mostrata oltre maniera in Cristo, che è morto per tutti e per tutti è risorto. Gratuità che è stata vissuta e teorizzata da Paolo, riconoscendo che l’operaio evangelico ha diritto alla ricompensa, ma rinunziandovi perché il pagamento non sia di ostacolo al Vangelo. Gratuità poco praticata nella Chiesa. In Brasile, per esempio, si osserva facilmente che la pastorale della gioventù è poco praticata e che sono pochissimi i preti, le suore e i religiosi che vi si dedicano integralmente. Tra i motivi, senz’altro uno può essere che la pastorale della gioventù (fuori della scuola) costa e non paga. La Chiesa deve investire un capitale, in persone specializzate e in denaro, senza un ritorno economico. Gli assistenti della gioventù devono lavorare in altri campi per mantenersi nella loro dedizione gratuita alla pastorale della gioventù. Una gratuità per nulla praticata nella scuola. A parte la situazione italiana ed europea, è triste vedere che in Brasile, che si trova oggi in una situazione socio-economica simile a quella del tempo dei fondatori, quasi tutte le scuole cattoliche siano aperte soltanto ai ricchi e ai benestanti, mentre ai milioni di ragazzi e giovani di strada e di favela, ai figli dei “senza terra”, le nostre porte rimangono rigorosamente sprangate. È chiaro che la scuola costa e si mantiene con le rette mensili o semestrali, in modo che si costituisca un filtro socio-economico che sbarra l’accesso proprio a quella categoria di giovani per i quali furono fondate tante congregazioni di educatori.

Così era anche al tempo dei fondatori. Essi cominciarono la loro scuola gratuita perché i ricchi già avevano la scuola (in casa) e perché i poveri non potevano pagare. La loro scuola fu gratis fin da principio, tranne qualche rara eccezione nei primi tempi. Ci fu fermezza assoluta su questo punto: “Tutto il complesso più lusinghiero di splendide protezioni, di generosi soccorsi, di vasti e comodi fabbricati, di amplissime approvazioni a nulla vale qualor non vi sia chi ne faccia buon uso, ma tutto cada per avventura nelle mani di avidi mercenari”.

L’Istituto Cavanis praticò sempre la gratuità generosamente nella scuola e nell’educazione. La costituzione n. 3 dice: “Accogliere con cuore di padri fanciulli e giovani, educarli gratuitamente…favorire con particolari aiuti i più poveri…”.

La norma 49 predica la gratuità nella scuola e nell’educazione in genere, mentre la norma 50/d ordina di evitare i regali per eliminare il pericolo dell’accettazione di persone. Questo punto della gratuità è fondamentale nella spiritualità dei fondatori e nella nostra spiritualità, ieri come oggi.

In Brasile la gratuità è tutta da scoprire, e abbiamo un ambiente ottimale per la pratica di questa virtù. I primi tre Padri Cavanis in Brasile, con autorizzazione del Preposito e poi con l’approvazione del Capitolo generale, chiusero quasi subito il collegio Santa Cruz di Castro, perché capirono che, così com’era, il collegio serviva ai ricchi e che, senza capitali e senza personale, non potevano pensare a una scuola gratuita. Fu giusto e necessario, ma fu anche un evento inibitore di ulteriori iniziative nel senso dell’educazione e della gratuità. Nel frattempo:

– la chiusura del collegio santa Cruz è stato un bel fatto profetico ed emblematico: la chiusura di una scuola per i privilegiati.

– l’esperienza del Centro di Pastorale Universitaria “Oásis” di Ponta Grossa fu importante, anche come esperienza di gratuità e di autofinanziamento di un’attività educativa Cavanis, sia pure diretto, com’era, a giovani di una classe sociale relativamente privilegiata.

– l’attuale esperienza della “casa do Menor” cioè la casa del minore abbandonato, pure a Ponta Grossa, può essere un’iniziativa in tutto perfettamente Cavanis, purché non sia puramente gestita dall’Istituto, ma siamo noi stessi a dedicarvici personalmente [come di fatto lo è oggi, nel 1991].

– viviamo la gratuità anche attraverso l’accettazione e la conduzione di parrocchie povere, sia pure in un modo non specificamente Cavanis.

– la strada, al momento del ventesimo anniversario della nostra presenza in Brasile, è aperta a molte altre esperienze e realizzazioni, soprattutto a livello di comunità piccole, di servizio, senza strutture proprie, dedicate integralmente all’educazione della gioventù.

In Italia la situazione è ben diversa. Non vi sono poveri in senso stretto. La scuola è sofisticata, esigente, cara, in mano prevalentemente a personale laico. Le nostre comunità hanno sperimentato diverse forme di cooperative, casse scolastiche, associazioni di genitori. Queste, da un lato, risolvono il problema del mantenimento della scuola e spesso mantengono i membri della Congregazione coraggiosamente liberi da stipendi. Il problema tuttavia rimane, poiché anche in una società opulenta le nostre scuole devono servire prima di tutto e di tutti ai più disagiati, ai più abbandonati dalla società, come gli emigranti, e ai disadattati.

1.4.5 La povertà e i mezzi poveri

Dalla gratuità nasce la povertà dei Cavanis. Si parla molto di povertà e di “Chiesa dei poveri” nella Chiesa attuale. Pochi però fanno una scelta di povertà reale e radicale. Si parla molto di opzione per i poveri. Pochi però fanno opzione reale di vivere per i poveri e come i poveri. E forse pochi vi sono chiamati; ossia pochi sono chiamati a vivere in una favela, come favelados.

Si discuteva ieri e si discute oggi sulla povertà effettiva (conforme Luca) o affettiva (conforme Matteo). In pratica, la povertà dei religiosi si limita alla dipendenza dalla comunità, ma non è vera povertà effettiva.

P. Marcantonio e P. Anton’Angelo fecero l’opzione per una povertà effettiva, reale, autentica, senza molte discussioni e senza un programma teorico. Frequentando i poveri e spendendo tutto ciò che avevano per la scuola ai poveri, finirono loro stessi poveri. Furono costretti a vendere le terre, i gioielli di famiglia e lasciarono il palazzo familiare da nobili per la “casetta”, umida e povera.

Per noi brasiliani, è come passare dalla “Casa Grande” dei padroni alla “Senzala” degli schiavi. Come passare dal centro all’estrema periferia o alla favela o dal palazzo principesco degli Arcivescovi di Olinda e Recife alla modesta casetta occupata da Dom Helder Camara. È la disinstallazione totale; la spiritualità dell’esodo e della croce.

I Cavanis amarono la povertà. Sia i Padri Anton’Angelo e Marcantonio che arrivarono alla tarda età, sia i confratelli che morirono giovani, di tisi e di altre malattie di poveri. La considerarono necessaria per lavorare in mezzo ai poveri; vi videro una delle maniere più efficaci per rimanere immacolati da questo mondo; capirono che essere poveri era l’unica maniera autentica di mettersi, al lato di Gesù. P. Sebastiano Casara scrive: “Rimasero poveri per soccorrere i poveri nelle loro necessità”.

S’impoverirono al punto che P. Marcantonio fu costretto a chiedere l’elemosina per mantenere l’Istituto. Lui, che era nato conte, faceva anticamera e si umiliava a chiedere sussidi ad altri conti e marchesi, a preti, vescovi e cardinali, a Papa Gregorio XVI e all’imperatore Giuseppe. Ciò gli costava moltissimo, poiché mortificava la sua dignità personale.

I Cavanis avevano paura delle ricchezze e della sicurezza economica che tante volte cerchiamo: “Io non ho paura che delle ricchezze; finché siamo poveri vi sarà lo spirito, ma chi sa che cosa potrà avvenire quando si abbiano molte  sostanze e case d’abitazione ben provvedute!” È per questo che nelle costituzioni antiche essi definiscono la povertà “venerabile”, “muro insuperabile della Congregazione”, “vero e inestimabile tesoro”, “madre dell’umiltà e delle altre virtù”. Nelle attuali costituzioni ci sono molte espressioni di questo tipo, si vedano per esempio le 30 e 33, e tutto il capitolo sulla povertà.

I mezzi poveri

Essere realmente poveri porta con sé una serie di conseguenze. Senza negare che i mezzi di sussistenza fossero necessari, i fondatori lasciavano intendere molto chiaramente che non è il denaro che salva. Dal Nuovo Testamento possiamo citare molti testi, che in genere non prendiamo sul serio:

– “Com’è difficile che un ricco si salvi! È più facile che un cammello passi per la cruna d’un ago, che un ricco si salvi” (Mc10, 23).

– “Non prendete con voi né oro, né argento, né rame nelle vostre tasche” (Mt 10,9).

Dei Fondatori è la frase estremamente evangelica che abbiamo citato sopra, sulla fiducia nei mezzi, strutture, e appoggi di questo mondo. Oggi giorno, soprattutto nel 3° mondo -ma anche nel 1° mondo, credo, leggendo per esempio con umiltà l’enciclica Sollecitudo rei socialis del Papa Giovanni Paolo II – ci rendiamo conto perfettamente che, quanto più i mezzi  della pastorale e dell’educazione sono ricchi, tanto più ci legano al capitalismo e al mondo degli affari, più ci fanno diventare organizzazioni fondate sul capitale e non sul lavoro; più ci prostituiscono a una clientela ricca o, almeno, benestante; più ci allontanano dai poveri, per i quali è sorta la Congregazione.

“Non si può servire a due padroni”! (Mt 6,24).

1.4.6 L’ingenuità e la semplicità

Un progetto ingenuo quello dei Cavanis? Dipende. Talvolta leggendo le lettere dei fondatori o il Diario della Congregazione, si ha l’impressione che essi fossero ingenui e irreali. Immaginiamoci P. Marcantonio a spiegare a Papa Gregorio e ai cardinali in Roma (ne visitò trenta uno per uno), con le loro corti e cortigiani, carrozze e cavalli, servitù e ville, il suo progetto totalmente “nuovo” (Memorie p.372) di scuole per i poveri, di insegnamento gratuito, di Congregazione senza possedimenti e senza capitale…Ingenuo e irreale! Immaginiamoci P. Marcantonio nel palazzo imperiale di Schonnbrun o dell’Hofburg a Vienna, cercare di convincere i nobili della corte e lo stesso imperatore. Ingenuo e irreale! E come trovavano strano, come soffrivano per l’illogicità del fatto, quando vedevano che gli altri non capivano; che non gli si univano in massa altri preti e chierici, che pochi credevano nel loro “piano”. Ingenuo e irreale!

Allora il programma dei Cavanis non era che un’utopia, come suggerisce P. Orfeo Mason (La Spiritualità dell’Istituto Cavanis nelle sue origini, nota 47)? Forse sì, come dice lo stesso autore, ma in un senso forte e positivo. Utopia come progetto del Regno e testimonianza del Regno e profezia del Regno, che viene; utopia come “Sogno di Dio” (come ci piace dire in Brasile), nel Cristo.

L’utopia della quale parliamo oggi nell’America Latina, dentro di una Teologia della Liberazione e di una Pastorale ed Educazione liberatrici, quando lavoriamo per una società più giusta e fraterna, per una umanità senza Sud e Nord, senza oppressori e oppressi.

Un’utopia per la quale vale la pena di buttare via la vita. Per la quale vale la pena di vendere tutto per comprare il campo e trovare il tesoro.

Un’utopia irreale e ingenua, che è la stessa che Gesù Cristo venne a predicare, la buona novella del Regno di Dio: “Considerate la vostra vocazione, fratelli! Non ci sono fra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio”.

E oggi? Mi domando spesso se non siamo troppo realisti, troppo concreti: se non speriamo che Dio ci faccia piovere dal cielo anche la sicurezza economica e se non ricusiamo il carisma integrale Cavanis perché lo troviamo un’utopia.

1.4.7 La piccolezza dell’Istituto

L’Istituto Cavanis fu sempre molto piccolo. I fondatori speravano che l’Istituto si sarebbe progressivamente ampliato e che avrebbe raggiunto tutto il mondo, ma il loro entusiasmo si trasformò ben presto in una grande delusione. La comunità rimase sempre piccola e un po’alla volta essi stessi ne compresero i motivi: nel 1820, rispondendo a un questionario dello Stato Austriaco, riguardo al numero futuro di sacerdoti della loro opera, risposero: “Solamente per ora può dirsi che si prevede che il numero dei congregati sia per riuscire assai scarso, essendo molto difficile il trovare chi si assoggetti ad una vita sì laboriosa, pensando pure a supplire al proprio sostentamento”.

La piccolezza storica dell’Istituto Cavanis non è da considerarsi un fatto casuale o eventuale, ma dipese dal metodo, dalla gratuità, dall’autentica povertà e dalla dedizione ai poveri. Rimarrà sempre un “piccolo gregge” (Lc 12,32), la comunità umile, povera e modesta di cui parlava Paolo ai Corinti: “E tu, Betlemme Efrata… sei così piccola tra le città di Giuda… da te mi uscirà colui ecc.”. (Michea 5,1). I Padri Cavanis non si sentirono mai tentati di cambiar sistema. Forse è proprio a partire da comunità piccole e modeste, senza grandi strutture, che si può ripartire per una più autentica vita Cavanis (e della Chiesa) in Italia come in Brasile e altrove.

1.4.8 Fiducia in Dio

Dalla povertà e dall’insuccesso nasce la fiducia in Dio. Abbiamo già visto che per le Scuole di Carità, i Cavanis giudicarono un danno (Filip 3, 7-8) tutto ciò che le persone “sagge” giudicano normalmente un vantaggio: la nobiltà di nascita, le proprietà familiari, i benefici e le prebende ecclesiastiche, la professione sicura e onorata di alti funzionari della serenissima repubblica, la parentela e gli appoggi politici.

Essi si disinstallarono completamente, si arrischiarono davanti a tutti, passarono da una posizione di forza a una di debolezza. I veneziani benpensanti dell’epoca non giudicarono molto bene la decisione. Commentarono, all’inizio “Vovi de Pasqua!” (come dire, “fuoco di paglia!”). Un’opera fondata sul niente, terminerebbe anche in niente. E in realtà sappiamo quante furono le difficoltà, le umiliazioni, le delusioni, gli scontri con le diverse burocrazie, la scarsezza cronica di vocazioni e perciò di collaboratori, i debiti, le malattie di P. Anton’Angelo, l’indifferenza totale per la nuova istituzione. Oltre a ciò, analogamente a S. Paolo che sentiva la preoccupazione quotidiana per tutte le chiese (2 Cor 11,28), i Cavanis sentivano la sofferenza di dover ricusare tanti giovani preda dell’ignoranza, dell’abbandono e del vizio e di dover rinunciare a nuove fondazioni in altre città e stati, per mancanza di “operai”. Qualsiasi persona avrebbe desistito, ma non loro. Essi, che leggevano tutti i giorni con devozione e fede le Scritture alla ricerca della volontà di Dio avevano assorbito nell’anima il concetto di “poveri del Signore”, anche se non usavano questa espressione, oggi invece tanto diffusa.

Avevano capito che anche la persona più debole, abbandonata e perseguitata, diventa potente e invincibile quando accetta il proprio limite e la propria debolezza, non si appoggia nei grandi della terra e nei mezzi umani e confida solo nel Signore, mettendo in lui tutta la speranza, perché il Signore è il suo naturale appoggio, scudo e roccia: “Tutto posso in colui che mi dà forza” (Filip 4,13). P. Marcantonio citava una frase biblica che S. Giuseppe Calasanzio aveva come ritornello: “Siate costanti, e vedrete l’aiuto di Dio su di voi” (Es 14,13). E ancora P. Marcantonio, alla fine di una spedizione infruttuosa: “Verran gli aiuti donde noi non sappiamo e cammineremo ancor questa volta felicemente per la strada dell’impossibile. Tante orazioni fatte finora non hanno a cader senza effetto; però riposo tranquillo nel seno amoroso della Provvidenza divina”. Nella stessa occasione, P. Anton’Angelo gli scriveva: “E che vogliono dire questi bei no da Marchesi e Conti, che vi sputano in faccia? Che cadrà l’opera? Uh, Uh! Altro, ben altro. Vuol dire che è tribolata, e che appunto per questo Dio la vuol proteggere e farla grande. (…). Io sto in bella pace, senza pensieri, senza timore”.

Il concetto convince ed è facile da capire, però seguire Cristo che trasporta la croce è piuttosto scomodo (Lc 14,27 ss); ed è difficile credere che questo è il cammino verso la vittoria e il successo nella vita e nell’apostolato. Questo, sia nella società di quel tempo, sia nel nostro tempo, quando siamo tutti facilmente avvelenati dalla filosofia del successo, del benessere, del consumo, dell’efficienza. È per questo che i Cavanis svilupparono un grande amore alla croce di Cristo, che è insuccesso e pazzia.

1.4.9 Amore per la Croce

P. Vincenzo Saveri fu il primo a scoprire l’intensità dell’amore dei nostri fondatori. Nel 1969 egli arrivò a suggerire che il tema centrale della spiritualità dei fondatori era l’amore alla croce. P. Aldo Servini dimostrò inoltre che l’idea era un po’ eccessiva, ma senza dubbio è questo un elemento importante della spiritualità Cavanis.

La croce di Cristo è il grande paradosso del Vangelo e del carisma Cavanis. Un paradosso che solo i santi capiscono e praticano a fondo. Cristo che muore in croce è una pazzia e anche una sciocchezza per il mondo; ma, per i credenti, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio perché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (1Cor 1,24-25).

La sofferenza e la delusione, che avrebbero portato altri al fallimento e alla rinuncia, insegnarono molto ai nostri Padri: “Se gli uomini ci mancarono, qual motivo v’è d’attristarsi, se il nostro cuore davvero si appoggia in Dio?”. E continuarono costanti nel cammino intrapreso coraggiosamente.

A loro si può applicare ciò che dice Ebrei 11,13 “Nella fede morirono tutti questi, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati come di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra”.

L’amore alla croce, la fiducia anche nelle più nere tribolazioni, diventarono caratteristiche fondamentali della spiritualità della Congregazione. In America Latina è un coefficiente basico della spiritualità di chi sposa la causa degli oppressi.

La pazienza nell’educazione e la speranza di frutti. Dalla fiducia deriva la pazienza, anche nell’educazione, e la speranza dei frutti, che è una vera speranza teologale. Ai critici prematuri, di cui si parlava sopra, i Padri rispondevano “Se sono uova, aspettate, che nel tempo dovuto nasceranno i pulcini”. Il carattere dei giovani è tale che è difficile credere nei frutti dell’educazione. È per questo che, almeno in Brasile, i vescovi, le chiese locali, gli adulti, in genere non hanno troppa fiducia nei giovani e nell’educazione e non appoggiano troppo le iniziative di scuole e di pastorale della gioventù. Queste hanno risultato quasi solo a lunga scadenza, e solo se la semente è piantata in terreno ben arato, alla profondità necessaria e poi annaffiato e curato con amore e pazienza (e efficienza) fino alla mietitura.

È molto più soddisfacente e probabilmente più comodo dedicarsi alla pastorale generale, nella parrocchia, dove il sacerdote vede più facilmente i risultati concreti della sua opera. Tra l’altro, vi si lavora sulla massa, e i numeri delle presenze sono sempre elevati. Quanta più pazienza ci vuole per lavorare su piccoli gruppi di giovani, vedendo i frutti “come di lontano” (Eb 11,13)! Eppure quanto grandi e duraturi sono i frutti! La pazienza è ben maggiore e la speranza di frutti è ben più sicura se l’educatore aspetta i frutti dalla grazia di Dio, perché la semente è la parola di Dio.

1.4.10 L’orazione

La sfiducia negli uomini e nei mezzi umani (mezzi “ricchi”) e la fiducia in Dio e nei mezzi della grazia (mezzi “poveri”) portano all’orazione Oro Domine ut semper  orem. La tradizione dell’Istituto, gli studi fatti da P. Servini, la Positio dimostrano quanto e come pregassero i Fondatori.

La loro orazione, poi, non era principalmente un’attività svolta per principio, dentro di una generica pietà presbiterale. Anche qui, abbiamo spiritualità nell’azione “Finalmente, l’orazione, prodotta dalla carità verso i giovani…”.

1.4.11 La gioia, la libertà, la pace

La fiducia in Dio e la speranza di frutti porta alla gioia e alla pace. Come diceva P. Anton’Angelo in un momento triste: “io rimango tranquillo e in pace, senza preoccupazioni e senza timori” (AICV, 12: T: 50). Il concetto della gioia è molto diffuso nella Bibbia, soprattutto come “gioia messianica“, nei profeti e, per esempio in Luca (Vangelo e Atti): gioia legata alla salvezza che viene dal Signore. È gioia legata alla sofferenza, come quella del popolo d’Israele, dei Magi, di Maria, di Giuseppe, di Gesù, di tutti i “poveri del Signore” e di tutti i santi. Quella a cui i Fondatori si riferivano quando citavano un versetto di un inno liturgico nella festa di S. Giuseppe: “Miscens gaudia fletibus“.

Della gioia si parla spesso negli scritti dei Fondatori, e gioiosa era la vita nella “Casetta” di S.Agnese. Ne troviamo un’eco profonda nelle nostre attuali costituzioni (1969-70 e 2008), forse più che in quelle antiche (1837):

Cost. 4″…s’impegnano a osservare le presenti Costituzioni … nella gioia di un dono responsabile sempre rinnovato”.

Cost. 11 “…partecipino in letizia alla preghiera, alla mensa al sollievo…”. Questa costituzione parla anche della “gioia di vivere  insieme”.

Cost. 12- vi si parla dell’umiltà e della gioia, nel contesto della correzione fraterna.

Cost. 39 “…obbediscano perciò con esattezza e prontezza, con gioia e umiltà…”.

Nelle antiche Costituzioni, contro l’uso dei tempi, l’obbedienza è praticata senza sanzioni, perché segno di una libera risposta alla vocazione, in un clima di gioia e disponibilità generosa.

Questa libertà è un altro aspetto importante della spiritualità Cavanis. Nel progetto originale delle Costituzioni, che la Santa Sede in buona parte frustrò, era previsto un Istituto senza voti, con case autonome, senza Superiore Generale: “Quanto al superiore generalissimo, io non me lo sono mai sognato” (P. Anton’Angelo, 1835, Positio, pag.1985). I religiosi avrebbero avuto il diritto di uscire quando lo volessero, anche se facevano la promessa di rimanere nella Congregazione fino alla morte. Una contraddizione? No. Essi rimarrebbero non per una costrizione giuridica, ma perché volevano, perché gli piaceva, lo facevano con gioia e entusiasmo.

La Santa Sede non lo volle e pazienza. Anche nel Capitolo Speciale del 1969-1970 se ne parlò e non si trovò opportuno ritornare all’idea originale: non era ancora possibile. Chissà nel futuro. Ma questo spirito di gioia, semplicità, libertà, è costitutivo fondamentale della nostra spiritualità.

1.4.12 “Uniforme vocazione” e la comunità

Che cosa ci mantiene uniti, dunque, in una Comunità Cavanis?

– l’ordine del superiore che ci designò per quella Comunità?

– l’obbedienza al voto?

– il Codice di Diritto Canonico?

– No. Per i Fondatori, il punto fermo è “l’uniforme vocazione”.

Viviamo insieme perché abbiamo la stessa passione per l’educazione della gioventù, perché ci sentiamo chiamati nella stessa vocazione, perché ci piace vivere insieme con persone che sono come noi, che credono nelle cose in cui crediamo, che fanno le cose che facciamo noi. Stiamo insieme perché abbiamo lo stesso Spirito (lo stesso carisma o dono), la stessa spiritualità. (vedi schema 5).

In questo senso, è realmente difficile parlare di “Comunità Cavanis” quando non stiamo praticando questa “uniforme vocazione”. È difficile che la nostra spiritualità sia spiritualità Cavanis se non pratichiamo la nostra vocazione specifica, se non partiamo dal punto di partenza dei Fondatori ossia la dedizione ai giovani, la disinstallazione totale, e non ripetiamo nella nostra vita e nella vita delle nostre comunità l’itinerario spirituale e la prassi dei Padri Anton’Angelo e Marcantonio Cavanis e dei loro primi compagni.

Non credo nella spiritualità prefabbricata, consegnata in scatola ai novizi, fatta di formule di orazione, di libri sui Fondatori e di tradizioni formali, (anche se tutte queste cose sono necessarie); molto meno se fondata appena su istituzioni giuridiche, e poi conservata tra il cotone per tutta la vita.

La spiritualità dei Fondatori nasce dalla loro vita, è perciò esistenziale, prima di essere una teoria. Ha una sua logica e una struttura drammatica, che non può essere separata in virtù sciolte, riprodotte una per una (schema 5).

Dirò una cosa dura e impopolare, ma la dirò con “parresia” (At 4,13 ecc.): non credo che si possa avere la spiritualità Cavanis in una parrocchia, salvo, forse, il caso, che ancora non ho visto, di una parrocchia nella quale i Cavanis dedichino il meglio del loro tempo, della loro competenza e soprattutto del loro cuore ai giovani.

Non credo che si possa avere la spiritualità Cavanis quando non serviamo principalmente ai giovani più poveri e abbandonati.

Non credo che si possa camminare nello spirito dei Fondatori se non siamo realmente poveri e non siamo disposti a rinunciare anche alle nostre strutture, edifici, luoghi tradizionali, qualora ciò sia necessario per seguire il dono dello Spirito.

1.5 La congiuntura del Brasile nel 1988

1.5.1 Congiuntura generale

Il Brasile è un paese potenzialmente ricco ed è l’ottava potenza economica del mondo occidentale. È caratterizzato però da un’economia dipendente, neo-colonizzata, che anche politicamente dipende dalle multinazionali, dalle banche, dagli USA. Ha un debito di 130 miliardi di dollari, accumulato dai fantocci militari che si sono avvicendati alla guida del Paese. Ha un’inflazione che supera il 600% annuo. Il capitalismo qui mostra la sua faccia più cruda e selvaggia. Su 130 milioni di persone, 85 milioni (65%) vivono in condizioni di estrema povertà, di questi il 50% riceve solo il 13,6% della rendita totale e il 10% dei più ricchi ha accesso al 46,2% della rendita totale. L’analfabetismo assoluto è molto alto (almeno il 30%). Il popolo brasiliano ha l’impressione, come quello veneziano del 1802, di essere venduto e tradito, privato dei suoi mezzi di produzione, abbandonato dai suoi capi, venduto a dittatori, privo d’ideali e di modelli, la gioventù, soprattutto quella povera, si sente totalmente abbandonata.

Dal 1968, la Chiesa si sta schierando sempre di più dalla parte del popolo e dei poveri, scrivendo una delle pagine più belle della sua storia.

1.5.2 La gioventù

Come osserva P. Mario Merotto durante il Capitolo Speciale del 1969, il Brasile è un paese giovane: il 60% della popolazione ha meno di 25 anni, tuttavia la situazione dei minori (meno di 21anni) è tragica. Trentadue milioni di giovani vive in una condizione di marginalità: 16 milioni sono “sulla strada”, cioè passano la maggior parte del loro tempo abbandonati, oziando o vivendo di espedienti; gli altri 16 milioni sono “di strada”, cioè sono totalmente abbandonati a se stessi, mangiano, dormono vivono per strada.

Le scuole cattoliche primarie e secondarie sono rivolte principalmente ai figli della classe medio-alta, praticamente mai aipoveri. Circa 250.000 ragazzi studiano presso università cattoliche; circa un milione sono riuniti in gruppi parrocchiali o movimenti legati alla Chiesa, nella “Pastorale della gioventù”, ma solo poco più di mille si impegnano nella Pastorale Universitaria.

1.6 Il progetto educativo Cavanis in Brasile

Non esiste ancora un progetto educativo Cavanis in Brasile. I primi vent’anni di presenza sono stati dedicati quasi esclusivamente alla creazione e al consolidamento di una base logistica e vocazionale e del primo contingente di religiosi Cavanis brasiliani. Il risultato è stato ottimo. Ci si è dedicati anche alla pastorale generale nelle parrocchie. Possiamo dare, allora, qualche linea sullo stile e su alcuni filoni da esplorare e sperimentare.

    

1.6.1 Stile Cavanis in Brasile. Una proiezione nel futuro

Nelle grandi linee:

1- Opzione per i giovani e opzione per i giovani poveri(senza escludere gli altri; ma di questi ce ne sono tanti che sene occupano!) dentro della Chiesa e con il popolo oppresso.

2- Carità (amore) per chi non amore da nessuno. E sono tanti.

3-Paternità nel migliore stile Cavanis: totale disponibilità di tempo e di amore, dedicazione a ciascuno, senza risparmio di spese, mezzi, fatiche.

4- Gratuità (mantenendosi con salari pubblici o delle Chiese locali e con l’aiuto dei buoni, soprattutto Adveniat ecc).

5- Povertà effettiva; spiritualità dell’esodo e della croce.

6- Tendenza all’utopia, nel senso detto sopra.

7- Piccolezza: piccole comunità apostoliche di servizio.

8- Mezzi poveri: niente grandi strutture e costruzioni; mobilità da un luogo all’altro, ove ve ne sia richiesta e maggiore necessità.

9- Fiducia in Dio, riscoprendo anche la semplicità del popolo brasiliano, ma senza fatalismo.

10- Letizia: scoprire il senso della festa tra i poveri in Brasile, rivissuta nel senso della letizia messianica.

11- Orazione (contro l’attivismo), a partire dall’azione (educazione) anche, molto, nel senso del metodo di revisione divita e del Vedere-Giudicare-Agire.

12- Uniforme vocazione: comunità legate più dal comune lavoro che da pastoie giuridiche.

    

1.6.2 Future attività educative dei Cavanis in Brasile

    

  • La scuola

Non credo che ci sarà una scuola Cavanis in Brasile, nel senso tradizionale del termine. Non disponiamo, infatti, di un capitale che ci consenta di costruire grandi fabbricati, né di personale che ci consenta di fornire le scuole di numerosi educatori Cavanis.

Dal momento che in Brasile mancano completamente i contributi statali, la scuola Cavanis sarebbe necessariamente rivolta a vantaggio dei figli di ricchi e benestanti, andando contro lo spirito dell’Istituto e le orientazioni della Conferenza dei vescovi e risulterebbe quindi come tutte le altre scuole. È necessario studiare quindi delle possibilità alternative, come aprire piccole scuole nelle favelas e altri quartieri poveri che forniscano attività di doposcuola, formazione umana e cristiana e una modesta formazione professionale, come già viene fatto da alcuni chierici Cavanis a Belo Horizonte; un’altra possibilità è di insegnare religione e altre materie nelle scuole pubbliche. In ogni caso, è importante che queste attività siano condotte personalmente dai Congregati con la collaborazione di personale laici.

  • “Casas do Menor”

Sono case che accolgono durante il giorno bambini e ragazzi marginalizzati, che vengono educati, istruiti (con la collaborazione del Comune) e viene dato loro un ambiente di gioco, di vita sociale serena, di preghiera, di orientazione umana, cristiana e di lavoro. L’esperienza in corso nella nostra parrocchia di Vila Cipa è interessante ed è stata poi riprodotta e ripetuta in altre parrocchie in Brasile e altrove. Anche qui, è essenziale che l’opera non sia affidata completamente ad assistenti sociali del Comune, ma sia condotta personalmente dai congregati. A questo proposito, è utile ricordare e mettere in pratica la frase che pronunciò monsignor Giuseppe Sarto, il futuro Papa S. Pio X, durante il suo discorso all’Unione per gli Stati Sociali nel 1896 a Padova, nella quale egli deplorò il fatto che l’assistenza sociale, prima alle mani delle istituzioni religiose, fosse diventata esclusivamente civica. In questo modo: “Il suo merito davanti a Dio era andato perduto: non è più un canale di grazia e un sicuro strumento di salvezza. La povertà diventa una funzione, un ufficio, un lavoro pubblico non molto retribuito, ma che aspetta con orgoglio la sua paga”. 

   

  • Centri di Pastorale Universitaria e Pastorale della Gioventù

Sono case della Congregazione, come il Centro di Pastorale Universitaria di Ponta Grossa (in funzione dal 1975 al1985), mantenute grazie alla collaborazione della Congregazione con la Diocesi locale e con società finanziatrici della Pastorale, per esempio l’Adveniat. Esse accolgono i giovani, universitari e non, fornendo loro un ambiente di casa e di chiesa, un orientamento umano e cristiano, una sede per le riunioni dei gruppi, messe e altre liturgie, una biblioteca specializzata, attività varie tra cui corsi, incontri, scuola di teologia, scuola biblica e altri campi. Sono centri di formazione. Sono vera scuola. La presenza cristiana di padri specializzati è fondamentale.

L’esperienza di Ponta Grossa si è dimostrata validissima e dovrà essere ripetuta, perché forma realmente leader cristiani e dà un appoggio validissimo alla Chiesa locale. Come alternativa, la Congregazione si potrà associare ad altre Congregazioni per l’organizzazione di case di questo tipo, come talvolta si fa in Brasile (a Belo Horizonte e Porto Alegre).

  • “Assessoria”

La Congregazione potrà fornire personale specializzato, come ha già fatto e sta facendo, come assistenti di gruppi della Pastorale della Gioventù (con i suoi settori di Pastorale della Gioventù studentesca [PJE, dei licei], della Pastorale della Gioventù degli ambienti popolari [PJMP, di quartieri popolari], della Gioventù operaia [JOC], pastorale operaia giovanile [PO] etc.) e della Pastorale Universitaria (PU). Tali assistenti possono essere di livello locale, regionale o nazionale. Gli assistenti talvolta sono stipendiati dai vescovi, ma in genere la loro sussistenza economica non è facile. L’esperienza locale e nazionale di chi parla è una prova della possibilità di svolgere questo apostolato, della estrema necessità di questo personale specializzato e della utilità e conformità con lo Spirito Cavanis di questa opera. Anche altri padri, oltre naturalmente ai parroci, vi si sono dedicati con successo.

  • La Catechesi

Altre attività possibili sono la coordinazione diocesana della catechesi e l’organizzazione di corsi per catechisti. P. Mario Merotto ha lavorato per molti anni in questo campo.

1.7 Conclusione

C’è dunque uno spazio enorme per la Congregazione in Brasile, uno spazio che sfida la nostra creatività e le nostre forze. Chiediamo al Signore che ci dia la grazia di cominciare ora con maggiore decisione. Contiamo sul vostro tifo e le vostre preghiere.

Appendice 6.2. Uno sguardo dei Cavanis sull’Africa (1992)

Resoconto di un viaggio esplorativo del Superiore Generale per delega formale del XXX Capitolo Generale (Possagno, luglio 1989) che aveva indicato oralmente l’Asia e 1‘Africa.

Chi ha seguito con attenzione gli ultimi viaggi in Africa di Papa Giovanni Paolo II, si è accorto, dalle sue espressioni entusiaste, che qualcosa sta cambiando. Se l’attenzione della Chiesa universale era finora rivolta all’America Latina, dai giorni di Giovanni XXIII e del Concilio e ancor più nei tempi della II Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano (Medellín, Colombia, 1968) come pure della III Conferenza (Puebla, Messico, 1979), ora il fulcro dell’interesse pastorale della Chiesa e del Papa si colloca in Africa.

6.2.1 Africa e Vangelo

Questo grande continente ha conosciuto tre fasi di evangelizzazione. La prima, nei primi secoli della nostra era, interessò soprattutto l’Africa del Nord o mediterranea, basti pensare alla conversione e battesimo dell’etiope (At 8,26-40) e, secoli dopo, ai grandi vescovi di Alessandria e a S. Agostino, e l’Etiopia.

Dopo che la “guerra santa” islamica ebbe distrutto quasi tutte le chiese africane e creato un diaframma allora insuperabile tra l’Europa cristiana e l’Africa subsahariana, una seconda fase di evangelizzazione ebbe luogo soltanto con l’inizio dei viaggi marittimi di esplorazione delle coste africane dagli ultimi decenni del XV secolo, inizialmente ad opera del Portogallo e poi di vari paesi europei. Per quattro secoli furono realizzati timidi tentativi missionari, più che altro nelle regioni costiere, ma le difficoltà di comunicazione, gli interessi politici e commerciali degli stati europei, le terribili malattie tropicali che falciavano tutti i missionari, le difficilissime condizioni di vita e le frequenti persecuzioni impedirono il successo dell’evangelizzazione, tanto che, all’inizio della seconda metà del secolo scorso, c’era in Africa ben poco di cristiano.

La terza fase, più feconda, iniziò con il sorgere di numerose congregazioni e altri istituti missionari dedicati, specificamente o no, all’Africa. La medicina moderna permise a poco a poco ai missionari di vivere più a lungo; le comunicazioni si fecero sistematiche e relativamente più facili; i governi coloniali appoggiarono l’azione missionaria (con vantaggi e svantaggi); la sede romana riprese il controllo sulle nuove chiese in tutte le aree coloniali, cosa in genere impossibile nei secoli precedenti; si cominciò a formare clero autoctono e a impegnare con fiducia i laici locali, soprattutto come catechisti. In breve tempo fiorirono numerose e forti chiese africane, soprattutto fuori dell’area islamica; i vescovi sono in gran numero africani e in buona parte anche il clero e i religiosi sono autoctoni, anche se la presenza missionaria è sempre importante. La Chiesa sta ora chiedendo che si intensifichi la presenza dei missionari in Africa, soprattutto nel campo delle pastorali specializzate, perché il momento è al tempo stesso critico e stimolante.

È un momento critico, perché si tratta di rinforzare le chiese locali, prima che questi spazi possano essere occupati dall’islamismo in espansione, dal secolarismo di tipo occidentale e dalle numerosissime sette di matrice “evangelica”.

È un momento stimolante perché, dopo circa trent’anni dalla fine del dominio coloniale, l’ambiente si sta rasserenando. La febbre antieuropea si va calmando; molti paesi che avevano condannato o marginalizzato le chiese, accusandole di essere di matrice e di cultura straniera, ora riconsiderano la loro posizione, restituiscono gli edifici espropriati, invitano le chiese a riprendere le attività educative, assistenziali, pastorali. La fine dell’appoggio alle guerriglie da parte dell’URSS e quindi, di riflesso, anche degli USA, promettono tempi di pace. Il ribasso delle quotazioni del marxismo ha eliminato o almeno indebolito un forte concorrente della Chiesa. Insomma, si notano segni evidenti di speranza, sia pure in paesi estremamente poveri, dove regna ancora abbondante l’ingiustizia.

6.2.2 L’Istituto Cavanis e l’Africa

E l’Istituto Cavanis? In Africa non ci siamo mai stati. Dobbiamo rimanere insensibili ai segni dei tempi? La Congregazione non è un Istituto missionario in senso stretto; essa è però, come tutti gli Istituti di diritto universale, aperta a tutta la Chiesa in tutto il mondo.

Lo scrivevano con insistenza anche i nostri venerabili P. Antonio e P. Marco Cavanis, soddisfattissimi per l’erezione canonica dell’Istituto: la nostra è “una Istituzione la qual dalla S. Sede Apostolica fu approvata con facoltà di diffondersi per tutto il mondo!” e commentavano: “Venne benignamente eretta la nostra Ecclesiastica Congregazione, con amplissima facoltà di estendersi dappertutto. Speriamo che verrà tempo nel quale questa dilatazione potrà effettuarsi, ma per ora noi non ne abbiamo se non che il desiderio deluso, e il gran dolore di vedere nel frattempo perire i giovani a turbe a turbe per mancanza di ajuto”. Essi dicevano pure che “Basta che un giovane sia bisognoso e mancante di educazione perché abbia il titolo di appartenere allo Stabilimento medesimo e la quantità degli ajuti che si cerca somministrare a tali miseri figli è così varia e moltiplice quanti sono varj e moltiplici li respettivi lor bisogni”.

Situazioni storiche di difficoltà, scarsezza di personale, povertà economica ci impedirono nel XIX secolo di aprirci al mondo. Nella seconda metà del XX secolo la Congregazione si è aperta all’America Latina, seguendo la tendenza generale della Chiesa. Ora ci chiediamo: è tempo di realizzare il “desiderio deluso” dei nostri Fondatori, aprendoci anche all’Africa? È giunta l’ora di aprire un fronte in questo continente, come centro di nuova espansione, possibilmente autonoma, dell’Istituto? È giunto il momento di offrire i nostri servizi a “tanta povera figliolanza dispersa” anche in Africa?

Il XXX Capitolo Generale (Possagno, 16.7-2.8.1989) dava al Preposito Generale con il suo Consiglio una delega (4a) di esplorazione di nuove aree per l’Istituto, indicando oralmente l’Asia e l’Africa. Parve provvidenziale, più che casuale, pochi mesi dopo, la visita di Mons. Giampiero Scarpa, cappuccino, veneziano dei Carmini, ex-allievo dell’Istituto di Venezia, a quel tempo vescovo ausiliare di Luanda, ora (1992) 1° vescovo di N’dalatando (Angola). Mons. Scarpa – o Dom Pedro Luiz, come lo chiamano laggiù in portoghese – invitava l’Istituto Cavanis ad aprire una “filiale” nella tormentata Angola.

La visita fu ricambiata recentemente dal Preposito generale dell’Istituto, che approfittò per realizzare una serie di altre visite e incontri, in modo da avere una visione più ampia del continente e della sua Chiesa.

6.2.2 L’Istituto Cavanis e l’Africa

E l’Istituto Cavanis? In Africa non ci siamo mai stati. Dobbiamo rimanere insensibili ai segni dei tempi? La Congregazione non è un Istituto missionario in senso stretto; essa è però, come tutti gli Istituti di diritto universale, aperta a tutta la Chiesa in tutto il mondo.

Lo scrivevano con insistenza anche i nostri venerabili P. Antonio e P. Marco Cavanis, soddisfattissimi per l’erezione canonica dell’Istituto: la nostra è “una Istituzione la qual dalla S. Sede Apostolica fu approvata con facoltà di diffondersi per tutto il mondo!” e commentavano: “Venne benignamente eretta la nostra Ecclesiastica Congregazione, con amplissima facoltà di estendersi dappertutto. Speriamo che verrà tempo nel quale questa dilatazione potrà effettuarsi, ma per ora noi non ne abbiamo se non che il desiderio deluso, e il gran dolore di vedere nel frattempo perire i giovani a turbe a turbe per mancanza di ajuto”. Essi dicevano pure che “Basta che un giovane sia bisognoso e mancante di educazione perché abbia il titolo di appartenere allo Stabilimento medesimo e la quantità degli ajuti che si cerca somministrare a tali miseri figli è così varia e moltiplice quanti sono varj e moltiplici li respettivi lor bisogni”.

Situazioni storiche di difficoltà, scarsezza di personale, povertà economica ci impedirono nel XIX secolo di aprirci al mondo. Nella seconda metà del XX secolo la Congregazione si è aperta all’America Latina, seguendo la tendenza generale della Chiesa. Ora ci chiediamo: è tempo di realizzare il “desiderio deluso” dei nostri Fondatori, aprendoci anche all’Africa? È giunta l’ora di aprire un fronte in questo continente, come centro di nuova espansione, possibilmente autonoma, dell’Istituto? È giunto il momento di offrire i nostri servizi a “tanta povera figliolanza dispersa” anche in Africa?

Il XXX Capitolo Generale (Possagno, 16.7-2.8.1989) dava al Preposito Generale con il suo Consiglio una delega (4a) di esplorazione di nuove aree per l’Istituto, indicando oralmente l’Asia e l’Africa. Parve provvidenziale, più che casuale, pochi mesi dopo, la visita di Mons. Giampiero Scarpa, cappuccino, veneziano dei Carmini, ex-allievo dell’Istituto di Venezia, a quel tempo vescovo ausiliare di Luanda, ora (1992) 1° vescovo di N’dalatando (Angola). Mons. Scarpa – o Dom Pedro Luiz, come lo chiamano laggiù in portoghese – invitava l’Istituto Cavanis ad aprire una “filiale” nella tormentata Angola.

La visita fu ricambiata recentemente dal Preposito generale dell’Istituto, che approfittò per realizzare una serie di altre visite e incontri, in modo da avere una visione più ampia del continente e della sua Chiesa.

6.2.3 Il viaggio in Africa

Il viaggio (29/12/1991 – 29/1/1992) si svolse nella forma seguente: il 29/12 viaggio da Milano (Corsico) a Bruxelles e poi da Bruxelles a Douala nel Camerun; dalla nottata del 29/12 al 9/1 in Camerun; il 9/1 trasferimento da Douala a Libreville nel Gabon e pernottamento a Libreville; il 10/1 da Libreville a Luanda in Angola; dal 10 al 22/1 visita in Angola, sia a Luanda, sia soprattutto nella diocesi di N’dalatando; il 22/1 trasferimento a Dakar nel Senegal via Addis Abeba (Etiopia), con un lungo percorso di “circumnavigazione”, dato che gli aeroporti di Kinshasa (nello stato chiamato allora Zaïre) e di Brazzaville (Congo) erano chiusi per motivi di instabilità politica; visita del Senegal il 23/1 (provincia meridionale di Casamance) e 27-28/1 (Dakar); via superficie, trasferimento in Guinea Bissau e visita di questo paese nei giorni 24-26/1. Di passaggio si sono toccati aeroporti nel Burundi, Rwanda, Etiopia, Tchad, Niger, Mali, Gambia, Guinea Conackry. Si sono sorvolati molti altri paesi. Il viaggio nel suo insieme ha coperto 25.000 km. Lasciando da parte gli scali tecnici e altri, i paesi realmente visitati sono stati quattro: nell’ordine cronologico, Camerun, Angola, Senegal, Guinea Bissau.

6.2.3.1 Il Camerun

Motivo del viaggio a questo paese equatoriale è stato una visita di cortesia, e al tempo stesso di lavoro e di esplorazione, alla “Famiglia Calasanziana” (Padri Scolopi, Cavanis, Suore Scolopie, Suore Calasanziane e altre Congregazioni che hanno come patrono S. Giuseppe Calasanzio, tra cui i Cavanis hanno il secondo posto in ordine di anzianità). La “Famiglia” si riuniva nel terzo incontro africano triennale (2-5/1/92) a Yaoundé, la capitale del paese. Per questo motivo, mi incontrai a Bruxelles con P. Josép Maria Balcells, Preposito Generale delle Scuole Pie (Padri Scolopi, i nostri “fratelli maggiori”), per viaggiare insieme, con la compagnia Sabena. Con noi viaggiavano anche una mezza dozzina di provinciali degli Scolopi, oltre alla vicaria generale delle Suore Scolopie.

Si è attraversato tutto il Sahara, per fortuna in aereo e non su un traballante cammello, ammirando, grazie al tempo bellissimo, le innumerevoli dune del grande Erg occidentale, i massicci del Tassili, il deserto del Teneré.

La prima notte africana, passata con P. Balcells e un altro religioso in una stretta e caldissima cameretta piena di zanzare della Procura dei gentilissimi Padri Spiritani (Congregazione dello Spirito Santo) a Douala, sulla costa del Camerun, è stata soffocante, soprattutto essendo partiti da una Milano “surgelata”.

Il giorno dopo si partì con una piccola colonna di automobili verso l’interno del paese, e più precisamente verso le montagne del NW, di antica colonizzazione tedesca, lasciando indietro il calore e le brume della pianura costiera, con tutta la comitiva di generali e provinciali. In tre giorni, visitammo varie missioni tenute dagli Scolopi di diverse province: le missioni delle città di Bamendjou, Tzela, Futru-Nkwen, M’Belem e, di passaggio, Bafussam. Bamenda. È il paese dei Bamiléké, dove abita in grande concentrazione (100 a 200 persone per kmq) questo popolo industrioso di origine sudanese.

È una terra alta: le missioni degli Scolopi sono a 1400-1600 m. sopra il livello del mare. Il terreno vulcanico è molto pittoresco, con vegetazione di savana di montagna, con clima gradevole tutto l’anno, sul tipo di Belo Horizonte o Brasilia  in Brasile. Non vi si conoscono né gli sgradevoli inverni europei, né gli eccessi di calore e di umidità della costa africana. Di notte bisogna ricorrere spesso a una copertina. È una regione salubre in complesso, ma c’è anche la malaria, come del resto in tutta l’Africa. I due terzi della popolazione sono pagani, il resto cattolico, protestante e musulmano. È una vera missio ad gentes. La chiesa cattolica vi ha celebrato l’anno scorso (1991) il primo centenario dell’Evangelizzazione, che in questo paese particolarmente difficile, dalle coste insalubri, è cominciata davvero molto tardi.

Gli Scolopi sono venuti in Camerun da pochi anni, alcuni di loro (i polacchi) da pochi mesi e si stanno adattando, ma a Futru-Nkwen si fanno già miracoli. Le missioni visitate sono missioni tipiche complete: al centro si trova un vero villaggio missionario, con la chiesa matrice, il salone per le attività sociali, la casa centrale dei padri, la casa delle suore, il dispensario e gli edifici per le varie opere; poi, sparse per il grande territorio della missione, le cappelle con chiesette molto primitive, a volte di fango e paglia, che ci riportano indietro ai tipici film di missionari, situate in villaggi molto poveri.

Nelle missioni si trovano soprattutto molte scuole elementari parrocchiali, mantenute dalla chiesa e cioè, nel caso, dagli Scolopi, ma con professori stipendiati (a volte, e si fa per dire) dal governo. Al tempo della visita, questo non li pagava da sei mesi e i padri in questi casi sono costretti ad anticipare gli stipendi, un po’ come fanno i Cavanis a Esmeraldas, in Ecuador e a Chioggia, in Italia. Le scuole sono in genere poverissime. I bambini e ragazzi non hanno libri, ma copiano dalla lavagna i testi, logicamente molto riassunti, che i maestri vi scrivono. Fa una certa impressione, in alcune scuole più povere, qui e in altri paesi africani, vedere i bambini che vengono da casa portando in bilico sulla testa degli sgabelli di legno di palma, o anche dei barattoli da latte in polvere vuoti, o altri oggetti, da usare come banco per sedersi. Secondo i casi, gli Scolopi seguono o no personalmente le scuole. Comunque questa associazione missione/scuola veramente popolare sembra oltremodo interessante, come metodo di educazione integrale e come mezzo di promozione sociale. Dato poi che nelle scuole molti bambini sono pagani, la scuola cattolica diventa ovviamente un mezzo primario di evangelizzazione ad gentes.

Le condizioni di vita dei Padri nelle missioni che ho visitato variano abbastanza; da una situazione relativamente comoda, con case parrocchiali confortevoli, a una situazione di grave sacrificio, che richiede missionari possibilmente giovani e sani. Le case parrocchiali sono primitive, senza acqua né luce e senza molti altri conforti. È però un paese che progredisce in fretta ed è probabile che in pochi anni la situazione migliori.

La gente è cordiale e sorridente. Ci sono bambini dappertutto, molti evidentemente bisognosi di educazione e di aiuto. Tuttavia, a differenza dell’America Latina e di altre parti del mondo, anche se i bambini poveri sono moltissimi, virtualmente nessuno è sulla strada, perché, nell’ambito della famiglia ampia di tipo africano, un orfano trova subito assistenza presso gli zii o i cugini o qualche parente anche lontano.

Nelle missioni, i padri avevano organizzato delle feste per il Preposito degli Scolopi e per gli altri ospiti: bellissime liturgie, con tanto di danze rituali e di tamburi, che si protraggono per ore, interessanti accademie di canti e danze folcloristiche, pranzi (nei quali gli africani mangiano in modo molto caratteristico, con le mani, e gli ospiti non ancora acculturati si accontentano di mangiare con forchetta e coltello) e offerte di doni. Io ricevo come doni un cestino, una borsa di rafia e una statuetta, che ora fanno bella mostra di sé nel museo missionario del Seminario di Fietta. Come si vede la necessità dell’inculturazione e delle sue infinite sfumature: sia P. Balcells che io ci eravamo messi spontaneamente la borsa di rafia a colori vivaci sulla spalla destra; e subito ci fecero notare che gli uomini la portano a sinistra!

Concluso l’itinerario preliminare, la comitiva si spostò alla capitale, Yaoundé, e nel monastero benedettino locale cominciò la riunione della Famiglia Calasanziana. Questa si trova rappresentata in Africa con una cinquantina di religiosi/e, in vari paesi della “gobba” occidentale dell’Africa, dal Senegal a NW alla Guinea Equatoriale a SE. Una ventina di religiosi e religiose partecipano all’incontro, che era in parte formativo e in parte organizzativo. Alla fine si pubblicò un documento che detta la politica generale della Famiglia per il prossimo sessennio. Questa prevede che i vari Istituti aumentino la presenza nel continente africano, aprendo nuove case nell’arco di paesi compresi appunto tra il Senegal e la Guinea, in modo da non allungare troppo le comunicazioni e da permettere un maggior lavoro di collaborazione, di formazione iniziale e formazione permanente in comune, facilitando l’organizzazione di riunioni periodiche, le visite reciproche e quelle dei superiori.

Il regime del monastero di Mont Febe era in complesso un regime da dieta stretta e tutti ne uscimmo con qualche chilo in meno: ma in compenso la vista su Yaoundé era bellissima e il lavoro utile e interessante. E bisogna ricordare il clima estremamente cordiale e fraterno.

La visita al Camerun e la riunione di Yaoundé furono per me un primo contatto con l’Africa subsahariana e il suo popolo, un bagno fecondo nelle idee e nei problemi di quelle chiese, un incontro con molti segni di speranza: socchiudevo gli occhi e mi pareva di vedere dei Cavanis africani in quelle scuolette dell’interno, dal tetto di paglia, attorniati da centinaia di bambini, di ragazzi e giovani, annunciando il Vangelo e formando l’uomo e il cristiano, secondo i metodi e lo spirito tradizionali dell’Istituto. E ancora, giorni dopo, aspettando l’aereo per il Gabon e quindi per l’Angola, ospite per tre giorni del teologato degli Scolopi a Yaoundé, socchiudevo ancora gli occhi e mi pareva di vedere dei teologi Cavanis dal volto nero, in un teologato del futuro, da qualche parte in Africa.

Un solo neo: si va in Africa con la testa piena di fantasie di elefanti, antilopi e giraffe. Durante tutta la visita al Camerun, come del resto durante le due settimane successive, il mammifero più grande che ebbi occasione di vedere fu un grosso topo delle chiaviche, piuttosto defunto per di più, che era offerto in vendita tenendolo per la coda, lungo una strada statale, come ambíto capo di selvaggina. Tutti i gusti sono gusti! L’Africa delle giraffe e dei leoni purtroppo non c’è più, per vederla bisogna andare in quella specie di grandi giardini zoologici che sono i parchi nazionali, nel nord del Camerun, ma quello sarebbe un altro tipo di viaggio.

La seconda fase del viaggio in Africa cominciò con un ritardo di quattro ore, mentre il personale dell’aeroporto di Libreville nel Gabon cercava due valigie su cui ci poteva essere una bomba. L’asfalto si scioglieva per il calore e noi pure. Localizzate le valige (non so se anche la bomba), si partì, si passò sopra lo Zaïre, tanto turbato da una difficile situazione politica, sopra il fiume Congo, coperto da eterne nebbie e si giunse a Luanda. Nell’aeroporto mi aspettava un padre cappuccino e il dialetto veneto si sostituì, con un certo sollievo, alle molte lingue ex-coloniali o africane.

6.2.3.2 L’Angola 

Ero venuto in Angola su invito di monsignor Pierluigi Scarpa, il primo vescovo di N’dalatando e di tutta la provincia del Kuanza Nord. Ci stetti una dozzina di giorni, visitando la capitale e poi la nuova diocesi.

Angola: una terra che ha estremo bisogno di pace e di aiuto e una Chiesa che chiede missionari, soprattutto educatori. È un paese grande quattro volte l’Italia, con circa 15 milioni di abitanti.

Il clima è caldo e arido sulla costa, desertico a sud, ma umido e fresco nell’interno, sugli altipiani e sulle montagne. Viaggiando da Luanda, sulla costa, verso l’interno, si passa da steppe aride a savane secche, a boscaglie di bellissime araucarie arboree e di giganteschi baobab, al mosaico savana-foresta aperta, fino a rare foreste tropicali umide.

L’Angola è stata colonia del Portogallo fino al 1975 e in cinque secoli di dominazione coloniale il paese è stato quasi completamente scaratterizzato dal punto di vista culturale. Non esistono villaggi primitivi, non esiste quasi folklore né artigianato originale.

Il paese è stato in guerra per quasi 30 anni: prima la guerra di liberazione dal Portogallo; poi la guerriglia tra fazioni. In conseguenza di questo tragico periodo, l’educazione e la sanità sono tornati a livelli primitivi. Acqua e luce sono aleatorie e l’acqua è sempre guasta.

Non ci sono trasporti pubblici, le poste, i telefoni e il telegrafo funzionano poco. La rete di strade asfaltate è quasi completamente distrutta; le strade di terra sono al limite della transitabilità. Otto ore di viaggio in camionetta, da Luanda a N’dalatando, sono un’esperienza piuttosto debilitante; e quattro ore per fare in macchina 40 km da Sambacajù a Quiculungo sono un’avventura da raccontare.

La guerra è finita nel maggio 1991 e si cerca penosamente ma con speranza a ricostruire la pace e la democrazia, anche perché è finito l’appoggio militare dei paesi stranieri. Ci sono tuttavia ancora problemi, come sempre nel dopoguerra. Durante la mia breve visita ci sono stati vari incidenti: sono morti parecchi angolani e un gruppo di turisti inglesi. Una volta, sono passato in macchina tra Negage e Camabatela, verso le sei del pomeriggio; alle nove di sera, sulla stessa strada, un’altra macchina è stata fermata, gli occupanti uccisi, la macchina bruciata. Sono soprattutto soldati sbandati, senza stipendio né mezzi di sussistenza, ma forniti di armi, e si arrangiano come possono.

L’Angola ha celebrato nel 1991 i cinque secoli di evangelizzazione (1491-1991). Dell’azione missionaria dei primi cinque secoli si è perso quasi tutto e si è ricominciato sul finire del secolo scorso. La Congregazione dello Spirito Santo e più recentemente i Cappuccini hanno ricostruito la Chiesa su basi più solide. Oggi gli Istituti religiosi sono numerosi, ma la loro presenza è ancora insufficiente, soprattutto nelle pastorali specializzate e nell’area dell’educazione. I religiosi, in ogni caso, sembrano degli angeli custodi di un popolo straziato dalla guerra e dalla discordia civile e sono molto amati dal popolo.

Ho fatto il viaggio da Luanda a N’dalatando su una camionetta piena zeppa di casse e sacchi e caschi di banane, oltre ad alcune suore e ragazze. Nel graziosissimo villaggio di Dondo, la quintessenza dell’Africa, dove ci sono i salesiani, sono stato punto da una mosca strana proprio mentre mi si diceva che da quelle parti c’è la mosca Tsé-Tsé e, naturalmente, la gravissima malattia del sonno. La cosa mi ha procurato una certa preoccupazione, ma questa per fortuna si è rivelata vana.

Più preoccupante è la questione dell’onnipresente malaria. Per via della guerriglia e della presenza di cubani, vietnamiti e altri, lo spettro delle malattie locali si è purtroppo arricchito di nuovi ceppi del plasmodio della malaria, sicché ci si può ammalare di vari tipi di malaria contemporaneamente, con il risultato di avere febbri intermittenti a frequenza diversa e di essere quasi sempre febbricitanti. Facevo ogni giorno il “bagno” nell’Autan, il repellente di insetti, e, quando c’era l’elettricità, di notte mettevo l’apparecchietto elettrico contro le zanzare. Facendo il missionario, la malaria lì si prende di sicuro; ma, per trenta giorni, non ne valeva certo la pena.

Con base in N’dalatando, monsignor Scarpa mi portò a visitare tutta la diocesi: le parrocchie urbane nella capitale della provincia e della diocesi, che ha conosciuto tempi migliori; le cappelle suburbane, immerse nella foresta tropicale umida, con gli alberi coperti di felci epifite bellissime, del genere Alcicornia; la parrocchia di Sambacajù, che è attualmente una città fantasma, completamente abbandonata dagli abitanti durante la guerriglia; la sede della parrocchia e il seminario minore erano stati al centro di una battaglia, data la posizione strategica e vi si vedevano ancora le tracce della distruzione e della lunga occupazione militare; la parrocchia di Quiculungo, fuori del mondo ma ricca di strutture logistiche della missione, con le belle scuole purtroppo derubate dei banchi e degli altri mobili durante la guerra; qui ebbi la sorpresa di trovare un anziano fraticello angolano dall’aria semplice che leggeva la Bibbia nel testo originale ebraico. Uno dei giovani missionari cappuccini di questa parrocchia fu ucciso l’anno scorso in un’imboscata dei guerriglieri. Questi vennero poi a chiedere scusa; ma il male era fatto. Quello stesso giorno le suore della missione, accorrendo sul posto del tragico incidente, salirono con la jeep su una mina e si salvarono per miracolo, perdendo soltanto il veicolo. Sono cose passate; ma ci sono ancora mine un po’ dappertutto e non è prudente uscire dalle strade più frequentate.

Mi fecero molto impressione i bambini numerosissimi della missione di Camabatela. Arrivavano a centinaia alla mattina presto, si sedevano per terra attorno alle semplicissime scuole di fango e paglia, aspettando i maestri che non sempre venivano. Pagati male o niente dal governo, poco preparati, scossi dalla lunga guerra, privati all’improvviso di una retorica nazionalista e bellicista di marca autoritaria, i maestri angolani non sono di sicuro educatori ideali. E le povere scuole non sono certamente un modello di architettura scolastica. Il nuovo governo di transizione lo capisce e ha l’intenzione di restituire le scuole alle missioni; ma queste non hanno numero sufficiente di sacerdoti o di religiose per questa pastorale così importante. Ci sarebbe senz’altro spazio per il nostro Istituto.

A Camabatela si aveva l’impressione di vivere in un film missionario: è una missione tipica, con un vasto territorio, molte cappelle e il complesso centrale con la grande chiesa, la residenza dei padri cappuccini con la veranda tutto intorno per poterci camminare durante le piogge e per smorzare la forza del sole e della luce; la residenza delle suore, il dispensario, le officine, i depositi, le stalle e, naturalmente, le scuole elementari.

Monsignor Scarpa mi portò anche a Negage, dove i cappuccini hanno il noviziato e dove ho conosciuto un padre di 85 anni, forte e sano nonostante tutta una vita passata tra le fatiche apostoliche, malattie e guerre; e a Lukala, importante nodo stradale senza parrocchia, ma che forse sarà assunta dalla Congregazione della S. Famiglia di Nazaret di Piamarta (Brescia).

Mi portò anche su una piccola pianura, completamente vuota, 6 km a est di N’dalatando: il vescovo vuole costruire una “Città dei ragazzi” e offrire il progetto all’Istituto Cavanis. Si tratterebbe di un convitto e di una scuola per bambini e ragazzi poveri della diocesi, dove potremmo costruire anche il nostro seminario. Un progetto non facile, ma senz’altro interessante, utile e molto adatto al nostro Istituto. Come alternativa, il vescovo offre anche di assumere una o due missioni complete, con la parrocchia, la scuola e tutte le altre opere: Quiculungo, già costruita e organizzata, e Banga, da cominciare quasi da zero. Dopo il ritorno, e dopo le necessarie riunioni con il consiglio generale, con molto dispiacere dovetti dire di no a monsignor Scarpa. Ma è una cosa alla quale dobbiamo pensare seriamente, in vista del prossimo Capitolo Generale del 1995. Personalmente, sogno ad occhi aperti la città dei ragazzi, qui o da un’altra parte nel continente africano. Se c’è qualche altro religioso Cavanis che ha di questi sogni diurni o notturni, che si faccia avanti; perché il problema è senz’altro in primo luogo quello del personale. Lo stesso vale anche per i nostri allievi lettori del Charitas: C’è qualcuno che si fa avanti?

6.2.3.3 Il Senegal

Partito da Luanda alla due di mattina del 22 gennaio, arrivo a Dakar alle 21, dopo un’ampia traversata del continente africano resa necessaria dal blocco degli aeroporti di Kinshasa (Zaïre) e Brazzaville (Congo). Mi accolgono gli Scolopi catalani che hanno a Dakar la parrocchia dei Martiri d’Uganda e due case di formazione. La mattina dopo mi imbarco, morto di sonno, su un Fokker e, dopo uno scalo tecnico a Banjul nel Gambia, arrivo a Ziguinchor, nella provincia di Casamance, la più fertile e boscosa di questo arido paese.

Mi aspetta Suor Rosetta Furlani della Pia Società del S. Nome di Dio, le nostre suore. Suor Rosetta era accompagnata da Padre Pedro, brasiliano del PIME; e assieme a lei due padri e una suora Scolopi. Ed è la confusione delle lingue: ci scambiamo i saluti, presentazioni e abbracci in italiano, veneto, spagnolo, portoghese, catalano e francese. Non troviamo una sola lingua che tutti i presenti possano parlare o capire, sicché ci destreggiamo in una miscela neolatina molto vicina all’esperanto.

Suor Rosetta mi dà subito una cattiva notizia, anzi due: Suor Maria Serafín si è ammalata seriamente ed è dovuta partire per l’Italia; pochi giorni dopo Suor Adelia Toffolo, appena rientrata dall’Italia vispa e riposata, ha avuto un gravissimo incidente di macchina ed è in condizioni preoccupanti. Insomma, a Suzana è rimasta soltanto Suor Rosetta. Non ne sapevo nulla e ne rimango molto rattristato.

La sosta in Senegal aveva in realtà solo lo scopo di raggiungere la Guinea Bissau e vedere le nostre suore; comunque decidiamo di dedicare un giorno a visitare, assieme a Suor Rosetta, le varie case degli Scolopi e delle Scolopie: il seminario in costruzione delle Scolopie a Ziguinchor; il noviziato e la scuola degli Scolopi a Oussouye; una loro scuola di agricoltura a Mlomp; un dispensario delle Scolopie a Diembéreng. Ed è ritornando da questa cittadina che vedo per la prima volta un po’ di fauna africana, delle bellissime bertucce appollaiate su un albero a fianco della strada. Sempre in Senegal, dopo la visita in Guinea Bissau, aspettando di prendere l’aereo di ritorno in Italia, visitai nell’ultimo pomeriggio Gorea: quest’isola era una delle basi o fondaci fortificati più importanti e famosi per la tratta degli schiavi, dal XVI secolo fino al secolo scorso (XIX sec.) e si raggiunge con un vaporetto, in mezz’ora di navigazione, dal porto di Dakar.

Se si ha un po’ di coscienza e di cuore, è una visita traumatica: pare impossibile che dei cristiani abbiano potuto fare tanto male e tanta ingiustizia per tanto tempo a innumerevoli figli di Dio. È vero che non si può giudicare il passato con chiavi esegetiche attuali: però il male è il male in tutti i tempi e la cattiveria è tale in tutti i secoli e, per gli africani, la sofferenza e la morte erano tali anche nella Gorea del passato. Visitai i vari fabbricati, prigioni, musei e il mercato degli schiavi, recitando il Miserere con vero senso di penitenza per me e per gli antichi. In Africa ho scoperto una cosa. Come veneziano, mi ero sempre illuso che i cittadini della Serenissima non si fossero mai coinvolti nella tratta degli schiavi. Invece è a Venezia che si fabbricavano le bellissime perle di pasta vetrosa a murrina con le quali i mercanti di schiavi compravano le loro prede umane ai re e capi dell’interno. Oggi giorno le antiche perle veneziane sono tornate di moda e si comprano in Africa per rivenderle in Italia nei negozi di antiquariato; è bene non dimenticare che anch’esse sono bagnate di sangue, di sudore e di lacrime e che la ricchezza fornita dal mercantilismo non è mai pulita.

Avevo anche creduto piamente, come brasiliano dì adozione e di cittadinanza, che i brasiliani fossero piuttosto vittime che carnefici per quanto riguarda la tratta; e questo è vero senz’altro per i brasiliani di razza negra. Ma in Angola appresi che i latifondisti e anche i piccoli proprietari e i commercianti brasiliani per lunghi secoli controllarono la tratta degli schiavi in Angola. Che il Signore (e gli africani) ci perdonino tutti.

Il Senegal è un osso duro per i missionari e per la Chiesa, con il 90% di abitanti musulmani.

6.2.3.4 La Guinea Bissau

La Guinea Bissau è un piccolo paese isolato dai suoi vicini soltanto per motivi storici, come ex-colonia del Portogallo, anche se vi si parlano le stesse lingue del Senegal e della Guinea-Konakry. È un ampio tavoliere impostato sul grande delta del piccolo fiume Geba e di corsi d’acqua minori, coperto della brousse cioè da savane cespugliose, palmeti, piccole zone boscose e, per ovvia influenza antropica, da risaie. Il tavoliere deltaico è tagliato da innumerevoli canali, percorsi due volte al giorno dalla marea dell’Atlantico che li risale e li riscende, dando vita all’ambiente delle mangrovie e a una primitiva industria della pesca. Dalle braccia del fiume salgono gli ippopotami a divorare il riso nelle risaie, e gli indigeni scavano profondi canali “anti-ippopotamo” attorno ai loro terreni.

Non occorre dire che, in queste condizioni, senza minerali, senza petrolio e senza industrie, senza strade asfaltate e molte altre cose, si tratta di un paese molto povero.

L’evangelizzazione è antica, ma, come in tanti paesi africani, si è dovuto ricominciare tutto da capo in tempi recenti, anche perché l’attività predatoria dei “cristiani” non era stata la migliore propaganda della nostra religione. La regione di Suzana, l’unica che visitai, era del tutto pagana negli anni ’50, quando i padri del PIME cominciarono coraggiosamente a costruire le loro missioni; così era ancora quasi del tutto quando le nostre suore vi arrivarono, anche loro coraggiosamente, nel 1969. Ora i cristiani sono numerosi e la seconda generazione, cresciuta in famiglie già cristiane, sta assorbendo molto meglio lo spirito del Vangelo. Il lavoro è tanto e il cammino è lungo.

È commovente pensare al bene fatto dalle suore del Santo Nome in ventitre anni di lavoro missionario qui a Suzana e nelle isole Bijagós, al largo della costa atlantica. Soltanto il Signore sa del bene che hanno fatto, delle loro fatiche apostoliche, dei loro sacrifici, delle lacrime versate nascostamente e dei sorrisi profusi a tanti figli e figlie di Dio. È sufficiente passeggiare con Suor Rosetta per i dintorni della Missione e per le cappelle dell’interno per vedere quanto affetto si sono guadagnate da parte di tutti.

Nei pochi giorni passati nella Missione, visitai il territorio della missione, con le estese risaie, i ponti e passerelle costruiti dalla missione, le tipiche capanne africane di fango e paglia, le belle comunità cristiane.

Celebrai l’eucaristia in quasi tutte le cappelle, pronunciando l’omelia in modo molto speciale. Credevo che il portoghese, lingua ufficiale in quel paese, fosse utile; ma praticamente nessuno lo conosce, fuorché i missionari. I locali parlano soltanto la lingua Felupe, che è una variante della lingua Diolà del Senegal, con qualche parola di Wolóf; alcuni parlano il criollo che è una lingua franca, miscela pittoresca di portoghese e lingue locali. Così io predicavo in portoghese e Suor Rosetta o qualche catechista traducevano in Felupe. Notai che, quando a tradurre erano i catechisti, le mie frasi diventavano lunghi periodi e i miei periodi si trasformavano in discorsi divertenti molto applauditi. È così che nascono i “Targums”! Per il resto, i miei progressi in lingue africane si limitarono a imparare a dire “yóooo!” in Felupe, che significa sì, bene, grazie e molte altre cose utili; e “girigìp!” in Wolof, che vuol dire pure grazie.

Il momento più commovente per me fu quando nella povera cappella di Catón, sul far della sera, battezzai una bambina di sette anni e ne feci davvero una figlia di Dio. La preparazione l’avevano fatta le buone suore e i bravi catechisti; ma il Signore si era servito, forse per la prima volta nell’Africa nera, di un padre Cavanis quale canale e strumento della sua grazia pasquale. Che ciò possa accadere ancora e ancora!

Appendice 6.3 La lista dei Mani-Kongoai tempi dei fondatori e della Congregazione delle Scuole di Carità-Istituto Cavanis

È forse un po’ strana l’idea d’intraprendere una comparazione tra le date dei nostri fondatori, i venerabili Antonio e Marco Cavanis, e della nostra Congregazione delle Scuole di Carità e le date conosciute della serie dei Mani Kongo, cioè i re del regno del Kongo. I fratelli Cavanis, la loro famiglia, i loro compagni e discepoli vivevano in Italia, a Venezia, molto lontano da quel regno, e nei loro scritti non si trovano notizie o riferimenti ai Mani Kongo e al loro regno. Tuttavia, non si può escludere che ne avessero qualche conoscenza, dato che i Fondatori erano persone di cultura e dato anche che a quel tempo, e fino al 1835, i missionari cattolici nel Kongo erano soprattutto cappuccino italiani alcuni dei quali veneti.

Si noti che in questo testo si scrive Kongo con il K, perché non si tratta di tutta la regione percorsa dal fiume Congo, dove si trovano attualmente i due paesi Repubblica del Congo, con capitale Brazzaville, e Repubblica Democratica del Congo, con capitale Kinshasa. Qui stiamo parlando invece dell’antico regno del Kongo, fondato in data imprecisata e probabilmente durante la parte antica del basso Medio Evo europeo. Questo regno, detto Kongo dya Ntotila oppure Wene wa Kongo in lingua kikongo, occupava la porzione occidentale di questo secondo paese (la provincia del Bas-Congo, la Ville-Province de Kinshasa, parte della provincia di Bandundu); la porzione occidentale o forse solo nord-occidentale dell’attuale Angola, incluso l’enclave di Kabinda e la porzione meridionale del Congo-Brazzaville. I re di altri regni all’intorno, nel periodo della fioritura de regno dei Manikongo, erano vassalli di questo regno.

Si è scelto di fare questo confronto con la serie dei Mani Kongo e non di un’altra dinastia di un altro regno del territorio che attualmente si chiama Repubblica Democratica del Congo, per tre motivi: il primo è che la lista dei Mani Kongo è la più conosciuta; il secondo è che il regno del Kongo ha dato il nome al paese attuale e anche, per iniziativa degli esploratori bianchi, al fiume che attraversa ampiamente e caratterizza questo paese; il terzo è che la piccola pianura di Kinshasa, la megalopoli dove si è istallato da una quindicina d’anni e fino al presente l’Istituto Cavanis, pianura che era occupata a quel tempo non una grande città ma piuttosto da un arcipelago di villaggi, era situata al margine nordest de regno Kongo, ed era il suo importante porto fluviale, a monte delle cataratte e delle rapide del suo corso inferiore, porto dove arrivavano le merci e le ricchezze da tutto l’interno del paese.

La comparazione o concordanza che si presenta qui è un saggio che ha lo scopo di rinforzare i vincoli fra la Congregazione delle Scuole di Carità-Istituto Cavanis e questo grande e glorioso regno che ha avuto un posto così antico e così importante nella storia dell’evangelizzazione del continente africano sub-sahariano, e che per una contraddizione tanto sorprendente e tanto triste ha tanto sofferto dalla presenza dei «cristiani» bianchi, con delle lodevoli eccezioni, tra cui quella dei cappuccini italiani.

Ci si trovano delle radici e degli antenati, almeno dal punto di vista culturale e affettivo, per le nostre piccole comunità di Kinshasa e per la nostra opera, consacrata ai bambini e ragazzi poveri di ambo i sessi del Congo; ci si trovano anche delle coordinate per sistemare nel panorama storico del Congo occidentale le date più importanti della vita dei nostri Fondatori e dell’inizio della loro opera.

Dico a ragion veduta serie dei Mani Kongo, si potrebbe parlare anche di dinastia, ma questo termine non sarebbe loro correttamente applicabile, dato che i Mani Kongo appartenevano nel loro fluire storico ad almeno tre famiglie e clan, che arrivavano al potere centrale, legalmente o con un colpo di stato, e che provenivano da tre sorgenti: i Kimpanzu, del sud del Regno, la regione che si chiamava Kongo dya Mpanzu; i Kimulaza, dell’est del Regno, il Kongo dya Mulaza, raramente i Kimpangala, che venivano dal nord, dal Kongo dya Mpangala; ci fu anche un clan chiamato con nome portoghese Agua Rosada, che era un clan meticcio di Kimpanzu et di Kimulaza. La capitale del regno, come si sa, era la grande città di Mbanza Kongo, più tardi chiamata São Salvador, situata nella regione centrale, chiamata Zita dya Nza, che aveva il ruolo di un “distretto federale” e faceva l’unione fra i diversi feudi. Le sue modeste rovine si trovano oggi nella provincia di Zaire in Angola.

Al tempo dei nostri Fondatori, dei loro genitori e dei loro immediati successori, il regno Kongo era già molto antico, si trovava in decadenza, indotta questa principalmente dai bianchi, portoghesi e apparentemente cristiani, e in stato quasi permanente d’anarchia; la capitale fu più volte abbandonata, distrutta, incendiata, molte provincie non obbedivano più se non nominalmente oppure semplicemente ignoravano il governo centrale che, del resto, non aveva più la sua sede sempre al centro del regno, nalla capitale.

Il contatto con i bianchi, in particolare i portoghesi, aveva contribuito notevolmente alla decadenza del regno; ma la lotta tra i clan reali aveva contribuito da parte sua generosamente.

Ai tempi in cui comincia la nostra storia, avevano già regnato sul loro trono a Mbanza Kongo circa trentasette Mani Kongo, senza contare i predecessori, poco conosciuti e ampiamente leggendari, di Ndo Nzwau 1° Nzinga Nkuvu detto anche Nzinga a Mvemba (battezzato, all’inizio della fase detta della prima evangelizzazione del Congo, nel 1491, morto nel 1506) e del suo famoso e glorioso figlio, Ndo Mfunsu (Dom Alfonso) 1° Mvemba a Nzinga (1506-1543).

Cominceremo dunque la nostra concordanza a partire dal 38° Mani, Ndo Nikolau I (Dom Nicolau, in portoghese) ne Masaki ma Nimi, del quale purtroppo non si conoscono le date di accessione al trono e della sua morte, come accade anche al suo predecessore Ndo Ngalasia (Dom Garcia) IV e ai suoi tre successori immediati. Questo blocco di cinque Mani Kongo dalle date incerte corrisponde agli anni 1730-1763. In questo spazio, nella tabella della concordanza che segue qui sotto, si sono situate, con qualche probabilità, le poche date relative al nonno paterno e ai genitori dei Fondatori.

Nel periodo della vita dei Fondatori, si trovano delle interessanti corrispondenze di date. Si viene a sapere per esempio che:

  • La data di nascita a Venezia del Conte Anton’Angelo Cavanis, nostro fondatore senior, grande educatore e catechista appena raggiunta l’età adulta, corrisponde alla data in cui il governo portoghese proibì ai missionari in Kongo e in Angola di utilizzare i catechismi in kikongo e in kimbundu, da essi utilmente e laboriosamente prodotti, imponendo i catechismi e la catechesi in portoghese, in un violento tentativo d’inculturazione al contrario e, se si vuole, di un genocidio culturale (1772).
  • Alla nascita, pure a Venezia, di suo fratello, il Conte Marcantonio Cavanis, nostro fondatore junior (1774) corrisponde una data triste in Kongo: la distruzione e l’incendio di Mbanza Kongo, la capitale del regno, come pure l’inizio del lungo esilio di Ndo Luvwalu (Dom Álvaro) XI.
  • Il padre dei Fondatori muore durante il regno di Ndo Leki (Dom Aleixo) I.
  • Antonio Cavanis rinuncia alla carriera pubblica nel palazzo ducale, veste la talare ecclesiastica, riceve la tonsura e i quattro ordini minori, il suddiaconato e il diaconato (1794) ed è ordinato prete (1795) sotto il regno di Ndo Diki (Dom Henrique) I (10 gennaio 1794-1803). Analogamente, durante il suo regno ha luogo per noi Cavanis quello che chiamiamo «l’inizio di tutto», cioè l’inizio della Congregazione mariana e dell’opera Cavanis (2 maggio 1802).
  • La fine della presenza dei Cappuccini italiani (e della missione cattolica) in Kongo coincide con l’anno dell’approvazione da parte della Santa Sede alla nostra Congregazione (1835).
  • La morte di P. Marco (1853) avviene ai tempi di Ndo Diki (Dom Henrique) II Ne Mpanzu a Sindi a Nimy a Lukeni.
  • La morte di P. Antonio (1858) avviene durante il breve regno di Ndo Luvwalu (Dom Álvaro) XIII Ndongo.
  • La fine del regno Kongo (1891), con l’ultimo Mani Kongo Ndo Petelo (Dom Pedro) V Elelo, accade durante la lunga Prepositura di P. Giuseppe Da Col (1887-1900), e proprio nell’anno dell’approvazione delle Costituzioni complete del 1891.

TAVOLA DI COMPARAZIONE FRA I REGNI DEI MANI KONGO E LE DATE DEI FONDATORI

E DELLA CONGREGAZIONE DELLE SCUOLE DI CARITÀ

LISTA DEI MANI KONGO

E AVVENIMENTI DEI LORO REGNI

AVVENIMENTI TRA I CAVANIS

AVVENIMENTI GENERALI

Ndo Sebastiau (Dom Sebastião) I (1730-1743) Ne Nkanga kia Nkanga.

27.12.1738 – Nascita del conte Giovanni Cavanis, padre dei Fondatori.

14.11.1741 – Nascita della nobildonna Cristina Pasqualigo Basadonna, madre dei Fondatori, patrizia veneziana.

Papa Benedetto XIV (1740-1758)

Ndo Ngalasia (Dom Garcia) IV Ne Nkanga Mabandu (1743-1752)

1749 – “Rapporto pratico” di P. Bernardino Ignazio d’Asti, Cappuccino, sulla missione in Kongo.

  

Ndo Nikolau 1° (Dom Nicolau) Ne Masaki ma Nimi (1752-1763).

Durante il XVIII secolo il Wene-Ne Wunda, ossia l’alleanza o federazione tra i BaKongo, entra in crisi totale.

1759 – Inizio di difficoltà più gravi per le missioni dei cappuccini italiani nel Kongo.

30.10.1757 – Morte del nonno paterno dei Fondatori, conte Antonio Cavanis.

1758 – Morte di Benedetto XIV.

1758 e seguenti – Espulsione dei Gesuiti dal Portogallo.

1758 – Elezione di Clemente XIII (1758-1769).

1760 – Rottura tra il Portogallo pombaliano e Roma.

Ndo Mpetelo V (Dom Pedro) Ne Kivila a Nkanga (settembre 1763 – 1764), del clan Kimpanzu.

1764 – Ndo Mpetelo V fugge in esilio. Sacco della capitale di Mbanza-Kongo.

  

Ndo Luvwalu XI (Dom Álvaro) Ne Nkanga a Nkanga ? (maggio 1764 – 1778), del clan Kimulaza.

1766-1775 – La missione francese a Lwango, Malemba e Kakongo, nel nordovest estremo del regno, è vista come una possibile via d’entrata in Kongo da parte dei cappuccini italiani: ne segue tuttavia uno scacco.


10 luglio 1772 – Eliminazione dei catechismi in lingua kikongo e kimbundu da parte del governo portoghese e obbligo di stamparli e di insegnare in portoghese.


1773 – Nel regno del Kongo resta soltanto un missionario non portoghese, che poi ritorna anche lui stesso in Italia, il 27.3.1773.


1774 – Distruzione e incendio di Mbanza-Kongo, la capitale. Esilio di Ndo Luvwalu XI.


1774 – Ritorno di Ndo Luvwalu XI a Mbanza-Kongo. Segue un periodo di pace.

27.4.1769 – Matrimonio dei genitori dei Fondatori.

30 luglio 1770 – Nascita di Apollonia, sorella maggiore dei Fondatori.

16.1.1772 – Nascita a Venezia del conte Anton’Angelo Cavanis.

22.1.1772 – Battesimo di Antonio.

19.5.1774 – Nascita a Venezia di suo fratello minore, il conte Marcantonio Cavanis.

26.5.1774 – Battesimo di Marco.

23.3.1776 – Morte della nonna paterna dei Fondatori.

7.6.1778 – Prima confessione di Antonio.

4 luglio1778 – Inizio degli studi d’Antonio.

Clemente XIV (1769-1774).

21.7.1773 – Soppressione dell’Ordine dei Gesuiti dappertutto nel mondo (Breve Dominus ac Redemptor di Clemente XIV).

1774 – Morte di Clemente XIV.

Pio VI (1775-1799).

Luglio 1778 – Concordato fra il Portogallo e Roma.

Ndo Zozi I (Dom José) Nepasi kia Nkanga (1778-1785)

1779 – Alcuni cappuccini ritornano in Kongo.

1781 – Ndo Zozi 1° è cacciato da Mbanza-Kongo, e ci ritorna con l’aiuto dei portoghesi e incendia la capitale.

Apogeo della crisi del Wene-Ne Wunda.

30.3.1780 – Prima confessione di Marco.

8.5.1780 – Inizio degli studi di Marco.

27.5.1780 – Confermazione d’Antonio.

16.7.1782 – Prima Comunione d’Antonio.

3.10.1784 – Confermazione di Marco.

 

Ndo Mfunsu (Dom Alfonso) V (1785-1788) del clan Agua Rosada.

Stato di contestazione e di confusione nel regno. Le province autonome aumentano e parecchi Mani (capi o regoli) locali non considerano più Mbanza-Kongo come capitale.

1785 – Visita pastorale del vescovo di Angola e Kongo a Soyo.

1787 – La diocesi di Luanda rimane vacante.

1785-1787 – Tre viaggi del Prefetto apostolico a Mbanza-Kongo.

11.9.1785 – Prima Comunione di Marco.

9.1.1787 – Antonio e Marco sostengono in Palazzo Ducale gli esami per ottenere il diritto di accedere de jure alla classe dei segretari della Repubblica di Venezia.

21.1.1788 – Antonio è eletto notaio straordinario.

28.12.1789 – Antonio è nominato segretario del governo delle galere.

1789-1799 – Rivoluzione francese.

Ndo Luvwalu (Dom Alvaro) XII Ne Mpanzu a Nimi ?

1790-1791 circa – Antonio comincia a sentire il desiderio di divenire religioso.

 

Ndo Leki I (Dom Aleixo) Ne Mpanzu a Mabandu (? –1793).

1793-1795 – Soggiorno del P. Raimondo da Dicomano a Mbanza-Kongo. Ndo Leki I l’accoglie bene, ma alla sua morte due successori si contendono il potere. Il rapporto scritto dal P. Raimondo dà una visione pessimista della situazione.

23.11.1793 – Morte del conte Giovanni Cavanis.

 

(Joaquim 1° (1793-1794), detto l’usurpatore).

  

Ndo Diki 1° (Dom Henrique) Ne Masaki ma Mpanzu? (10.1.1794-1803)

1798 – Ndo Diki 1° non ha più autorità e il regno è in piena anarchia.

5.3.1794 – Antonio rinuncia alla carriera nel Palazzo Ducale e veste la talare ecclesiastica.

6.4.1794 – Antonio riceve la tonsura e i quattro ordini minori.

14.6.1794 – Antonio riceve il suddiaconato.

20.12.1794 – Antonio riceve il diaconato.

21.3.1795 – Don Antonio è ordinato prete.

?1796 (inizio dell’anno) – Don Antonio fonda l’Accademia S. Tommaso d’Aquino per il clero.

1797 (fine anno) – Antonio comincia a istruire alcuni giovani nella sua casa.

2.5.1802 – Inizio dell’Opera Cavanis, con la fondazione di una congregazione mariana.

3.10.1802 – L’“Orto”, come luogo di ricreazione e di educazione per i bambini e ragazzi (solo maschi, per il momento).

12.5.1797 – Fine della Repubblica di Venezia.

16.5.1797 – Occupazione francese (con il generale Napoleone) di Venezia.

17.10.1797 – Trattato di Campoformio, Venezia è “venduta” dalla Francia rivoluzionaria all’Austria.

1799 – Morte di Pio VI.

Pio VII (1800-1823). Questo Papa fu eletto a Venezia, nell’isola di S. Giorgio.

Ndo Ngalasia (Dom Garcia) V Ne Nkanga a Mbemba (1803-fino all’inizio del 1830)

1816 – James K. Tuchkey rimonta il fiume Congo fino a Isangila.

1819-1820 – Rapporto di un cappuccino residente nel regno del Kongo, che giudica inadeguato il metodo pastorale ivi praticato dai cappuccini: afferma che si tratta soltanto della “cura d’anime”, di battesimi innumerevoli, ma senza seguito di cure pastorali.

2.1.1804 – Inizio formale delle Scuole Cavanis gratuite.

1.9.1805 – S. Giuseppe Calasanzio diviene patrono dell’opera Cavanis.

13.2.1806 – Marco rinuncia alla sua carriera al Palazzo Ducale, veste la talare ecclesiastica e successivemente riceve la tonsura e gli ordini minori e maggiori.

16.7.1806 – Aquisto del palazzo Da Mosto con lo scopo di alloggiarvi con più spazio e maggiore proprietà le scuole.

20.12.1806 – Don Marco è ordinato prete.

1807 – Soppressione della congregazione mariana da parte dell’apparato statale napoleonico.

4.1808 – Apertura di una tipografia, come scuola professionale.

10.9.1808 – Fondazione dell’Istituto femminile (scuola internato e ramo femminile dell’Istituto Cavanis), con l’aiuto di S. Maddalena di Canossa.

1809 – P. Antonio si ammala gravemente di idrargirismo, cioè di avvelenamento da sali e vapori di mercurio, malattia contratta durante l’assistenza ai malati dell’ospedale degli Incurabili.

17.4.1813 – Morte d’Apollonia, sorella maggiore dei Fondatori, nubile, a 43 anni.

28.5.1814 – I Fondatori presentano al papa Pio VII un primo Piano riguardante l’Istituto maschile.

12.12.1815 e 23.2.1819 – Due visite dell’imperatore dell’Impero Austriaco, Francesco I.

1817 – Il Papa Pio VII fa dono all’Istituto del lussuoso palazzo Corner della Regina.

27.7.1818 – I Fondatori presentano all’imperatore dell’Impero Austriaco, Francesco I, un piano dei due rami, maschile e femminile, dell’Istituto.

1819 – Avviene l’approvazione dell’Istituto a livello dell’Impero Austriaco (19.6) e del Patriarcato di Venezia (14.9), per i due rami, maschile e femminile, dell’Istituto.

1820 – Inizio della vita comunitaria nella “casetta” (il 27 agosto, giorno della festa di S. Giuseppe Calasanzio).

1821-25 – Periodo di lotta con la burocrazia imperiale per le scuole.

1823 – Regole interne informali della nuova comunità della “casetta”.

1823 – Grave malattia di P. Marco.

2.5 1824 – Primo “Anno Mariano” proclamato nell’Istituto.

8.12.1826 – Secondo Anno Mariano.

8.3.1828 – Lettera di lode e d’incoraggiamento da parte del Papa Leone XII (Decretum laudis).

1810 – L’apparato di stato di Napoleone sopprime circa metà delle parrocchie a Venezia (e altrove nel Veneto), tra le quali la parrocchia di S. Agnese a Venezia (e l’Istituto Cavanis perde la cappella del Crocifisso).

1820 – Rivoluzione liberale in Portogallo.

1823 – Morte di Pio VII.

Leone XII (1823-1829). Decretum laudis dell’Istituto Cavanis.

Pio VIII (1829-1830).

Ndo Ndele (Dom Bernardo) II Nebigi a Lukeni (1830-1842)

1835 – Fine della presenza dei missionari cappuccini italiani (e praticamente della missione cattolica in genere ) in Kongo.

1831 – Lettera di lode e d’incoraggiamento da parte di Papa Gregorio XVI.

2.2.1831 – Regole manoscritte della comunità dei Preti Secolari delle Scuole di Carità.

6.3.1834 – Fondazione della casa e scuola di Lendinara (Rovigo, Italia).

11.2-7.9.1835 – P. Marco va a Roma e assieme al P. Antonio che resta a Venezia scrivono la bozza delle Costituzioni che P. Marco presenta alla S. Sede.

21.8.1835 – Approvazione dell’Istituto maschile e delle sue Constituzioni da parte del Papa Gregorio XVI.

21.6.1836 – Breve apostolico di approvazione Cum Christianae.

1837 – Pubblicazione delle Costituzioni.

16.7.1838 – Erezione canonica della Congregazione.

Gregorio XVI (1831-1846).

1834 – Soppressione degli ordini religiosi in Portogallo.

Ndo Diki (Dom Enrique) II Ne Mpanzu a Sindi a Nimi a Lukeni (1842-gennaio 1857)

1843 –P. Antonio diventa gradualmente debole di vista e poi completamente cieco.

1848 –P. Antonio nomina come suo successore il P. Vittorio Frigiolini.

1851 –P. Antonio è abitualmente ammalato. Tutti e due i fratelli sono molto anziani, stanchi e spesso ammalati.

5.7.1852 – Dimissioni di P. Antonio dalla carica di Preposito.

6.7.1852 – P. Vittorio diventa il 2° Preposito.

21.10.1852 – Morte prematura di P. Frigiolini.

8.11.1852 – P. Sebastiano Casara diviene il 3° preposito.

11.10.1853 – Morte di P. Marco Cavanis.

1854 – Inaugurazione solenne della Chiesa di S. Agnese, ricomprata dal demanio dello stato.

Pio IX (1846-1878)

1848-49 – Prima guerra d’indipendenza d’Italia.

1848-1849 – Ribellione di Venezia contro l’Austria, assedio e presa della città da parte dell’Impero austriaco.

Ndo Luvwalu (Dom Álvaro) XIII Ndongo (gennaio 1857-7.8.1859)

1857 – Si apre la casa e si accetta la parrocchia di Possagno (Treviso, Italia).

12.3.1858 – Morte di P. Antonio Cavanis.

 

Ndo Mpételo (Dom Pedro) V Elelo (7.8.1859-febbraio 1891)

17.11.1874 – Partenza della spedizione di Henri M. Stanley dalla costa occidentale dell’Africa;

12.03.1877 – Il gruppo arriva a Stanley Pool, ora Pool Malebo, nella zona dell’attuale Kinshasa e a Boma nell’agosto dello stesso anno.

1878 – Prime missioni protestanti nel Bas Congo.

1878 – Stanley risale il fiume Congo per stabilirvi delle stazioni o basi commerciali e di controllo del territorio: la prima è Vivi etc.

1880 – I missionari Spiritani aprono delle missioni a Boma.

12.1881 – Stanley fonda una stazione sul monte Ngaliema (vicino al quartiere in cui si trovano attualmente le tre case dell’Istituto Cavanis, nella Commune di Ngaliema a Kinshasa).

1884 Ladislas Magyar risale il fiume Congo fino alla confluenza con il Kwango.

23.2.1885 – Nascita dell’E.I.C.  di Léopold II, re dei Belgi.

1874-1900ss – Avviene la cosidetta “Guerra dei Trent’anni”, lunga guerra di resistenza dei popoli congolesi, con milioni di morti da parte congolese.

Seguiranno numeroso ribellioni, fino all’Indipendenza del Congo nel 1960.

Febbraio 1891 – Fine del regno dell’ultimo Mani Kongo, Ndo Mpetelo V Elelo.

1859 – Primo noviziato formale dell’Istituto Cavanis a Possagno.

1861 – L’Istituto Cavanis femminile passa alle suore Canossiane.

1863-1866 – Prepositura di P. Giovanni Battista Traiber.

1866-1884 – Parecchi mandati come preposito di P. Casara.

1884-1887 – Prepositura di P. Domenico Sapori.

1887-1900 – Prepositura di P. Giuseppe Da Col.

1900-1904 – Prepositura di P. Giovanni Chiereghin

1859 – Seconda guerra d’indipendenza d’Italia.

1860 – Riunificazione quasi completa d’Italia, salvo le “Tre Venezie”  e Roma.

1866 – Terza guerra d’indipendenza d’Italia.

1867 – Soppressione degli istituti religiosi del Veneto, confluito nel regno d’Italia.

1870 – Roma capitale d’Italia.

12-14.9.1876 – Conferenza internazionale di Geografia a Bruxelles e fondazione dell’A.I.A.

1878 – Morte di Pio IX.

15.11.1884 –

26.2.1885 – Conferenza di Berlino. Nascita dell’E.I.C. di Léopoldo II re dei Belgi.

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21.1.2004 – I padri Cavanis arrivano a Kinhasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo e cominciano le loro attività.

2005 – Apertura della prima opera Cavanis per l’infanzia e la gioventù povera della R.D.C.

27.8.2007 – Prime professioni dei primi religiosi Cavanis congolesi a Kinshasa. Tra i religiosi Cavanis congolesi ci sono alcuni BaKongo.

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Appendice 7 – Sistemi di riferimento

Appendice 7 – Sistemi di riferimento

Appendice 7.1. Glossario dei termini viari (toponimi) veneziani

Arco

Sottoportico monumentale (come quello dell’orologio a S. Marco o l’arco Celeste, tra la piazza S. Marco e la fondamenta Orseolo).

Arzere

Argine, o margine, di una delle isole di Venezia, specie se facente fronte alla laguna. Si veda per esempio l’Arzere de Santa Marta, dove ora si trova il parcheggio di S. Marta. Per chiamarsi arzere, una spiaggia doveva probabilmente essere consolidata con paletti conficcati nel fondo fangoso e graticci di vimini o strope [rametti flessibili di salici], graticci detti volparoni e/o più tardi con un muretto. Si veda anche il rio dell’arzere, sempre a S. Marta. Ancora oggi esiste una fondamenta dell’arzere alle Terese, non lontano da S. Nicola dei Mendicoli. I volparoni, come argini in materia vegetale e quindi poco consistenti, saranno gradualmente sostituiti da muri e selciati in pietra sui margini dei canali anche interni della città nel secolo XVII, sia in conseguenza della maggiore disponibilità di fondi da parte della città e dei privati, sia per l’aumento progressivo della subsidenza del terreno e dell’aumento delle “acque alte”.

Bacino

Bacini acquei, sia molto ampi, come il bacino S. Marco, sia molto ristretti, come il bacino Orseolo, canale a cul de sac presso Piazza S. Marco.

Barbaria

Vicino al campo SS. Giovanni e Paolo, esiste la via chiamata Barbaria de le tole, il cui nome deriva dal fatto che qui si vendevano le tole, le tavole e altro materiale edilizio in legno. Il nome Barbaria secondo Tassini (1863) deriverebbe dai luoghi in cui i commercianti importavano e dove esportavano il legname, cioè i paesi barbareschi (dei Saraceni); altri studiosi invece parlano di calle che attraversava un luogo selvaggio o boscoso, o dove c’erano dei barbieri.

Barena

Bassofondo o piuttosto isoletta inondabile che abitualmente affiora leggermente dalle acque lagunari nelle maree basse e medie (ma si può allagare con l’acqua alta) e che è coperto da bassa vegetazione alòfila.

Bastion

Una Cale del Bastion a San Gregorio ricorda antiche fortificazioni all’entrata del Canal Grando.

Boca de Piazza

Largo o piazzetta situata a ovest dell’Ala Napoleonica di Piazza S. Marco, che mette in comunicazione la cale de la Frezaria (=Frecceria) con la cale larga de l’Ascension, della quale serve di entrata principale alla Piazza S. Marco da ponente. Il nome si applica, anche a livello di nizioleti, anche se attualmente con ortografia errata, anche a una calle che dà accesso alla Boca de Piazza.

Bocca di Porto

I tre canali che mettono in comunicazione la laguna di Venezia con il mar Adriatico: del Lido – S. Nicoletto; di Malamocco; di Chioggia.

Borgoloco

Nome di due calli: a S. Maria Formosa, Borgoloco Pompeo Molmenti, e, a S. Lorenzo, Borgoloco S. Lorenzo

Ca’

Il termine, accompagnato da un nome proprio, significa Casa, come edificio (palazzo) e come famiglia. Si usa solo se unito al nome proprio di quella casa.

Cale o calle

Via. Dal latino callis, e dal nome antico italiano che significa sentiero.

Cale larga

Calle larga

Cale nova

Corrisponde al rio terà (vedi Cale nova S. Agnese, Cale nova de san Sebastian). E propriamente un rio terà.

Cale drio…

Calle dietro …

Cale fianco…

Calle a fianco di…

Cale rimpeto…

Calle di fronte a….

Calesèla

Piccola calle, calle stretta; in casa, anche lo spazio stretto tra il letto e la parete.

Calesèle

Nome (unico, credo) di una piccola calle, laterale del rio terà Franchetti a S. Leonardo, vicino alla Strada Nova.

Caleta

Piccola calle, calle stretta.

Campazzo

Antica zona verde, occupata da pascoli e orti, oggi selciata, come il Campazzo S. Rocco, ai Frari, nel sestiere di San Polo, come pure dei Tolentini nel sestiere di S. Croce, che costituivano un unico enorme campazzo fino alla fine dell’Ottocento/inizio novecento. Si chiamava campazzo anche il terreno che corrisponde all’attuale cortile di ricreazioni dell’Istituto Cavanis, a fianco della chiesa di S. Agnese, dei due edifici delle scuole e dell’abitazione della comunità; prima che venisse costruita l’ala nuova delle scuole nel 1881. Vedi sopra.

Campielo

Piccolo campo, piazzetta.

Campo

Piazza. Solo la piazza S. Marco però si chiama piazza a Venezia. Anticamente, ma in alcuni casi fino all’inizio del Novecento, in questi piazzali c’erano appunto campi, orti, vigneti e così via. Si può ancora vedere qualcosa del genere nel Campo S. Trovaso a Dorsoduro.

Canalasso

Vedi Canal Grando

Canal

Detto anche rio, è un corso d’acqua marina, spesso di origine naturale, dipendente dalla rete originaria di ghebi e canali, ma in genere raddrizzato dall’edificazione di edifici (o scavato artificialmente per separare proprietà e per ricavare terreno con cui rialzare il livello delle aree adiacenti), che separa un’isola dall’altra a Venezia. Come nome proprio, si chiamano canal solo i rii più ampi, specialmente il Canal Grando, il canale di Cannaregio e il Canale della Giudecca o de la Zueca. Come nome comune, si dice butar in canal per dire “gettare in acqua”, ossia gettar via, e il detto vale per tutti i rii e canali. Individualmente, gli altri canali si chiamano rio (plur. rii). Difficile calcolare quanti siano realmente i rii a Venezia. La burocrazia attuale ne considera 176, che coprono insieme una lunghezza lineare approssimata di 37 km. Si chiamano canali inoltre i corsi d’acqua più profondi e periodicamente dragati della laguna, che si possono percorrere con grosse imbarcazioni. La laguna veneta fuori di questi canali ha una profondità varia non navigabile, di circa un metro fino a un metro e mezzo. Scendendo dalla barca, ci si può stare in piedi con l’acqua più o meno al petto; ma non naturalmente nei canali della laguna.

Canal Grando

Il canale principale di Venezia, a forma di S, corrisponde a un antico meandro di fiume (probabilmente il Brenta), quando la laguna di Venezia era una pianura non inondata. Si chiama anche Canalasso.

Canal morto

Ramo di canale che non ha sbocco.

Casaria

Calle che porta questo nome a Rialto, nella quale evidentemente era concentrato il commercio del formaggio (caseus, in latino, cacio in italiano). La calle è una laterale della Ruga Vecchia S. Giovanni.

Casseleria

Calle che porta questo nome, vicina alla Barbaria de le Tole. Sono nomi relativi alle arti o mestieri che vi si concentravano. Vi si vendevano mobili in legno, tavole e legname in genere.

Castello, Castelforte

Bastion

Questi nomi ricordano antiche fortificazioni, ormai del tutto scomparse. Il sestiere di Castello si chiama così per via di un probabile antico castello di Olivolo, o per una muraglia eretta dal doge Pietro Tribuno nel 906; a S. Rocco quattro vie si chiamano “di Castelforte”, nella zona della Scuola Grande di S. Rocco. Fanno riferimento a un piccolo castello forse in legno. Anche l’Arsenale era ed è una grande fortificazione, ma non si chiama castello e non dà il nome al sestiere. C’era anche un castello, chiamato Castel Baffo (dal nome della famiglia Baffo) alla Maddalena. A San Gregorio c’è una calle del Bastion.

Cavana

Rimesse per le barche, attraverso le quali si poteva entrare in barca nella “riva” all’interno di una casa o palazzo adiacente a un canale. Era una entrada da mar.

Corte

Termine analogo a campiello; ma spesso era in origine la corte interna di un palazzo, e quindi privata, rispetto al campiello che era pubblico.

Crosera

Incrocio tra due calli, per es. Crosera S. Pantalon.

Erberia o Erbaria

Zona del mercato principale di verdura e frutta, a Rialto

Fodra

Calle o serie di calli (e ponti) parallele grosso modo a una strada più frequentata; si percorrono dai veneziani quando si ha fretta e si vogliono evitare i percorsi intasati dalle folle (noi veneziani parliamo spesso maleducatamente di mandrie) di turisti. Si chiamano così per analogia al fatto di infilare un braccio non nel “percorso” normale di una manica di giacca, ma tra la fodera (fodra) scucita e il tessuto della giacca.

Fondamenta

Strade marginali che incassano i rii e canali di Venezia. Talvolta si chiamano anche rive (vedi). Il nome ricorda che queste vie hanno anche la funzione di dare maggiore fondamento alle case e palazzi vicini ai canali.

Frezeria

Calle situata presso la bocca de Piassa (S. Marco), qui si trovavano artigiani che facevano frecce.

Ghebo

Piccolo canale che attraversa una barena. Plurale ghebi.

Indirizzi veneziani

(vedi anche ninsioleti)

A Venezia il modo di definire un indirizzo è differente da quello delle città di “terraferma”. Si dà il nome del sestiere e il numero civico, che è continuo, dal n. 1 fino al numero dell’ultima casa del sestiere, che può essere 6000 e oltre. Si può aggiungere tuttavia anche il nome della calle o campo ecc. Per esempio, l’indirizzo dell’Istituto Cavanis a Venezia è: Dorsoduro 898, o DD 898, o meno comunemente S. Agnese 898, o Rio terà Antonio Foscarini 898, o ancora Rio terà dei Alboreti 898. Ciò a volte (spesso) crea problemi a chi non è veneziano; e anche problemi postali e burocratici, con funzionari postali e pubblici non veneziani; and, again, with the digital use of addresses. Si può dire anche:

Rio terà Antonio Foscarini 898

S. Agnese, Dorsoduro

30123 Venezia

A Venezia è difficile trovare un dato numero civico, perché la numerazione, pur rinnovata durante i secoli (una o due volte da amministrazioni austriache per esempio, per scopo di inventario e di politica fiscale e di coscrizione) è spesso interrotta da calli che sono diventate private e chiuse da cancelli, interrompendo l’ordine della numerazione, come nel caso della calle della Chiesa, che per più di due terzi è diventata privata dei Cavanis e si trova assorbita in buona parte nel cortile delle ricreazioni a fianco della chiesa di S. Agnese; o la Calle Baleca, pure assorbita privatamente tra la “casetta” (oggi albergo Belle Arti) e il palazzo (attualmente albergo, non appartenente ai Cavanis) Ca’Pisani.

Insula

Tipologia edilizia, tipica della Roma tardo-repubblicana o imperiale, simile a un condominio. A Venezia si applica, come termine recente, a una delle tante isole veneziane, separate da canali.

Isola

Si può usare questo termine per il complesso di un centinaio di isole che formano Venezia in senso stretto, per ciascuna di queste isole, e per altre isole lagunari isolate come la Giudecca, Murano, Burano, Torcello e così via (a loro volta costituite da varie isole separate da canali e unite da ponti) e per le isole minori anticamente adibite a monasteri, fortini, polveriere, lazzaretti e ospedali. Si contano 118 isolette nel centro storico, su cui è edificata la città; le isole sono riunite da 435 ponti tra pubblici e privati, attraversando 176 canali.

Lista

Calle in cui spesso ci sono due “liste” di pietra bianca (pietra d’Istria, in genere) ai lati, nel contesto di selciato in masegne giallastre/grigie di trachite, allo scopo di indirizzare i passanti (si veda ad esempio Lista de Spagna, tra la stazione ferroviaria e Campo S. Geremia, e Lista dei Bari a S. Croce).

Liston

Spazio per passeggiare tra due liste di marmo bianco. Questo nome si applica però solo alla pavimentazione della Piazza S. Marco: sia al selciato, sia all’azione di passeggiare in quel luogo e far liston, attività che un tempo comprendeva anche incontri galanti.

Marzarie

Mercerie. È il nome di un insieme di calli legate da ponti, ricche di negozi, che unisce Piazza S. Marco con Campo S. Salvador.

Marzarieta 2 Aprile

Nome di una piccola parte della Riva del Carbon a Rialto, originariamente ricca di case di commercio sul tipo di quelle delle marzarie.

Masegni/masegne

Blocchi levigati di roccia magmatico o anche vulcanica, in genere trachite  o trachiriolite (basoli), provenienti da cave dei Colli Euganei, da cui sono selciate, in genere e tipicamente, le vie di Venezia. Qua e là si trovano calli selciate (più recentemente) con lastre sottili di porfido. Raramente qualche calle e soprattutto rio terà è asfaltata piuttosto che selciata, soprattutto nella fascia centrale, nel caso dei rio terà; cioè nella parte che corrispondeva al rio.

Molo

L’unica riva della città di Venezia ad avere il nome di molo, per la sua particolare importanza di porta d’acqua di Venezia, è la riva della piazzetta S. Marco sul Bacino S. Marco. Il molo è compreso tra i Rii di Palazzo (Ducale) e della Zecca ed è unito rispettivamente alla riva degli Schiavoni e alla fondamenta dei Giardinetti detti Reali dai ponti della Paglia e della Zecca. Vi si affaccia la Piazzetta S. Marco e la mole di Palazzo Ducale.

Naranzeria

Calle di questo nome, ma senza il nome di calle; vi si trovavano negozi di fruttivendoli. Tra S. Giacometto di Rialto e il palazzo dei camerlenghi.

Ninsioleti/nissioleti

Ovvero, “lenzuoletti”. Targhe di malta dipinta di bianco e iscritta in nero sui muri delle case tramite stampini (stencil) o normografi metallici, che indicano il nome del sestiere, della parrocchia, della via (cale ecc.), dei ponti e dei canali. Il numero attualmente è dipinto (mediante l’uso di mascherine o stencil metallici) in color rosso; sotto la dominazione austriaca era dipinto in nero.

Paludo/ palùo

Calli originariamente tracciate attraverso piccoli abitati, formati in origine su palafitte, in ambiente di paludi o velme bonificate (imbonìe, in veneziano). Il nome è raro (paludo S. Antonio a Castello e paludo ale Fondamente nove a Cannaregio).

Si ha notizia anche di un Paludo o Palude Schiavo citata in un documento del 1060, e di un altro ai SS. Apostoli nel 1122.

Pantano

Si ha notizia di un Pantano a S. Giorgio in un documento del 1164.

Parochia

I sei sestieri (quartieri) di Venezia sono ulteriormente divisi in parrocchie, qui nel senso non ecclesiale, ma urbanistico di contrade.

Pasina

Pasina è il nome di una calle che non porta il nome di calle a S. Silvestro.

Pescarìa

Antica destinazione del mercato del pesce. La principale è a Rialto, nel sestiere di san Polo. Esistono inoltre almeno due fondamente con questo nome: la pescaria S. Bartolomio, sul fianco sud-ovest del ponte di Rialto, e una adiacente al lato est del Ponte delle Guglie.

Piazza

Esiste a Venezia solo Piazza S. Marco. Le altre piazze si chiamano campi.

Piazzale

A Venezia esiste solo Piazzale Roma, che è il punto d’arrivo e di partenza dei motoveicoli (automobili, autobus. tram ecc.) al margine del centro storico e insulare di Venezia. È la stazione degli autobus e tram.

Piazzetta

A Venezia ci sono due piazzette, ambedue adiacenti a Piazza S. Marco; piazzetta dei leoncini (o dei leoni, o di S. Basso) e piazzetta S. Marco, quella delle due colonne, sul Molo, corrispondente all’antico porto di Venezia.

Piscina

(pronuncia: pissina) dal latino piscis, pesce. Erano stagni di acqua salmastra o anche dolce, situati al centro di varie insulae, dove si allevavano pesci. Erano anche luoghi adatti per il bagno o il nuoto (Boerio, 1829). Dietro e a oriente dell’Istituto Cavanis, dalla parte dell’entrata di servizio, a levante dell’Istituto, esistono la piscina S. Agnese e la piscina Venier, contigue.

Ponta

Ovvero, “punta”. La ponta de la Dogana. Corrisponde alla giunzione tra l’estremità orientale della Fondamente de le Zatere ai Saloni con la Fondamenta de la Salute, è uno dei punti panoramici più belli di Venezia, affacciata sul Bacino San Marco e sul complesso architettonico del Palazzo ducale, le cupole e il campanile di S. Marco ecc. La ponta de la Dogana corrisponde alla confluenza del Canal Grando con il canal de la Zueca o Giudecca. Alla ponta de la dogana, le galeazze e altre navi che arrivavano cariche di merci ed entravano in Canal grando per recarsi al fondaco e relativo palazzo della famiglia nobile-mercantile pagavano i diritti di dogana.

Ponte

Ponte, che unisce due delle numerose isole che compongono l’arcipelago che è l’abitato di Venezia; e in pratica unisce due calli, o anche una calle e un’abitazione privata affacciata a un canale; sono di pietra, di legno o di metallo (ghisa o acciaio). Uno solo, a S. Felice, è senza spallette, come erano tutti i ponti veneziani anticamente.

Ponte storto

Ponte che unisce diagonalmente due calli sfasate.

Ramo

Calle minore, ramificazione di una calle di maggior passaggio. In gebere un ramo è senza uscita.

Rielo

Ovvero, “piccolo rio”. Così si chiamava per esempio il rielo de Ognissanti, oggi rio terà Ognissanti. Esiste ancora una cale Rielo Dorsoduro, tra i rii de le Terese e de l’Anzolo Rafael, che corrisponde appunto a un rielo imbonio; un altro rielo (in carte antiche, del secolo XVI) è quel breve ramo di rio a Piazzale Roma, nell’angolo di SE, che a volte è chiamato anche rio de Sant’Andrea, di cui è un residuo; e che Zucchetta chiama rio morto.

Rio

Vedi canale

Rio de l’isola

Breve rio che separava una casa o un piccolo gruppo di case, formandone una sorta di piccola isola.

Rio terà

Rio interrato (quasi sempre nell’Ottocento) e trasformato in calle. Plurale: rii terà.

Riva

Scalinata che permette di scendere o salire sulle fondamente e nell’uscita da mar (“d’acqua”) dei palazzi; in genere le rive sono terribilmente scivolose a causa delle alghe cresciute sulla pietra d’Istria. Ci sono talvolta delle fondamente intere che, prendono il nome di riva, nel senso di riva da attracco per le barche, come la Riva del Vin, Riva del Carbon, Riva dei Schiavoni, Riva de Biasio ecc.

Riveta

Esiste almeno una Riveta, senza nome proprio, adiacente al Campo S. Lorenzo, a Cannaregio, cioè una breve riva, che comprende solo 4 numeri civici ed è lunga poco più di 20 m.

Ruga

Via o calle, il cui nome ha parentela linguistica con il francese rue e il portoghese rua, come Ruga Rialto e Ruga Orefici a Rialto nel sestiere di S. Polo  e Ruga Giuffa a S. Maria Formosa.

Rugheta

Piccola via o calle. L’unica via con questo toponimo sembra essere Rugheta Ravano (tipo di rapa), tra S. Aponal e Ruga Rialto.

Saca

Zona anticamente bonificata (imbonía), come Saca de la Toleta, che era prima un ramo morto del rio de la Toleta, e Saca Fisola, isola almeno parzialmente bonificata o “imbonia”, in tempi recenti, a memoria (antica però) di chi scrive.

Saca de canal

Largo di canale.

Salizada

Nome dato probabilmente alle prime calli selciate (salizae o salizade) di Venezia, e lì rimasto anche oggi, quando tutte le calli e campi sono selciati con i “masegni” di trachite. Il nome viene da silex o silice, cioè pietra.

Sestier

Il nome di in quartiere a Venezia parte del numero sei: sestrier è una delle sei ripartizioni o quartieri di Venezia in senso stretto. Essi sono: S. Croce, S. Polo, Dorsoduro, Cannaregio, S. Marco e Castello. La Giudecca non appartiene ai sestieri, così come le altre isole esterne al centro. La divisione ufficiale della città in sestieri è del 1171.

Sotoportego

Sottopassaggio, strada che passa sotto una casa o più spesso sotto la congiunzione di due case.

Spadaria

Calle di questo nome, ma senza il nome di calle; vi si trovavano le famose botteghe degli armaioli. Vicino a S. Zulian.

Spiag(g)ia

C’erano molte spiagge a Venezia, ovviamente, dove il margine del rio o della laguna non era murato o in altro modo definito; così era chiamata nelle carte antiche, per esempio, la spiaggia di S. Marta. Una spiaggia di questo tipo si può vedere fino ad oggi per esempio a S. Alvise, dietro la chiesa e a fianco del pontile dei vaporetti o dei “batei” (=battelli). Un’altra spiaggia si vede dietro la chiesa concattedrale di San Pietro di Castello.

Strada nova

Strada Nuova. Se seguita dal nome proprio, corrisponde a un rio terà (per esempio Strada nova S. Agnese); la Strada Nova principale è però la calle di grande passaggio che va da S. Fosca ai SS. Apostoli. In pratica, assieme ad altre vie, è il grande passaggio dalla stazione ferroviaria a S. Marco e Rialto. Pronuncia: Nóva, stretto e chiuso.

Teraferma

Il continente, per opposizione alle isole di Venezia. Così si indica tutto ciò che si trova al di là del Ponte della Libertà, ponte ferroviario e automobilistico che unisce Venezia al continente.

Tragheto

Si chiama così il luogo e il fatto del passaggio da una parte all’altra del Canal Grando per pedoni, a mezzo di vere gondole, che non sono però insignite del significativo  fero de gondola”, o “fero de prova” (=prua); e ha invece la punta di prua troncata. C’erano traghetti più numerosi, a memoria di chi scrive, e ce n’erano anche per attraversare il largo canale della Giudecca. Il traghetto in gondola a principio è più popolare e più economico (per i residenti  e tanto più per i turisti e altri di fuori) che il traghetto in vaporetto. Ed è molto più divertente, anche per i veneziani, folcloristico e interessante. I veneziani amano fare in passaggio in piedi. Ma i gondolieri non sempre lo permettono.

Velma

Bassofondo sabbioso e/o fangoso che affiora solo con la bassa marea. Propriamente, la velma non è occupata da vegetazione continentale.

Via

Nome di alcune poche calli a Venezia, in genere di origine ottocentesca. (per esempio Via 22 marzo a S. Moisé e via Garibaldi a Castello).

Viale

A Venezia esistono alcuni viali, con questo nome, ma solo nell’estremità orientare della città (nella coda de pesce), nella zona dei Giardini e della Biennale, e a S. Elena. Il nome è recente e moderno.

Zattere

(Pronuncia: Sàtare) Fondamente situate nella parte meridionale del sestiere di Dorsoduro, prospicenti al canale della Giudecca, che collegano la marittima alla punta della Dogana. Lì approdavano soprattutto le zattere di carbone, di pietra d’Istria per costruzione, di legname per le fondamenta delle case e per le travi ecc. Vi approdavano, in genere, anche barche di merce e di trasporto persone che provvenivano da Fusina nella terraferma, come accade ancora oggi.

Appendice 7.2. Excursus sui selciati di Venezia

Alcuni confratelli mi chiedevano, giorni fa, seduti a tavola in comunità, proprio in casa madre: “Al tempo dei Fondatori, le calli e i campi di Venezia erano selciati, o in terra battuta?”. Posso rispondere come segue, grazie anche ad alcune pagine digitali di Vittorio Foramitti, cui appartengono soprattutto le date e alcuni dati numerici. Agli inizi della città, calli, campi e altri ambienti viari erano pantanosi e nei primi secoli gradualmente furono “imboniti”, ossia “resi buoni” o bonificati, riempiti o coperti di rovinassi [= detriti di materiali di costruzione e di distruzione], di spazzatura e di fango scavato dai canali circostanti e seccato; alcuni forse da coperture di cocciopesto.

Il primo vero selciato conosciuto a Venezia è quello della parte più orientale della piazza S. Marco, piazza che fu salizada cioè selciata, più esattamente, nella prima fase, pavimentata in cotto, con mattoni disposti in cortelo [a coltello] e a spina di pesce, nel 1257. Selciati di questo tipo, in mattoni a spina di pesce, per incredibile che possa sembrare, si trovano ancora oggi a Venezia in qualche corte o ramo ossia calle corta e spesso ma non sempre senza uscita; e si possono osservare, con maggior interesse, attorno all’abside della cappella gotica dell’Addolorata (secolo XV), sul fianco destro della basilica de San Zanipòlo (SS. Giovanni e Paolo), verso il campo, dove l’antico e autentico pavimento a spina di pesce in cotto è stato riportato alla luce, circa 60 o 80 cm sotto il livello del piano di campagna, costituito dai masegni attuali.

La Riva dei Schiavoni (=cioè degli slavi) dal ponte de la Paglia (cioè dalle prigioni del Palazzo Ducale) a Castello, fu selciata nel 1324. Nel secolo XVI si definirono i confini o limiti settentrionale e meridionale della città selciando a nord le Fondamente Nove (cioè Nuove; pronuncia Nóve, stretto e chiuso) e a sud la lunghissima Fondamenta de le Zatere, da S. Basilio (Basegio) alla Ponta de la Dogana.

Fu pure nel secolo XVI, nel Cinquecento, che si cominciò a selciare (a salizar) le strade di Venezia con i “masegni” (=macigni, basoli) di trachite, pietra sempre proveniente dalle cave dei Colli Euganei in provincia di Padova. La trachite è una roccia magmatica acida e piuttosto chiara, di colore gradevole, grigio o grigio-giallastro, molto consistente e resistente, e inoltre “anti-sdrucciolo” perché leggermente ruvida. Da un punto di vista tecnico, geologico, si chiama propriamente trachite quando è roccia intrusiva o plutonica, ossia solidificata all’interno della terra (spesso in laccoliti nel caso specifico); e più esattamente trachiriolite se si tratta di roccia effusiva, ossia lava di questa stessa composizione ma eruttata e solidificata all’esterno; tutti e due i tipi di roccia si trovano nelle cave suddette e ambedue sono utilizzate per la pavimentazione urbana veneziana. È difficile distinguere una roccia dall’altra a occhio nudo, mentre ci si riesce al microscopio mineralogico, in lamine sottili. È comoda la caratteristica dell’antiscivolo, ma attenzione: c’è un modo empirico per distinguere i due tipi; è difficile inciampare sulle masegne di riolite che sono lisce anche se non scivolose, ma si inciampa su quelli di brachirioliti, di superficie più irregolare e rugosa, e anche più facilmente erodibile. Si veda come esempio di questo fenomeno il selciato recente delle Zattere. Le masegne di brachirioliti istallate di recente sono di seconda qualità e quindi più economiche sul mercato; ma si inciampa, come succede ai veneziani che alla mattina presto si dedicano alla corsa sulle Zattere (e in altri luoghi).

Raramente, in alcune calli di quartieri più recenti (nel XX secolo), come a Sacca Fisola e, per esempio, alle case popolari di S. Alvise e della Baia del Re, ma anche qua e là in selciati rifatti più di recente, come nella calle delle botteghe a S. Barnaba, parte della pavimentazione urbana è stata fatta in lastre di porfido trentino o altoatesino.

Solo nel 1723 si rifece il selciato della Piazza S. Marco in trachite (in masegni), con liste e liston (vedi glossario), su disegno dell’architetto Andrea Tirali (1657-1737), già muratore e scalpellino o tagiapiera in gioventù.

Nei “Campi”, cioè piazze, le prime aree a essere selciate furono quelle sopra gli invasi che funzionavano come cisterne filtranti per i pozzi (di acque dolce, di origine piovana ossia meteorica) di ogni campo e campiello e corte; con lo scopo di permettere una maggior pulizia delle acque piovane che da quelle aree entrava nelle “pillelle”, cioè nelle pietre forate, in pietra d’Istria che sono chiamate anche “bocche da pozzo”. Poi furono selciati alcuni “stradoni” nelle direttrici del maggior traffico di pedoni. Molto più tardi fu selciato tutto il “campo”, cioè i prati da pascolo o gli orti e vigne (si noti il nome: “San Francesco de la Vigna”), pur mantenendosi il nome appunti di campo. Qua e là si può vedere ancora oggi qualche “stradone” di questo genere, come per esempio nel campo che va da S. Bastian all’Anzolo Rafael; e ancor meglio in campo dei SS. Giovanni e Paolo, per la differenza della direzione delle file di masegni, che sono sempre rettangolari. In corrispondenza di questi antichi “stradoni”; ancora più visibili perché affiancati in tutta la lunghezza da due strette “liste” di pietra d’Istria, naturalmente bianca.

L’anno 1786 (quando il contino Antonio Cavanis aveva 14 anni e il contino Marco, detto ancora Marcheto, ne aveva 12) è la data dei “Cattastici” dei Provveditori di Comun, che riportano per la prima volta (tra i documenti conservati e pubblicati) la situazione dettagliata completa dei selciati dell’intera città di Venezia, calle per calle e campo per campo. In quella data, la superficie delle vie e campi della città aveva un’area complessiva calcolata in 218.000 “passi quadrati”, corrispondenti oggi a circa 658.796 m². Da notare che il sistema metrico decimale è più recente della data di cui parliamo; lo studio geografico-astronomico sulla riforma delle unità di misura fu condotto infatti da una commissione francese a partire dal 1775; il sistema fu poi introdotto in Francia nel 1795 e in Italia soltanto nel 1861 e in molti paesi anglofoni (e altri) non è (incredibilmente!) ancora utilizzato.

Il passo quadrato era un’unità di superficie in uso nell’edilizia veneziana e corrispondeva a circa 3,022 m² (circa 1.73 m x 1,73 m). Questa misura itineraria di 1,73 m (lineari) poi corrisponde grosso modo e more veneto a un passo doppio, termine tecnico (almeno) in paleontologia, che corrisponde alla distanza convenzionale o media tra un’impronta di un piede sinistro e quella successiva del piede sinistro stesso; o viceversa, tra le orme di due piedi destri. Era il “passus” dei legionari romani, mille dei quali costituivano la distanza percorsa di “mille passus” e le migliaia di passi, al plurale quindi, erano tante “milia (passuum)”, espressione dalla quale deriva il termine terrestre e marittimo miglio o miglia.

Nella data dei “Cattastici” dei Provveditori di Comun, nel 1786, la maggior parte delle vie della città era selciata o, come si diceva, “salizada”.

Della superficie suddetta di 218.000 “passi quadrati”, corrispondente oggi a circa 658.796 m², il 52% era selciato in masegni ossia in pietra, in massima parte di trachite; area che corrisponderebbe oggi a circa 342.574 m²; il 13% era pavimentato in cotto, cioè con mattoni spesso ma non sempre disposti “in cortelo” e a spina di pesce; area che corrispondeva a circa 85.643 m²; mentre il resto della superficie viaria, il 35%, un po’ più di un terzo, con un’area di circa 230.579 m², rimaneva in terra battuta o secondo le zone a prato (come oggi in una parte di Campo San Trovaso) o anche coltivata nei campazzi, giardini, orti.

Si noti che nei documenti citati, Dorsoduro, proprio il sestriere dove abitavano e operavano i Cavanis era il sestiere meno selciato della città, nel 1786: solo il 30% circa delle vie del sestiere era infatti selciato o comunque pavimentato in un modo o nell’altro. I quartieri meno pavimentati o selciati, nel sestiere di Dorsoduro erano quelli più poveri e particolarmente Santa Marta, San Niccolò dei Mendicoli e tutta la porzione sud-occidentale della città: erano quartieri abitati da pescatori e, come dice il nome di una delle parrocchie, di mendici. Del resto questi quartieri, sebbene selciati, sono rimasti abitati da povera gente fino a tempi relativamente recenti, cioè fino al secondo dopoguerra, nei decenni ’40-’50 del secolo XX, a memoria di chi scrive.

Delle zone più frequentate dai Fondatori, la Fondamenta delle Zattere era tuttavia senz’altro selciata con masegni già da circa 450 anni al tempo della loro nascita.

Nell’antica fotografia (databile tra il 1838 e il 1860 circa, più probabilmente scattata alla fine della decada dei ’50 del XIX secolo), rappresentata nella tavola VI della Positio dei Fondatori, sulla sinistra, si vede chiaramente che la fondamenta di S. Agnese (quella che passava davanti alle Scuole di Carità) e il campo omonimo erano selciati con masegni; mentre la fondamenta degli Arsenalotti, almeno nel suo tratto meridionale senza sbocco, antistante alla “casetta” della comunità Cavanis (abitata dai nostri nel periodo 1820-1881) sembra pavimentata a mattoni disposti orizzontalmente e non a coltello. Anche qui si nota una discriminazione economica: davanti al palazzo da Mosto le masegne; davanti alla modesta casetta, il cotto. Il “campazzo di S. Agnese”, di cui parla qua e là P. Casara nei suoi documenti, quello che è compreso tra la chiesa di S. Agnese e gli edifici delle Scuole Cavanis, non è mai stato selciato; e lo stesso è succcesso per l’altro cortile, chiamato inizialmente l’ ”Orto”, il primo ambiente di ricreazione e educazione dell’Istituto. Recentemente all’inizio degli anni ’80 del secolo XX, essi sono stati ricoperti di materiali di pavimentazione adatti ad attività sportive (in genere di materiale agglomerato a base agglutinante di polimerico epossidico, drenante e verniciato a colori brillanti); anche in antecedenza queste superfici non erano mai state selciate. Erano in terra battuta al tempo in cui chi scrive frequentava la scuola dei Cavanis. Anche il cortile piccolo, ora giardino, e probabilmente a suo tempo giardino del palazzo da Mosto, non fu mai selciato, e analogamente il piccolo cortile sito a levante della bellissima abside di S. Agnese, a suo tempo comprato insieme, metà e metà (la decisione dell’acquisto fu presa il 20 gennaio 1920), dai Cavanis e dalla parrocchia di S. Maria del Rosario (vulgo Gesuati), cortile attualmente utilizzato esclusivamente da questa parrocchia come cortile del patronato; l’area è stata coperta di tappeto d’erba artificiale attorno al 2014, mentre prima era di terra battuta.

La piscina S. Agnese era con tutta probabilità selciata in qualche modo al tempo dei fondatori, data la presenza del pozzo ornato da tre stemmi nobiliari; almeno nell’area quadrata che copre il bacino di invaso. Verso sud, si vede ancora una lista di masegni stretta, da est a ovest, che potrebbe indicare appunto quell’area. Più difficile dire se era selciata l’attigua piscina Venier.

I rii terà vicini alla casa dei Fondatori e al loro Istituto sono stati selciati quando i vari rii furono interrati: il settore meridionale del rio de la Carità, quello che sboccava nel rio de S. Agnese, era stato interrato, parte nel periodo 1726-1736, parte nel 1750, per costruirvi sopra il presbitero e coro della chiesa dei domenicani, vulgo Gesuati, per quando riguarda appunto l’area interessata dalla nuova chiesa e poi dal convento relativo; mentre il resto del rio fino al Canal Grando, con il nome di Campo de la Carità, era stato interrato e probabilmente selciato successivamente, nel 1817; quindi la porzione meridionale del rio terà Antonio Foscarini, adiacente alla chiesa dei Gesuati, nel 1838; il resto di questo rio terà nel 1863; la Cale nova S. Agnese fu selciato nel 1865.

Appendice 8.   Cenni sulla biblioteca dell’Istituto Cavanis di Venezia

La biblioteca dell’Istituto Cavanis di Venezia è relativamente antica, trovando il suo nucleo originario nelle ultime decadi del secolo XVIII come biblioteca privata dei due fratelli Cavanis, fondatori dell’Istituto Cavanis, quando ancora giovani e abitanti nella loro casa paterna. Essa fu incrementata in seguito come biblioteca della comunità religiosa (dal 1820) e come biblioteca della scuola dell’Istituto Cavanis di Venezia (dal 1804 o 1806), ma anche come principale Biblioteca della Congregazione delle Scuole di Carità – Istituto Cavanis. Fu senza alcun dubbio arricchita, alla morte della madre dei due Fondatori, la nobildonna patrizia Cristina Pasqualigo Basadonna (13 maggio 1832), con la biblioteca di Ca’ Cavanis, di origini molto antiche e probabilmente abbastanza ricca; quando P. Marco Cavanis, che era rimasto nel palazzo familiare con la madre, passò anche lui ad abitare con i confratelli nella “casetta” della comunità.

La Biblioteca contiene 56.704 volumi, di cui di quasi tutti si possiedono schede cartacee per autore, per titolo, per tema; e di essi si possiedono anche schede informatiche redatte prima del 2004; tra di essi, si calcola ci siano 7.172 libri antichi, tra cui due incunaboli, 298 cinquecentine, 446 seicentine, 4.328 opere del ‘700, 2.126 del primo ‘800 (1801-1830), 34 pergamene; libri in parte restaurati grazie ai contributi elargiti dalla Regione del Veneto, settore che fungeva fino al 2015 da Soprintendenza limitatamente ai Beni librari. Ci sono anche libri molto rari; uno è unico in Italia, o almeno è la sola copia che si rinvenga tra le opere schedate in tutto il patrimonio librario italiano (OPAC SBN).

Il numero totale di opere presenti in biblioteca sale a 60.417 se si considera anche l’ampio complesso di volumi rilegati di miscellanea (soprattutto nell’area delle scienze naturali), le annate di riviste, le carte geografiche, gli opuscoli ecc. Si è poi scoperto recentemente che le opere di antiquariato sono presenti in numero ben superiore (ma non ancora calcolato) a quello indicato sopra, cioè di 7.172 libri antichi; perché molti volumi, che si erano considerati come “un volume” nel conteggio effettuato con gli studenti liceali del programma “alternanza scuola/lavoro”, in realtà consistevano di varie piccole opere (a volta numerose) rilegate insieme. I libri di antiquariato presenti in biblioteca probabilmente superano dunque gli 8.000 (ottomila) volumi.

La Biblioteca occupa vari ambienti siti in un palazzetto gotico del secolo XV e in un annesso fabbricato ottocentesco; la sala di lettura aperta al pubblico si trova al pianterreno (sala Bernach) dell’edificio costruito nel 1904 come noviziato e poi studentato.

Le scaffalature comprendono 1.635 metri lineari. Lo stabile è a norma e possiede i requisiti necessari per la tutela del materiale.

Tali ambienti sono in genere siti al pianterreno, il che a Venezia è un problema a causa dell’umidità e salinità atmosferiche e ambientali. Sono stati compiuti recentemente (2017-18) dispendiosi lavori edili per creare delle intercapedini nel pavimento e nelle pareti per diminuire questo problema. Due ambienti di deposito possono essere raggiunti dall’ “acqua alta”, quando questa raggiunga più dei 140 cm sul livello del mare medio. In particolare ciò è successo il 12 novembre 2019 e giorni successivi, con la cosiddetta “acqua granda” (169 cm s.l.m.m.). Progressivamente gli scaffali delle zone più basse del deposito sono stati sistemati su basi murarie che impediscono all’acqua di raggiungere almeno i libri.

La biblioteca ha il suo nucleo originario nelle ultime decadi del secolo XVIII; questo nucleo corrisponde alla biblioteca personale e privata, tenuta in comune, dei due Venerabili fratelli Anton’Angelo e Marcantonio conti de Cavanis, fondatori dell’Istituto; i loro libri, costituenti questo nucleo, portano l’ex-libris “EX BIBLIOTHECA FRATRUM CAVANIS”.

In seguito, fondata la comunità nucleare della congregazione, i libri portano per i primi tempi (e almeno fino al 1843) l’ex libris della comunità “SCHOLARUM CHARITATIS – SS. ROSARII VENETIARUM” (con varianti). La comunità come tale si è costituita a partire dal 1820 nella casetta sita a Dorsoduro, attualmente 912, a quel tempo sulla fondamenta dei Arsenaloti, oggi Rio terà Antonio Foscarini o dei Alboreti. A partire da questi due “zoccoli” o nuclei più antichi, la biblioteca crebbe nei secoli XIX e XX e fino ad oggi, sia tramite l’acquisto di libri e riviste, sia con gli abbonamenti, sia ancora per la confluenza di altre biblioteche (in toto o in parte) donate alla biblioteca o ricevute in eredità dall’Istituto Cavanis. Il libro (incunabolo) più antico della nostra biblioteca è una preziosa Bibbia in italiano stampata a Venezia nel 1481, in caratteri mobili, in nero, ma con capilettera rossi e blu.

Nella suddetta Biblioteca dell’Istituto Cavanis di Venezia sono confluiti anche fondi provenienti da case dell’istituto di altre città o paesi che hanno interrotto la loro attività; e ancora piccole biblioteche interne, di altri settori della Casa-madre, poi confluiti in questa: come le biblioteche del noviziato che era a Venezia fino agli anni ’40 del secolo XX; dello studentato, presente a Venezia fino al 1968; della direzione delle scuole; della Congregazione mariana; dell’associazione delle Zelatrici Cavanis.

In prevalenza, la biblioteca contiene libri di teologia, di devozione, di cultura religiosa, classici latini e greci, libri di cultura generale, numerose enciclopedie, dizionari e altri libri di consultazione.

La Biblioteca ha avuto in precedenza come direttori pro tempore vari dei religiosi della Comunità Cavanis. Il più notevole, tra gli antichi direttori, fino al 2003, è stato il P. Alessandro Valeriani, che ha schedato sia in forma cartacea sia informatizzata tutto il materiale, utilizzando tuttavia programmi ora obsoleti, non adeguati ai criteri attuali, né recuperabili dal punto di vista informatico, anche se le schede sia cartacee sia informatiche sono ancora leggibili e si usano abitualmente.

Ci si accorse nel 2018 che l’unica modalità possibile era quella di iniziare la schedatura ex novo in base ai nuovi standard di catalogazione internazionali.

Nell’impossibilità di recuperare il catalogo predisposto in passato, l’obbiettivo primario attuale di questo Istituto è di impostare ex novo l’avvio di una attività di catalogazione sia del libro antico sia del libro moderno (con priorità, per motivi di tutela, dell’antico) per rendere disponibile on line il patrimonio librario della Congregazione. Si intende portare avanti questa istanza utilizzando però, memori dell’esperienza pregressa, personale specializzato e programmi informatici di catalogazione on line offerti dalla Conferenza Episcopale che si fa carico dell’aggiornamento delle banche dati riversate. L’avvio di un’attività pluriennale di catalogazione, avvenuto nel 2018, comporta un impegno economico quantificabile, solo per il libro antico, dopo il conteggio accurato delle opere di antiquariato presenti in biblioteca effettuato nel 2017-18, attorno agli 80.000,00 euro. Il lavoro sta sendo effettuato, anno per anno, da personale esterno all’Istituto, esperto e qualificato, abilitato all’utilizzo del software CEIbib e “CEI Importer”. L’attività di bonifica è costantemente seguita dal personale interno. Trattandosi di una banca dati destinata alla pubblica consultazione, i risultati potranno essere verificati da tutti in rete. In base alle attuali risorse economiche – l’utilizzo di personale interno e i contributi della CEI – si auspica di portare a termine il lavoro entro il 2027 per il libro antico. Il recupero delle notizie bibliografiche avviene in formato MARC21. La spesa dell’attività di inventariazione viene sostenuta in buona parte mediante i contributi annuali che la CEI, dentro del progetto CEI-Bib, versa annualmente. CEI-Bib costituisce il polo ecclesiale di SBN.

Quando l’intera banca dati di questa biblioteca  sarà riversata in SBN, il patrimonio librario di questa Biblioteca Cavanis sarà visibile a livello nazionale e internazionale; e lo è gia da oggi (2020), per la parte già inventariata in questi primi anni di lavoro. Trattandosi di una banca dati destinata alla pubblica consultazione, si conta in futuro in un aumento della affluenza degli studiosi.

Il direttore attuale della Biblioteca dell’Istituto Cavanis di Venezia è l’autore di questo libro della Storia della Congregazione, il P. Giuseppe Leonardi.

Riferimenti bibliografici

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