INDICE
Breve biografia dei fondatori 1772-1858
1. I fratelli Anton’Angelo e Marcantonio Cavanis
Box: un ritratto infantile e uno giovanile di P. Anton’Angelo Cavanis
1.3 Dalla prima comunità all’erezione canonica
1.4 I fondatori e la scuola nel loro tempo
1.5 I fondatori nella formazione dei seminaristi
1.6 Terza età, lotte e preparazione della successione
1.7 La vecchiaia e le malattie. Morte e fama di santità
1.8 La causa di beatificazione
1.9 Sull’origine dei Cavanis a Cornalba (Bergamo) e sul loro stemma
1.10 Il nome dei Cavanis nei toponimi stradali del mondo
2. Del nome della Congregazione delle Scuole di Carità
2.1 Del significato del nome “Scuole”
2.2 Del significato del nome “Carità”
3. Dell’abito della Congregazione delle Scuole di Carità
4. La situazione numerica della Congregazione nel XIX secolo
Tabella: situazione numerica e lista dei membri dell’Istituto Cavanis l’8 dicembre 1830
4.1 La situazione numerica della Congregazione nel 1838
4.2 Lista dei religiosi e seminaristi Cavanis il 10 settembre 1841
4.2.1 Sacerdoti nella casa di Venezia
4.2.2 Sacerdoti nella casa di Lendinara
4.2.3 L’Istituto femminile nel 1841
Tabella: religiosi e seminaristi Cavanis il 12 novembre 1856
Tabella: religiosi e seminaristi Cavanis il 1° novembre 1864
4.3 Lista dei religiosi sacerdoti Cavanis nel febbraio 1868
4.4 Lista dei religiosi sacerdoti Cavanis il 12 marzo 1877
4.5 Numero dei religiosi preti il 16 aprile 1886
4.6 Lista dei patriarchi di Venezia ai tempi della Congregazione
4.7 Lista dei vescovi della diocesi di Adria ai tempi della casa Cavanis di Lendinara
4.8 Lista dei vescovi della diocesi di Treviso nei tempi della Congregazione Cavanis
4.9 Lista degli arcivescovi dell’arcidiocesi di Lucca nei tempi della Congregazione Cavanis
4.10 Lista dei papi nei tempi della Congregazione Cavanis
5. La casa di Venezia 1820-2020
5.1 La nuova casa di residenza della comunità di Venezia
5.2 L’ala “nuova” delle scuole di Venezia
5.3 La storia della casa di Venezia, dopo la prepositura di P. Sebastiano Casara
Tabella: costruzioni, acquisti e affitti della casa di Venezia
Tabella: mappali e numeri anagrafici della casa di Venezia
6. La Chiesa di s. Agnese (1866-2020)
6.2 Scuole e confraternite relative alla parrocchia di s. Agnese
6.3 Gli altari antichi della chiesa di s. Agnese
Box: Il fonte battesimale di S. Agnese, ora a S. Maria del Rosario
6.4 Il rifacimento della chiesa
6.6 La Soprintendenza all’opera
6.9 Il collaudo dei restauri e del nuovo organo
Box: P. Giuseppe Panizzolo e l’acqua alta
6.10 Nota sulle chiese e cappelle dell’Istituto Cavanis di Venezia
Tabella: cronologia delle chiese e cappelle della casa-madre di Venezia
Tabella: la comunità di Venezia dal 1820 al 2020
7. La casa di Lendinara 1833-1896
Box: gli archivi e il diario della casa di Lendinara
7.1 La casa di Lendinara dal 1833 al 1866
Tabella: comunità di Lendinara dal 1834 al 1866
7.2 La casa di Lendinara dal 1866 al 1896
7.2.1 I Padri Cavanis a Lendinara e Alberto Mario
Tabella: comunità di Lendinara dal 1866 al 1896
Tabella: le case (comunità e scuola) di Lendinara
Tabella: le chiese e cappelle di Lendinara utilizzate dall’Istituto
Tabella: le proprietà immobiliari della comunità di Lendinara
7.3 La passione e la morte della casa di Lendinara nella prospettiva generale italiana
8. Excursus sulle devozioni e sui santi dei Cavanis
8.1 San Giuseppe Calasanzio (1557-1648)
8.2 Maria SS. ma, Madre di Dio
8.3 San Vincenzo de’ Paoli (1581-1660)
8.4 San Gaetano Thiene (1480-1547)
8.5 Sant’Alfonso de’ Liguori (1696-1787)
8.10 Santi Scolopi e della Famiglia Calasanziana
Parte Seconda
Seconda fase della vita della Congregazione 1848-1884
Box: Prima Guerra d’Indipendenza (1848-1849)
Box: la Repubblica di San Marco (22 marzo 1848-24 luglio 1849)
Tabella: lista dei prepositi generali dell’Istituto Cavanis
1. I tempi dei prepositi generali Frigiolini, Casara e Traiber
1.1 P. Vittorio Frigiolini, secondo preposito generale (1852)
1.2 Modalità di elezione/nomina del terzo preposito generale, P. Sebastiano Casara
2. L’epoca di P. Sebastiano Casara, il “secondo fondatore” nella
Congregazione e nel mondo
2.1 La prima serie di mandati di P. Sebastiano Casara (1852-1863)
2.2 La seconda serie di mandati di P. Sebastiano Casara (1866-1884)
Box: la Seconda Guerra d’Indipendenza d’Italia (1859) e l’inizio del Regno d’Italia (1861)
2.3 Il mandato di P. Giovanni Battista Traiber (1863-1866)
Box: la terza Guerra d’Indipedenza d’Italia (1866)
Box: il beato Antonio Rosmini Serbati, prete e filosofo
2.4 Possibilità di fusione tra la Congregazione delle Scuole di Carità e un’altra
3.1.1 Le trattative (1856-1857)
3.1.2 Vita della comunità di Possagno e del Collegio Canova (1857-1869)
3.2 La seconda fase (1869-1881)
3.3 La terza fase: anni di assenza e di silenzio (1881-1889)
3.4 La quarta fase: tre anni d’incertezze e la riapertura (1889-1892)
3.5 La quinta fase: la casa di Possagno attuale (1892-2019)
3.6 Il Liceo Calasanzio dagli anni Cinquanta ad oggi
3.6.1 Relazione storica sull’edificio
3.6.2 II nuovo Liceo Calasanzio
Terza fase della storia della Congregazione. Il “dopo Casara” (1885-1900)
1. Padre Domenico Sapori, preposito generale (1885-1887)
3. Padre Giuseppe Da Col, preposito generale (1887-1900)
Tabella: i sacerdoti Cavanis nell’agosto 1891
4. L’era del cardinal Sarto, patriarca di Venezia
Box: il corredo per entrare nella comunità Cavanis nell’Ottocento
5. I principali discepoli e compagni dei fondatori
6. Biografie dei religiosi Cavanis del secolo XIX
6.1 Diacono don Angelo Battesti
6.2 Seminarista Giuseppe Scarella
6.3 Seminarista Bartolomeo Giacomelli
6.4 Chierico Francesco Minozzi
6.5 Fratel Francesco Dall’Agnola
6.6 Seminarista Antonio Spessa
6.8 Chierico Giovanni Giovannini
6.15 I padri Angelo Cerchieri e Giovanni Battista Toscani e il laico Pietro Zalivani
6.18 Padre Vittorio Frigiolini
6.21 P. Giovanni Francesco Mihator
6.24 P. Narciso Emanuele Gretter
6.27 Fratel Luigi Tommaso Armanini
6.33 Fratel Giacomo Barbaro (Fratel Giacometto)
6.34 P. Giovanni Maria Spalmach
6.36 P. Giovanni Battista Larese
6.40 P. Giovanni Battista Fanton
7. Biografie di religiosi Cavanis del XX secolo
7.3 Fratel Clemente Dal Castagné
7.6 Seminarista Carlo Trevisan
7.7 Fratel Bartolomeo (Bortolo) Fedel
7.9 P. Agostino Santacattarina
7.10 Novizio Nazzareno De Piante
7.18 P. Giuseppe Borghese (P. Bepi)
7.20 P. Luigi D’Andrea e fratel Enrico Cognolato
7.27 P. Agostino Menegoz Fagaro
7.29 Il Venerabile P. Basilio Martinelli
7.30 P. Francesco Saverio Zanon
7.45 Fratel Edoardo Bartolamedi
7.53 Fratel Guerrino Zacchello
7.55 P. (Vescovo) Giovanni Battista Piasentini
7.74 P. Ermenegildo Loris Zanon
7.75 P. Luis Enrique Navarro Durán (P. Lucho)
7.83 Fratello e diacono don Aldo Menghi
8. Biografie dei padri Cavanis defunti nel secolo XXI
8.14 P. Aldino Antonio da Rosa
8.17 P. Fiorino Francesco Basso
8.24 Fratello e diacono don Giusto Larvete
8.29 P. Giovanni Carlo Tittoto
8.38 P. Antonio (Tonino) Armini
Tabella: religiosi Cavanis defunti in ordine alfabetico
Tabella: religiosi Cavanis defunti in ordine di anno di morte
Tabella: religiosi Cavanis defunti (sepolture e cimiteri)
9. Principali amici e collaboratori dei fondatori
9.2 Il beato Luigi Caburlotto (1817-1897)
9.3 Ricordando Mons. Daniele Canal
9.4 Ricordando i fratelli Passi
10. Benefattori e benefattrici dei Cavanis
10.1 Benefattori e benefattrici dei fondatori della prima metà del XIX secolo
10.1.2 Sig. Francesco Marchiori (vedi il capitolo sulla casa di Lendinara)
10.1.4 Contessa Carolina Durini Trotti
10.1.5 Cav.r Pietro Pesaro, Londra
10.1.6 Canonico Angelo Pedralli di Firenze
10.2 Benefattori e benefattrici dell’Istituto della seconda metà del XIX secolo
10.2.1 Mons. Giovanni Battista Sartori Canova (Vedi capitolo sulla casa di Possagno)
10.2.2 Contessa Loredana Gatterburg-Morosini
10.2.3 Mons. Luigi Bragato di Vienna
10.2.4 Don Giuseppe Ghisellini
10.2.5 Principe Giuseppe Giovanelli e sua madre, la principessa Maria Buri-Giovanelli
11. I capitoli generali dell’Istituto Cavanis del XIX secolo
11.1 I capitoli del XIX secolo più in dettaglio
Tabella: prepositi, vicari, definitori e consiglieri generali (1852-2019)
1.1 I tempi del pontificato di papa Pio X nella chiesa e nel mondo
1.2 L’inizio del XX secolo nel mondo
1.3 L’inizio del XX secolo in Europa
1.4 L’inizio del XX secolo in Italia
1.5 Padre Giovanni Chiereghin, preposito generale (1900-1904)
1.6 Padre Vincenzo Rossi, preposito generale (1904-1910)
1.7 Padre Antonio dalla Venezia, preposito generale (1910-1913)
Box: Censimento della Congregazione mariana di Venezia 1952
1.8 Padre Augusto Tormene, preposito generale (1913-1921)
2. La prima guerra mondiale: “La prima carneficina mondiale” (8 luglio 1914 -11 novembre 1918)
2.1 Venezia e la prima guerra mondiale
2.2 L’Istituto Cavanis durante la prima guerra mondiale
2.3 Le testimonianze nel Diario di Congregazione
2.4 I diari di guerra dei religiosi-soldati Cavanis
2.4.1 Diario di guerra e prigionia di Pellegrino Bolzonello, novizio Cavanis: “I miei ricordi di guerra 1915-1918”.
– Offensive sul fronte dell’Isonzo
– Questo era il mio fronte, il fronte goriziano
– La grande offensiva del maggio 1917
– Seconda azione – Quota 126 – Cimitero di Gorizia
– Sugli Altipiani di Bainzizza
– Sul Monte S. Gabriele
– La ritirata di Caporetto
– Dal fiume Isonzo a Codroipo
– La prigionia
– Piccoli episodi
– Vicende del campo
2.4.2 Diario di guerra e prigionia del novizio Alessandro Vianello
2.5 Monumenti e lapidi dei caduti
3. La chiesa tra le due guerre mondiali
3.1 I tempi di Benedetto XV nella chiesa e nel mondo
3.2 La politica femminile dell’Istituto Cavanis
3.3 I tempi di Pio XI nella chiesa e nel mondo
3.3.1 Papa Pio XI e l’Istituto Cavanis
3.4 Padre Agostino Zamattio, preposito generale (1922-1928)
3.5 Padre Giovanni Rizzardo, preposito generale (1928-1931)
4.1 L’Istituto Cavanis nel periodo fascista
Box: attività della Centuria Balilla e Avanguardisti
4.2 Padre Aurelio Andreatta, preposito generale (1931-1949)
4.2.1 Il riconoscimento giuridico dell’Istituto
Tabella: proposte di fondazioni non accettate
Tabella: religiosi Cavanis nel luglio 1939
4.3 I tempi di Pio XII nella chiesa e nel mondo dal 1939 al 1958
4.4 Pio XII e l’Istituto Cavanis
4.5 Padre Aurelio Andreatta preposito generale (seconda parte)
5. La seconda guerra mondiale: “La seconda carneficina mondiale”
(1939-1945)
5.1 La seconda guerra mondiale e l’Istituto Cavanis
5.4 Vita di una comunità Cavanis nell’Italia in guerra nel 1943
5.5 Microstorie Cavanis nella macrostoria della seconda guerra mondiale
5.5.1 La guerra e la prigionia di Edoardo Bortolamedi
5.5.2 Memorie di guerra di Armando Soldera, un noviziato diverso
5.5.3 La guerra di Marino Scarparo
5.5.4 La guerra e la cappella votiva di S. Giuseppe a Coldraga
5.5.5 Vita di seminario nel Probandato di Possagno (1940-1945)
5.5.6 La guerra a Porcari, annotazioni di P. Vincenzo Saveri
5.5.7 Ricordi del Probandato di Vicopelago
5.5.8 Memorie di guerra di P. Giuseppe Leonardi
5.6 La casa di Roma – Casilina
5.6.1 Illustrazione del progetto “Renosto” dell’erigendo Istituto Cavanis Pio XII a Roma
5.7 Le catacombe dei santi Marcellino e Pietro ad duas lauros
5.7.1 Il martirio di Marcellino e Pietro
5.8.1 L’apertura del mausoleo di sant’Elena
6.1 Il mandato di P. Aurelio Andreatta continua dopo la guerra
6.2 Cronaca della vita della Congregazione dal 1947
Tabella: apertura di case dal 1919 al 1968
Tabella: ordinazioni presbiterali 1795-2019
Tabella: date su professioni e ordinazioni
Tabella: seminari Cavanis in Italia dal 1918 al 1970
7. La seconda metà del XX secolo
7.1 Padre Antonio Cristelli, preposito generale (1949-1955)
7.2 Il padre Gioachino Tomasi, preposito generale (1955-1961)
7.2.1 Precisazioni istituzionali definite all’inizio del mandato di P. Tomasi
Tabella: numeri dei religiosi Cavanis nel luglio 1958
8. Dal 1958 al 1970: anni che hanno cambiato la Chiesa e il mondo
8.1 Il papa Giovanni XXIII e l’Istituto Cavanis
8.2 Angelo Giuseppe Roncalli, Giovanni XXIII
8.3 Continuando la relazione sui fatti della prepositura del P. Gioachino Tomasi.
Tabella: numeri dei religiosi Cavanis nel luglio 1960
8.4 Padre Giuseppe Panizzolo, preposito generale (1961-1967)
Tabella: numeri dei religiosi Cavanis nel luglio 1967
8.5 Padre Orfeo Mason, preposito generale (1967-79): apertura dei Cavanis in
Brasile e nel mondo
8.6 Il capitolo generale straordinario speciale (1969-1970) e le Costituzioni e direttorio
8.6.1 Breve storia dei lavori capitolari
8.6.2 Breve cronologia delle Costituzioni
8.7 I tempi di papa Paolo VI nella Chiesa e nel mondo
8.8 I capitoli generali del XX e XXI secolo
8.9 I capitoli generali ordinari del XX e XXI secolo
8.10 I capitoli generali straordinari del XX secolo
9. Alcuni collaboratori e benefattori dell’Istituto Cavanis defunti nel XX-XXI secolo
9.4 Angelo (Lino) Architetto Scattolin
9.9 Alberto Cosulich e famiglia
9.10 Professor Antonio Lazzarin, restauratore
Le case d’Italia fondate nel XX secolo
1.1 “Porcari: la chiesetta dell’Immacolata”
1.2 “Testimonianze di anziani”
1.3 Inaugurazione della chiesa
1.4 Il duplice giubileo del collegio Cavanis di Porcari
2. La casa del Probandato di Possagno (1919)
3. La casa di Pieve di Soligo (1923)
5. La casa del Sacro Cuore e il noviziato annesso
5.1 Una gita dei padri a Coldraga e benedizione della “villa”
5.2 La posa della prima pietra e l’inaugurazione della casa
5.4 Gli esercizi spirituali – gli incontri di preghiera
5.5.2 La benedizione e la posa della prima pietra della chiesa (5 giugno 1938)
5.5.4 Consacrazione della chiesa (2 giugno 1939)
5.5.5 Inaugurazione solenne nella domenica di Pentecoste (4 giugno 1939)
5.5.6 Il pontificale del vescovo
5.6 Uno sguardo al complesso delle costruzioni in Col Draga
5.7 Altri edifici e avvenimenti
6. La casa di Santo Stefano di Camastra (1938)
7. La casa di Fietta del Grappa – Villa Buon Pastore (1940)
8. La casa di Vicopelago e poi di s. Alessio (1941)
9. La casa di Costasavina (Pergine-Trento) e poi di Levico (Trento)
(1943-1948)
10. L’Istituto “Dolomiti” di Borca di San Vito di Cadore – Belluno (1945)
11. La casa di Roma –Torpignattara (1946)
12. La casa dell’Istituto Tata Giovanni –Roma (1953)
13. La casa di Capezzano Pianore (1953)
14. La casa di Chioggia (1954)
15. La casa di Cesena (1958-1959)
16. La casa di Solaro –Milano (1962)
Dagli anni ’70 del XX secolo a oggi
1. L’espansione geografica, la missione
2. Padre Guglielmo Incerti, preposito generale (1979-1989)
3. Padre Giuseppe Leonardi, preposito generale (1989-1995)
4. Padre Pietro Fietta, preposito generale (1995-2001; 2001-2007)
4.1 La casa di Pozzuoli – Monterusciello (1996)
4.1.1 Motivo e occasione della scelta dei Padri Cavanis
4.1.2 L’Istituto Cavanis a Pozzuoli
4.2 La casa di Massafra (parrocchia s. Francesco di Paola)
5. Padre Alvise Bellinato, preposito generale (2007-2013)
6. Padre Pietro Fietta, preposito generale (2013-2019)
7. Padre Manoel Rosalino Rosa, preposito generale (2019 – ….)
Le parti territoriali
1. Le missioni Cavanis: storia degli inizi
2. La provincia italiana, la Pars Italiae
3. Breve storia della provincia del Brasile, la Pars Brasiliae
Tabella: religiosi Cavanis Italiani attivi nella Provincia Antônio e Marcos Cavanis do Brasil
Tabella: i governi della Pars Brasiliae
3.1 Le case della Pars Brasiliae
3.2 La casa (le case) di Castro-Paraná-Brasile
3.3 La casa di Ortiguera-Paraná-Brasile
3.4 La casa di Ponta Grossa-Paraná-Brasile
3.5 La Parrocchia de Nossa Senhora de Fátima di Vila Cipa e la Sua “Casa do Menor”
3.6 Il centro della pastorale universitaria di Ponta Grossa – Oásis
– Primi passi
– Le cose cominciano a funzionare
– Espansione della PU
– Momenti forti
– “Assessoria” nazionale
– Conclusione
3.7 Il seminario maggiore Antônio e Marcos Cavanis e il noviziato di Ponta Grossa
Tabella: case riunite di Ortiguera (1969-2019) e Ponta Grossa (1980-2019)- Paraná -Brasile
Tabella: la casa di Ortigueira (autonoma)
Tabella: la casa di Ponta Grossa (autonoma)
Tabella: centro di Pastorale Universitaria Oásis-Ponta Grossa-Paraná-Brasile
3.8 La casa di Realeza-Paraná-Brasile
3.9 La casa di Pérola d’Oeste-Paraná-Brasile
3.10 La casa di Planalto-Paraná-Brasile
Tabella: le casa di Realeza (1971-2019) e di Pérola d’Oeste (1994-2019)- Paraná-Brasile
Tabella: casa di Realeza (separata dalle altre)-Paraná-Brasile
Tabella: casa di Pérola d’Oeste, parrocchia Sagrado coração de Jesus
Tabella: casa di Planalto (separata da Realeza)-Paraná-Brasile (1988-2010)
3.11 L’arcidiocesi di Belo Horizonte-Minas Gerais-Brasile
Tabella: le case di Belo Horizonte-Minas Gerais-Brasile (1984-2019)
3.12 I Cavanis a Brasília-Brasile
3.13 La casa di Uberlândia-Brasile
Tabella: la casa di Uberlândia
3.14 La Casa di Celso Ramos – santa Catarina (1998-2019)
3.15 La casa di parrocchia São José a São Paulo (1994-2019)
3.16 La casa di Mossunguê – Curitiba (1996-2008)
3.17 La casa della parrocchia di São Mateus do Sul (1995-2004)
3.18 La casa di Novo Progresso, parrocchia Santa Luzia – Pará – Brasile (1998-2019)
3.19 La casa di Maringá-Paraná-Brasile (2001-2019)
3.20 La casa di Guarantã do Norte, parrocchia Nossa Senhora do Rosário – Mato Grosso
3.21 La casa di Castelo de Sonhos-Pará-Brasile
Tabella: seminaristi Cavanis del Brasile nel 1999
Tabella: religiosi e seminaristi Cavanis brasiliani nel 2018
3.22 Le case do Menor o da Criança-Brasile
Tabella: case do Menor o da Criança
4. La regione andina, la Pars andium
Tabella: i governi della Pars andium
4.1.1 La casa di Esmeralda (1982-1996)
4.1.2 La casa di Quito, seminario (1984-2019)
4.1.4 Casa del Collegio Borja III
4.1.5 Casa di Valle Hermoso (1992-2019)
4.2.1 La casa di Bogotá, seminario “Virgen de chiquinquirá”-Colombia
4.3.1 La casa di Santa Cruz de la Sierra -Bolivia
4.4.1 La casa di Éten-Chiclayo-Perù
5. La delegazione delle Filippine (2000-2019)
Tabella: delegazione delle Filippine
5.1 Casa del collegio Letran di Tagum (2000-2019)
5.2 Seminari di Tibungco – Davao City (2003-2019)-Repubblica delle Filippine
5.3 Parrocchia di San José di Braulio E Dujali-Davao de Norte-Repubblica
delle Filippine
6. Delegazione della Casa di Romania
6.1 La città di Paşcani e la Romania
Tabella: delegazione della Romania
7. Delegazione Cavanis nella Repubblica Democratica del Congo (2004-2019)
Tabella: governi della delegazione della Repubblica Democratica del Congo
Tabella: membri della delegazione della Repubblica Democratica del Congo
Breve storia della Congregazione delle “Maestre delle Scuole di Carità”
1. Le tre sedi dell’Istituto femminile Cavanis
1.3 La terza e definitiva residenza
2. Elenco delle Maestre e delle ragazze dell’Istituto femminile Cavanis il 10 settembre 1811
3. Alcuni episodi notevoli della Pia Casa di educazione delle Scuole di Carità
4. I venerabili Cavanis e Santa Maddalena di Canossa
4.1 Maddalena di Canossa chiamata a Venezia
4.2 Lettera di accompagnamento
4.3 Regole generali per la Scuole di Carità
4.5 Elenco delle maestre nel locale delle Eremite in parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio
4.7 L’Istituto femminile confluisce nell’Istituto Figlie di Carità Canosina
5. Breve storia delle Suore della Pia Società del Santo Nome di Dio, dette “Suore Cavanis”
Appendice 1 – L’opera dei fondatori
1. (Appendice 1.1) Preghiera attribuita ai fondatori dell’Istituto Cavanis
2. (Appendice 1.2) La gratuità delle Scuole dei fondatori e dei Cavanis
3.1 Pueros et juvenes paterna dilectione complecti
3.3 Sollicita vigilantia a saeculi contagione tueri
3.4 Spiritu intelligentiae ac pietatis quotidie erudire
4.2 Le costituzioni e la Bibbia
4.8 Testi biblici nelle lettere dei fondatori
5. (Appendice 5) Edifici storici
Appendice 5.1. Il palazzo natale dei fondatori
Appendice 5.2. Breve storia della “casetta”
Appendice 5.3. La cappella del Crocifisso a S. Agnese. Memoriale dei fondatori
6. (Appendice 6) Le missioni all’estero
Appendice 6.1. Spiritualità Cavanis in Brasile
6.1.2 La congiuntura veneziana
6.1.4.1 Opzione per i poveri e opzione per i giovani
6.1.4.2 Il nome della Congregazione: paternità e carità
6.1.4.5 La povertà e i mezzi poveri
6.1.4.6 L’ingenuità e la semplicità
6.1.4.7 La piccolezza dell’Istituto
6.1.4.11 La gioia, la libertà e la pace
6.1.4.12 “Uniforme vocazione” e la comunità
6.1.5 La congiuntura del Brasile nel 1988
6.1.6 Il Progetto educativo Cavanis in Brasile
6.1.6.1 Stile Cavanis in Brasile. Una proiezione nel futuro
6.1.6.2 Future attività educative dei Cavanis in Brasile
– La scuola
– “Casas do Menor”
– Centri di Pastorale Universitaria e della Gioventù
– “Assessoria”
– La catechesi
Appendice 6.2. Uno sguardo dei Cavanis sull’Africa
6.2.2 L’Istituto Cavanis e l’Africa
Appendice 7 – Sistemi di riferimento
Appendice 7.1. Glossario dei termini viari (toponimi) veneziani
Appendice 7.2. Excursus sui selciati veneziani
Terza fase della storia della Congregazione.
Il “dopo Casara” (1885-1900)
Si può osservare come nei decenni successivi, che seguirono alla rinuncia definitiva di P. Casara (1885), la vita della Congregazione divenne abbastanza semplice, troppo tranquilla, quasi senza eventi, abbastanza asfittica e in ogni caso senza aperture di nuove case. P. Casara aveva aperto la casa e la scuola di Possagno (1857) e successivamente fu abbastanza occupato e preoccupato tra l’altro per causa della soppressione dell’Istituto (e di tutti gli istituti religiosi in Veneto) e della confisca dei beni ecclesiastici e quindi dei beni dell’Istituto Cavanis e delle sue tre case; e in seguito dal suo lungo e faticoso lavoro di recupero dei beni immobili e mobili e di riorganizzazione della Congregazione.
Dopo l’apertura di Possagno, l’iniziativa successiva fu quella di aprire casa e scuola a Porcari (provincia di Lucca, 1919), 62 anni dopo. Si viveva con quello che si aveva, con un piccolo numero di religiosi, senza preoccuparsi dell’espansione e della ricerca di nuovi membri per la Congregazione. Il numero di religiosi professi arrivava al massimo ad una ventina. I capitoli generali erano molto brevi, qualche volta duravano l’espace d’un matin, cioè una mattinata, o una serata: un giorno, due giorni, un pomeriggio o un dopocena; si facevano pochi viaggi e si avevano pochi contatti; rare erano le pubblicazioni e le relazioni pubbliche.
Perciò è difficile trovare notizie in abbondanza su questo periodo, a meno che non si legga il Diario della Congregazione nel nostro Archivio generale storico.
1. Padre Domenico Sapori, preposito generale (1885-1887)
Domenico Sapori nacque nel villaggio di Tolè nell’arcidiocesi e provincia di Bologna, sull’Appennino, il 16 ottobre 1831.
Durante i tre anni dal 1849 al 1851, sedici aspiranti avevano fatto domanda per entrare in Congregazione ed erano stati accettati; fra coloro che arrivarono in Istituto ve ne furono ben quattro solo nel mese d’ottobre del 1851: ma solo tre su sedici perseverarono sino alla fine: il nostro Domenico Sapori, Francesco Avi, che diventò fratello religioso, e Vincenzo Brizzi (anche lui della provincia e della diocesi di Bologna), che sarà religioso e prete Cavanis, come Domenico Sapori.
Questi era stato raccomandato al P. Marco dal dottor Bartolomeo Brizzi e da suo figlio, l’arciprete Zeffirino Brizzi, di Vergato, paese vicino a Roffeno, in provincia di Bologna.
L’ingresso in Congregazione del giovane Domenico Sapori (3 ottobre 1851), che diventerà preposito, ma soprattutto che condurrà una vita da buon religioso e prete nell’Istituto, diede molta gioia ai nostri fondatori e in particolare a P. Marco. Costui vedeva che due degli aspiranti (Sapori e Brizzi) provenivano dagli Stati della chiesa e più in particolare dall’antico stato degli Este ovvero l’Emilia-Romagna. P. Marco osservava speranzoso che l’Istituto sarebbe stato conosciuto fuori dal Veneto e «nei paesi lontani » (a quei tempi così erano considerati Bologna e Ferrara!). P. Marco diceva dell’aspirante o postulante Domenico Sapori che era «saggio, buono, forte e molto promettente» e ancora che era «abbastanza provvisto di ciò che si richiedeva per essere accolti [nel seminario]».
P. Giovanni Chiereghin, che l’aveva conosciuto bene personalmente, diceva di lui: «La ferma virtù di questo santo religioso si mostrò ancora più bella per il contrasto fra il suo carattere impetuoso e tutto fuoco tipico del sangue della Romagna e il suo sforzo continuo e generoso per frenarlo secondo i precetti evangelici». Con molta sincerità, cosa non molto comune fra gli scritti che hanno un po’ il sapore agiografico, come l’opera citata di P. Giovanni Chiereghin, egli aggiunge: «…il Signore non l’aveva dotato di vivido lume intellettivo, tuttavia era provvisto di rettitudine, di giudizio e di una volontà ferma che gli permetteva di non sottrarsi davanti alle difficoltà, ai sacrifici; e qualcuno può ricordarsi di quanto la sua presenza fosse di continuo edificante, seppur quando fu per breve periodo condiscepolo tra i ragazzi adolescenti di tredici anni”. Altra notizia assai sorprendente sul nostro padre Domenico è che egli «non aveva fatto degli studi regolari».
A proposito del suo carattere forte, monsignor Giuseppe Ambrosi, che l’aveva conosciuto già in età avanzata, scrive di lui in un poema: «…anima ardente, che, incapace di frenare il suo nervosismo…».
Fece la professione dei voti a Venezia il 25 marzo 1854, festa dell’Annunciazione; nel 1855 i confratelli temevano che potesse morire di vaiolo, infettato com’era stato durante una visita all’ospedale civico (ai Santi Giovanni e Paolo a Venezia); fu messo in quarantena e assistito dalla comunità in una catapecchia isolata dal lato opposto dell’orto, il più lontano possibile dalla «casetta» e dalle scuole; e si rallegrarono perché guarì e rientrò in comunità.
Ebbe la tonsura ecclesiastica il 21 maggio 1855, i quattro ordini minori il 6 aprile 1856, il suddiaconato nel giugno 1857 e l’ordinazione presbiterale il 19 settembre 1957.
Esaminando gli scritti di P. Sebastiano Casara e la corrispondenza tra lui e P. Giuseppe Da Col che era a Possagno con il giovane Domenico Sapori, si apprende la storia difficile della sua vocazione e della sua giovinezza, dinnanzi alla situazione della sua famiglia caduta improvvisamente in miseria sul finire degli anni ’50 del secolo XIX. Su richiesta pressante della sua famiglia, Domenico pensava di uscire dalla Congregazione per aiutare i suoi genitori; ma fu aiutato da P. Casara, come pure del P. Giuseppe Da Col, suo rettore a Possagno con delle cure paterne e dei buoni consigli che ebbe la grazia e la buona volontà di accettare; e la sua famiglia venne aiutata per molto tempo dalla pur povera comunità. Fu sempre riconoscente verso P. Sebastiano in modo particolare. Fu costante nella vocazione e ottenne un buon risultato.
Il necrologio della Congregazione lo definisce: religioso assiduo nell’educazione dei giovani, incurante di se stesso, amava lavorare e faticare, proiettato solo al volere divino.
Visse e lavorò nelle nostre case di Venezia, Possagno e Lendinara. In riassunto, lo troviamo:
A Possagno, fu membro della prima piccola comunità, con P. Da Col come rettore, nel 1857. Restò lì dieci anni, e P. Giovanni Chiereghin crede di poter affermare che, dopo P. Da Col, nessuno guadagnò la stima e l’affezione degli abitanti di Possagno come P. Sapori; e ciò per la sua osservanza religiosa, la rettitudine gioiosa per qualunque opera di carità, l’amore e l’assiduità nell’insegnamento; quest’ultimo gli doveva costare parecchio con il carattere “accensibile” che si ritrovava.
Fu l’ultimo padre Cavanis presente a Possagno, nella scuola del Collegio Canova, al momento della soppressione della Congregazione e della confisca del collegio stesso, e al momento di chiudere la casa e di lasciarla ai funzionari del demanio italiano (a seguito delle leggi dette «eversive»), portò a Venezia su un carro i poveri mobili della comunità, l’archivio della casa di Possagno e forse la biblioteca della comunità (1867). P. Giovanni Chiereghin dice che dovette «ritirarsi da Possagno quasi di nascosto per sottrarsi alle dimostrazioni di affetto e di attaccamento di quelli – ed erano i più numerosi – che in P. Domenico come in P. Da Col veneravano l’amico, consigliavano il padre».
Da Possagno si trasferì presso la comunità di Venezia. Lo ritroviamo ancora lì l’8 marzo 1877. Questo fu il periodo della maturità umana, cristiana e religiosa. P. Giovanni Chiereghin commenta che, in questa fase, in cui forse lo conobbe meglio, non chiedeva niente e non rifiutava niente (secondo il motto antico e ancora in uso nella nostra Congregazione), che non aveva fiducia in se stesso ma solo nel Signore, che pregava umilmente. Anche se in età adulta, accetta di preparare e sostenere degli esami per ottenere i titoli necessari per l’insegnamento alla scuola elementare, ed ottiene il diploma, lui che non aveva fatto degli studi regolari, come si diceva sopra. Come insegnante di bambini piccoli alle elementari gli occorse molta pazienza, dovette gestire il suo carattere «accensibile» e ci riuscì virtuosamente.
Funse da maestro dei novizi a Venezia, come lo era stato a Possagno, trasmettendo ai giovani la conoscenza e il senso di appartenenza alla Congregazione attraverso l’esempio piuttosto che con i discorsi.
Fu eletto preposito generale il 10 settembre 1885, durante un capitolo provinciale straordinario, convocato dopo le dimissioni presentate il luglio precedente da P. Sebastiano Casara. Il nuovo preposito nominò Casara suo vicario e prefetto delle scuole di Venezia, poi lo incaricò di continuare e concludere la redazione della seconda parte delle costituzioni, sulle strutture e il governo della Congregazione e sulla formazione.
Il mandato di P. Sapori fu molto breve, perché egli completò semplicemente i due anni che mancavano al triennio di P. Casara, dimissionario dopo il primo anno.
P. Sapori durante il periodo di prepositura soffrì per l’opposizione di tre o quattro religiosi che già avevano fatto soffrire P. Casara, in relazione alla preparazione della seconda parte delle costituzioni, come si dirà più ampiamente in seguito. Già il 22 ottobre 1885, poco dopo la sua elezione, scrive: “Ricevo dai P.P. Larese, Marini, Miorelli e Simeoni delle Proposte sulle nostre Regole, ai quali rispondo brevemente di non poter accettarle” Il “gruppo dei quattro”cominciava la lotta anche con P. Sapori.
Il 21 dicembre 1885 P. Sapori indice “adunanze capitolari per trattarvi delle nostre Costituzioni” per il giorno 27 succssivo, durante le vacanze natalizie delle scuole.
Tali “adunanze capitolari” si tennero però in forma separata, ossia a Venezia si riuniva la comunità locale; i confratelli di Lendinara (le case erano solo queste due in quegli anni, tra il 1881 e il 1892) partecipavano per corrispondenza. La procedura era quanto meno strana, quasi inedita in Congregazione; soprattutto non si capisce se si tratti di un vero capitolo provinciale o di che cosa. In effetti, poco più avanti in una correzione di sua mano, superlineare (cioè fatta sopra una parola cancellata da lui stesso), P. Sapori parla di “capitolo locale-provinciale”!
Invitati i padri di Lendinara a mandare le loro proposte pre-capitolo, “Il rettore di quella Casa risponde: Sappia pure, Padre, che qui nessuno ha Proposte da presentare costì al Capitolo. La S. Famiglia benedica; come desideriamo ardentemente anche noi, la deliberazione da Lei presa riguardo all’importantissimo affare delle nostre Regole, ecc.”
Il 27 dicembre, il Diario riporta: “Stasera; ore 6 pom[eridian]e hanno avuto principio le sessioni capitolari sull’argomento delle nostre Regole. Vi sono state discusse formolate e votate le due prime osservazioni fatte dalla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari. Indi, suggellati i voti in due copertine distinte, sono state spedite ai padri di Lendinara per averne votazioni complete, delle quali sarà fatto lo spoglio”. Pare che il preposito e i suoi confratelli non avessero capito che le osservazioni giunte da Roma sulla bozza delle regole, preparata da P. Casara con collaboratori vari, non dovevano essere “discusse formolate e votate”, ma obbedientemente inserite nelle Costituzioni, per pia e dovuta obbedienza a Roma, ma anche semplicemente per motivo di strategia e di logica, se si voleva ottenere l’approvazione da Roma.
Due giorni dopo, il 29, “Arrivano i voti della Casa-Lendinara, e a quegli uniti se ne fa lo spoglio. Stasera seconda Adunanza capitolare, che viene interrotta; per gravi dispiaceri: il Superiore di ciò oltremodo dolente esprime pubblicamente la sua deliberazione di ricorrere alla S. Sede, e quivi per l’Ordinario mandare le Regole a Roma per implorarne sanzione Pontificia”. E il 30 dicembre: “In conformità al detto sopra scrivo al Cardinal Patriarca; gli annunzio l’avvenuto, e gli notifico la mia ferma deliberazione di completare quanto prima le Regole, e di presentarle a Lui perché le prenda in esame e poscia le invii con una sua Accompagnatoria alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari.”
La procedura seguita era a mio parere del tutto irregolare; il Patriarca non aveva alcuna competenza sulle regole di una Congregazione di diritto pontificio, il cui testo originale (del 1837) era stato approvato dalla santa Sede.
La vita era abbastanza dura per P. Sapori in quei due anni della sua prepositura: certa volta scriveva a P. Casara: «In seguito si discusse della terza osservazione [sulle costituzioni] cosi calorosamente e sfacciatamente, che si dovette interrompere la sessione e dunque la questione delle nostre costituzioni fu interrotta. (…) Capisco che per multas tribulationes oportet me transire ». Un’altra volta scrisse a Casara, evidentemente suo consigliere e consolatore « P. Miorelli dice che accetterà le regole che saranno approvate [dalla Santa Sede N.d.A.]. Aggiunge che non può trovar possibile restare a Venezia. Io gli risposi di andarsene in famiglia. Testa matta!».
P. Sapori ricevette il consiglio da qualcuno dell’ambiente della Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari: «Chi ha in mano il bastone del comando, comandi!».
Ma non mancavano le consolazioni: “ Da otto Padri di questa Famiglia ricevo una Dichiarazione da loro sottoscritta; del come intesero la Mozione fatta dal preside nel Capitolo locale tenuto il 1° settembre-anno decorso. Dichiarazione contro di alcuni pochi, i quali pretendono di annullare intieramente le deliberazioni prese circa le Regole nel Capitolo del 1884.”
Il 1° marzo 1886 si viene a sapere che le costituzioni con le correzioni e aggiunte apportate nel difficile periodo tra il capitolo provinciale del 1884 a questa data, sono state affidate a un amico calligrafo, per preparare la versione definitiva da inviare a Roma. Il calligrafo era un tale don Vincenzo Vianello. Seguì la presentazione delle regole al patriarca: “Oggi stesso ho presentato a Sua Eminen.a il Patriarca le Regole con la relativa Accompagnatoria, a Lui raccomandando vivamente questo affare per noi della massima importanza. Egli mi ha promesso di prenderselo a cuore, assicurandomi che tutto riuscirà prosperamente: pertanto incarica due canonici per l’esame delle medesime”.
Il 16 aprile troviamo nel diario: “Da Sua Emin.a il Card. Patriarca mi viene comunicato per iscritto le osservazioni a Lui dirette dai P.P. Larese, Miorelli e Marini, contro alcuni punti di Regole contro l’Accompagnatoria, che che da me fu presentata a Sua Em.a al fine di ottenere sanzione Pontificia delle Regole medesime”. Il 18 aprile P. Sapori manda a Lendinara “una copia delle Osservazioni (…) alle quali devono rispondere in lettera chiusa diretta al patriarca i 19 Firmatari dell’Accompagnatoria per le Regole; Alcuni di questi sono accusati di debolezza e pentimento nell’apporre la loro firma; al proponente [= il preposito, a quanto si capisce] poi viene data l’imputazione di pressione o quasi pressione. Accusa obbrobriosa!”.
P. Sapori risponde al patriarca: “Rispondo in breve alle pred.te Osservazione, e chiudo con le seguenti parole: L’ultimo capoverso del suo venerato Foglio (del Patriarca) allude ad una pressione usata ai Firmatari dell’Accompagnatoria a Lei indirizzata; e ne venne fatto cenno da testimone auricolare. Cotanto schifosa accusa non me la sarei mai aspettata. Su questo punto intendo venirne al chiaro. Consapevole e sicuro del fatto mio, la voglio finita con questa guerra sleale e serpentina. O s’intenta un processo a me, o io lo intento altrui”.
Il 28 maggio 1886 le bozze delle regole risultano spedite dal Patriarca a Roma. La loro approvazione fu solleitata da don Ghisellini, tramite un suo conoscente, l’archivista della S. Congregazione.
P. Sapori intanto comincia a procedere contro il Miorelli il 26 luglio: “Scrivo al P. Miorelli, che partito pel Tirolo il 19 corr.e non ha per anco scritto una riga; gli ricordo le sue espressioni scandalose fatte ad un Padre giovane circa le Regole, e lo richiamo al dovere, o starsene a casa sua”. E il 30 luglio: “Oggi ricevo risposta dal P. Miorelli, il quale mostra di non capire ciò che gli ho scritto in una mia del 26 corrente. Bisognerà che gli scriva nuovamente e gli spieghi ancor meglio, perché di questo passo non si può andare innanzi”. Ancora il 1° agosto: “Riscrivo al P. Miorelli in Tirolo facendogli conoscere le sue indiscipline, le parole imprudenti da lui dette a diversi; quindi lo richiamo al dovere di religioso”. “Il P. Miorelli scrive da casa essere lui dispostissimo ad accettare le Regole. Trova poi cosa per esso impossibile il dimorare in questa famiglia [di Venezia] nell’attuale condizione degli spiriti” “Gli rispondo essere ora di finirla: così non potersi andare avanti, chè ne va il buon ordine e la disciplina religiosa”.
Si stava procedendo, su un altro fronte, a preparare il capitolo provinciale da celebrarsi circa un mese dopo, e si erano eletti i discreti o delegati; intanto “l’amico don G[iuseppe]. Ghisellini ne manda l’atteso Rescritto Pontificio, onde la S. Congreg. Dei Vescovi e Regolari proroga ad annum il nostro Capitolo provinciale, che doveva aver luogo ai primi del prossimo 7bre 86. –Ci notifica inoltre che le Nostre Regole hanno già preso un buon inviamento”. Il preposito Sapori comunica la cosa a Lendinara, e riceve dai padri il conforto dell’appoggio nelle sue decisioni contro il Miorelli: “Il P. Da Col a nome pure del P. Bassi, mentre mi confortano a sperare fiducioso in Dio rimettendomi alla sua amabilissima Volontà, manifestano il loro pieno consenso a quelle misure, che dovransi usar per liberare il nostro povero Istituto dalle inquietudini, dagli scandali, dalla rovina che da pezza gli sovrasta”.
Il 22 agosto 1886: “Il p. Miorelli insiste nel voler essere traslocato a Lendinara; diversamente abbandona l’Istituto, e domanda un Attestato della sua prestata educazione alla gioventù, e che ei sia uscito dall’Istituto spontaneamente”. Il 23 P. Sapori scrive: “Gli si manda l’attestato richiesto, restando egli soggetto a questo Ordinariato”.
Intanto prosegue l’esame della bozza di nuove costituzioni presso la S. Congregazione dei Vescovi e Regolari: “Per mezzo del P. Pacifico Cappuccino mi arrivano alcune Osservazioni sulla nostra Regola, fatte dal Ponente, P. Tomaso da Forlì”. Il 12 febbraio 1887, ascoltati i definitori residenti a Venezia, e i due residenti a Lendinara per lettera, P. Sapori risponde alle osservazioni. Il 25 marzo riceve, tramite il Ghisellini, una risposta alla sua, che sembra positiva, ma non definitiva. Il 5 giugno 1887 giunge notizia “che sarebbe presto fatto il Rescritto d’approvazione quando noi fossimo contenti di mutare il nome di Preposito provinciale in Preposito generale oppure in Preposito della Congregazione”; P. Sapori consulta con i definitori, e risponde positivamente alla proposta, il giorno dopo, 6 giugno.
In questo periodo, nei primi mesi del 1887, giungono molte proposte di aspiranti da parte di parroci e altri sacerdoti del Trentino e del Veneto, ma molte non sono accettate perché i candidati non sembrano adatti, per età eccessiva o troppo giovane, per mancanza di studi o altro. P. Sapori scrive allora un regolamento con i criteri di accettazione, e lo sottopone ai definitori. Ma molte volte i giovani, non solo in quest’anno ma piuttosto spesso, non sono accettati anche per mancanza di posto o perché non possono corrispondere la “dozzina”, e l’Istituto è troppo povero per poterli accogliere gratuitamente. Nel 1897, le famiglie dei novizi e altri seminaristi (per esempio la famiglia di Giovanni D’Ambrosi, novizio) pagavano – o dovevano pagare – 50 centesimi al giorno. Per la vestizione dello stesso, la famiglia fu richiesta della somma di £ 20,– probabilmente per le spese della confezione dell’abito religioso. Le famiglie erano invitate a contribuire per il vitto e alloggio soltanto fino alla prima professione dei voti, dopo di che tutte le spese spettavano alla Congregazione.
Nel clima dell’attesa ansiosa del Rescritto pontificio di approvazione delle regole, si consuma un fatto doloroso per la comunità. P. Sapori, preposito, annota nel diario: “P. Michele Marini partì allontanandosi dall’Istituto anche fisicamente, che di spirito n’era distaccato da gran tempo: Iddio gli perdoni tutte quante le amarezze da lui arrecate alla nostra povera Congregazione”. In seguito “Il suddetto Marini scrive una lettera al Superiore, onde gli manda (sic) perdono, come pure ad altri offesi da lui con tante impertinenze”.
Le cose delle Regole non vanno bene, contrariamente a quanto aveva più volte assicurato da Roma l’amico don Ghisellini: “Speranze deluse! Dalla S. Congr.e dei V.V.R.R. invece del Rescritto di approvazione alle nostre Regole ci si ripetono le vecchie Oservazioni del 1866; più nuove avvertenze ci si propongono. Insomma siamo ancora a principio della questione. Sia fatta in tutto e per tutto la Sant.ma alt.ma e amabil.ma Volontà del Signore”. Il giorno dopo. P. Sapori annota nel diario: “Si comunicano a questa famiglia [di Venezia] le sudd. avvertenze, ed ad essa si raccomanda caldamente di pregare con fervide suppliche lo Spirito Santo acciocchè ne illimini la mente a conoscere e fare il meglio che più torni alla gloria divina e al bene del nostro povero Istituto”.
Sia pure con difficoltà, per motivi di salute e altro, ad avere presenti i due definitori e il delegato o discreto della casa di Lendinara, il 1° settembre 1887 si tenne il capitolo provinciale ordinario. Nel corso di questo, P. Domenico Sapori ultimò il suo breve e sofferto biennio come preposito nel settembre 1887 e fu sostituito dal capitolo provinciale, che elesse al suo posto P. Giuseppe Da Col, e la notizia del cambio del governo presenta già la grafia molto tipica di Da Col. Nel diario di Congregazione quindi cambia la scrittura.
P. Domenico nel suo brevissimo mandato aveva stimolato fortemente la redazione della seconda parte delle costituzioni e una parziale riforma della prima. Ma aveva anche sofferto molto: P. Giovanni Chiereghin annota: «Non esitiamo ad affermare che questi due anni furono per lui anni di grandi sofferenze, di agri dolori, all’inizio a causa della sua sincerità ed autentica umiltà, con la quale avrebbe osteggiato qualsiasi carica, e anche per delle circostanze critiche speciali, che potevano scuotere vivamente il suo carattere focoso. Pianse ma accettò per il bene dell’Istituto e se il Signore lo volesse, sarebbe rimasto di più in croce.».
Durante il mandato di P. Sapori, si era fatto, come si è detto sopra, un ultimo tentativo (prezioso, commovente, significativo, ma un tantino ingenuo e soprattutto ostinato e irrealista) in nome della Congregazione e soprattutto dei discepoli e compagni dei fondatori quando questi erano ancora in vita, che si chiamavano spesso gli «anziani», scrivendo per ottenere dalla Santa Sede, presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, il ritorno alla struttura originale. Si chiedeva cioè di ritornare ai voti “locali” e temporanei, senza superiore generale, di abbandonare la forma di congregazione religiosa, e di ritornare alla condizione originaria che oggi si chiamerebbe una società di vita apostolica. La risposta di Roma fu negativa, come era ovvio e come si è visto.
Dopo il capitolo provinciale del 1° settembre 1887, P. Domenico Sapori visse i suoi ultimi anni a Lendinara, come pro-rettore di quella casa dell’Istituto, dal settembre 1887 all’ 8 agosto 1890, giorno in cui fu colpito da un attacco apoplettico e fu trasportato esanime alla casa della comunità dal convento femminile dove era andato a confessare le suore. Restò allora a Lendinara, dove P. Giuseppe Bassi lo sostituirà come pro-rettore; lì continuò a dare il buon esempio alla comunità e al popolo con la sua pazienza, la capacità di sopportare il dolore, la sua rassegnazione e la sua totale abnegazione alla volontà divina. Soffrì un secondo attacco apoplettico il 2 febbraio 1894 e ne morì quattro giorni più tardi, il 6 febbraio 1894, dopo aver lungamente sofferto della paralisi che lo aveva lasciato allettato per ben tre anni e mezzo.
Era stato sepolto naturalmente nel cimitero (vecchio) di Lendinara. Il 18 gennaio 1910 tuttavia P. Vincenzo Rossi, “il preposito, con Don Pietro Rover parroco di Bonisiol[o], presenziarono il trasporto delle ossa dei PP. Domenico Sapori e Narciso Gretter dal luogo ov’erano stati tumulati in Lendinara, al sepolcreto speciale della Congregazione. Purtroppo, come si spiega meglio nella biografia del P. Vincenzo Brizzi, non si sa dove e cosa sia questo “sepolcreto speciale della Congregazione”. Le sue spoglie si devono quindi considerare disperse.
2. L’era di papa Leone XIII
Era l’era di Papa Leone XIII. Il suo pontificato (1878-1903) corrisponde in Europa a un periodo difficile per la chiesa, soprattutto a causa di ciò che si può chiamare «l’apogeo dell’anticlericalismo», sia a livello degli intellettuali, delle università, dei centri di ricerca, della massoneria, e inoltre, in Italia, dello stato, il Regno d’Italia; e ancora spesso a livello popolare, per esempio nelle regioni degli antichi stati della chiesa (Emilia, Romagna, Umbria, Marche, Lazio) e ancora di più a Roma.
L’abilità di Leone XIII, Vincenzo Pecci, che era stato vescovo di Perugia e in seguito cardinale, « si è concretizzata nell’unire alla fermezza della dottrina, sviluppando una teologia politica molto ampia, un grande talento diplomatico che gli permisero di calmare situazioni di conflitto che alimentavano la rivendicazione dei diritti della chiesa». Riesce anche a calmare abbastanza le tensioni dovute alla presa di Roma, con la ritirata del pontefice e dello stesso Leone XIII al Vaticano; e a tutta la questione romana, che sarà tuttavia risolta solo una trentina d’anni più tardi, dato che anche questo papa era intransigente su questo punto. Di nobili origini, era un papa dall’aspetto e dalla postura ieratica e pontificale.
Nelle sue numerose e importanti encicliche di carattere politico e sociale, riafferma da un lato i valori del diritto canonico e la sua distinzione rispetto al diritto naturale e alla presenza dell’autorità divina sull’autorità degli stati, dei re e dei governi, così come insiste sul concetto e sulla pratica del centrismo romano, benché temperato, dato che consultava di frequente i vescovi e il collegio dei cardinali; si oppose al razionalismo e al regalismo che volevano dominare le chiese; si richiama al Sillabo di Pio IX; ma allo stesso tempo apre un dibattito più ampio e riconosce certi valori di libertà, democrazia e progresso scientifico. La più conosciuta delle sue encicliche è di certo la Rerum novarum (1891) in cui discute la situazione sociale e soprattutto quella del mondo del lavoro. Condanna il socialismo ma anche il liberismo assoluto. Questa lettera enciclica pontificia apre il passo ad altre encicliche pubblicate soprattutto nei vari anniversari della Rerum novarum, da parte di vari papi suoi successori sempre più impegnati nella difesa dei lavoratori, dei poveri e della giustizia sociale.
Papa Leone aveva anche dimostrato una notevole apertura di spirito nel campo della critica biblica e storica, lasciando libero accesso ai ricercatori di ogni religione o confessione all’archivio vaticano. Nella sua enciclica Providentissimus Deus del 1893 favoriva lo studio della linguistica delle lingue bibliche e una sana critica del testo, nello stesso tempo in cui ribadiva l’inerranza delle scritture; e nel 1902 istituì la commissione biblica pontificia.
Un tratto caratteristico del mandato pontificio di Leone XIII fu la ricerca del dialogo, di stabilire pacificazione e unità con le chiese orientali, iniziativa preziosa ma che non ebbe molto successo a causa delle resistenze locali sia da parte dei cattolici che degli ortodossi.
Bisognerà studiare quanto impatto ebbe la sua dottrina, il suo messaggio e la sua pratica sulla vita del nostro istituto.
3. Padre Giuseppe Da Col, preposito generale (1887-1900)
Giuseppe Da Col è nato a Venezia il 21 gennaio 1819. Ha vissuto dalla nascita nella casa dei fondatori essendo figlio di uno dei domestici della famiglia dei conti Cavanis, Camillo Da Col (soprannominato Fortunato e chiamato così in tutte le lettere dei fondatori). Suo nonno per parte di padre si chiamava anche lui Giuseppe Da Col, come suo nipote P. Giuseppe, ma veniva chiamato con il diminutivo veneziano Beppetto. Anche P. Giuseppe, del resto, era chiamato, almeno in adolescenza Bepetto.
Giuseppe crebbe avendo come educatrice la madre dei fondatori, la contessa Cristina Pasqualigo Basadonna Cavanis, e più tardi come consigliere spirituale P. Antonio.
Entrò nella «casetta» il 19 maggio 1832, sei giorni dopo P. Marco. Vestì l’abito clericale, cioè la talare, il 23 agosto 1834. Ricevette la tonsura il 23 settembre 1837. Indossò l’abito Cavanis con gli altri religiosi e seminaristi il 15 luglio 1838, il giorno prima dell’erezione canonica dell’istituto. Fu istituito nei tre ultimi ordini minori (lettorato, esorcistato, accolitato) l’8 agosto 1841 e ricevette il suddiaconato il 18 settembre 1841 e il diaconato il 26 marzo 1842. Emise la professione religiosa il 1° febbraio 1843. Fu ordinato prete lo stesso anno, l’11 marzo 1843.
Negli studi teologici di quattro anni si era distinto con la qualifica di “prima classe” in tutte le materie, spesso “con eminenza”.
Fu inviato a Lendinara e restò in questa città fino al 1857, l’anno in cui fu trasferito a Possagno, per essere il primo rettore della nuova casa e comunità e parroco dell’antica parrocchia della Santissima Trinità, di cui il tempio del grande architetto e scultore Antonio Canova è chiesa parrocchiale.
Durante ventitre anni fu parroco di questa parrocchia (il primo Cavanis parroco e prete di parrocchia), in cui lasciò un ottimo ricordo perché era realmente un buon pastore. Essendo parrococontinuò assieme al fratello laico Francesco Luteri la presenza Cavanis a Possagno per molti anni, dopo che ci fu la soppressione dell’istituto, la chiusura della scuola e l’assenza conseguente della comunità Cavanis sensu stricto di Possagno (dal 1869). Durante questo periodo eccezionale, portava la veste talare, la fascia e la mozzetta, proprie del parroco invece dell’abito religioso Cavanis, che non poteva più indossare dopo la soppressione. Durante i suoi anni di attività pastorale come parroco di Possagno, fu particolarmente stimato da monsignor Giuseppe Sarto, il futuro S. Pio X, che era originario di quel territorio.
Nel 1853 e 1858, rispettivamente, Padre Da Col tenne due discorsi funebri molto apprezzati (rispettivamente a Venezia e a Possagno) nell’occasione della morte di ciascuno dei due fondatoriscrisse una testimonianza per servire alla biografia di P. Marco. A questo proposito, nel suo archivio personalesono conservati numerosissimi testi, di sua mano, delle sue omelie e catechesi, tenute sia come parroco di Possagno, sia come preposito generale in occasione di vestizioni, professioni religiose, messe novelle, sia ancora per i capitoli di famiglia quando era preposito e dunque anche rettore a Venezia.
Qualche dettaglio sul periodo del suo mandato:
1887 – Fu eletto preposito generale durante il periodo di difficoltà, anche per la Congregazione, relativa al decreto Post Obitum e alla questione rosminiana. Nel Diario di Congregazione, alla data del 1° settembre 1887 si trova la seguente frase: “Questa mattina, come erasi già stabilito, si tenne il Capitolo per le elezioni generali. A Preposito dell’Istituto riuscì eletto il Padre Giuseppe Da Col. Che il Signore lo benedica, e gli conceda di veder prosperare ogni dì più in nostro povero Istituto!” Dopo questa frase, il diario è compilato sempre nell’inconfondibile scrittura del P. Da Col. Questi fu rieletto preposito per diversi trienni, fino al 1900. Introdusse così la Congregazione nel XX secolo.
Il 16 luglio 1888 fu celebrato il cinquantesimo anniversario solenne dell’istituzione canonica della Congregazione, celebrato nella chiesa di S. Agnese dal cardinal Agostini, patriarca di Venezia.
Era un periodo abbastanza piatto in Congregazione: la casa di Lendinara era morente, si manteneva più che altro per principio, soprattutto perché non si rimanesse con la vergogna di avere soltanto la casa madre; la casa di Venezia aveva un numero insufficiente di religiosi insegnanti, tanto che, per poter provvedere all’insegnamento liceale per due aspiranti, si dovette contrattare un insegnante laico di latino e greco; nell’ultimo decennio e anche negli anni seguenti si avevano normalmente al massimo due o tre aspiranti e postulanti, non di più, e anche i chierici erano scarsissimi. Il verbale della riunione del capitolo definitoriale del 10 agosto 1891, consistente in poche righe, in un fascicolo annuale che contiene solo questo foglietto, esordisce con una frase piena di tristezza: “Purtroppo non c’era da pensare alla Costituzione di famiglie. Preghiamo, e preghiamo di cuore il Signore a benedirci, così che nel 1894, ed anche prima se Gli piace, sia necessario occuparsene”. La Congregazione pareva veramente morente, anche se si stava lavorando ora con maggior vigore al rinnovamento delle costituzioni.
Tabella: i sacerdoti Cavanis nell’agosto 1891
COMUNITÀ DI VENEZIA
COMUNITÀ DI LENDINARA
A Venezia oltre ai padri c’erano probabilmente 2 o 3 fratelli laici, di cui le fonti finora tacciono i nomi, come spesso succede; e sicuramente 2 novizi (probabilmente Augusto Tormene e Francesco Saverio Zanon); a Lendinara c’era il postulante (non professo, candidato alla tonsura; ammalato) Giovanni Maria Spalmach e probabilmente un solo fratello laico.
In totale, c’erano in Congregazione sedici sacerdoti professi, 3 o 4 fratelli professi (in tutto, 19 o 20 professi) e tre seminaristi non ancora professi.
NB: P. Sapori era paralizzato; dopo un anno e due mesi sarebbe morto il P. Rovigo; l’anno seguente 1893, P. Francesco Cilligot avrebbe lasciato la Congregazione, e P. Ghezzo sarebbe impazzito e ricoverato in manicomio.
Nel frattempo, si continuava la corrispondenza con la Congregazione dei Vescovi e Religiosi, con l’appoggio anche del Patriarca, e sempre con la mediazione di don Giuseppe Ghisellini a Roma; quest’ultimo divenuto nel frattempo monsignore. È particolarmente importante la lettera del 17 dicembre 1887, diretta collettivamente dagli anziani dell’Istituto al cardinale prefetto della S. Congregazione.
Proseguiva però in Istituto l’attesa spasmodica del decreto di approvazione delle nuove costituzioni. L’amico monsignor Ghisellini continuava periodicamente e cordialmente a inviare lettere piene di speranza, ma il 29 gennaio 1889 il tono delle lettere cambia: “Lettera d’informazione riguardo all’affare pendente [dell’approvazione delle costituzioni], che, purtroppo non pare sia per essere in breve favorevolmente conchiuso”, come scrive l’amico Ghisellini. “Scrivono da Lendinara i PP. Sapori e Bassi relativamente alla lettera loro comunicata del Ghisellini, che essi giudicano di non insistere con altre istanze, e tirar innanzi senz’altro nello stato in cui siamo; ma insieme dichiarano di uniformarsi pienamente a ciò che qui dagli altri Padri sarà deciso”.
Si pensò per vari giorni a Venezia, come a Lendinara, sulla risposta da dare e su che cosa fare; e poi “Dopo che tutti i Sacerdoti della Famiglia [di Venezia] pensarono in questi giorni sulla risposta da darsi alla lettera n° 5 di D. Ghisellini, ci siamo raccolti questa sera e fatto diverse osservazioni, si convenne di dover rispondere che non si vorrebbe fare appello alla S. Congregazione in forma solenne col mezzo d’un Avvocato, secondo il consiglio dallo stesso M.r Uditore della Sacra Congregazione, e che piuttosto desideriamo di sapere se, dopo che avessimo avuta communicazione uffiziale dell’ultima decisione del Congresso (sic), potessimo noi stessi innalzare un ricorso, affinché l’affare fosse esaminato dalla Congregazione de’ Cardinali la quale sola dà una sentenza finale, alla quale noi fin d’ora ci dichiariamo pronti di rimetterci pienamente. Così scrissi oggi stesso all’amico Ghisellini, aggiungendogli due osservazioni alla sua lettera; la prima, che noi non possiamo essere pareggiati alle Suore del Preziosissimo libere da voti; poiché noi già li abbiamo i nostri voti secondo il Breve apostol. di fondazione, e la spiegazione sulla loro natura data dalle nostre Costituzioni approvate. L’altra osservazione che noi già siamo soggetti ai Vescovi, e questo pure secondo il detto venerato Breve apostolico, e nel senso spiegato dalle medesime Costituzioni, e sempre praticamente inteso dai rispettivi Ordinariati Vescovili”. La questione viene poi più ampiamente esposta nel diario qualche giorno dopo.
Ancora sulla questione: “Riferisce l’amico D. Ghisellini la conferenza che potè finalmete tenere coll’Emo. Card. Prefetto della S. Congregazione de’ V. e R. sui nostri voti. – All’interpretazione data in proposito dal Card. al Breve Pontif.o di approvazione dell’Istituto ci pare di dover soggiungere sommessamente qualche osservazione, e le faremo dopo di aver sentito il parere degli anziani”.
L’opinione degli anziani arriva tra l’altro da Lendinara: “Rispondono i PP. Sapori e Bassi dichiarando amendue di farla finita, e che convenga rimettersi all’interpretazione Superiore riguardo ai voti”. In seguito: “Risponde il Rvd.o D. Ghisellini all’ultima mia – scrive P. Da Col -; ed attende una nuova nostra istanza, ch’egli presenterà al Emo. Card. Prefetto della S.C. per far cessare il “Dilata” sul nostro affare ecc.”. L’istanza viene redatta, firmata dai padri di Venezia, inviata a Lendinara perché fosse firmata anche da quelli, e quindi inviata a Roma al caro Mons. Giuseppe Ghisellini, divenuto in pratica da tempo per semplice amicizia “procuratore generale” dell’Istituto a Roma.
Il 15 agosto 1889 il diario riporta: “L’amico D. Ghisellini accompagna una lettera dell’Emo. Card. Prefetto della S. Congr. de’ V. e R. al nostro Emo. Patriarca riguardante la decisione emessa nell’ultimo Congresso (Congresso dei Cardinali) pel nostro affare, perchè ci sia ufficialmente comunicata”. E il 16 seguente: “Questa mattina diedi alle ven. mani dell’Emo. Patriarca la lettera suindicata dell’Emo. Card. Prefetto, ed oggi stesso me ne fu spedita copia dalla Rma. Curia Patr.e. In detta lettera ci viene dichiarato perentoriamente il da farsi per avere l’approvazione delle nostre Costituzioni”.
Dato che il preposito Da Col e i definitori Casara, Sapori, Giovanni Chiereghin e Bassi erano riuniti in capitolo definitoriale fin dal 14 agosto, il preposito il giorno 19 continuò il capitolo, per sé concluso quella mattina, e “Dietro la lettera comunicata ci dall’Emo. Patriarca si raccolsero i Padri Capitolari qui presenti; si discussero e si votarono i punti da introdurre nel nuovo Schema delle Costituzioni, che si farà di preparare al più presto possibile”.
Detto schema, cioè la nuova versione, fu presentata al patriarca il 17 settembre 1889, e il cancelliere la rimise a Roma il giorno stesso, con una accompagnatoria “commendatizia autografa” del patriarca.
Il 3 aprile 1890 don Ghisellini anticipa ai padri, riservatamente, il voto positivo dato allo schema delle costituzioni dalla S. Congregazione. Ma le cose non erano ancora finite: “Quando il nostro affare delle Regole si riteneva che tra pochi giorni fosse definito, fu chiamato il Ghisellini a fornire stampate, in copie dodici circa il nostro nuovo regolamento manoscritto per distribuirlo ai Consultori – Gli risposi il giorno stesso che ne faccia pur subito stampare le copie occorrenti per detti Consultori che gli saranno da noi, come di dovere, rimborsate le £ 150 occorrenti”. Quanta pazienza era necessaria! E quanta costanza anche da parte di don Ghisellini! Questi ne inviò due copie per conoscenza al preposito il 10 luglio 1890, e si può immaginare l’effetto che avrà fatto vedere le regole stampate, anche se non ancora approvate.
Il caro e benemerito don Ghisellini morì a Roma verso la fine del 1890, ma il processo per l’approvazione delle regole avanzava sia pure con il passo dell’eternità romana e, occorre dire, per altro verso e in scala più modesta, l’eternità veneziana dei Cavanis.
Il 6 agosto 1891 intanto si celebrava a Venezia il capitolo provinciale (4-9 agosto 1891), e P. Giuseppe da Col venne ancora eletto preposito. Nel capitolo tra l’altro si discute, con risultati dilatori, e alla fine negativi, sulla possibilità di accettare l’invito di ritornare ad aprire la casa di Possagno, come si è visto sopra.
Pochi giorni dopo giungeva finalmente il sospirato decreto di approvazione. Infatti, il 14 agosto 1891, alla vigilia dell’Assunzione, sotto Leone XIII, la sacra Congregazione dei vescovi e regolari approvò in via definitiva la 1ª parte (emendata) e la 2ª parte (completamente nuova) delle nostre costituzioni. La prima parte era già stata approvata nel 1836 e pubblicata nel 1837. Ma per una decisione della stessa Congregazione romana si era dovuta aggiungere una modifica importante relativa ai voti perpetui semplici, che sostituivano i cosiddetti voti locali. Seguì la pubblicazione della seconda parte delle costituzioni sulla struttura della direzione dell’Istituto. Le due parti furono ripubblicate e stampate assieme in volume unico, di cui rimangono alcune copie in AICV.
Così narra P. Da Col nel diario: “Questa mattina venne in persona il M. Rdo. D. Antonio Marchiori a portarci il manoscritto delle nostre Costituzioni modificato dalla S. Congregazione di Vescovi e Regolari, e munito del ven.o Pontificio Decreto di approvazione, in data 14 del corr.e vigilia dell’Assunzione della Madonna – Sieno grazie, e benedizioni di tutto il cuore al Signore, alla cara nostra Madre Maria, a tutti i Santi protettori, particolarmente a S. G. Calas.o”.
Si conclude così il lunghissimo processo durato circa 40 anni per la redazione e l’approvazione soprattutto della II parte delle Costituzioni, riguardanti la struttura della Congregazione, il suo governo, i capitoli, la formazione; lavoro che non era stato svolto dai fondatori nel 1835-38, ed era stato iniziato da P. Casara nei primi anni ’50 del XIX secolo.
L’8 dicembre 1891 si ottenne dalla Curia patriarcale la licenza di stampare le nuove regole, a partire dal manoscritto approvato a Roma.
La questione delle costituzioni non era però ancora terminata, perché i padri non sembravano mai soddisfatti della nuova formulazione imposta dalla S. Sede. Troviamo nel diario, in data 7 novembre 1893: “Oggi fu presentata a questa Rma. Curia [patriarcale] l’istanza all’Emo. Card. Prefetto della S. Congregazione dei Vescovi, e dei Regolari, implorando favorevole risposta intorno ad alcuni punti delle nostre Costituzioni, e oggi stesso dal m.o rev.o Cancelliere fu spedita a Roma. Il giorno successivo P. Da Col scrisse a mons. Sarto a Mantova per avere una raccomandazione in proposito presso il Prefetto della Congregazione; il vescovo confermò per lettera di aver inviato la sua raccomandazione.
La risposta della S. Congregazione giunse, tramite la cancelleria patriarcale, il 14 maggio successivo.
Già il 19 agosto si inizia a mettere in pratica il prescritto delle nuove regole, e si approva la professione temporanea triennale “dei tre novizi chierici [Giacomo] Ballarin, [Augusto] Tormene e [Francesco Saverio] Zanon e del laico [Angelo] Furian, stabilita pel giorno il 13 del p.v. novembre, festa di S. Stanislao Kostka, e da farsi privatamente, riservando la pubblicità per la professione perpetua”. La professione si compì “a porte chiuse, coll’intervento soltanto di alcuni più prossimi parenti”; quella dei “chierici” la mattina in chiesa di S. Agnese, quella del laico la sera nell’Oratorio domestico, come di [infausto, NdA] costume.
Nei mesi da giugno a settembre 1892 il preposito e suo consiglio o capitolo definitoriale sono occupati in una fitta corrispondenza, accompagnata da visite, coll’arciprete e con le autorità comunali di Possagno, per una eventuale riapertura del Collegio. Se ne parla, cosa rara di quei tempi, nel verbale del capitolo definitoriale de 1° luglio 1892, prendendo la seguente decisione: “Ove siano ammisibili le condizioni, che venissero proposte, la Congregazione con uno dei suoi sacerdoti fornito di titolo legale aprirà in Possagno il Collegio-convitto dall’ottobre del 93-94, per alunni della Iª classe ginnasiale, ammettendo anche, se si presentassero, giovanetti di classi elementari, i quali dovrebbero concorrere alle scuole del Comune”. Dell’argomento della riapertura della casa di Possagno si parla pure ampiamente nei verbali del 16 e del 24 luglio successivo e del 30 agosto. Quest’ultimo verbale è accompagnato (anzi contiene, essendo un foglio da protocollo doppio) varie bozze di preliminari di contratto con il comune di Possagno.
Nel mese di agosto vari padri visitano quella borgata e prendono accordi concreti, mentre si stanno già effettuando lavori di restauro dell’ambiente. Il ritorno a Possagno dei padri Cavanis accadde, come si sa, in modo anticipato sul previsto il 10 ottobre 1892. Si veda in proposito il capitolo sulla casa di Possagno.
L’11 marzo 1893 P. Da Col festeggia privatamente e il 20 marzo solennemente il 50° anniversario della sua ordinazione presbiterale.
Il 23 giugno 1893 si celebrò una festa straordinariamente solenne per commemorare il terzo centenario della morte preziosa di S. Luigi Gonzaga. Attraverso le offerte degli allievi di Venezia, s’inviò a Castiglione delle Stiviere (la cittadina natale del santo, in provincia di Mantova) un cuore votivo d’argento con i nomi di tutti gli alunni, compresi quelli che frequentavano la scuola di Lendinara.
Il 1893 fu anche un anno di dolori, e possiamo comprendere quanto ne abbia sofferto la comunità leggendo quanto scrive P. Da Col, preposito, il giorno 13 agosto 1893 da Venezia: “Scrivo al P. Rossi a Possagno, incominciando la lettera con le parole dette in seduta definitoriale dal nostro P. Vicario [Casara]: ‘piace al Signore di vederci umiliati e colpiti da gravi tribolazioni’, alludendo alle circostanze nelle quali qui ci troviamo. Il P. Francesco Cilligot partito per non ritornar più, ed il povero P. Ghezzo ridotto a tale per pazzia religiosa da dover esser domani trasportato al manicomio di S. Servolo. Ecc.”.
Una curiosa e interessante notizia si trova nel diario il 5 maggio 1894: “Dal Santuario di Pompei. Il sig.r Avv. Bartolo Longo dichiara ricevuta la mia raccomandazione e di aver fatto quanto ci sta a cuore per implorare dalla Madonna quello che tanto si desidera”.
Per obbedire alle prescrizioni della Congregazione dei vescovi e regolari, tutti i religiosi dell’Istituto (tranne i più giovani, ancora all’inizio della loro vita religiosa e ancora in formazione) il 31 maggio 1894 rinnovarono la loro professione temporanea come professione perpetua.
L’8 agosto 1894 iniziò il secondo capitolo generale ordinario, nel quale, già il primo giorno, fu rieletto preposito generale per un terzo mandato P. Giuseppe Da Col. L’11 seguente la comunità di Venezia elesse lo stesso preposito come suo rettore o superiore locale. La terza elezione di P. Da Col come preposito fu approvata dalla S. Sede, ossia dalla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari il 31 agosto, e la curia patriarcale, in ritardo (marcato da un “!” nel diario), ripassa detto decreto al preposito soltanto in ottobre avanzato.
Il padre Gianmaria Spalmach, già ordinato prete, e i seminaristi Augusto Tormene e Francesco Zanon furono i primi che, una volta finito il triennio di professione temporanea, si unirono all’Istituto con la professione semplice ma perpetua, secondo le nuove costituzioni nella seconda parte, il 15 novembre 1894. Il diario di Congregazione, nelle pagine scritte in quest’anno 1894, ci presenta, come sempre in questi ultimi decenni del XIX secolo, una situazione poco rosea in fatto di giovani impegnati nella formazione iniziale: oltre ai due seminaristi teologi di cui sopra, e un certo chierico Giacomo Ballarin, impegnato purtroppo a lungo nel servizio militare e che poi lascerà la Congregazione senza raggiungere né la professione perpetua né gli ordini sacri, risultano solo tre aspiranti a Possagno e forse qualche novizio a Venezia.
Nel 1895 si presenta al governo della Congregazione il dilemma, veramente difficile da risolvere nella reale estrema ristrettezza di personale dell’Istituto, se mantenere aperta la casa di Lendinara e allora dover lasciare a Possagno da solo, a condurre il Collegio Canova, il relativamente giovane P. Vincenzo Rossi (aveva allora 33 anni), oppure se decidersi a chiudere Lendinara per rinforzare la presenza a Possagno. La casa di Lendinara era cara, soprattutto per essere stata aperta dai fondatori e per l’impegno assunto da questi stessi. Tuttavia, come si sa, l’Istituto si decise per la seconda possibilità o secundum cornu del dilemma. Così è stata registrata la decisione nel verbale del capitolo definitoriale del 29 agosto 1895: “Stando le cose in questi termini, due sole sono le proposte che il Preposito potea presentare al Definitorio:
La scelta non potea essere dubia (sic). Non avrebbero esitato neppure i Fondatori stessi. È vero che promisero all’ignoto benefattore di restare a Lendinara malgrado ogni opposizione: ma qui si tratta non già di cedere a contrarietà di malevoli, ma di ritirarsi sol perché mancano gli individui.
Per ora quindi resterà a Lendinara il solo P. Gretter col fratello laico Pietro Sighel. Il P. Bassi col fratello Clemente andrà a Possagno.
Dolorosa è certamente da una parte questa determinazione; dall’altra però i sottoscritti si confortano colla speranza di aver fatto ciò che dalle circostanze appariva più conforme alla Volontà del Signore.
Vorrà il Signore che ritorniamo a Lendinara? Come ha fatto a Possagno disporrà le cose in modo che ci apparisca chiaro il suo Volere, ed il seguito sarà per noi un dovere, ed un indicibile conforto”.
Numerosi scritti di questi anni dell’allora monsignor Giuseppe Sarto (più tardi, Papa San Pio X) dimostrano che questi aveva una grande stima di P. Da Col, come si può notare nelle sei lettere del santo padre al nostro, conservate nell’archivio personale di P. Da Col, nell’AICV.
Nel 1896, in questo clima di amicizia, il card. Patriarca Giuseppe Sarto ordina due preti dei nostri, Augusto Tormene e Francesco Saverio Zanon, nella chiesa di S. Agnese.
Nello stesso anno, una breve frase nell’unico breve verbale di una riunione di capitolo definitoriale di quest’anno, del 31 agosto 1896, ci informa della situazione delle vocazioni e dei seminari, dopo le recenti ordinazioni presbiterali, che rimane molto debole: “… ci verranno da Possagno tre giovani studenti, forniti della licenza ginnasiale, altri due o tre aspiranti verranno accolti in quella casa per la prima prova. Che il Signore benedica quel vivaio pel nostro Istituto, e dissipi ogni nuvoletta che mai potesse levarsi minacciosa sul suo orizzonte!” Ci sono dunque in quest’anno scolastico 1896-97 soltanto cinque o sei aspiranti, dati come probabili, e, a quanto pare, nessun studente teologo!
La situazione rimane dunque piatta; e ciò è valido anche per quanto riguarda l’attività di governo; in questi anni 1895-98 il definitorio si riunisce soltanto una volta all’anno (e non sempre. Del 1999 non risultano verbali delle riunioni del capitolo definitoriale) praticamente non si formano anno per anno le comunità, ma si lascia tutto com’è, salvo quando una comunità diminuisce di una unità a causa di un decesso. Così commenta in proposito il verbale della riunione del definitorio del 3 settembre 1897: “Il primo motivo per cui dopo il Generale si tiene il capitolo definitoriale, è ad singulas familias Congregationis constituendas. Pur troppo finchè il Signore vuole che siamo tam pusillus grex, è facile questo compito dei Definitori”.
La Congregazione sulla fine del 1894 ebbe il piacere e la gioia di avere a Venezia, nominato arcivescovo e patriarca (15 giugno 1893), Mons. Giuseppe Melchiorre Sarto, vecchio amico dell’Istituto da tutta una vita, come prete e monsignore a Treviso e poi come vescovo di Mantova. Era rimasto sempre in contatto con i padri e li aveva aiutati in molte occasioni, come si è visto qua e là. La sua presa di possesso della cattedra episcopale di Venezia fu molto ritardata; infatti il governo del regno d’Italia rifiutò a lungo il proprio exequatur, cioè il suo consenso, dichiarando che la nomina del patriarca di Venezia spettava al Re d’Italia e suggerendo pure che il vescovo di Mantova era stato scelto come patriarca di Venezia su pressione del governo dell’Impero austro-ungarico. Mons. Sarto dovette quindi aspettare addirittura 18 mesi prima di poter assumere la guida pastorale del patriarcato di Venezia. Nel frattempo, forse anche per motivo polemico, egli ricevette la berretta cardinalizia nel concistoro del 12 giugno 1893.
Il diario della Congregazione ricorda in data 14 settembre 1894 la cordiale risposta ricevuta dal Sarto ai complimenti affettuosi inviatigli per posta dal preposito Da Col in occasione dell’ “exequatur”; la sua presa di possesso “corporale” è registrata, in anticipo di qualche giorno, il 17 novembre 1894; e poi si ricorda lungamente la visita privata resa al patriarca Sarto da parte del preposito Da Col e di altri padri, per le congratulazioni personali il 13 dicembre: “Oggi alcuni di noi si recarono a prestare omaggio speciale al nostro Eminentiss.o Patriarca a nome di tutta la Congregazione, dopo le publiche dovute dimostrazioni di riverenza ed esultanza fattegli, al suo arrivo in Venezia, ed il giorno in cui prese possesso in S. Marco. – Gli abbiamo oggi presentato un bel quadro rappresentante in lavoro a matita assai bene riuscito, e tratto da una fotografia l’Effigie del benedetto P. Tito Fusarini, leggendogli la dedica, nella quale sono ricordate le relazioni dello stesso P. Tito col giovanetto Giuseppe Sarto ora insignito della dignità Cardinalizia, ecc. – Ci accolse, e conversò con noi l’Eminentissimo con singolare bontà; protestò più volte che non potevamo fargli regalo più gradito, e ce ne ringraziò colla maggiore espansione di cuore, impartendoci la Pastorale Benedizione, e prometendo di venire quanto più presto potrà a visitarci”.
Il Patriarca Sarto rimarrà a Venezia fino alla fine di luglio 1903, quando si recò a Roma al conclave che lo avrebbe eletto papa.
Intanto, fece la sua prima visita all’Istituto Cavanis, come promesso, il 17 dicembre 1894: “Oggi nel dopo pranzo venne improvvisamente l’Eminentiss.o Patriarca. Colla sua usata bontà, e famigliarmente come Padre in famiglia, si intrattenne con la nostra Comunità, esprimendo con ciascuno di nostri anziani, e coi giovani chierici e novizj parole di paterno affetto; e, impartita la Pastorale benedizione, ci lasciò ricolmi di gioia, e riconoscenza”.
Nell’ottobre 1895 la situazione degli aspiranti Cavanis migliorata: A Possagno ce ne sono sette: Pancino, [Giovanni] Rizzardo, Calotto, [Giovanni] D’Ambrosi, Valcanover, Echer, Massarotto. Di questi, persevereranno in Istituto soltanto Giovanni Rizzardo e Giovanni D’Ambrosi.
A Lendinara intanto la casa si stava gradualmente chiudendo, e si stavano cedendo gratuitamente mobili e oggetti vari alle comunità religiose locali, come si è detto sopra.
Negli anni 1891-1901 si parla frequentemente di un certo Giacomo Ballarin: come seminarista Cavanis dal 1891 al 1998; come congregato e prete dell’Istituto di Venezia dal 1898 all’anno scolastico 1900-01. Poi non se ne parla ulteriormente. Dopo lunghe vicende del suo lungo servizio militare obbligatorio, e dei suoi studi all’università di Padova, condotti sotto l’autorità militare, e dopo essere rientrato in comunità nel 1896 e aver cambiato l’uniforme militare con l’abito religioso, e dopo aver avuto qualche difficoltà ad ottenere il permesso di essere ammesso alla professione religiosa, emise di fatto la professione religiosa perpetua nell’Istituto a Venezia l’11 ottobre 1896. Fu ordinato suddiacono a Venezia dal patriarca Sarto il 19 dicembre 1896, diacono dallo stesso, pure in S. Agnese il 13 marzo 1897; poi prete dalla stesso patriarca e sempre a S. Agnese il 17 aprile 1897. La sua uscita dalla Congregazione, su sua richiesta, avvenne il 16 luglio 1901, sebbene si trovi nella lista dei religiosi della comunità di Venezia 1901-02. Tutto il carteggio relativo alla sua situazione di ribelle, e poi della sua uscita di Congregazione, che all’epoca costituì un grave scandalo e dette un grande dolore ai confratelli, di trova nel fascicolo 1901, busta Curia 16, dei carteggi della curia generalizia nell’AICV.
Il preposito generale P. Da Col ricevette un’istanza da Imola (oggi comune della città metropolitana di Bologna in Emilia) per una fondazione dell’Istituto, di cui non si fa nulla, dopo sentito in capitolo definitoriale.
Nell’agosto 1897 si celebrò il 3° capitolo generale ordinario a Venezia. P. Da Col scrive così nel diario di Congregazione: “Questa mattina coll’assistenza della Comunità celebrai alle ore 8 in S. Agnese la S. Messa per la Congregazione. Alle 9 si raccolsero nell’Oratorio grande [attuale Aula magna] il Preposito coi PP. Casara, Bassi, Giovanni Chiereghin, Larese, Dalla Venezia, e [Carlo] Simeoni Discreto di questa Famiglia, e si compirono gli atti richiesti dalle Costituzioni, risultando io miserabile eletto a Preposito pel quarto triennio, dipendentemente però dall’approvazione della S. Sede, alla quale per mezzo di questa Rma. Curia Patr.e si spedisce subito il relativo processo verbale”. Il 4 agosto la comunità di Venezia elegge P. Da Col anche come rettore della casa.
Nel 1900 terminava il quarto e ultimo mandato triennale del buon P. Giuseppe Da Col. Aveva scritto personalmente e con costanza il diario della Congregazione. La sua scrittura dalle linee alternativamente fini o molto grosse è inconfondibile. Negli ultimi anni la calligrafia era diventata tremolante data la sua età. Nel capitolo generale del 1900 era stato sostituito nel governo della congregazione dal P. Giovani Chiereghin.
P. Francesco Saverio Zanon scriveva di Giuseppe Da Col: «Uomo dalla vita santissima, austero nella figura, molto dolce pur nell’autorevolezza paterna, conserva la più profonda riverenza e il più tenero affetto verso i fondatori durante tutta la sua vita». Nel suo libro «Padri educatori» lo stesso P. Zanon lo ricorda come suo professore di dogmatica e di diritto canonico, nello studio teologico interno dell’Istituto Cavanis a Venezia, durante gli anni del suo mandato in qualità di preposito generale, ma lo ricorda soprattutto come superiore e vero padre nei suoi primi anni di vita religiosa. Scrive ancora di lui: «Rivedo ancora nell’archivio della Congregazione con affetto riverente i suoi scritti con la grafia tremolante data dalla sua vecchiaia; tra gli altri i libretti dove aveva trascritto le preghiere devote ispirate dalla sua anima pia, candida e mite celata sotto un aspetto austero. E mi sembra di sentire ancora la sua voce paterna durante i sermoni ai ragazzi e nelle esortazioni alla comunità; ciò a dimostrare il lungo apostolato intrapreso sotto la guida dei nostri padri fondatori sempre presenti nella memoria e finché le forze glielo consentirono.»
Negli anni 1900-1902 P. Giovanni Chiereghin nel diario di Congregazione scrive molto frequentemente, e con molto affetto e stima, della salute decadente del venerato padre. Il 17 dicembre 1902 mattina scrive che ricevette l’Estrema unzione e la benedizione pontificia. Si avvicinava la fine.
P. Giuseppe Da Col morì a Venezia il 17 dicembre 1902. La gente di Possagno chiese e ottenne di seppellirlo a Possagno il 21 dicembre 1902, dove riposa nella cappella del clero e dell’Istituto Cavanis, nel cimitero comunale. Nella riunione del definitorio del 13 gennaio 1903 si elesse P. Francesco Bolech a definitore in luogo del P. Da Col.
P. Da Col, quando lasciò il governo della Congregazione nel 1900, all’inizio del nuovo secolo, la lasciò in una situazione di estrema debolezza. Prendendo come esempio l’anno scolastico 1900-01, la comunità di Venezia era piuttosto debole, con dieci religiosi presbiteri, un fratello, quattro seminaristi teologi; la comunità di Possagno, che aveva ricominciato la presenza in quel paese da poco, contava con due religiosi preti, un fratello e un solo aspirante. La comunità di Lendinara era stata recentemente chiusa (1896). In tutto, l’Istituto contava con due case e con ~ 14 religiosi professi perpetui. La debolezza non consisteva solo nel piccolo numero dei religiosi e anche più nel piccolissimo numero – quasi nullo – di seminaristi, ma anche nella povertà di idee nuove e di iniziative. Una situazione abbastanza desolante.
4. L’era del cardinal Sarto, patriarca di Venezia
Giuseppe Melchiorre Sarto nacque il 2 giugno 1835 a Riese (oggi chiamata Riese Pio X), un paesino in provincia di Treviso in Veneto. Seguendo la sua vocazione, e a differenza di molti papi, percorse tutte le fasi della vita pastorale: seminarista a Treviso, poi a Padova, vicario a Salzano (TV), curato a Tombolo (TV), arciprete nello stesso borgo, famoso per le fiere del bestiame, vescovo di Mantova in Lombardia, poi arcivescovo e patriarca di Venezia (15 giugno 1893- 4 agosto 1903), cardinale, e infine Papa (4 agosto 1903-20 agosto 1914), con il nome di Pio, decimo nella serie di papi con questo nome, forse per sottolineare la continuità con Pio IX piuttosto che con Leone XIII. La sua lunga esperienza nel percorso pastorale di base faceva facilmente prevedere quale fosse la caratteristica del suo pontificato: fu principalmente un pastore piuttosto che un diplomatico come lo era stato il suo predecessore. Con dei vantaggi e degli svantaggi come vedremo.
Durante il suo patriarcato a Venezia Giuseppe Sarto fu veramente un pastore molto amato dalla sua gente, soprattutto dai poveri, cui sarà affezionato date le sue modeste origini mai dimenticate. Il grido della gente, soprattutto delle donne, era un grido dal sapore evangelico: «Benedetto lui e sua mamma!», che si sentiva per le calli di Venezia e nel piccolo territorio del margine lagurare (molto più piccolo che al presente, dopo il 1926) della diocesi di S. Marco durante le sue frequenti visite pastorali, formali e informali.
Durante gli anni a Venezia, il patriarca, che già conosceva molto bene e apprezzava l’Istituto Cavanis per la sua attività diocesana a Treviso, e venerava P. Casara, dimostrò un amore particolare per il nostro Istituto e per la nostra comunità di Venezia, che frequentava spesso anche aldilà delle occasioni pastorali formali, talvolta venendo la sera a giocare a carte e a bere un bicchiere con i padri. Stimava particolarmente P. Sebastiano Casara. L’istituto conserva nei suoi archivi storici numerose lettere e documenti di Pio X (patriarca e papa) e delle reliquie pregevoli di questo santo.
Al momento di partire da Venezia per partecipare al conclave, il 26 luglio 1903, salendo sulla gondola che l’avrebbe portato alla stazione ferroviaria, gridò al popolo preoccupato di perdere il suo pastore: «Vivo o morto, ritornerò!». Non era preoccupato ed era sicuro di ritornare: da un lato non credeva proprio di essere eletto e ciò del resto ciò era davvero improbabile; d’altro canto il risultato di questo conclave fu il più imprevedibile del secolo.
Ma non tornò più a Venezia da vivo; e allora il 12 aprile 1959 il Papa Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli), che era stato a sua volta patriarca di Venezia, acconsentì che il suo corpo di santo venerato tornasse a Venezia, aiutandolo in qualche maniera a tener fede alla promessa fatta. La festa fu grande a Venezia e nella Basilica d’oro di S, Marco e non vi parteciparono solo veneziani, ma anche gli abitanti di Riese (chiamato oramai Riese-Pio X), di Salzano, di Tombolo, di Mantova e molta altra gente.
Tra i numerosi fedeli presenti nella basilica cattedrale di S. Marco, con molti padri e fratelli Cavanis delle comunità del Veneto, c’erano anche cinque novizi Cavanis. Ciò era un caso raro a quei tempi perché il noviziato era lontano, a Possagno sul Col Draga, e i novizi non ne uscivano mai. Tuttavia si fece un’eccezione per la visita di Pio X. Tra questi novizi, c’erano P. Diego Spadotto e P. Giuseppe Leonardi, autore di questo libro.
Box: il corredo per entrare nella comunità Cavanis nell’Ottocento
Presentiamo due casi:
Vincenzo Brizzi, Bolognese (Dicembre 1850) | Francesco Bolech, Tirolese | ||
Fazzoletti colorati Camicie Camiccini Calze Gilet Cappello Paltò Calzoni da estate Mutande Maglia Fazzoletto da collo Scarpe | 6 3 2 p[aio]. 1 1 1 1 p. 2 1 1 1 p. 1 | Brache di panno Giacchetta di panno Soprabito Gilè di panno Calze di lana bianche D°[etto] di bombagio Mutande di intima Camicie Fazzoletti in colore D°. bianco D°. da collo di seta Ombrella di bombagio Scarpe paja Cappello Gacchia di lana | paia n°2 1 1 2 1 colorite 1 2 5 2 1 1 1 1 1 1 |
Moneta per provvedimento del letto, ed altro | |||
Napoleoni d’oro 20 A£ 480,– Svanziche 4 4 Centesimi 69 69 Altre Svanziche 4 4 Centesimi 69 69 Totale A£ A£ 289:38 244:10 122: 5 13 A£ 856:18 | Napoleone 1 ½ A£ 36. — Effettive 13, 89 |
Come si vede, erano corredi piuttosto modesti, da povera gente. Impressiona la scarsità di biancheria intima, che nell’interno profondo (campagna o montagna), forse non si usava molto.
In genere si chiedeva alla famiglia il pagamento di una somma iniziale per provvedere al letto e ad altri pochi mobili indispensabili. Pochi potevano provvedere a questa spesa, e spesso si accettavano lo stesso. Si chiedeva poi alla famiglia (o a qualche tutore o protettore o parroco) una “dozzina” mensile modesta, che variava naturalmente con il tempo e con la valuta. Si nota la grande differenza di possibilità economiche nei due casi sopra, nella tabella. Troppe volte, purtroppo, si dovevano rifiutare degli aspiranti per mancanza di spazio (per il letto), per quasi tutto l’Ottocento, almeno fino a quando la comunità visse nella piccola “casetta” e, nei tempi di vacche magre, così frequenti nell’Istituto, anche per mancanza di denaro, della famiglia e/o dell’Istituto.
5. I principali discepoli e compagni dei fondatori
“1Facciamo ora l’elogio di uomini illustri,
dei padri nostri nelle loro generazioni.
2Il Signore li ha resi molto gloriosi:
la sua grandezza è da sempre.”
(Sir 44,1)
P. Francesco Saverio Zanon scrive: «Questa storia [della Congregazione] contiene una tradizione che risale ai fondatori, ma che è continuata grazie anche all’influenza dei nostri maestri che hanno vissuto con i padri e che hanno assorbito fortunatamente il loro spirito e i loro metodi». Ne cita cinque che aveva conosciuto personalmente e che facevano come da ponte tra lui e i fondatori: Sebastiano Casara, Giuseppe Da Col, Giuseppe Bassi, Giuseppe Rovigo, Giovanni Chiereghin.
Parleremo di loro e d’altri che non abbiamo avuto la fortuna di conoscere personalmente, ma che restano per noi, dopo i due venerabili fratelli, dei punti di riferimento evidenti. Di coloro che sono stati prepositi dopo P. Antonio, come i padri Casara, Traiber, Sapori, Da Col, si è parlato sopra. Di P. Giovanni Chiereghin si parlerà all’inizio della serie dei prepositi del XX secolo.
6.1 Diacono don Angelo Battesti
Angelo era nato il 17 gennaio 1807 a Guagno, un villaggio sito in zona montuosa della diocesi di Ajaccio, circa 42 km in linea d’aria a NE di Ajaccio, nella parte settentrionale della Corsica meridionale o meglio Corsica del Sud, attualmente nell’arrondissement di Ajaccio, Cantone di Sevi-Sorru-Cinarca. Oggi (2020) questo villaggio ha solo 159 abitanti, avendone persi parecchi anche negli ultimi anni. Al tempo di Angelo Battesti doveva essere pure un villaggio piccolo e allora abbastanza abbandonato e un po’ primitivo.
Sentendo in sé la vocazione sacerdotale e religiosa, riuscì a portarsi a Venezia, assieme al cugino Giovanni Luca Pinelli, e a ricorrere all’aiuto di un suo zio paterno, don Antonio Battesti che da molti anni vi era domiciliato, come prefetto nel Regio Liceo-Convitto S. Caterina (oggi Liceo Marco Foscarini). Non occorre dire che l’impresa fu difficile, sia per ottenere il passaporto, in età soggetta alla coscrizione militare, sia nel provvedersi del denaro per il lungo viaggio (di 500 miglia, annota P. Marco) e il mantenimento, sia ancora perché l’abate Battesti non conosceva il nipote e non era stato avvisato del suo arrivo; fu lo zio del Pinelli, che conosceva il nipote e conosceva anche l’Istituto Cavanis, a raccomandare il giovane Angelo alle cure dei fratelli Cavanis. Questi all’inizio erano restii ad accogliere e poi a tenere con sé, mantenere ed educare a loro spese un giovane sconosciuto e straniero; ma rimasero commossi e impressionati dalla semplicità e dai sentimenti umani e cristiani del giovane, come pure dal coraggio che aveva dimostrato nell’organizzare e condurre un viaggio del genere.
Entrò dunque Angelo Battesti nella comunità della casetta il 19 ottobre (o forse novembre) 1825, a 18 anni. Debole in italiano, parlando la lingua còrsa (lingua del gruppo italiano, simile al toscano medioevale), ignorava totalmente il latino. Già giovanotto, dovette mettersi in classe con ragazzini. Fu dura per lui, ma ce la mise tutta.
Incerto all’inizio, nella preghiera e nella meditazione si decise per lo stato ecclesiastico. Vestì l’abito clericale nell’Oratorio, pubblicamente, il 27 agosto 1830; non vestì solo la talare, ma si rivestì dell’abito interiore ed esteriore di ecclesiastico e di Cavanis. P. Marco ricorda lungamente alcune sue caratteristiche: l’umiltà, l’obbedienza, la sottomissione, non facile per lui che era di sangue caldo, il tono piacevole che aveva con tutti e soprattutto con i più umili, come gli inservienti e i fanciulli; la vera e soda pietà; il distacco dalla patria e al tempo spesso la passione missionaria che lo portava a impegnarsi perché fossero inviati missionari in quell’isola, a quella gente, come diceva, dotata ancora di feroci costumi; la mansuetudine, la docilità, l’instancabile pazienza; e soprattutto lo zelo dimostrato da subito per l’educazione dei ragazzi e dei bambini. Un vero Cavanis, insomma. Prese lezioni di calligrafia e di aritmetica per diventare abile nell’insegnamento nelle elementari inferiori; e lo avrebbe fatto se non fosse stato assalito da una crudele malattia.
Ottenuta dal vescovo di Ajaccio – da cui ancora dipendeva – la dispensa per gli interstizi, il 2 aprile 1831 ricevette il lettorato (e probabilmente l’ostiariato); l’8 maggio 1831 l’esorcistato e l’accolitato; il 28 maggio 1831 ebbe il suddiaconato; il 24 settembre della stesso anno fu ordinato diacono. L’ordinazione presbiterale era fissata per le Tempora di dicembre. Purtroppo in autunno si manifestò la tisi, prima come una stanchezza, un languore, una tosse frequente; poi una febbre violenta. I medici, che fino a quel punto pensavano che Angelo esagerasse la sua situazione e gli davano speranza, a un certo momento capirono che in realtà era finita. Angelo, quando comprese ciò che l’aspettava, pregò un chierico suo collega che lo assisteva di recitare con lui il Te Deum. Ricevette con devozione gli ultimi sacramenti e poi entrò in un tranquillo sopore e spirò placidamente, il 9 gennaio 1832, mentre la comunità riunita recitava il Proficiscere, anima christiana. La morte di questo giovane molto caro fece una grande impressione nella giovane comunità Cavanis, anche perché era il primo congregato a morire, e in tal giovane età. Tanta speranza di avere in lui un nuovo sacerdote veniva frustrata, e ci si confortava solo nel pensiero di avere un avvocato in cielo.
Aveva portato con sé alcuni libri. Ne ho trovati, con commozione, qualcuno, con il suo surrogato di “ex libris” scritto a mano, nella biblioteca dell’Istituto di Venezia, nel settore C.
6.2 Seminarista Giuseppe Scarella
“Dimorò solo due anni con noi; morì nel fiore dell’età, ardente del desiderio dell’eterna beatitudine, a Vicenza, donde proveniva.”
Era nato appunto a Vicenza (in città o nella provincia) il 10 aprile 1803. Entrò da noi il 19 luglio 1831, morì il il 15 Novembre 1833.
Come per gli altri otto giovani leviti e sacerdoti antichi della Congregazione, defunti prematuramente, aggiungeremo una sintesi di quanto ne dice P. Marco Cavanis, soprattutto in ciò che tocca dati concreti e in alcuni altri documenti, e rimandiamo, per una lettura più completa, alla relazione di P. Marco sulla sua vita e sula sua morte.
P. Marco aveva saputo di Giuseppe Scarella il 16 giugno 1831 e lo avrebbe visto ben presto di persona, a Vicenza. Scrive al fratello Antonio, da questa città: “Finalmente, il P. Stefano Canton ci dirige presentemente un buon giovane il quale ha già passato il corso ginnasiale, ed è provveduto dell’occorrente al suo vitto e di quel che bisogna al suo patrimonio. Egli accompagnato dall’ottimo P. Preposito, probabilmente il superiore locale dei Filippini, si porta domani a Venezia a condurvelo per far prova: voi lo vedrete dunque prima che io arrivi; io debbo vederlo in oggi dopo il pranzo di cui sarò favorito nella casa dei Filippini”.
Nelle “Memorie”, il 19 luglio 1831, P. Marco annota: “In questo giorno entrò nella casa della Congregazione il giovane vicentino Giuseppe Scarella. Senz’aver nessuna notizia di lui uno dei Direttori [P. Marco] recatosi nel dì 14 Giugno prossimo passato a Vicenza, trovò con molta sorpresa ch’era egli determinato a dedicarsi al nostro Istituto, e stava sul punto di trasferirsi a Venezia per conoscere l’Opera davvicino e stabilire definitivamente ogni cosa. Le notizie avute in addietro da P. Stefano Canton Filippino suo Direttore [spirituale?] riguardo al nostro Stabilimento, e quelle che gli furon date posteriormente nella conferenza tenuta col padre dell’Istituto [P. Marco] lo infiammaron di un desiderio ardentissimo di aggregarvisi. Molto più si accese di brama nei pochi giorni in cui si trattenne a Venezia nella nostra comunità, ove tutto gli piacque e si sentì confermar nella vocazione. Partì dalla casa con dispiacere, costretto dalla necessità di dar termine ad alcuni importanti affari, e disporre ogni cosa per entrare tranquillo nell’Istituto. Nella sua breve dimora in Vicenza scrisse due lettere in data 12 e 15 Luglio piene di sentimento, le quali edificarono assai facendo conoscere un cuor tutto pieno di generoso distacco dalle cose tutte del mondo, e di fortezza nel compiere la concepita risoluzione. Benchè si trattasse infatti di abbandonare la patria e i parenti, ed un commodo stato che potea egli godere attesa una non tenua eredità fatta recentemente, ed un onorevole impiego presso di una ricca famiglia che gli era offerto; e benchè inoltre pel suo non ordinario talento e buona coltura potesse promettersi un’aura di grande favore nel secolo; pure in queste sue lettere protestava di essere impaziente di abbandonare ogni cosa, e di essere risoluto, per troncar qualunque indugio, di partir improvvisamente senza prender congedo da chicchessia. Come si espresse di fare così pur fece, e in questo giorno privandosi anche dell’innocente soddisfazione di dare l’ultimo addio ai suoi genitori (li quali già prima si erano mostrati contenti della presa risoluzione) con un eroico distacco dalla carne e dal sangue si portò in volo pieno d’intrepidezza e di giubilo al sospirato ritiro”.
Sulle caratteristiche di Giuseppe Scarella, nella citata biografia-necrologio che ne fa P. Marco Cavanis, si trova anche la notizia che Giuseppe si dedicava alla poesia e componeva poemi. P. Marco scrive infatti che Giuseppe “erasi reso caro alle più colte persone colla onesta condotta, colle gentili maniere e colla leggiadria di poetiche composizioni nelle quali risultava assai applaudito”. Dallo stesso testo si viene a sapere anche che era entrato in Istituto “alquanto adulto in età”: aveva, infatti, 28 anni e qualche mese, al momento del suo ingresso. Aveva frequentato l’Oratorio dei Filippini a Vicenza, ed è proprio questo ambiente che lo incentivò ad entrare nel nostro Istituto, con il quale c’era evidentemente conoscenza e amicizia, anche se non conosciamo da altre fonti il P. Stefano Canton che lo presentò ai fondatori.
I padri dell’Istituto evidentemente apprezzarono e stimarono subito Giuseppe Scarella, perché poco più di un mese dopo l’ingresso, il 27 agosto 1831, egli fu ammesso alla sua vestizione dell’abito ecclesiastico nella festa del patrono dell’Istituto S. Giuseppe Calasanzio. Si sa molto poco di concreto sulla vita che condusse questo giovane confratello nell’anno e mezzo circa che passò in Istituto.
La lunghissima lettera in cui P. Marco traccia la sua biografia e il suo necrologio si dedica a tracciare il suo progresso spirituale con “fioretti” molto dettagliati, ma non ci dà né date né dati. Si apprende tuttavia che aveva due serie di attività: gli studi e l’insegnamento.
Quanto agli studi, dato che all’ingresso in Istituto aveva soltanto gli studi ginnasiali, nonostante l’età avanzata, si deve immaginare che completasse quegli studi con quelli liceali, magari svolti domesticamente, sotto la guida di uno dei padri, in vista di presentarsi come privato agli esami. Non si ha traccia di suoi eventuali studi filosofici né teologici, e non ce ne sarebbe stato il tempo.
Quanto all’insegnamento, P. Marco scrive: “Fu osservato più volte far forza con gran vigore a se stesso e vincere ad ogni costo le ripugnanze della ritrosa natura; quindi malgrado l’assiduo impegno agli studj, sostenea con pace l’incarico d’istruire in certi determinati giorni alcuni fanciulli ad esso affidati;…”. Sembra di capire che si trattasse di ripetizioni o di doposcuola, di cui era incaricato. Si parla anche di altri uffici: sembra che avesse tra l’altro quello di guardarobiere, qualche servizio di camera ai confratelli.
Questa biografia-necrologio scritta da P. Marco a e per i confratelli, anche più che le altre otto, esagera un po’ i toni, scivolando nel genere letterario del puro panegirico, e del panegirico ottocentesco. Questo testo sembra tolto da una delle tante biografie edificanti antiche, sul tipo di quelle di S. Luigi Gonzaga e di S. Giovanni Berchmans, S. Gabriele dell’Addolorata o S. Giuseppe da Copertino. Di questi libri era piena allora, come lo è ancora oggi, la biblioteca dell’Istituto Cavanis di Venezia, e a quel tempo in tutti i noviziati e nelle altre case di formazione e le case religiose in genere. Era su questa letteratura biografica, che si formavano i giovani religiosi, aspirando a picchi di mortificazione, di rinuncia a se stessi e di integralismo spirituale assoluto, anche di una certa rigidità con se e con gli altri, con una certa intolleranza verso chi non volasse in quell’aria alta e rarefatta. Una vita arrovellata, anche tenuto conto dell’epoca; una vita della quale, a volte si ha seriamente una specie di nostalgia.
Uno stile di vita come quella descritta da P. Marco per Giuseppe Scarella, vita santa ma assolutamente insalubre a livello fisico e psicologico, può ben dar Provvidenza è di ottener i fini con i mezzi pur ordinarii, e col concorso delle cause seconde. Finché resteremo qui con questa Casa angusta, bassa, melanconica, giudicata per insalubre, sussisterà un fortissimo ostacolo anche per l’avvenire all’aumento degli operaj. Ricordavo già jeri stesso un nuovo caso di chi, sentendosi inclinato ad unirsi con noi, ne fu distolto per questo motivo, e ne dimise il pensiero. E di questi casi ne conosciamo ben varii, e chi sa quanti ne avvennero, senza che nulla mai ne sapessimo. Non ci esponiamo dunque a pericolo di tentar Dio, pretendendo una grazia, che fino ad ora non piaquegli di accordarci, aspettando una specie di miracolo, di cui non veggo necessità‹.›”conto dell’alto tasso di mortalità giovanile della comunità della “casetta”, come pure dell’alto tasso di desistenze dal seminario sito nella casetta e di rinunce a entrare in Istituto da parte di giovani che ne avevano pur sentito la vocazione. Anche lo stesso P. Marco Cavanis, in una nota apposta a questa biografia, sembra avere dei dubbi sulla bontà del metodo per divenire “santi subito”, poiché egli stesso mette in guardia i giovani confratelli dall’evitare gli eccessi della mortificazione e dell’austerità e soprattutto dal prendere iniziative in questo campo con “indiscreto fervore” senza il permesso del direttore spirituale.
P. Sebastiano Casara, già dal tempo dei primi anni dei suoi mandati di governo, quando era sui 45 anni e conosceva bene le condizioni di vita e la morte di quei suoi giovani confratelli, si lamentava dell’eccessiva austerità, mortificazione e della povertà estrema della vita nella “casetta”. Si veda per esempio il seguente testo: “Non dimentichiamo però che la condotta ordinaria della
Di Giuseppe Scarella sappiamo poi soltanto che dovette lasciare la comunità di Venezia per ricuperare la salute presso amici a Padova e poi in famiglia a Vicenza. Ciò sembra molto strano, dato che normalmente i congregati ammalati, anche aspiranti o postulanti, e tale lo era lo Scarella, erano assistiti in casa della comunità, di giorno e di notte, con molta cura e amore; e sembra anche contrastare del tutto con lo slancio di distacco dalla famiglia, dagli amici e dalla patria mostrato da Giuseppe agli inizi. In ogni caso, P. Marco esprime il dispiacere di aver perso l’ultima fase (alcuni mesi) della vita e della malattia dello Scarella, ma non sembra aver fatto nulla per impedire questa strana partenza e assenza. E il giovane morì lontano dai Cavanis, che ne ebbero solo delle notizie e poi la lettera che ne comunicava la morte e qualche magro cenno su come questa era avvenuta.
Giuseppe Scarella era creduto da P. Marco (in viaggio) essere ancora a Venezia in Istituto il 17 settembre 1833, ammalato ma in fase di apparente miglioramento. Sembra tuttavia che fosse già a Padova il 18 settembre. Il 24 ottobre 1833 P. Antonio scrive al fratello da Montagnana (Padova) in modo abbastanza criptico, raccomandandogli in apertura di non far leggere a nessuno la lettera. Dice: “A Padova mi aspettano i due giovani, ed avranno bisogno di soldi per partire, giacché poi finalmente hanno fatto quanto basta per provvedere alla lor salute, e Scarella probabilmente avrà più bisogno della sua cella che della campagna. Silenzio! Il medico lo dichiara incurabile, e decisivo tra poco tempo”. Ancora P. Antonio, sempre da Montagnana, il 24 ottobre scrive al fratello “Io sono imbarazzatissimo sulla condotta che dee tenersi riguardo allo Scarella e a Giocomelli. Pel primo non ho notizie per lettere da varj giorni, ma Casara mi disse che le cose van male. Del secondo ho avuto jeri l‘occlusa lettera che asai rattrista. Come si fa a riceverli nuovamente, se questi tornano in casa per morire? Notate ancora la qualità della malattia. Esige molti riguardi e porta molta pena, molta tristezza e lungo e faticoso servigio. Sovrasta infine con sicurezza il dolor della perdita, e la grave responsabilità colle rispettive famiglie. Quanto allo Scarella non ho scritto niente, perchè non ho avuto lettera; …”.
Nelle “Memorie”, il 19 novembre 1833, P. Marco scrive: “Pervenne in oggi una lettera del p. Stefano Canton Filippino in Vicenza col triste annunzio della morte colà seguita nel giorno 15 corrente dell’ottimo nostro giovane Giuseppe Scarella. Dopo un lungo corso di tempo dacché avea mostrato un’inferma salute, e dopo la villeggiatura fatta in Padova per procurarne il miglioramento, passò a Vincenza sua patria, ed ivi chiuse in pace i suoi giorni. Tale morì qual visse fra noi tutto distaccato da se medesimo, e pieno della più soda e fervorosa pietà, munito dei SS. Sacramenti, e rassegnatissimo alla divine disposizioni. La di lui perdita è riuscita a tutti dolorosissima, e col maggior sentimento tutti si unirono a prestar a quell’anima benedetta li consueti religiosi suffragj, con assai lieta speranza che sia per essere nostro grande avvocato nel Cielo”.
Giuseppe Scarella, uscito dall’Istituto Cavanis, era stato ospite per un mese o due dell’ “ottimo sacerdote D. Luigi Maran” di Padova.
Uscendo dal genere letterario agiografico e, secondo me, un po’ apocalittico di questa biografia-necrologio, si trovano in seguito alcune annotazioni nelle Memorie meno entusiaste e più concrete, di tutt’altro genere letterario: 1) l’annotazione di ricevuta di una lettera del fratello di Giuseppe Scarella, Davide, che chiede una lista dei mobili del fratello, in modo di poter mandare a ritirarli; 2) l’annotazione di spedizione di una lettera del 26 novembre allo stesso, da parte di P. Marco: “Lettera nostra che rimette a Davidde Scarella la nota desiderata, e lo prega insieme d’interessarsi per far avere all’Istituto il pagamento di un grosso credito sulla convenuta dozzina”; 3) “Lettera di Davide Scarella che dirige un uomo di barca per ricuperare i mobili del suo fratello Giuseppe ed assicura che sarà preso in considerazione il credito dell’Istituto”. 4) Lettera del Sig.r Angelo Marchioretto che assicura non esservi alcun debito sulla dozzina del controscritto Scarella; 5) lettera [di p. Marco (sembra) al fratello di Giuseppe Scarella del 2 dicembre 1833] che rimette l’elenco di mobili consegnati al padron di barca Nardo, promette spedirne alcuni altri quando siano raccolti e si riserva a pareggiare i conti colla famiglia quando si abbia riconosciuta con esattezza ogni partita”; 6) “Fu recata questo giorno da un vicentino una lettera in data 29 novembre decorso del Sig.r Angelo Marchioretto il quale ricerca più precisi dettagli sul credito che si professa dall’Istituto riguardo alla dozzina del suo alunno defonto Giuseppe Scarella, non trovando egli che apparisca alcun debito”; e sarebbe lungo continuare a riferire della lite abbastanza squallida con la famiglia Scarella e il suo rappresentante Marchioretto.
Ancora qualche parola sul metodo di formazione e di vita spirituale proposto ai giovani Cavanis, e a tutti gli altri seminaristi, quasi con certezza, nell’Ottocento, nella prima metà del novecento e fino almeno al Concilio Vaticano II:
“Se non ché, pur questa speranza viveva in me dicendo: Che sai? Forsi te potresti mutar di core, maior miracoli di questi se hanno visti. Pur, vedendo el mio cor indurato, non steva senza molestia.
Poi el Sabato Sancto andato a riconciliarme a San Sebastiano, parlai un bon pezo con un padre religioso pieno di santità, il qual infra i vari ragionamenti, quasi se avesse saputo la mia molestia, me cominciò a ragionar che la via da la salute era più ampia di quel che molti se persuadeno. Et qui, non me conoscendo altrimente, me disse molte parole.
Partito io de lì cominciai fra me medesimo pensar qual fosse quella felicità et qual fosse la condition nostra. Et compresi veramente che se io fessi tute le penitentie possibile et molto più anchora, non serìa bastante ad una gran zonta, non dico meritar quella felicità, ma satisfar a le colpe passate.
Il che avendo visto quella infinita bontà, quel amor che sempre infinitamente arde et tanto ne ama nui vermicelli, quanto lo intellecto nostro non puol capir, avendo solum per la sua bontà et non per altro fati nui di niente et alzati a tanta alteza che potemo esser participi di quella felicità, di la qual lui è in sì sempre felice, et vedendo, oltra l’original peccato, tanti altri nostri peccati, a li quali se non fusse satisfacto con penitentia et dolore, non era conveniente a quella summa iustitia di admetterne a quella suprema Hierusalem, volse, constrecto quasi da quella ferventissime charità, mandar el suo Unigenito, el qual per la sua passion satisfacesse per tutti collori, i quali el vorranno per capo et vorranno esser membri di quel corpo dil qual Cristo è capo. Et benché tutti non possi haver tanta gratia di esser membri propinqui al capo, pur tuti coloro che saranno connexi a questo corpo per influxo di tal virtù de la satisfation che ha fato el capo nostro, potrà con pocca fatiga sperar di satisfar i suo’ peccati. Solum fatigar se dovemo in unirse con questo nostro capo con fede con speranza et con quel poccho di amor che potemo. Ché quanto a la satisfaction di i peccati fati et in i quali la fragilità humana casca, la passion sua è stà sufficiente et più che bastante”.
6.3 Seminarista Bartolomeo Giacomelli
Bartolomeo (o Bartolommeo, come lo chiama P. Marco) era nato ad Altivole in provincia e diocesi di Treviso, il 10 aprile 1809. Si era dedicato alla pittura, e anzi si era spostato a Venezia per frequentarvi l’Accademia delle Belle Arti, nella quale aveva già raggiunto “il plauso e i premj”. Non ci si poteva aspettare probabilmente una vocazione religiosa di là; e difatti P. Marco fa notare questa improbabilità. Ma ciò che sembra impossibile agli uomini, è possibile a Dio. Aveva conosciuto l’Istituto Cavanis da un suo collega, tale Rizieri Calcinardi e in breve cominciò lui stesso a frequentare l’oratorio e l’orto e ad amare l’Istituto. Sentì chiaramente, dopo pochi mesi la chiamata ad entrare nell’Istituto e dovette superare non pochi ostacoli, soprattutto quello di dover abbandonare una carriera promettente. Si espresse con l’amico Calcinardi dicendo tra l’altro, come motivo fondamentale: “Io voglio salvare l’anima mia”.
Entrò nella comunità della “casetta” il 14 febbraio 1829, a circa 20 anni, vestì l’abito clericale il 25 agosto dello stesso anno, nella festa di S. Giuseppe Calasanzio, “giorno in cui si sogliono fare le vestizioni dei nostri alunni”; ricevette la tonsura dal Patriarca Jacopo Monico l’8 dicembre 1830, in occasione della prima visita pastorale all’oratorio Cavanis; qui si fermò il suo cammino nei vari gradi previsti per la sua vita ecclesiastica, per via della sua malferma salute e perché il percorso degli studi liceali e poi filosofici e teologici sarebbe stato molto lungo. P. Marco si dilunga a ricordare le sue virtù: l’umiltà, la povertà, l’obbedienza, la carità, lo spirito di servizio, di mortificazione, di rassegnazione davanti alla malattia e alla morte prematura. Gli venne affidato dai fondatori l’incarico di assistente del prefetto dei convittori, ragazzi che in quei primi tempi la comunità Cavanis riceveva in casa; poi l’incarico di assistente del sacerdote responsabile della camerata dei seminaristi Cavanis; era inoltre sagrestano e incaricato dell’assistenza dei ragazzi che si preparavano alla confessione.
Una sua particolare caratteristica che P. Marco sottolinea, era il suo grande amore per il nascente Istituto: “I suoi pensieri, le sue parole e le continue sue occupazioni sempre davano contrassegni di questo amore. Se vegliava la notte, ideava fabbriche e chiese per l’Istituto; se viaggiava facea conoscere che avealo fermo nella sua mente, dicendo tratto tratto ai compagni: qui starebbe assai bene una casa dell’Istituto. Questi pensieri affettuosi esprimevali nelle lettere che scrivea amorosissime ai Superiori e ai fratelli nel tempo in cui per consiglio dei medici era costretto fermarsi a respirare l’aria nativa nella paterna sua casa. Questi apparivano dall’industria colla quale si affaticava nell’immaginare progetti atti a promuovere una miglior disciplina nelle scuole e negli Oratorj, e nel produrre disegni di edifizj, d’immagini e di ornamenti di altari, impiegando con ogni studio i talenti e i precetti dell’arte nei quali era molto perito. Corrispondenti ai pensieri erano l’espressioni del labbro dalle quali pur traspariva il medesimo sentimento, or col parlare dell’Istituto con ogni stima ed affetto, or coll’opporsi animoso a coloro che n’erano male impressi, or col ripetere l’ardente brama che nutriva nel cuore del suo maggiore incremento; e quando coll’infiammare altri giovani nel far gran conto dei primi semi che vedea svilupparsi in essi di vocazione a tal ministero, e quando col prendere tanta lena nel confortare un novello alunno fin dal letto medesimo della morte, ch’egli stesso intenerito protesta sembrargli di aver udito la voce stessa di un angelo. E siccome era vivo e sincero lo spirito che lo facea parlare in tal guisa, così seppe reggere e darne prova coll’opere faticose. Quindi, come si è detto, non vi fu uffizio difficile e laborioso ch’egli non assumesse e non esercitasse con fervida alacrità; e più volte al ricorrere le principali solennità si occupò a fare poetiche composizioni, le quali a lui da poco dedicato agli studj costavano una non lieve fatica”. Tra l’altro manteneva i contatti coi suoi ex-compagni dell’Accademia delle Belle Arti cercando di indirizzarli a frequentare l’ambiente Cavanis.
Sembra fosse anche un po’ esagerato nel suo zelo, secondo racconta P. Marco: “Seppe egli ancora nel palazzo di un nobile della cui pietà poteva affidarsi, toglier lo scandalo di alcune pitture indecenti che ivi correvano inosservate, tutte stracciandole senz’aspettar nemmeno di consultarne il padrone”.
La malattia, che era tisi polmonare, si aggravò e lo portò a soffrire moltissimo, sia per la malattia in sé, che lo consumava, sia per i rimedi del tempo, i cauteri particolarmente, come accenna P. Marco. Soffriva con pazienza, senza lamentarsi, senza farlo pesare agli altri. Nulla poté la medicina ottocentesca, e il giovane Bartolomeo morì circondato dai confratelli e confortato dalla preghiera e dai sacramenti il 3 febbraio 1834.
La biografia di questo caro seminarista fu la prima in ordine di tempo scritta e inviata (10 marzo 1834) ai confratelli da P. Marco, anche se altri giovani membri dell’Istituto erano morti in precedenza. Il fondatore junior infatti scrisse questa, e in seguito continuò nell’impresa, rirendendo in mano e sviluppando biografie-necrologio dei giovani morti precedentemente. Anche questo è significativo per dire del grande affetto che il giovane “Bortolo” aveva suscitato in P. Marco e nella comunità.
6.4 Chierico Francesco Minozzi
Si tratta di uno dei nove giovani religiosi Cavanis morti in giovane età, per i quali P. Marco scrisse quelle dolcissime lettere di elogio funebre e di consolazione ai confratelli, che hanno il tono a volte dolciastro del panegirico, a volte troppo sentimentali, ma che fanno riflettere molto.
Francesco Minozzi nacque il 4 novembre 1814 a Piove di Sacco (provincia e diocesi di Padova). Entrò a far parte dell’Istituto, entrando nella casetta il 3 novembre 1825; come narra P. Marco nel suo lungo elogio funebre. Ne era entrato “che riusciva caro a principio pelle sue doti non ordinarie dell’ingegno e del cuore, porgeva però motivo di giusto rincrescimento l’osservare il suo spirito dissipato e tutto rivolto ad ambiziosi progetti di far comparsa nel mondo”.
“Uno zelante Diacono”, senza dubbio il diacono Matteo Voltolini, l’unico diacono che ci fosse in casa, e anche il primo diacono in assoluto dell’Istituto Cavanis, come narra P. Marco, lo chiamò a sé, lo fece riflettere, lo fece rivolgersi al Signore nel silenzio e nella meditazione, e riuscì, in modo quasi prodigioso, a trasformare, con la grazia di Dio, l’animo e il cuore del giovinetto, che da quel giorno si convertì. Varie difficoltà lo fecero soffrire, e assieme a lui ai superiori: il padre del ragazzo non voleva dare il suo consenso alla vocazione del giovane, dato che anche il fratello maggiore, Angelo, era entrato nell’Istituto, e inoltre non pareva possibile al padre mantenere anche lui negli studi e nella vita seminaristica; il vescovo di Padova poi, da cui il giovane dipendeva, non voleva dare inizialmente il suo assenso, dato anche che a quel tempo il seminario di Padova era quasi vuoto, per mancanza di giovani che volessero e fossero chiamati a diventare sacerdoti. Furono due anni di lotte, interne ed esterne, come nota P. Marco. Gli si permise, dopo molte insistenze, via via, di vestire la talare, di ricevere i primi ordini minori; ma sempre con l’obbligo di ritornare poi a casa e in diocesi. E Francesco rimaneva fermo di voler entrare nell’istituto Cavanis, non accettava di rientrare in diocesi, a costo di riununciare, cosa che gli risultava molto grave, alla vestizione (“le sospirate divise del Santuario”), alla tonsura e agli ordini.
Giunse finalmente il 4 gennaio 1831, quando il vescovo di Padova, per intercessione del Patriarca Jacopo Monico di Venezia, cedette e gli permise di rimanere a Venezia e in Istituto, e di dargli quindi le dimissorie.
Ricevette allora l’abito ecclesiastico (sei anni dopo l’entrata nella casetta), il 27 agosto 1831. Ebbe la tonsura il 22 settembre 1832 e i primi due ordini minori dell’ostiariato e lettorato nelle tempora di autunno il 21 settembre 1833. P. Marco nota che non era solo l’abito che aveva vestito, ma anche lo spirito proprio dell’istituto Cavanis; ne descrive infatti la sua attività di apprendista educatore e insegnante nelle scuole con parole commoventi, e come sempre, in questi elogi funebri di P. Marco, con parole di tipo in qualche modo agiografico.
Francesco si impegnava a fondo, nonostante “la fragile complessione e la sempre più inferma salute gli dovessero rendere più laborioso il travaglio”. E qui si annuncia già il dramma non lontano dal compiersi; mentre si continua a descrivere le sue virtù e la sua pietà straordinario.
Francesco è segnalato nella comunità di Venezia fino al marzo 1834, e particolarmente si trova menzionato nella lista dei religiosi Cavanis, come seminarista, del 1830. Il 3 marzo 1834 partì da Venezia, accompagnato da P. Marco Cavanis, assieme al P. Matteo Voltolini, il chierico Angelo Miani e tre aspiranti, per formare la prima comunità di Lendinara, di cui si può ben considerare uno dei fondatori. Si può immaginare il suo entusiasmo per essere stato scelto per questa nuova impresa della Congregazione.
In realtà, lo si mandava a Lendinara soprattutto perché la sua salute stava peggiorando, e si sperava che l’aria della campagna, non molto lontano dalla sua propria patria che era nella bassa padovana, potesse giovargli. Effettivamente, come racconta P. Marco nel documento citato, la sua salute fisica migliorò; ma in modo del tutto imprevisto, la sua vocazione soffrì di una nuova crisi: comunicò infatti ai superiori – stupefatti – che aveva l’intenzione di uscire dall’istituto e di recarsi a Padova per continuare gli studi teologici, allegando motivi di salute – anche se stava molto meglio – e poi altri pretesti.
I superiori decisero, dopo essersi impegnati a lungo a farlo ragionare e a ritornare alle sue aspirazioni iniziali, di lasciarlo libero, e lo fecero ricondurre a Padova il 27 settembre 1834. Al tempo stesso, P. Marco (non dice di essere stato lui, ma non c’è ne è dubbio) si sentì ispirato, in una notte insonne, di recarsi a Padova per incontrarsi con il P. Matteo Voltolini, e ritornare con lui a Venezia, probabilmente per confortarlo. E invece, contro le previsioni, a Padova si trovò anche con Francesco Minozzi che, visto il Padre, volle fermarsi con lui e parlargli. P. Marco “ebbe la inaspettata consolazione di vederlo docile alle sue voci e di sentirlo esprimere il desiderio di esser condotto a Venezia per sottomettersi alla obbedienza e dipendere dai suoi cenni. Così egli fece, e con esito sì consolante che sol bastarono pochi giorni a rasserenarlo del tutto ed a ricomporgli l’animo sì fortemente turbato, in modo di protestarsi tranquillo nella intrapresa carriera, e ben persuaso esser tale la sua vocazione”.
A questo punto P. Marco scrive la seguente riflessione: “Or ci conviene dichiarar il motivo per cui si è da noi narrato un avvenimento che ad altri sembrar potrebbe dover passarsi sotto silenzio, onde non offuscar lo splendore di tante belle virtù che resero sì edificante la vita del carissimo giovanetto defonto. Premessa pertanto la riflessione giustissima che l’ingenuo candore con cui si narra il giovanile trascorso viene ad accreditar maggiormente ciò che si dice in sua lode, avvertite, o fratelli, che principalmente ci siamo indotti a ciò fare, per trarne un troppo importante ed utile ammaestramento. Questo è l’attendere d’ora innanzi ancor più a temer di noi stessi, a non fidarsi del concepito fervore, a viver umili e sempre grandemente solleciti di raccomandarci con vivo affetto al Signore. Qui se existimat stare, videat ne cadat (I Cor, 10, 12)”.
E P. Marco continua, con un insegnamento ancora molto valido oggi per tutti: “Chi sembrava più fermo nella sua vocazione di questo giovane, il quale tante prove di sua costanza diede fin dal principio, e continuò per lungo tempo a manifestare un tenerissimo attaccamento verso del Pio Istituto? Pure l’abbiam veduto scuotersi d’improvviso e vacillare così che già stava per porre il piede fuori del sacro asilo. Se poi consideriamo in qual modo l’incauto figlio restò preso nel laccio della tentazione nemica, la quale ormai stava per prevalere sopra di lui, ne sorge da questa considerazione, o fratelli, un altro importantissimo documento. Egli colpito dal turbine della interiore procella non avvertì di ricorrere ai proprj Padri cui la Provvidenza divina lo avea affidato e dai quali principalmente dovea aspettarsi il lume e la direzione opportuna, ma contentandosi di consigliare con altri tenne sempre chiuso il suo cuore al superiore che tenea in Lendinara; ed al Padre commune e fondatore dell’Istituto in Venezia [il P. Anton’Angelo, N.d.A.], che ogni dimostrazione gli avea pur dato di aver un animo prudente, disinteressato, amoroso, si restrinse a communicare per lettera la risoluzione già presa, senza prima curarsi d’interpellarne il parere. Ed ecco che Dio permise ch’ei cadesse in inganno; e ben ei diede apertamente a conoscere che avea la mente offuscata ed illusa, adducendo or una or un’altra causa dell’improvviso suo cangiamento, e poi confessando più volte dopo d’essere rientrato in se stesso, che avea preso un abbaglio troppo per lui decisivo, e rendendo grazie fin colle lacrime alla divina Bontà, che impedito aveva il gran passo”.
Per concludere brevemente, il buon giovane ritornò “all’ovile” e visse con gioia in comunità, dando ottimo esempio a tutti. P. Marco rimarca che questa nuova fase fu purtroppo breve, anche se edificante, perché l’11 agosto 1835 Francesco si ammalò di nuovo e questa volta si mise a letto e, dopo breve malattia finale di soltanto quattro giorni, la morte lo colse il 14 agosto 1835, alla vigilia della solennità dell’Assunzione di Maria. P. Marco arriva a paragonarlo, per lo straordinario aspetto della sua vita e delle sue virtù, manifestate particolarmente nell’ultima malattia e nella morte, a quelle di giovani santi, che entravano nel normale patrimonio di vite esemplari proposte fino ai miei tempi ai novizi e ai giovani seminaristi in genere, ma che egli non usa negli elogi funebri di altri giovani religiosi Cavanis: non forse “si arrivò a trovare impossibile di darne idea conveniente, e nel vivo senso di tenerezza che cagionò una tal morte ebbesi a dire che ricordava sul letto delle sue estreme agonie il bel morire dei Berchmans, dei Kostka, dei Gonzaga?”
6.5 Fratel Francesco Dall’Agnola
Di lui, il Necrologio di congregazione dice soltanto: “8 ottobre 1836. Francesco Dall’Agnola, di Grigno, diocesi di Trento, fu iscritto nel numero dei Fratelli laici. Avendo compiuto in modo esemplare i doveri religiosi, compì il corso della sua vita nel bacio del Signore a Venezia.” Il necrologio è molto secco e non dice di lui quasi niente. Eppure doveva essere amato in congregazione, se P. Marco comincia la sua lettera di annuncio della morte con la frase: L’amarissima perdita che abbiamo fatto recentemente nell’ottimo giovane Francesco Dall’Agnola addetto al servigio della Casa dell’Istituto, mentre ci ricolmò di tristezza, ci lasciò ancor confortati colla più lieta e ferma speranza che abbia egli chiuso i suoi giorni felicemente colla morte del giusto, attesa la esemplarissima vita da lui condotta, di cui ne daremo a voi qualche saggio, onde farvi partecipare del dolce nostro conforto, mentre dobbiamo col triste annunzio rendervi a parte del vivo nostro dolore”.
Francesco Dall’Agnola, chiamato Checo, era trentino, nato il 7 ottobre 1801 a Grigno di Valsugana, a quel tempo in Tirolo, sotto l’Impero austriaco, oggi in Provincia e Arcidiocesi di Trento, in Valsugana, vicino al confine con il Veneto. La data di nascita ci mostra che era uno dei più antichi tra i Cavanis. Lo troviamo a Venezia, come aspirante. postulante e novizio fratello almeno dal 1832 al 1837. Di lui sappiamo pochissimo, a parte quello che racconta P. Marco Cavanis in una delle sue lettere biografiche necrologiche che annunciano e valorizzano la vita e la morte di religiosi giovani.
Secondo racconta P. Marco, la sua famiglia era molto povera, ma molto religiosa; e il bambino Francesco era nato con una grande passione per la preghiera, sicché era difficile staccarlo e fargliela interrompere. Fin da ragazzino era stato preso a lavoro, come domestico a Grigno, da una famiglia molto religiosa e buona, che lo aveva mantenuto in un ambiente di fede, e inoltre la padrona aveva insegnato al servitorello a leggere e a scrivere, cosa rara a quei tempi. Francesco poteva quindi seguire la messa con i messalini che la stessa signora gli forniva.
Sembra sia entrato in Istituto ancora piuttosto giovanetto, ma non abbiamo la data della sua entrata. Non ce la dà neppure P. Marco. Tuttavia, egli osserva che fu quasi una fortuna più grande per l’Istituto di aver trovato il giovane, che per il giovane di aver trovato l’Istituto. Ne esalta l’intensità, la continuità, il fervore della sua preghiera, che faceva durante il lavoro e con maggiore concentrazione quando trovava un intervallo in cui dedicarsi espressamente alla preghiera. Così pure Francesco era desideroso di imparare tutto ciò che veniva dalla parola di Dio e dalle istruzioni catechistiche che si offrivano ai fratelli: “Assai gustava di parlare e di discorrere delle cose di Dio e udirsi leggere buoni libri di religioso argomento”.
E tuttavia, sapeva che non era un monaco dedito soltanto alla preghiera e compiva bene tutti i suoi uffizi: e qui P. Marco ricorda esattamente, con una lista, quali erano i suoi uffici: “spenditore, cuoco, ortolano e infermiero”. In quest’ultimo compito, era molto esperto e soprattutto totalmente dedito, senza paura del pericolo: “Colpito del vajuolo un giovane convittore, e sparsasi la costernazione nella intera Comunità, egli accorse prontissimo con ammirabile alacrità e, trasportatolo in parte rimota dell’abitato, con lui si chiuse volonteroso e giulivo a prestargli dì e notte la necessaria assistenza per lungo corso di tempo (…) lo esponesse a quel notabile crollo di salute che realmente ne risentì”.
Non fu questo l’unico caso, ma la sua carità lo spingeva ad assistere anche gli ammalati più contagiosi di altre malattie, come prosegue riferendo il fondatore nella sua lettera. Era davvero un eroe! “La carità di Francesco a tutti volle prestare assiduo l’ajuto finché li vide spirare nelle sue braccia…”.
Aveva insomma “un cuor (…) sì maschio di soda e maschia virtù…”. Un giorno tra l’altro, vedendo un “artiere” cadere nel canale della Giudecca, sebbene non sapesse nuotare e il bordo fosse scivoloso, come è tuttora, si stese per dargli la mano e recuperarlo. In un altro caso riuscì ingegnosamente a svegliare senza farlo cadere un muratore che, stanco, si era addormentato su una pericolosa impalcatura di fronte all’Istituto, con pericolo di vita per se stesso”. “Anima grande!”.
P. Marco ricorda come tante fatiche e tanti rischi, e malattie trasmessegli da altri indebolirono la sua complessione robusta. E qui verrebbe da chiedersi perché mai la comunità lo abbia sottomesso a tanto lavoro e a tanti rischi o perché, nonostante il suo eroismo, non gli avesse imposto dei limiti; d’altra parte il Signore Gesù che toccava i lebbrosi e san Francesco che li abbracciava, e san Luigi Gonzaga che trasportava sulle spalle gli appestati (e ne morì), e tanti altri esempi anche recenti, in Africa per esempio, ci indicano appunto il cammino della santità che non ha limiti.
Spirò nel Signore l’8 ottobre 1836, a 35 anni. La comunità lo pianse e lo ammirò. Non ne sapevamo più niente, ma possiamo ricordarlo tra i grandi e i santi della nostra congregazione.
6.6 Seminarista Antonio Spessa
“Di Altivole, diocesi di Treviso, per il grandissimo desiderio che lo infiammava, iscritto giuridicamente tra i nostri quasi moribondo, “divenuto perfetto in breve, compì le opere di una lunga vita”. Così il necrologio ufficiale.
Antonio Spessa nasce il 6 settembre 1817 ad Altivole, nel distretto di Asolo, in provincia di Treviso, da una famiglia piuttosto povera. Nel 22 dicembre 1831 entra come aspirante nelle Scuole di Carità di Venezia, dove compie il percorso di studi fino al ginnasio. Il 27 agosto 1834, nella solennità di S. Giuseppe Calasanzio, veste l’abito ecclesiastico, cioè la talare, e tra il 1837 e il 1838, a 20 anni, si trova a Lendinara per svolgere il periodo di noviziato e, al tempo stesso, se si ascolta la lettera/necrologio di P. Marco, anche il corso di filosofia a partire appunto dal novembre 1837.
P. Marco (con P. Antonio che firma) descrive le virtù angeliche di questo giovane consacrato al Signore, alla Chiesa e all’educazione della gioventù; come pure le capacità che aveva di incantare i bambini e i giovani nella catechesi e nelle esortazioni, le poche volte che ebbe occasione di parlare loro. Ma tante belle speranze dovevano andare perse. “Una lenta tisi sì fortemente lo colse, che vana riuscì ogni cura, inutile ogni rimedio per espugnarla, e si vide costretto a bere, come suol dirsi, a sorsi a sorsi la morte”. I mesi di sofferenza e di pazienza e di coraggio – e anche di profonda tristezza della comunità e dei due venerabili fratelli, è descritta in modo commosso e molto realistico da P. Marco nella lettera suddetta. Moribondo, fu in qualche modo consolato da P. Marco, che oltre a dargli i sacramenti, gli comunicò che finalmente la chiesa di S. Agnese era stata ricevuta dalla Congregazione, avendo vinto la resistenza del francese Sig. Charmet (vedi sopra).
Il 21 settembre 1839, P. Antonio gli permise di emettere i voti sul letto di morte, perché era ancora novizio e “lo aggregò nel numero dei Fratelli. Ebbe l’infermo la grazia di sentirsi lena bastante per recitare la lunga Professione di Fede, e la formula della Espressione dei Voti, e tutto fece con pace, e con assai tenera divozione; e commozione assai viva dei circostanti.”. Due mesi dopo circa morì di tisi, il 18 novembre 1839, alle ore 19 pomeridiane, a soli ventidue anni. Antonio fu il primo dei congregati a morire, giovanissimo, dopo l’erezione canonica dell’Istituto.
6.7 P. Angelo Minozzi
Il necrologio di Congregazione lo ricorda così: “Di Piove di Sacco, diocesi di Padova, sacerdote professo, angelo di nome e di costumi, a ventott’anni, il 21 febbraio 1840 passò da questa vita nel bacio del Signore, a Padova, presso i Figli di S. Giovanni di Dio, dove era stato mandato per convalescenza”. Ne parla, molto più lungamente, e soprattutto con più cuore, P. Marco nella sua lettera di comunicazione ai confratelli di Lendinara – e a noi -, lettera da cui prenderemo molti dati sul giovane prete Cavanis
Era nato effettivamente a Piove di Sacco, nel 1812 (manca una data più accurata). La famiglia si era trasferita a Venezia, e il piccolo Angelo aveva frequentato le scuole nell’Istituto. Vi si era fortemente legato, di anima e cuore, ed era entrato nella comunità della Casetta, come aspirante, il 14 luglio 1825 a circa 17 anni. La comunità Cavanis lo educò, lo preparò alla vita ecclesiastica, gli formò – con quanta spesa e difficoltà – un patrimonio ecclesiastico, ed egli poté vestire la talare ed entrare nel clero il 27 agosto 1827. P. Marco, nella sua lettera annota che se grande era stato l’impegno e anche la spesa da parte dell’Istituto, “fu assai maggiore il conforto che ne ritrasse per l’ottimo riuscimento del caro alunno”.
Si sa che fu ordinato diacono il 25 marzo 1837, nelle tempora di primavera, e che era già stato ordinato prete (nel 1837 o meno probabilmente nella prima metà del 1838) all’epoca dell’erezione canonica della congregazione. In quella occasione, il 15 luglio 1838 egli vestì l’abito della congregazione, tra i primi, e vi fu “ancora formalmente aggregato colla espressione dei sacri Voti nel giorn 15 luglio”. Lo si trova iscritto nella comunità di Venezia quando si compilò la lista dei membri della comunità Cavanis del dicembre 1838. Si dice, in quest’ultima, che era “Incaricato di vari servizi”, il che vuol dire, nell’uso abituale di questo tipo di documenti, che non era insegnante “ordinario” nelle scuole dell’Istituto. Si occupava soprattutto alla catechesi e all’istruzione dei bambini e ragazzi più poveri, miserabili e sfrenati, che per qualche motivo non si riusciva ad introdurre nella scuola regolare. Con pazienza infinita riusciva ad attirarli a qualche incontro, istruzione, momento di preghiera e a far loro un po’ di bene. Lo fece per 15 mesi consecutivi. Dava istruzione anche a persone “rozze ed adulte”.
Nella sua lettera P. Marco ne parla come di un giovane santo, descrivendone le virtù, la devozione, la preghiera, l’amore per la liturgia, lo spirito di servizio, l’umiltà, la castità, l’obbedienza, il desiderio di raccoglimento e di meditazione. Citando S. Girolamo in una sua lettera in lode dell’ecclesiastico Nepoziano, dice di questo giovane levita Angelo, che era perfetto in ogni virtù, come se si fosse applicato solo a ciascuna di quelle: “In ogni virtù risplendea in tal guisa, come se in quella soltanto si esercitasse”. Era in qualche modo, continua P. Marco, specialista di trattare santamente le cose sante.
È segnalato nella comunità di Venezia fino al marzo 1834, e particolarmente si trova menzionato nelle liste dei religiosi Cavanis, come seminarista, del 1830 e come prete in quella dei sacerdoti Cavanis a Venezia, del 1838. Si ha notizia di un suo passaggio per Lendinara (dalla lettera di P. Marco), senza che si possa fissarne le date. In quella città, scrive P. Marco, si trovò a soffrire di nostalgia della comunità di Venezia, che aveva una vita più di carattere conventuale e dove era più facile la preghiera e il raccoglimento. Era però senz’altro a Venezia nel 1838 e fino all’anno successivo 1839, quando fu necessario verso la metà dell’anno inviarlo fuori Venezia perché, come i medici costumavano dire all’epoca, l’aria di Venezia era esiziale per chi fosse malato di tisi, e questa pare fosse la sua malattia, sebbere non se ne parli. Fu inviato allora a Padova, all’ospedale del Padri di San Giovanni di Dio. Questi scrivevano a volte ai padri a Venezia, lodando la sua pazienza e sottomissione alla volontà di Dio, ma anche la sua difficoltà a rimanere separato dalla sua comunità religiosa. Del resto, scrive P. Marco, il P. Pietro Delaj, membro dell’Istituto Cavanis, lo assisteva lì a Padova con grande carità. Come è proprio del genere letterario di queste lettere di P. Marco, egli si dilunga a descrivere le pene provocate in parte dalla malattie, ma più ancora – si ha l’impressione – dai metodi della medicina e della chirurgia dell’epoca, tra salassi e raschiamenti e perforazioni e rimedi amarissimi e quant’altro.
P. Angelo Minozzi morì come si è detto a Padova il 22 febbraio 1840. Aveva scritto ai suoi padri e in particolare a P. Marco: “stia tranquillo che io sono in tutto rassegnato alla volontà del Signore, e che per quanto senta ardente la brama di volarmene al loro seno, sono poi anche disposto a starmene sulla mia croce”.
6.8 Chierico Giovanni Giovannini
Giovanni Battista Giovannini era nato nell’aprile 1810 sull’altipiano di Piné, senza che si precisi il paese esatto (ci sono difatti vari paesi in questo altipiano), in Diocesi di Trento. Uno dei primi Cavanis passando da quello parti, come ricorda P. Marco, gli aveva parlato dell’Istituto ed egli, anche se in qualche modo tardivamente, aveva fatto richiesta di entrare nelle Scuole di Carità a 22 anni, ed entrò di fatto il 13 novembre 1832. Tuttavia aveva chiesto di entrarvi per “meglio proseguire i suoi studj, e non per animo di dedicarsi alla pia Istituzione”.
“Entrò egli dunque nella nostra casa (…) privo di vocazione, mancante affatto dei mezzi di sussistenza e senz’aver nemmeno il vantaggio che porta la prima età giovanile a piegarsi senza molta fatica alla disciplina. Pure col progresso del tempo spiegò assai fervorosa la vocazione, videsi provveduto con inaspettate risorse, e fu così esatto nella osservanza, ch’era di fervido eccitamento ai compagni.” Gradualmente infatti sentì la chiamata a dedicarsi alla vita consacrata e al servizio della gioventù nelle Scuole di Carità, ne fu accolto, e anzi la Congregazione si assunse il carico delle spese della sua sussistenza, dei suoi studi e financo della costituzione del suo patrimonio ecclesiastico.
Fu l’imperatrice e regina Maria Anna Carolina Pia, evidentemente su richiesta di P. Marco, a inviargli la generosa offerta di Austriache Lire seimila a questo fine, il 7 maggio 1838.
Nel frattempo Giovanni fin dal 27 agosto 1833 aveva vestito l’abito clericale, aveva poi ricevuto la tonsura e i quattro ordini minori il 17 dicembre 1836 e si preparava per il suddiaconato.
Aveva un carattere molto forte, che avrebbe potuto indurlo a resistere alla disciplina domestica e all’obbedienza, e al tempo stesso, purtroppo, era debole di salute, e ciò avrebbe potuto indurlo a sottrarsi al lavoro, agli orari, agli impegni comunitari e pastorali. Reagì tuttavia a queste difficoltà della sua personalità e fu conosciuto per l’esemplarità della sua vita e del suo comportamento. P. Marco, nella lettera commemorativa, ne tesse le lodi e ne fa praticamente il panegirico, nello stile appunto dell’elogio funebre ottocentesco. La lettura di quel testo, inquadrata nello spirito e nello stile dell’epoca, è sommamente edificante.
“Ecco quale ottimo alunno si preparasse alla nuova Congregazione, di cui tra i primi vestì le sacre divise nel giorno 15 luglio 1838, che ne precedette la pubblica istituzione. Tutto faceva in lui presagire la più consolante riuscita”.
Tra l’altro, scrive P. Marco, “fu egli instancabile nel percorrere diligentemente ogni classe e di Lettere e di Scienze, quantunque molto pesante riuscisse alla sua debole complessione e troppo inferma salute il corso delle filosofiche e delle teologiche discipline, non essendo permesso di farne domestica scuola, ma dovendo i nostri studenti recarsi giornalmente alle Cattedre del Patriarcal Seminario (…) pel corso di quattro anni non interrotti, due dei quali impiegò nello studio della Filosofia e due in quello della Teologia”.
Si noti che, probabilmente durante il secondo anno di filosofia o il primo di teologia, il chierico Giovanni Giovannini scrisse a P. Marco e al P. Casara che si trovavano a Milano, per dare notizie e chiede al Padre di procurargli a Milano un’opera del Rosmini. Dopo aver parlato del possibile acquisto di un’opera di omiletica in vari volumi, scrive così: “E la Filosofia del Rosmini, le potrebbe venir donata da alcuno? Se ciò avvenisse, la prenda, ch’è buona.” La lettera è del 27 maggio 1838, e fu scritta – senza probabilmente che il Giovannini lo sapesse – nove giorni prima dell’incontro di P. Marco col Rosmini. Questo breve testo ci fa sentire nel Giovannini un amore per i libri e per lo studio, e forse anche una propensione per la linea rosminiana di filosofia e teologia. È possibile del resto che Giovannini avesse visto o intravisto personalmente l’abate Rosmini, quando questi aveva visitato l’Istituto Cavanis di Venezia il 29 novembre 1832, ben pochi giorni dopo l’arrivo a Venezia del giovane candidato studente – avvenuto il 13 novembre 1832, come si è detto sopra –, e che ne fosse rimasto positivamente impressionato.
Il Giovannini si sottomise anche all’esame di abilitazione per ricevere “la Patente di Maestro anche solo delle classi grammaticali” e poter quindi servire nel ministero proprio dell’Istituto quanto meglio gli fosse stato possibile.
Di lui troviamo varie lettere o postille a lettere altrui al P. Marco in viaggio, nel 5° volume dell’epistolario.
Gli studi e la situazione in cui a quel tempo la casa era organizzata, data anche la sua debole costituzione fisica, lo ridussero in cattive condizioni di salute e le penose cure mediche non ottennero grande risultato. Fu inviato dai superiori a Lendinara, probabilmente dopo il 10 novembre 1839, perché si sperava che l’aria di campagna gli desse sollievo tuttavia il suo stato di salute peggiorò molto fino a far prevedere che fosse prossimo alla morte. In queste condizioni, il nostro “fece giunger [ai superiori] la istanza di poter esprimere i sacri Voti e di esser costà formalmente aggregato alla sua diletta Congregazione, disponendo però il Signore che avesse sibbene il merito ma non la consolazione del mistico sacrifizio, prevenendosi dalla morte la favorevol risposta che si era pure con gran prontezza inviata”.
Nella grave malattia e fino alla morte, sopravvenuta il 13 gennaio 1841 a Lendinara, aveva dato segno di una edificante pazienza e sottomissione alla divina volontà; aveva pregato il Signore e soprattutto Maria SS.ma con pie giaculatorie, aveva dimostrato una grande commozione nel baciare il crocifisso e aveva chiesto lui stesso di ricevere gli ultimi sacramenti e poi che gli fossero lette le preghiere per i moribondi. Per ricevere il Viatico aveva voluto scendere dal letto e mettersi in ginocchio, sebbene fosse morente
P. Marco scrive: “tanto più grave cordoglio ne ha risentito il cuor nostro quanto eran più liete le speranze ormai concepite sopra di lui, e quanto n’era più prossimo l’adempimento. Ma poiché così è piaciuto al Signore, a noi conviene adorare le sue supreme disposizioni, umiliarci sotto alla mano divina che ci percuote, e studiarci di profittar degli esempj di ben soda pietà che ci diede il caro defonto.”.
Giovanni Giovannini, che P. Marco spesso chiamava affettuosamente Giannini, aveva lasciato un semente nella sua famiglia: lui era mancato alla Congregazione con la sua morte prematura, a soli 30 anni e 9 mesi; ma entrerà più tardi in Congregazione un suo pronipote, Basilio Martinelli, più tardi Venerabile, che era nipote, per via materna, di una sorella di Giovanni Giovannini.
6.9 Fratel Domenico Ducati
È passato in silenzio e umiltà questo nostro giovane fratello, presto scomparso e poco conosciuto nella nostra Congregazione, anche se tutti gli anni preghiamo per lui nel giorno del suo anniversario. Il necrologio di Congregazione dice di lui: “Nostro laico professo, distinto per l’obbedienza e per l’amore alla Vergine e alla perfezione religiosa, morì piamente a Venezia il 31 ottobre 1843, all’età di venti otto anni”.
È l’ultimo dei nove confratelli morti giovani di cui P. Marco stese, ogni volta con commozione, una lunga biografia, o necrologio, quasi un panegirico, una “Memoria” come diceva lui stesso, scritto come al solito da P. Marco con stile leggermente agiografico. La sua biografia la troviamo nel VI volume dell’Epistolario alle pagine 301-305.
Era nato a Trento (comunque in Trentino) il 20 giugno 1815, l’anno del Congresso di Vienna, ed era entrato in Istituto come aspirante fratello laico il 14 settembre 1838, pochi mesi dopo l’erezione canonica dell’Istituto, a 23 anni. Passò in Congregazione solo cinque anni. Vestì l’abito dell’Istituto il 22 dicembre 1838 e cominciò il noviziato, poco più di tre mesi dopo il suo ingresso, il che dice che aveva fatto fin dall’inizio un’ottima impressione. Emise la professione religiosa il 27 settembre 1843, quando era già gravemente ammalato e in pericolo di vita.
Data la sua gracile complessione e la sua salute malferma, non poteva svolgere lavori gravosi. Attendeva alla portineria, assisteva i congregati infermi, passava allora il tempo di queste lunghe veglie notturne nella preghiera davanti al crocifisso, rivolgendo la preghiera soprattutto per i bambini e giovani delle scuole; preparava immagini da distribuire loro, rilegava e riparava libri di devozione e di preghiere, assisteva gli scolari negli oratori e nelle ricreazioni e, nella spirito della “sopraveglieanza Cavanis”, ne osservava con amore il temperamento e il comportamento e ne parlava con i loro maestri, aiutandoli così nel loro compito.
Era così devoto della Madonna, che non solo la pregava personalmente, ma insisteva con coraggio e determinazione, a volte in forma ingenua e insistente, che ne parlassero di più nei loro sermoni; e cospargeva la casa di immagini di lei.
Era ammalato di tisi polmonare. P. Marco dice che nella sua ultima malattia si preoccupava più per il disturbo che dava ai confratelli che lo assistevano che per la sua propria situazione. Spirò dolcemente, senza quasi che si potesse accorgersi del momento della sua morte, che avvenne a Venezia, il dopo pranzo del 31 ottobre del 1843, alle 3 e mezza. Non ci è dato di conoscere in quale delle due case che l’Istituto aveva allora, Venezia e Lendinara, sia vissuto. È probabile che abbia passato a Venezia gli anni della sua formazione. P. Marco però accenna al fatto che aveva un direttore spirituale di Lendinara, quindi questo dato rimane per ora incerto. Con certezza è morto a Venezia.
Vale la pena di leggere la sua biografia scritta da P. Marco, per propria edificazione.
6.10 Fratel Filippo Sartori
Di questo umile e silenzioso fratello sappiamo pochissimo. Filippo era di Pergine, diocesi di Trento, entrò in Istituto come postulante il 22 aprile 1842. Vestì l’abito dei Cavanis il 12 aprile 1844
Doveva essere gracile e di salute instabile. P. Marco, da Venezia, nel novembre 1843 dà disposizioni a P. Giuseppe Rovigo che si trovava in villeggiatura con altri e tra gli altri Fra Filippo, in “questo deserto”, cioè molto probabilmente a Tarù di Mestre, sul prossimo ritorno del primo gruppo di villeggianti Cavanis. E aggiunge “Considerando poi che Filippo si trova forse in bisogno di maggiore riposo, vuol che vi aggiunga che quando l’aria e la ricreazione gli giovi, lo lascia stare a piè fermo [cioè in villeggiatura a Tarù] e trattenersi in campagna col nuovo drappello che occuperà il vostro posto”.
Lo troviamo dunque a Venezia, dalla sua entrata all’autunno del 1847; poi a Lendinara, impegnato soprattutto nella cucina, come cuoco per i padri e per i convittori, dal 1847 al 1852. Qui Filippo era rimasto da solo a custodire la casa, quando i Fondatori “chiamarono per consultazioni” e poi trattennero a Venezia i due padri Tita Traiber e Giuseppe Marchiori, durante il principale litigio con il sig. Francesco Marchiori, e fu incaricato di fornire i documenti necessari per la lite affidata all’avvocato Giovanni Ferro. Ciò vuol dire tra l’altro che fra Filippo era alfabetizzato e che conosceva bene il piccolo archivio domestico. I due padri, a nome di P. Marco o sotto sua dettatura, scrivono all’avvocato: “Qualora poi abbisognasse, Pregiatissimo Sig.re, di cognizioni relative a tale vertenza, il Sig.r Avvocato [Sante] Ganassini, cui sono ben note le cose nostre, potrà soddisfar pienamente alle necessarie di lei ricerche; ed il converso di codesta Casa Fr. Filippo Sartori potrà somministrarle le carte che fossero all’uopo occorrenti”. Per via della stessa pratica, andata a buon fine, si viene a sapere che fra Filippo aveva già in mano le chiavi del detto granaio che erano rimaste come copia (forse abusiva) in mano del Marchiori.
All’inizio del 1852 il fratello Filippo Sartori risulta gravemente ammalato a Lendinara e viene sostituito dal fratel Luigi Armanini “robusto e laborioso”, come si legge in una lettera del P. Marco al P. Traiber rettore di quella casa, del 17.2.1852. Si trasferì allora fra Filippo alla casa di Venezia, l’unica altra casa Cavanis a quell’epoca, e vi sarebbe rimasto probabilmente fino alla guarigione, e poi sarebbe ritornato a Lendinara. Ma non abbiamo altro registro di questo fatto. Il necrologio di Congregazione dice però che morì piamente il 3 marzo 1857 nella casa della Congregazione a Lendinara.
6.11 Fra Giovanni Avi
“Di Pergine, diocesi di Trento, fratello laico professo, amante del lavoro e caro a tutti per la giovialità, morì piamente a Possagno nella casa della Congregazione” l’8 gennaio 1863”. Questo soltanto sappiamo di questo pio e caro fratello, dal laconico ma affettuoso testo del necrologio di Congregazione. Dei 20 anni che passò in Congregazione come fratello laico, possiamo ricavare solo qualche dato in più.
Giovanni era nato il 17 luglio 1821, ed era entrato in Congregazione a Venezia, il 2 febbraio 1843; avendo senza dubbio conosciuto l’Istituto Cavanis da qualche suo compaesano già membro dello stesso, oppure da qualche perginese in contatto con l’istituto. Non si esclude che il nome di Pergine sia generico, e che il fratello fosse del vicino altipiano di Piné, dove il cognome Avi è comune. Aveva ricevuto l’abito dei Cavanis il 4 dicembre 1844.
I dati seguenti provengono dalle varie tabelle e da altri testi di questo libro.
Lo troviamo a Venezia con sicurezza dal 1847 al 1859; ma con certezza c’era rimasto anche nei primi anni di vita in Congregazione per la sua formazione compiuta a Venezia; e inoltre parte da Venezia per Possagno, come diremo, nel novembre 1860; d’altra parte non risulta mai nelle tabelle della comunità di Lendinara. Sembra dunque probabile che abbia vissuto a Venezia, occupato in servizi vari di casa, come dice una tabella del 12 novembre 1856, dalla sua entrata in Istituto nel 1843 fino al novembre 1860; visse poi certamente a Possagno dalla fine del 1860 fino alla morte, nel dicembre 1863.
A Venezia fu, con il chierico Giovanni Fanton, “bidello” o “ostiario”, come si diceva allora, all’esterno delle porte dell’aula capitolare durante il 2° capitolo ordinario provinciale, del 1858. Era stimato allora, come persona di fiducia.
Era stato a Possagno, probabilmente per un periodo di vacanza, assieme al P. Giuseppe Rovigo, già nel settembre 1858, subito dopo del capitolo citato sopra, approfittando del viaggio del P. Rovigo; e nel viaggio di andata il 20 settembre 1858 fu coinvolto nel pericoloso incidente di cui scrive P. Da Col nel diario di Possagno: “tra Cornuda (comune in provincia di Treviso) a Unigo (Onigo, frazione del comune di Pederobba in provincia di Treviso) per essersi distaccata una ruota della carrozza, cadendo nell’atto stesso a terra quegli che guidava il cavallo, che per un buon tratto corse spaventato precipitosamente finché un movimento di loro che entro la carrozza invocavano Gesù Giuseppe e Maria fece piegare la carrozza stessa, nel qual punto, rottisi i fornimenti (finimenti) del cavallo, n’andò a sua posta, ed essi restarono fermi sulla via perfettamente, grazie all’amorosissima divina Provvidenza, illesi”. Questo viaggio deve essere certamente rimasto impresso nella sua memoria!
Andò poi a Possagno assieme a P. Casara, che portava con sé anche due novizi, che andavano a compiervi il noviziato, nel primo anno in cui questo si compiva a Possagno; tra i due novizi, tutti e due orfani veneziani, c’erano quel sant’uomo di fra Giacometto Barbaro, e un altro, un tale Augusto Ferrari che poi non continuò la formazione e uscì. P. Casara aveva portato con sé fratel Giovanni Avi per tagliare e cucire sul posto le vesti, cioè l’abito religioso per la vestizione dei due nuovi novizi. Ciò significa che una delle sue competenze professionali c’era anche quella di sarto. Rimase poi in quella casa.
Della sua ulteriore presenza a Possagno non abbiamo altri dati, salvo il fatto che, dopo breve malattia, come dice il necrologio, vi morì piamente, l’8 gennaio 1863 e il suo nome consta nella lapide con i nomi dei religiosi Cavanis nel cimitero di Possagno. Sembra tuttavia difficile pensare che il suo corpo giaccia nella cappella, perché fu soltanto ben più tardi, nel 1921, che “si erano comprati otto loculi nel sacello per gli ecclesiastici nel cimitero stesso di Possagno, e si propose e approvò che vi fossero deposte, accanto alla salma del P. Santacattarina, quelle “dei nostri Padri: [Domenico] Piva, Da Col, Bassi, Fanton (che ora stanno nella cella) e quella del giovanetto aspirante Carlo Trevisan”. Non si parla dunque qua di fratel Giovanni Avi.
6.12 Fra Pietro Rossi
Di questo nostro confratello estremamente caro, il necrologio della Congregazione scrive soltanto questo: “2 agosto 1870 – Pietro Rossi – Di Venezia, ammesso tra i nostri dal mille ottocento venti due, consunto da malattie incontrò placida morte a Lendinara, nella casa della Congregazione. R.I.P.”.
Pietro Rossi era dunque veneziano, nato il 25 ottobre 1797, era figlio di Felice Rossi, ed era stato ammesso ventiquattrenne in Congregazione, che era ancora di livello diocesano, due anni dopo la costituzione della comunità nella “casetta”, il 1° agosto 1822. Questa data probabilmente corrisponde solo alla sua ammissione nella casetta come aspirante. È ancora presente in comunità nel 1823, iscritto tra i fratelli nell’“Elenco degl’Individui aspiranti alla nuova Eccl.ca Congregazione delle Scuole di Carità”, con la seguente dicitura: “Pietro Rossi del fu Felice, veneto, Laico servente, di anni 26”.
Vestì l’abito Cavanis, circa sedici anni dopo la sua entrata nella comunità, lo stesso giorno degli altri religiosi della casa di Venezia, il 15 luglio 1838 in occasione della erezione canonica che si effettuerà il giorno dopo, al pomeriggio con gli altri fratelli laici, in forma privata, in occasione della erezione canonica che si effettuerà il giorno dopo, il 16 luglio, festa della Madonna del Carmine. Non conosciamo ancora la data della sua professione religiosa, ma è probabile che questa sia avvenuta nel 1841 o poco dopo.
Sappiamo che ordinariamente il suo servizio in comunità era quello di cuoco, ed è chiamato “Pietro cuoco”, anche se non evitava altri servizi; un’altra lettera, questa del P. Casara a P. Antonio, rivolge saluti a “Pietro con tutti gli altri di cucina”; ed era un buon cuoco, ambito dalle comunità a preferenza di altri.
Lo troviamo senza dubbio a Venezia, che era allora l’unica casa della Congregazione, dal 1822 ai primi mesi del 1834; andò a Lendinara pochi giorni dopo il 26 febbraio 1834 con il confratello laico più giovane Giovanni Dall’Agnola, prima che ci arrivassero i padri o meglio il P. Matteo Voltolini con due chierici e tre aspiranti il 3 marzo successivo, per accompagnare il trasloco dei mobili e altri oggetti e materiali che dovevano servire per l’apertura di quella casa. I due portavano con sé una lettera di presentazione di P. Marco per il sig. Francesco Marchiori, il presunto agente del “benefattore occulto” di Lendinara. La lettera iniziava così, facendo riferimento al fratel Pietro Rossi come “agente” principale: “Il latore della presente, Pietro Rossi, col suo compagno Giovanni Dall’Agnola … incaricati di accompagnare i mobili da collocarsi nella nuova casa di Lendinara ecc.” Vi rimase senza interruzione fino al 1838 o 1839, quando passò a Venezia, dove rimase almeno fino al 1848 ma probabilmente fino al 1855. Nel novembre 1839 risulta essere però a Lendinara, forse in vacanza o convalescenza. Analogamente nel 1840. Come succede troppo spesso, nelle liste delle comunità, e “naturalmente” nelle firme dei verbali dei capitoli, mancano i nomi dei fratelli laici.
Nel 1855-56 passa a Lendinara ed è segnalato in questa casa nel 1863 e poi dal 1866 fino alla morte. Mancano dati sulla sua localizzazione negli anni non citati sopra. Pare che non sia mai appartenuto alla comunità della casa di Possagno, fondata nel 1857.
P. Marco, P. Antonio e a volte i giovani confratelli non mancano di salutare Pietro nominalmente, tra gli altri, alla fine delle loro lettere. In quelle più antiche è chiamato da P. Marco, forse scherzosamente, il “famulo Pietro”; dopo la vestizione, nel 1838, passa ad essere Fra o Fr. Pietro; spesso soltanto Pietro, se non si dovesse per chiarezza chiamarlo anche con il cognome. Nelle liste ufficiali è classificato come Laico inserviente. Curiosa la frase di P. Antonio Cavanis a P. Giovanni Paoli del 15 novembre 1924: “Saluti distinti dati con un bacio ai figli [= gli aspiranti, i giovani] della “casetta” compreso Pietro e il piavolo.”
Altre numerose lettere aggiungono dati sul suo stato di salute, spesso abbastanza cagionevole, ma che non gli impedì di svolgere i suoi compiti: “Pietro cuoco è stato egli pur ammalato da forte reuma, e ora sembra rimettersi finalmente. È sorto dal letto non solo, ma dalla camera ancora.” Padre Antonio scrive a P. Marco, il 13 ottobre 1837: “P.S. A Pietro mando un particolare saluto e gli raccomando pazienza e coraggio e piena tranquillità nel suo male per bene suo e per conforto di chi lo assiste con tutta la carità.” Nella lettera di P. Antonio a P. Marco, dell’11 giugno 1838, Pietro risulta ancora ammalato. Il chierico Alessandro Scarella scrive a P. Antonio: “La prego di .. congratularsi per me … col caro Fra Pietro per la ricuperata salute.” Ancora, nel 1845, P. Marco scrive a Casara: “ congratulandomi del miglioramento di … Fr. Pietro.” P. Marco scrive a P. Spernich, il 22 dicembre 1945: “Abbiamo sentito ancora con molta consolazione che il nostro caro fratel Pietro prende vigore.” Purtroppo definitivamente non era così: “ Fra Pietro ch’è sibbene guarito, ma che tuttora si sente debole, e non potrà mai sperarsi vigoroso e robusto.” P. Marco chiede allora che ritorni a Venezia. Sembra però che ci siano stati dei miglioramenti in seguito, perché dopo questa data non si sente più parlare della salute o della malattia del fratello, che vivrà ancora circa 25 anni. Il necrologio della Congregazione tuttavia come si è visto sopra, dice che: “consunto da malattie incontrò placida morte.”
Troviamo il nostro fratel Pietro anche in villeggiatura a Tarù, modesto villaggio perilagunare attualmente inglobato nella città di Mestre, assieme ai confratelli più giovani; e in vacanza a Lendinara. Qui P. Marco si dirige al “Triunvirato dei Villeggianti in Lendinara” e scrive: “Caro Pietro e […] vi saluto di cuore.”
Lo troviamo anche in viaggio con P. Marco, con grande gioia, a Padova, poi da Lendinara, in seguito a Villafranca – per esaminare la possibilità di una fondazione nuova –, poi a Verona, e infine a Venezia. Il 19 giugno 1840, P. Marco scrive a P. Antonio da Verona: “…soddisfo ai doveri di Fr. Pietro, che si è ricreato assai dopo la tribolazione dei giorni scorsi al vedersi la bella Verona.”
Dopo questo viaggio, fatto assieme a P. Marco Cavanis, fra Pietro scrive una letterina al P. Anton’Angelo, con qualche sbaglio di ortografia e qualche difetto di sintassi, ma dimostrando di saper scrivere, cosa non scontata a quel tempo per un fratello laico e in genere per la gente del popolo. La letterina è molto bella: “Padre amorosissimo, È ben sì giusto dovere che ancor io esprimi per la prima volta da che son partito da Venezia li sentimenti del mio povero cuore. Mi creda o padre che io elgi sono grato e gratissimo. Anche l’amoroso padre viccario [P. Marco Antonio] mi ha molto ricreato per viaggio, e tutto senza merito mio. Grazie, grazie. [Fra Pietro Rossi].” Sul tema, P. Antonio scrive a P. Matteo Voltolini: “I soliti affettuosi saluti…a Pietro, di cui ho aggradito assai l’affettuosa lettera.”
Morì il 2 agosto 1870 a Lendinara. P. Giovanni Chiereghin scrive nel diario di Congregazione, 32 anni più tardi, che Fra Pietro Rossi era una delle “pietre fondamentali del nostro Istituto”! Come si dice più sotto a proposito del P. Pietro Spernich, la sua tomba non si era potuta localizzare nel 1902, e le sue ossa sono state purtroppo disperse. Ma la sua memoria è in benedizione.
6.13 P. Pietro Spernich
Nato a Venezia l’11 settembre 1798, figlio di un operaio dell’Arsenale di Venezia, Pietro stesso era registrato all’Arsenale nella lista del “sindacato” come calafato, ma non svolgeva di fatto quel lavoro, da quando aveva deciso di entrare nell’Istituto. Il fatto di essere membro di questa categoria di operai specializzati, dediti ad un lavoro importante per la marina militare (veneziana fino ad un anno prima della sua nascita, all’epoca invece austriaca) lo rendeva quasi automaticamente libero dalla coscrizione militare.
Entrò in contatto con l’Istituto nel 1817, facendo richiesta per essere ammesso, diventando uno dei primi compagni e discepoli dei fondatori. Bisogna dire ancora di più; in realtà fu lui il primo religioso Cavanis ad abitare nella casupola che c’era a fianco dell’orto dell’opera Cavanis, con il maestro delle scuole dell’Istituto, don Pietro Loria, e i giovani Domenico Todesco e Giovanni Greco, dal 14 maggio 1817, tre anni prima dell’inaugurazione della prima vera comunità Cavanis. Fu uno dei primi cinque membri al momento di entrare nella “casetta” il 27 agosto 1820, festa di S. Giuseppe Calasanzio. Questi membri, la comunità storica e primitiva, erano P. Anton’Angelo, i chierici Matteo Voltolini, Angelo Cerchieri e lui, Spernich, oltre al fratello laico Pietro Zalivani.
P. Giovanni Chiereghin osserva che in Istituto Pietro non demordeva mai, “costante e assolutamente incrollabile, fra fastidi, angosce, incertezze di ogni tipo; vide nei primi tre anni andarsene numerosi preti molto degni ai quali era stata affidata la formazione dei giovani che volevano entrare in Istituto; vide andarsene i suoi due compagni, Cerchieri et Toscani, di certo; fu spesso tentato e invitato ad andarsene anche lui; ma restò sempre lo stesso”.
Una delle situazioni d’angoscia per lui fu quando, anche se il suo nome si trovava ancora nelle liste degli operai dell’Arsenale, nel periodo della sua formazione nella «casetta», ci fu il rischio nel 1821 che fosse chiamato alle armi, dato che non lavorava di fatto all’Arsenale, ma la volontà divina e le preghiere della comunità fecero sì che venisse esonerato il 24 marzo 1821, la sera prima della festa dell’Annunciazione di Maria.
È interessante leggere un gruppo di lettere giovanili del 1825 che il chierico Spernich, a quel tempo al primo anno di teologia, inviò a P. Marco, rimasto a Venezia, scritte quando era in vacanza in campagna, più precisamente a Mirano, vicino a Venezia, con P. Antonio e un gruppo di suoi colleghi seminaristi. Queste lettere più di altre ci rappresentano e ci fanno capire il suo carattere gioioso, la sua disponibilità ad accettare gli scherzi e le battute dei confratelli, ma anche quanto fosse obbediente e semplice di cuore.
Queste lettere ci rivelano, pur a questo punto teoricamente avanzato della sua formazione, la sua maniera caratteristica di scrivere che non seguiva sempre la grammatica, la sintassi e anche l’ortografia di quei tempi. La sua prosa era un miscuglio faceto d’italiano (antico, ovviamente), di dialetto veneziano, di espressioni appartenenti all’intercalare tipico del clima gioioso della “casetta”, e di latino scherzosamente maccheronico. Scrive a P. Marco, o, come diceva scherzando, Pré Marco, con uno stile estremamente informale e affettuoso, familiare e pieno di confidenza filiale.
In comunità, ancora giovane, lo si chiamava “il vecchio”, dato che era il più anziano dei seminaristi, essendo nato nel XVIII secolo (1798), come i fondatori, mentre tutti gli altri erano del XIX secolo. Lo si chiamava anche sbèzzola o sbèzoléta, ciò che in veneziano vuol dire «mento sporgente»; chi osserva la sua foto si renderà conto del perché. Lui stesso si firma così nelle suddette lettere, segno che accettava di buon grado questi nomignoli.
Il diario della Congregazione il 12 settembre 1827 ricorda che fu autorizzato dal patriarca Jacopo Monico (da poco entrato nella diocesi di Venezia), con gli altri chierici più anziani dell’istituto Matteo Voltolini, Angelo Cerchieri e Giovanni Battista Toscani (questi ultimi due lasciarono in seguito l’Istituto), a continuare a vivere nella comunità della «casetta», anche se non si trattava ancora di una comunità religiosa riconosciuta. Erano al terzo anno di teologia.
Ricevette gli ordini minori dell’esorcistato e dell’accolitato dal patriarca Pyrker il 17 dicembre 1825 nella chiesa del seminario patriarcale; fu ordinato suddiacono il 5 aprile 1828, diacono il 20 settembre dello stesso anno e prete il 19 settembre 1829; fu inviato alla casa di Lendinara nel 1837, dove rimase sino alla morte.
A proposito del suo invio a Lendinara, P. Giovanni Chiereghin racconta un aneddoto come prova della sua virtù, della sua obbedienza e del suo senso di appartenenza all’Istituto: tre anni dopo la fondazione della seconda casa dell’Istituto, quindi nel 1837, i fondatori decisero che era ora di tener fede all’accordo preso con il signor Francesco Marchiori, «fondatore» laico della casa, di mettere a disposizione tre preti Cavanis; sino ad allora c’era solo P. Matteo Voltolini, con l’aiuto eventuale e temporaneo di qualche seminarista o fratello laico. Nessuno sapeva chi sarebbe stato inviato e tutti si chiedevano: «Sarò io?», ma i due fratelli fondatori non dicevano nulla. C’era desiderio e curiosità e l’attesa era grande. P. Spernich, veneziano, già arsenalotto, e molto legato ai fondatori e alla casa-madre, era sicuro che non sarebbe stato lui ad essere mandato a Lendinara.
Un giorno, la sera prima della partenza, fu riunita la comunità. P. Antonio tenne un discorso e presto si annunciarono i nomi dei tre padri che dovevano partire; il primo nome fu quello del P. Matteo Voltolini, che era già a Lendinara dall’inizio della casa nel 1834; poi P. Antonio annunciò il secondo nome «Padre Pietro Spernich!». Il povero Spernich rimase fulminato, sorpreso e deluso; ma disse solo un monosillabo molto veneziano: «Ciò!», un’espressione che suggeriva la sua sorpresa e che corrisponde più o meno a «Perbacco!». Non disse più nulla, non si lamentò, preparò il suo bagaglio e il giorno dopo partì per Lendinara obbedendo, e ci restò fino alla morte. Il terzo padre era P. Giovanni BattistaTraiber.
A Lendinara Spernich fu rettore soltanto un anno (1839-40), di solito fu religioso semplice, subordinato a P. Matteo Voltolini, a Traiber, a Bassi, e Brizzi; nel caso degli ultimi due padri, i suoi superiori erano più giovani di lui dal punto di vista anagrafico e di appartenenza alla Congregazione; ma obbedì a tutti senza alcuna distinzione, a pieno e con amore come un bambino. E si prodigava con tutta la piccola comunità, semplice e buono con tutti; lasciava che scherzassero con lui, che lo si prendesse in giro, senza offendersi, contribuendo così a mantenere un clima di serenità e di gioia fra i confratelli.
Come gli altri membri della comunità di Lendinara, che non avevano potuto partecipare alle celebrazioni della vestizione, della professione religiosa e dell’erezione canonica della Congregazione, celebrate a Venezia, indossò l’abito dell’Istituto a Venezia il 4 ottobre 1838 ed emise la professione il 29 dello stesso mese. Entrò a Lendinara come nuovo superiore locale. Con i confratelli di questa casa soffrì parecchio per le vessazioni e le strane esigenze del benefattore (uomo buono ma piuttosto eccentrico) che aveva “fondato” la casa e la scuola, il sig. Francesco Marchiori.
Successivamente, dovette sopportare sempre con molta pazienza e bontà le vicissitudini di tre guerre (le prime tre Guerre di Indipendenza d’Italia) e, dopo il 1866, la soppressione della Congregazione e la confisca degli edifici e dei beni immobili dell’Istituto; e ancora la persecuzione sistematica da parte degli anticlericali, nemici della chiesa e dell’Istituto.
Era un uomo semplice e dolce dalla bontà singolare, di grande pietà, amato da tutti.
Ebbe il torto, proprio per la sua bontà e semplicità, di accogliere nella scuola di Lendinara, nel 1839, e poi, dopo un periodo di sospensione, una seconda volta un tale Alberto Mario, un ragazzo di 14 anni già debosciato. Costui, dopo molti anni, diventato un noto politico liberale, militante del risorgimento italiano, scrittore e attivo anticlericale, tornato a Lendinara dopo un lungo periodo di guerre e di esilio, causerà molti problemi e sofferenze alla comunità Cavanis di questa città, come già detto in precedenza. Nonostante la sua grande antipatia verso i preti in generale e i Cavanis in particolare, conservava però stima per P. Spernich.
Questi lasciò una buona e lunga testimonianza scritta, probabilmente del 1861, sulle virtù dei padri fondatori, e in questo testo li chiamò esplicitamente santi.
Morì a Lendinara il 28 maggio 1872, a 74 anni, non di malattia, ma semplicemente perché le forze lo abbandonarono. Nella messa funebre l’officiante sviluppò il tema: «Vir simplex ac timens Deum». Si può considerare come uno dei più santi tra i confratelli Cavanis. Fu seppellito in Lendinara, e, quando i padri, nel 1902, cercarono di esumare le ossa dei confratelli seppelliti a Lendinara, trovarono bensì le ossa dei padri Vincenzo Brizzi e Nicolò Morelli, ma non quelle di P. Spernich e di fra Pietro Rossi. Il testo del diario della Congregazione dice esattamente così: “Domenica /19/ [1902] Scrive il P. Larese da Lendinara di aver avuto finalmente la consolazione di trovare le ossa dei confratelli P. Brizzi, e P. Morelli. Certo più pieno sarebbe stato il nostro gaudio se avessero trovato anche le ossa del Padre Spernich e del laico fratello Pietro Rossi, pietre fondamentali del nostro Istituto, ma dopo tanti anni e non avendo punto pensato a questo trasporto, si dovette abbandonare ogni speranza. Le ossa furono trasportate nel nuovo cimitero, e riposeranno nella Cappella fino a lunedì mattina in cui si farà l’esequie. Qui stasera reciteremo un notturno con le laudi dei defunti, domani la prima messa in chiesa sarà applicata per essi”.
6.14 P. Matteo Voltolini
Originario della provincia e dell’arcidiocesi di Trento, dal paese di Grigno in Valsugana, a quel tempo Tirolo meridionale, nato nel 1800, fu uno dei primi compagni e collaboratori dei fondatori, e fu prezioso per loro. Il 15 agosto 1820 indossò la talare ecclesiastica; pochi giorni dopo fu uno dei cinque membri della prima comunità Cavanis, nel momento in cui questa entrava nella «casetta» il 27 agosto 1820. Il diario della Congregazione il 31 ottobre 1821 ci informa che Matteo in questa data contribuì a rallegrare la comunità, al suo rientro da un viaggio a Grigno, dove era andato a risolvere dei problemi relativi all’obbligo e alla coscrizione militare, da cui era risultato esente.
Il 3 aprile 1824 egli ricevette i quattro ordini minori nella città di Chioggia; il diario il 12 settembre 1827 ricorda ancora che fu autorizzato dal patriarca Monico, con gli altri chierici più anziani dell’Istituto, Pietro Spernich, Angelo Cerchieri e Giovanni Battista Toscani, a continuare a vivere nella comunità della «casetta». Erano allora al terzo anno di teologia.
Il 23 settembre 1826 fu ordinato suddiacono a Ponte di Brenta (diocesi di Padova), dal vescovo di Chioggia, grazie al permesso del vescovo di Padova, benché fosse diocesano di Trento e abitasse a Venezia. P. Marco commenta, nel diario della Congregazione, il 19 novembre 1826: «Fu il primo dei seminaristi alunni della nascente Congregazione che era stata promosso agli Ordini Sacri; prima, ci si aspettavano forti difficoltà e amarezze prima di avere una tale e sospirata consolazione.». In realtà le cose furono davvero difficili e complicate. Per averne un’idea, vale la pena di leggere integralmente le pagine 507-509 del primo volume dell’Epistolario; il gioco vale davvero la candela!
Fu ordinato diacono il 5 aprile 1828; prete il 20 settembre 1828, e fu il primo giovane compagno dei venerabili fratelli che arrivò all’ordine presbiteriale e quella giornata diede loro questa grande gioia.
Nel 1830 (2-25 giugno 1830) partecipò al viaggio di P. Marco a Trento, come compagno, anche perché era originario dell’arcidiocesi di Trento.
Fu il primo superiore della comunità di Lendinara. Fece la sua vestizione religiosa indossando l’abito dell’Istituto il 4 ottobre 1838 nella cappella della comunità di Venezia ed emise la professione religiosa nell’oratorio delle scuole (la cappella grande, oggi aula magna delle scuole) il 29 ottobre, con gli altri membri della comunità di Lendinara che riuscirono a recarsi a Venezia solo un po’ dopo le celebrazioni dell’erezione canonica dell’Istituto (15-16 luglio 1838), perché avevano atteso le vacanze autunnali per recarsi a Venezia.
In ottobre 1939 fu trasferito nella casa di Venezia.
Dopo aver lavorato instancabile per la casa e la scuola di Lendinara e di Venezia, nel 1846 chiese a P. Antonio di ritirarsi dall’Istituto perché la sua salute era totalmente compromessa dall’eccesso di lavoro e dai sacrifici fatti. Ne uscì e tornò a Grigno di Valsugana, il paese dove era nato; e poi, a quanto sembra, a Lavarone, presso il fratello che vi era parroco. Si constatò che il motivo della sua uscita dall’Istituto era valida perché non recuperò mai la salute e morì l’anno dopo, il 15 giugno 1847. Aveva allora solo 47 anni. Tutti lo ricordarono a Grigno «per una reputazione di grande pietà».
P. Marcantonio, nel primo volume delle Memorie della Congregazione, a pag. 127 del volume stesso (e a pag. 144 della trascrizione commentata), scrive così, in modo diverso e probabilmente più esatto, nonostante la possibilità dell’esistenza di voci diverse, dato il sistema di comunicazione dell’epoca: “15 Giugno 1847 – Seguì in questo giorno la morte del buon Sacerdote D. Matteo Voltolini, in Lavarone ov’erasi ritirato presso il fratello Parroco, dopo d’esser sortito dalla nostra Congregazione. Dopo tanta edificazione sparsa fra mezzo a noi, colla sua pietà e con il suo zelo veramente istancabile, si mantenne ancora colà così esemplare nei suoi costumi, che il suddetto Parroco con lettera 19. corrente riferisce essersi all’annunzio della sua morte tosto sparsa la voce: è morto un Santo, è morto un Santo”.
P. Matteo lasciò un ricordo fraterno, di ammirazione e di amore anche nella nostra Congregazione, dove è commemorato tra gli altri membri della Congregazione nel necrologio ufficiale.
6.15 I padri Angelo Cerchieri e Giovanni Battista Toscani; e Pietro Zalivani
Si può ricordare qui anche P. Angelo Cerchieri, che fu uno dei primi cinque membri della comunità Cavanis, all’ingresso nella «casetta» il 27 agosto 1820 e ancora il laico Pietro Zalivani. Esattamente un anno dopo, nella stessa festa di S. Giuseppe Calasanzio, indossò l’abito ecclesiastico per grazia speciale del patriarca Pyrker, che fece un’eccezione alla regola per la nuova comunità, su richiesta dei fondatori.
Giovanni Battista Toscani era stato allievo delle Scuole di Carità dal 1816, accolto e ospitato gratuitamente e paternamente perché davvero povero; entrò anch’egli nella comunità della “casetta” il 31 ottobre 1821, è dunque anche lui uno dei primi compagni de fondatori. Il suo ingresso nella comunità fu seguito da un avvenimento provvidenziale che aiutò i fondatori a ottenere il mobilio e tutto il necessario per la camera di un nuovo membro della comunità che non possedeva nessun corredo.
Ambedue, Cerchieri e Toscani, furono autorizzati dal patriarca Monico, nel 1827, con gli altri chierici più anziani dell’Istituto, a continuare a vivere nella comunità della “casetta”. Erano al terzo anno di teologia. Il patriarca Pyrker, il 7 febbraio 1823, rifiutò di concedere la tonsura ai due seminaristi, perché la Congregazione non era stata ancora eretta canonicamente. Ma lo stesso patriarca conferì la tonsura, l’ostiariato e il lettorato ai due chierici il 17 dicembre 1825 nella chiesa del seminario patriarcale. I due furono ordinati suddiaconi il 5 aprile 1828, diaconi il 20 settembre dello stesso anno, e preti nell’Istituto Cavanis, il 19 settembre 1829, assieme al P. Spernich
I due tuttavia lasciarono la Congregazione assai presto. P. Angelo Cerchieri diventerà don Cerchieri, a quanto pare prima del dicembre 1830, e sarà successivamente parroco alla parrocchia di S. Silvestro a Venezia, rimanendo sempre amico dell’Istituto, e presente, con grande numero dei suoi parrocchiani, al funerale di P. Antonio nel 1858. Morirà nel luglio 1873.
P. Giovanni Battista Toscani rimase membro dell’Istituto fino al 21 ottobre 1832 quando ne uscì. Rimase senza dubbio prete diocesano di Venezia. Non è tuttavia del numero dei confratelli ricordato nel necrologio ufficiale.
Don Toscani donò in seguito all’Istituto, in segno di riconoscenza e di affetto, una quantità di opere, alcune delle quali importanti, per la biblioteca, per esempio un’opera in 24 volumi, edizione rilegata: Giacinto di Montargon. Il dizionario apostolico per uso dei Parrochi e predicatori e di tutti quelli destinati al sacerdozio. Giuseppe Antonelli Tip. ed Ed., Venezia, 1833-1835. L’opera, come gli altri libri, si trova ancora nella nostra biblioteca (2020), nel settore del deposito minore, a pianterreno, settore B. Sulla pagina di guardia all’inizio di ogni volume c’è incollata un’etichetta stampata in cui dichiara il dono all’Istituto e chiede un requiem eternam per sé. È probabile che il dono sia stato fatto molti anni dopo il 1835. Il cartellino, stampato, reca la seguente dicitura: “Dono del Rev.mo D. Gio. Batt. Toscani alla Congregazione delle Scuole di Carità. Requiem etc.”
In biblioteca inoltre è stato trovato, tra le pagine di un libro ottocentesco, un programma di un ottavario di S. Giuseppe, dal 2 all’8 maggio (purtroppo non c’è menzione dell’anno), celebrato nella Chiesa di S. Maria Gloriosa dei Frari, in preparazione alla festa del patrocinio di S. Giuseppe, in cui le prime due serate consecutive avevano come oratore don Giovanni Battista Toscani; le quattro serate successive don Angelo Cerchieri; le due ultime di nuovo don Toscani.
Ricordiamo qui ancora il laico, probabilmente aspirante fratello laico, Pietro Zalivani, uno dei primi quattro della Casetta”. Era un giovane montanaro bellunese, della Valle di Zoldo, Zoldano quindi, come P. Giovanni Battista Traiber; vi era nato nel 1789 e era passato a Venezia.
Il suo nome appare, per la prima volta, nell’elenco di coloro che, il 15 agosto 1804 diedero inizio alla Compagnia di S. Luigi nel palazzo dei Cavanis alle Zattere, e Pietro vi entra in questa occasione come novizio nella Compagnia suddetta. Con lui c’è anche il fratello maggiore Gio-Batta Zalivani, che poi sarà citato più spesso nel diario e nell’Epistolario, diventerà prete, essendo ordinato tale nella chiesetta dell’Istituto Femminile alle Eremite; ma non entrerà nell’Istituto Cavanis. Rimarrà però in rapporto di amicizia con i padri.
Nell’elenco di cui sopra, Pietro Zalivani è l’ultimo, non per ordine alfabetico, come si potrebbe aspettarsi, cominciando il suo cognome per Z; ma probabilmente perché era giovanissimo; doveva avere 14 anni. Forse è l’ultimo anche perché era “di bassa condizione”.
Non risulta dai documenti che fosse membro della Congregazione Mariana, ma è molto probabile che lo fosse, come del resto lo era suo fratello Giovanni Battista.
Entrambi i fratelli Zalivani si distinsero subito per il loro impegno nell’ambito della pia associazione – finché questa durò – e della frequentazione assidua dell’Istituto Cavanis: “… li due fratelli Zalivani in assai fresca età e senza veruna sopraveglianza né di padre né di madre né di altri maggiori mostrarono tanto impegno per intervenire alla solita conferenza, che dovendo far prima un loro interesse affrettarono il passo con tanta celerità che vi giunsero tutti grondanti di sudore ed accesi in volto come fiamma”. Pietro aveva allora 15 anni.
Di Pietro Zalivani si parla di nuovo nel 1814, 10 anni dopo, quando aveva circa 25 anni; egli partecipa agli esercizi spirituali, organizzati dai fondatori, con altri 17 giovani, tra cui Andrea Salsi e Pietro Spernich, dall’11 al 15 ottobre 1814, nell’Oratorio delle Scuole, in una attività spirituale.
Mentre Giovanni Battista si avviava al clero diocesano, suo fratello minore Pietro si aggregò inizialmente ai Cavanis, come membro della comunità, non come candidato chierico, ma come “servente”, il che probabilmente si può interpretare come candidato fratello laico o, come si diceva, frate converso. Nella relazione delle Memorie per l’inizio della comunità della casetta infatti si dice: “27 Agosto – Ricorrendo in questo giorno la festa del nostro principal Protettore S. Giuseppe Calasanzio, si cominciò ad abitare la Casa ch’erasi preparata alla nuova Congregazione. Vi entrò il più anziano de’ Direttori dovendo l’altro restarsi a tener cura della madre ottuagenaria e vi si unirono il chierico Pietro Spernich, Matteo Voltolini, ed Angelo Cerchieri, e in qualità di servente il giovane Pietro Zalivani, tutti con animo di appartenere al nuovo Istituto. La nuova Casa erasi prima benedetta dal nostro Parroco, e Dio Signore si degni di farla sempre fiorire colla sua santa benedizione.”
Sembra dunque che anche Pietro Zalivani, oltre ai tre chierici, avesse in animo di appartenere al nuovo Istituto; non solo di lavorarvi come servente. Tuttavia la sua presenza nella casetta deve essere stata molto breve, per scelta sua o per scelta dei superiori, non sappiamo. Sembra più probabile la prima opzione. Rimase in Istituto almeno fino al settembre successivo all’inizio della comunità riunita nella “casetta”, P. Marco scrive infatti in quel mese che “li Sacerdoti Fratelli de Cavanis rassegnano:
a) Che si è allestita una parte del locale assegnato alla nuova Congregazione di Sacerdoti onde poter dare qualche cominciamento alla istituzione medesima.
b) Che il suddetto locale si è cominciato ad abitare da pochi giorni, essendosi uniti agl’istitutori fratelli tre giovani già decisi di appartenere alla novella Congregazione, e forniti di ottime disposizioni per riuscirvi assai bene, e sono il chierico Pietro Spernich veneto di anni 21, Matteo Voltolini tirolese di anni 20 ed Angelo Cerchieri veneto di anni 19; ai quali si è pure aggiunto un altro in qualità di servente, il qual si chiama Pietro Zalivani nativo di Zoldo nel Bellunese dell’età di anni 31. Li suddetti giovani alunni non hanno presentemente alcuna incombenza [specifica, N.d.A.], ma solo vanno addestrandosi nei varj uffizj dell’Istituto cui bramano appartenere; sicché in ora si attende solo ad apparecchiare ogni cosa, onde alla venuta che si spera prossima del nuovo Prelato, possa ritrovar tutto disposto per farne colla sua autorità la canonica erezione.”
Senza dubbio Pietro Zalivani non perseverò nella via intrapresa. Partì quasi subito dalla casetta e dalla comunità. Non si trova cenno della sua uscita ma non ce n’è dubbio. Infatti P. Marco lo incontrò casualmente e con molta sorpresa a Treviso, dove si trovava di passaggio, già due anni dopo, nell’ottobre 1822: “Con mia somma sorpresa – scrive – ho dato del muso dentro al nostro spiritosissimo Zalivani, il quale si è pensato di far due passi da casa sua fin colà per trovar bottega da collocarsi senza saper se vi fosse. Di fatto non v’era; e si è veduto così svanire sgraziatamente questo bel colpo d’ingegno, messo in opera, com’ei disse, sull’esempio glorioso degli avi suoi i quali andavano anch’essi fuor di paese a trovar il pane e il trovarono, e si è poi scordato, il bambino, che adesso è un’altra stagione e non sono più i tempi che diconsi della nonna.
“Non avendo trovato lavoro a Treviso “il giorno 16 novembre [Pietro Zalivani] si presentò improvvisamente nella casetta, mentre tutti erano a pranzo”.
Di lui non ci sono altre notizie. Si può anche notare che non c’è traccia di lui nel libro di matricola della comunità, né per l’entrata che per l’uscita; il libro comincia proprio con la data del 27 agosto 1820, cioè con l’apertura della comunità della casetta; ma non fanno cenno a lui. È stato comunque dei primi dei nostri e ha servito la prima comunità come e quanto ha potuto.
Il 1° libro di Memorie della Congregazione (1838-1850) di mano del P. Marco, parla in seguito della morte del fratello don Giovanni, molto prematura: il 13 luglio 1841 P. Marco infatti annota: “Lettera di Nicolò Zalivani che partecipando la morte del Fratello D. Gio. Batta. Ricerca il saldo del di lui credito per conto del Vitalizio che aveva con noi convenuto.”. Documenti su tale vitalizio stabilito tra il Gio. Batta Zalivani e l’Istituto si trovano nella cartella 1838 dei carteggi di Curia, fondo Curia, b. 4. Ne risulta che don Gio. Batta Zalivani abitava a Forno di Zoldo, presso la parrocchia (Pieve o Matrice) di San Floriano. In seguito si trova ancora un cenno alla famiglia Zalivani, più esattamente a tale Nicolò Zalivani di Zoldo, che forse era il padre di don Gio. Batta. e di Pietro Zalivani, o come alternativa, un altro fratello. Il 21 settembre 1841 P. Marco scrive nelle suddette Memorie: “Lettera a Nicolò Zalivani che indica il debito che ci resta per conto del vitalizio del suo defonto Fratello, e stabilisce il modo di soddisfarlo.” (Ibidem). Altre notizie su Pietro tuttavia non si trovano.
6.16 P. Giovanni Luigi Paoli
Giovanni Luigi Paoli, in genere chiamato semplicemente P. Giovanni Paoli o P. Paoli, nacque a Venezia il 25 marzo 1808. Entrò in Istituto il 31 luglio1824 e il suo ingresso fu talmente eccezionale da essere raccontato con dovizia di particolari da P. Marco nelle memorie dell’Istituto. Questo giovane sentiva la vocazione e aveva il desiderio di farsi prete. Sostenuto dalla madre si preparava e studiava. Dopo la morte della madre, rimasto orfano e molto povero, dovette abbandonare gli studi e fu impiegato da suo zio come commesso nel suo negozio di biadaiolo. Lo zio non voleva sentir parlare di vocazione religiosa e tanto meno di spese di corredo o di mobilio, e non intendeva creargli il patrimonio ecclesiastico necessario affinché il nipote potesse dar seguito alla sua vocazione. Lo zio litigava spesso con sua moglie, perché questa appoggiava il nipote nel suo progetto di farsi prete e nelle sue scelte.
Un giorno, lo zio andò a trovare un suo amico, don Pietro Ortis, che era da poco impiegato come insegnante alle elementari al Cavanis, e per caso gli parlò del fastidio che la moglie gli arrecava con la sua insistenza. Don Ortis allora lo convinse ad aiutare il nipote facendolo entrare all’Istituto Cavanis. Fu talmente convincente che non solo lo zio acconsentì sostenendo tutte le spese, ma decise anche di fargli dono del patrimonio ecclesiastico necessario. Paoli allora accettò con piacere di fare domanda ai padri fondatori e fu accettato, dato che le referenze chieste e ottenute dai padri erano molto buone. Fu uno dei primi discepoli e compagni dei Fondatori, dopo Voltolini, Spernich e Traiber.
Vestì l’abito ecclesiastico il 27 agosto 1824 con Giovanni Battista Traiber, durante la festa di S. Giuseppe Calasanzio.
L’11 novembre 1827 fu ricordato per il suo discorso in un triduo dedicato agli angeli custodi; ricevette la tonsura ecclesiastica il 17 dicembre 1825 nella chiesa del seminario patriarcale, dal patriarca Pyrker; e alcuni degli ordini minori il 20 settembre 1828; fu ordinato suddiacono nella basilica della Salute a Venezia il 18 agosto 1830; diacono il 2 aprile 1831; e prete nel 1832. Fu uno dei quattro sacerdoti che misero l’abito della Congregazione ed emisero i voti semplici, il 15 luglio 1838, assieme con il fondatore iunior padre Marco. Anche per questo viene chiamato qua e là “compagno dei Fondatori”.
Nel settembre 1839 andò a Lendinara per riposarsi e recuperare in salute, in forma provvisoria, ma fu ben presto destinato a questa casa, come rettore o come prefetto delle scuole. Il cambiamento da Venezia a Lendinara fu difficile per lui; ma la sua obbedienza immediata e generosa gli valsero due bellissime lettere di P. Antonio. Il 29 dicembre 1839 P. Marco gli scrive dandogli di passaggio buone notizie sulla salute del papà di P. Paoli, che era ancora vivo; sua madre invece doveva già essere morta. Alla fine dell’anno 1839-40 fu richiamato a Venezia, dove sembra rimanesse, come prima di quest’anno scolastico, per tutta la vita, con l’eccezione del 1853-54, passato pure a Lendinara. Visiterà alcune volte Lendinara, o ci starà per qualche tempo, ma per convalescenza o per villeggiatura.
Si dedicò per quarant’anni alla scuola (come professore di grammatica e retorica) e insegnò anche morale, dogmatica, biblica, greco biblico ed ebraico ai seminaristi teologi Cavanis. Ricoprì più volte le principali cariche della Congregazione: fu definitore (fu anzi del primo gruppo di definitori, ossia del consiglio generale, della Congregazione) dal 1855 al 1861 e poi di nuovo dal 1876 al 1881; vicario generale de 1856 al 1861; fu anche maestro dei novizi. Sostituì P. Marco in qualità di procuratore, quando questi dovette rinunciare a questa attività per l’età e le malattie. Lavorò alla riforma delle costituzioni e alla confezione della loro II parte, con P. Casara, almeno in preparazione del capitolo del 1861.
Il Paoli lasciò poi la scuola a causa di una cecità quasi totale. Durante la sua vita si dedicò alla predicazione con passione e stile.. Era evidentemente un uomo di grande cultura.
Quando non poté più dedicarsi alla scuola, continuò ad essere educatore Cavanis predicando ai bambini e ai giovani, specialmente ai bambini poveri assistiti dall’associazione di S. Vincenzo de’ Paoli. Predicava anche agli adulti; aveva un modo di predicare fondato sulla parola di Dio, che tutti ascoltavano volentieri e che dava un buon risultato spirituale anche se, contrariamente alla abitudini dell’epoca, le sue prediche erano quasi del tutto sprovviste della retorica tradizionale, spesso superficiale e vuota.
Lasciò un importante documento che costituiva la sua testimonianza personale sulla vita, le virtù e il pensiero dei fondatori, soprattutto su P. Antonio, con qualche riferimento a P. Marco; su quest’ultimo scrisse un documento, una specie di florilegio, che intitolò: «Documenti morali tratti da alcune lettere del P. Marcantonio Cavanis».
Tra l’altro, ricorda in questo documento il giorno in cui, ancora seminarista, un collega, Giuseppe Barbaro, fonte di grandi speranze per i padri, uscì dalla Congregazione (il 16 maggio 1825): era il primo seminarista Cavanis a uscire dall’Istituto! P. Antonio riunì tutti i seminaristi (erano cinque) e disse loro «Volete andarvene anche voi? Perché non è l’Istituto che ha bisogno di voi; siete voi ad aver bisogno di restare nell’Istituto se è il Signore che vi ha chiamati qui.»
P. Paoli morì a Venezia il 24 maggio 1886, due giorni dopo la morte di P. Antonio Fontana. Furono due giorni di tristezza per la comunità di Venezia e per la Congregazione.
Così lo ricorda P. Sapori nel diario di Congregazione, nel giorno della sua morte: “Questa mattina, mentre ci disponevamo a rendere gli ultimi onori al desideratissimo P. Fontana, la morte recideva il filo di un’altra vita a noi assai cara. Confortato dagli estremi sacramenti spirava piamente nel Signore il P. Giovanni Paoli. Fu uno dei quattro primi compagni dei fondatori, i quali ebbero la sorte di vestire l’abito ed emettere i voti semplici la vigilia del giorno fausto, nel quale fu canonicamente eretta la nostra Congregazione. (…) fu catechista del patronato dei figli del popolo, annesso alla Congregazione di S. Vincenzo de’ Paoli, che per qualche tempo tenne sue adunanze nel locale delle nostre Scuole. Umiliati nella polvere, baciamo la mano del Padre divino che ci affligge, confortati dalla dolce speranza d’aver conquistato nel Cielo un nuovo intercessore, che non lascerà certo di pregare pel bene dell’Istituto, nel quale passò quasi tutta la sua vita”.
Anche se questo religioso Cavanis si chiamava indubbiamente “Paoli” di cognome, viene chiamato quasi sempre “Pauli” nelle liste annuali, sia quelle inviate alla Congregazione municipale, sia quelle dei commensali per la festa di S. Giuseppe Calasanzio. Da notare che il secondo nome di battesimo, Luigi, non era quasi mai utilizzato nella vita normale, fuori dei certificati e altri documenti ufficiali.
6.17 P. Alessandro Scarella
Nato a Vicenza il 13 aprile 1813, figlio di un falegname, faceva lo stesso lavoro del padre. Aveva ricevuto una buona educazione cristiana in famiglia e aveva frequentato l’oratorio dei padri Filippini. Conobbe la Congregazione durante un viaggio di uno dei nostri a Vicenza e ancor più quando si recò a Venezia per assistere alla vestizione di un suo cugino seminarista dei Cavanis, Giuseppe Scarella, sentì la vocazione e aderì entrando in Istituto il 2 novembre 1831. Indossò l’abito della Congregazione con i confratelli il giorno precedente all’erezione canonica. Emise la sua professione dei voti il 1° febbraio 1843, essendo già stato in precedenza ordinato sacerdote.
Inviato all’inizio a Lendinara, sin dalla nascita di questa casa, ancora seminarista, vi fu educatore e anche insegnante, ma, per quanto riguarda quest’ultima mansione, fu spesso solo un supplente, non essendo molto capace a mantenere la disciplina; si occupava perciò principalmente di diversi servizi pratici, ciò perché aveva esperienza di falegnameria, di carpenteria e anche di architettura. Lavorava lui stesso e/o come capomastro del cantiere, sia per la costruzione della piccola chiesa dell’Istituto a Lendinara, dove visse qualche anno (“la chiesa elegante” di S. Giuseppe Calasanzio), sia nella manutenzione e nel restauro della chiesa di S. Agnese a Venezia, inclusi i lavori più impegnativi, come la costruzione della facciata neoclassica della nuova chiesa.
Rientrato a Venezia, alla casa-madre, si dedicò agli studi filosofici e teologici, e fu istituito nei quattro ordini minori l’8 agosto 1841; divenne suddiacono il 18 settembre 1841; diacono nel settembre 1842; fu ordinato prete prima del 17 giugno 1844, più esattamente il 24 settembre 1942. Fu prete sagrista della chiesa di S. Agnese per diversi anni.
Era molto amato dai fondatori e lui li ricambiava amando con tutto il suo cuore sia loro, sia l’Istituto sia ancora i bimbi.
Nel 1844 cominciò ad ammalarsi mentre era ancora a Lendinara e continuò a soffrirne a Venezia. Nelle lettere ai due venerabili fratelli ne parla spesso con preoccupazione.
Nel 1849, durante i mesi estivi, fu inviato su consiglio del medico della comunità, ma contrariamente a quanto pensava P. Marco, in campagna, a Tarù, non lontano da Venezia; ma lo riportarono a casa a Venezia alla fine di ottobre o inizio di novembre, già moribondo.
Fu assistito durante tutta la sua malattia con grande amore (e anche con molta tristezza) dai fondatori e dagli altri confratelli, e fu confortato con i santi sacramenti e con la preghiera e l’assistenza affettuosa della comunità. Morì a soli trentasei anni, il 25 novembre 1849. Era la data che lui stesso aveva previsto. La morte fu dovuta a “tisi tracheale”.
Ci si ricorda in Congregazione del suo fervore angelico nella celebrazione eucaristica, della sua obbedienza, soprattutto delle angosce dello spirito che dovette provare in una fase della sua vita, soprattutto dopo la sua ordinazione presbiterale; e la piena sottomissione alla volontà divina nella lunga e dolorosa malattia che lo condusse alla morte.
Sulle sue virtù e sull’ultima parte della sua vita, si può leggere con edificazione la testimonianza di P Giovanni Chiereghin, che a sua volta riprende un racconto di P. Frigiolini. Questi lo aveva assistito durante la fase finale della sua malattia. Giovanni Chiereghin cita come fonte la «lettera di un confratello», ma sfortunatamente non dà la posizione in archivio di questi ultimi documenti.
6.18 Padre Vittorio Frigiolini
Si tratta del secondo preposito generale della Congregazione delle Scuole di Carità. Sebbene sia entrato un po’ tardi nella vita della Congregazione e dei nostri venerabili fondatori, e nonostante se ne sia andato troppo presto, è stato sempre molto stimato e amato al punto da essere scelto come successore di P. Antonio al governo della Congregazione. La sua breve vita, singolare tanto quanto il suo ingresso in Congregazione, meritano di essere raccontate più lungamente del solito, e più di quanto si sia fatto sopra, narrando del suo periodo di vita in congregazione e del suo brevissimo mandato. Vittorio Genesio Frigiolini nacque a Varallo (oggi Varallo Valsesia), nella diocesi di Novara, ma attalmente nella provincia di Vercelli, in Piemonte, il 6 ottobre 1818, da una famiglia molto cristiana e benestante; suo padre infatti era notaio.
La storia della sua infanzia e della sua gioventù, la si ritrova in un libretto scritto da P. Giuseppe Da Col, che ha il sapore di un tipico racconto agiografico, sull’infanzia e la giovinezza dei santi. Nella sua biografia dei fondatori, P. Francesco Saverio Zanon, sin dall’inizio del capitolo che gli dedica, l’associa ai «grandi servi di Dio». Viene descritto come un bambino e un giovanotto semplice, buono, assai umile e modesto, obbediente e mite, amorevole e dolce, capace di domare l’impetuosità del suo carattere. La sua occupazione preferita (come per molti vocazionati di ieri e d’oggi) era quella di prendersi cura di un minuscolo altare che aveva a casa sua e più tardi di servire la messa e altre celebrazioni come chierichetto nella chiesa parrocchiale.
I suoi genitori, per qualche motivo a me sconosciuto, lo inviarono con sua sorella Antonietta dal nonno paterno; Vittorio si occupò del buon vecchiarello con un rispetto ed un’obbedienza davvero singolari, dandogli tutte le cure possibili fino a quando il nonno morì. Anche in questa fase della sua vita fu saggio, modesto e amorevole.
Aveva un amico adolescente, un certo Geronimo Mazzola, che entrò nell’ordine dei gesuiti e vi morì poco dopo a soli 18 anni. Quando questi abitava ancora a Varallo, prima di entrare in convento, vivevano insieme la loro vita cristiana con intensità, facendo a gara in bontà, pietà e frequenza nei sacramenti. Vittorio si dette conto più chiaramente della sua vocazione a diciassette anni partecipando ad una missione popolare predicata a Varallo. Poco dopo, in accordo con il vescovo, indossò l’abito ecclesiastico, frequentò il corso di filosofia al seminario di Gozzano, nella sua diocesi.
Lo ritroviamo a studiare teologia a Novara nel 1837. I suoi genitori gli inviarono alcuni parenti per suggerirgli di lasciare il seminario su due piedi e di tornare in famiglia abbandonando la sua vocazione; Vittorio rifiutò fermamente, manifestando il suo desiderio irremovibile di continuare a servire il Signore e la chiesa; lo fece con un fervore e una fermezza che impressionarono fortemente i suoi familiari.
Era un buonissimo seminarista e, consacrato prete dal suo vescovo quattro anni dopo (il 18 settembre 1841), fu esemplare e tutto dedicato alle cose di Dio, del vangelo, del regno di Dio e dimostrò un particolare propensione per l’insegnamento dei bambini e dei giovani. Il suo vescovo lo inviò, come primo compito pastorale, come vicario, alla parrocchia del villaggio di Sabbia, in montagna, sulle Alpi, dove il parroco, vecchio e malato, aveva bisogno d’aiuto. Don Vittorio fece bene sin dall’inizio e ben presto si fece amare dai suoi parrocchiani, soprattutto perché iniziò a celebrare la messa e i santi sacramenti al mattino presto in questo ambiente agricolo, riuscendo a far sì che aumentasse il numero dei fedeli che frequentavano la santa messa ogni giorno. Istituì anche una confraternita laica intitolata ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria.
P. Da Col scrive che a Sabbia il giovane prete era gentile, amabile e umile con tutti; che si comportava come se i suoi parrocchiani fossero suoi parenti e in poco tempo tutti gli erano affezionati come fossero familiari, tutti miti, amorevoli e obbedienti. Aveva un occhio di riguardo speciale per i poveri, gli umili, gli ignoranti, coloro che erano stati segnati dalle prove della vita ed era particolarmente disponibile andando a trovarli spesso. Li confortava, insegnava loro la parola di Dio e li aiutava materialmente. Si prendeva cura specialmente dei malati: li assisteva con amore quando soffrivano, dava loro il conforto dei sacramenti e della preghiera. Accordava ai defunti poveri l’onore di un bel funerale, in un’epoca in cui i “livelli” di funerali (e naturalmente la tariffa relativa) erano legati alle classi sociali e alle possibilità finanziarie delle famiglie dei defunti.
Nel paese non aveva troppi impegni; per cui si dedicava agli studi teologici, pastorali, alla preghiera, alla quale dedicava molte ore, anche la notte. Ma interrompeva subito gli studi e la preghiera diurna e notturna se qualcuno aveva bisogno di lui e lo chiamava o gli faceva visita.
Era amorevole e aperto con tutti, ma allo stesso tempo era modesto e riservato, in particolare molto casto. Si dice che le donne del paese, delle contadine, sapevano che contro l’usanza locale, non dovevano entrare a piedi nudi in chiesa o nella casa parrocchiale. Lui stesso indossava sempre la talare, nonostante gli usi di molti preti dell’epoca, suscitando lo stupore ammirato dei colleghi e del popolo; ma diceva che amava la sua veste ecclesiastica e che gli era persino più comoda, così – diceva lui – poteva mettersi, sotto, degli abiti vecchi e poveri e rattoppati senza preoccuparsi dell’aspetto esteriore.
Era tanto devoto alla Madonna e consigliava a tutti di recitare il santo rosario. Nella sua parrocchia lo recitava con i suoi fedeli tutte le sere, celebrava diverse novene prima delle festività principali della Madonna. Durante gli ultimi giorni di carnevale invitava i fedeli a partecipare alle funzioni sacre destinate alla Vergine addolorata al fine di santificare questi giorni di sbandamento spesso dominati da bagordi e piaceri della carne. Il tempo di quaresima era per lui molto speciale; lo onorava con i sacrifici personali, la predica ai fedeli quasi ogni giorno e la devozione a Cristo crocifisso. Insegnava ai fedeli dei canti religiosi, soprattutto delle «laudi» cantate alla Vergine Maria, e invitava i parrocchiani a cantare questi cantici religiosi quando andavano al lavoro nei campi o alcuni erano strutturati anche come canti da lavoro.
Era un buon prete, secondo quanto è stato detto, molto stimato dai suoi parrocchiani e dai suoi superiori, per esempio dal vicario generale della diocesi di Novara, di cui si hanno due lettere, dove tesse le lodi del giovane don Vittorio; avrebbe potuto continuare così per tutta la vita. Tuttavia il desiderio di una santità più grande lo spingeva a dedicarsi sempre di più al Signore: desiderava ritirarsi in un Istituto ed essere un religioso. Pregò a lungo il Signore affinché lo ispirasse chiaramente invocando l’intercessione della Madonna. Pensava già di entrare nella Compagnia di Gesù, l’ordine dei gesuiti.
Nell’ottobre 1844 tuttavia (all’epoca aveva 26 anni), gli capitò di leggere in un giornale di Milano per il clero, l’ Amico Cattolico, un articolo scritto da P. Marco sull’Istituto Cavanis. Il nostro fondatore junior aveva in effetti l’abitudine di scrivere degli articoli sull’Istituto per i giornali e le riviste cattoliche, sperando così di favorire l’ingresso di giovani o anche di qualche prete nel suo Istituto. E questa volta il metodo funzionò!
Don Vittorio non era abbonato a questo giornale e quel numero d’ottobre gli era capitato in mano per caso: lo interpretò come un segno della provvidenza divina.
Come succede di solito in questi casi, era diviso tra l’idea, quasi definitiva, di entrare nella Compagnia di Gesù e la nuova conoscenza dell’Istituto di Venezia. Presagiva delle forti riserve da parte del padre e della sua famiglia in generale (sua madre era già morta). Ma fu un colpo di fulmine. Si risolse a scrivere ben presto ai fondatori, lo fece il 12 novembre 1844, chiedendo di entrare il prima possibile nella comunità Cavanis, manifestando tra le altre cose la sua «santa impazienza» di essere accettato. P. Marco gli rispose quattro giorni più tardi prendendolo in prova con gioia. Gli diceva che «era necessario che avesse la benedizione del suo vescovo», che d’altronde P. Marco conosceva personalmente e a cui aveva fatto visita di recente. P. Marco conosceva altrettanto bene il vicario generale della diocesi, monsignor Scavini. Don Vittorio doveva dotarsi anche della lettera di dimissioni della curia generalizia con tutte le informazioni necessarie sulla sua vita e sulla sua dottrina. Ci furono altre lettere.
Lasciò la parrocchia per andare a Novara senza spiegare a nessuno il motivo della sua partenza; soltanto, organizzò in parrocchia una grande festa della Vergine Maria prima di partire; qui c’erano tutti i fedeli e i cari bambini nella piccola chiesa parrocchiale che cantavano le lodi di Maria. Partì due giorni dopo, in pieno inverno, a piedi per i sentieri di montagna, camminando sulla neve fresca e molto alta con la sua talare e il suo bastone da pellegrino o montanaro e il suo piccolo bagaglio dove aveva portato con sé lo stretto necessario, per evitare di dare spiegazioni.
Il libretto di P. Giuseppe Da Col racconta un’avventura successa durante il viaggio: a una svolta vide un grosso cane che sembrava aggressivo, forse idrofobo, e che veniva dritto verso di lui, forse per assalirlo. Il sentiero che si svolgeva tra alte mura di neve non permetteva di girare né a destra né a sinistra. Quando sembrava che non ci fossero vie di scampo, vide all’improvviso il grosso cane pericoloso indietreggiare spontaneamente, entrare nella neve lateralmente e in poco tempo sparire. Attribuì anche questo evento come un segno favorevole della Divina Provvidenza per il suo viaggio.
Fece visita alla sua famiglia a Varallo per breve tempo, disse che andava a Novara per un affare urgente, ma non parlò della sua intenzione di entrare fra i religiosi a Venezia. Gli avrebbero impedito di partire. Confessava successivamente che questa separazione gli aveva provocato un conflitto interiore molto forte. A Novara ebbe il permesso del suo vescovo, monsignor Giacomo Gentile dei marchesi Felice, che lo incoraggiò nella sua decisione. Il vicario generale gli diede tutti i documenti necessari e una bella lettera di presentazione per P. Marco. Da Novara andò direttamente a Venezia, senza deviazioni. Non avrebbe mai più visto la sua terra natale.
Arrivò a Venezia il 19 dicembre 1844. Fu accolto molto bene dai due fratelli Cavanis e da tutta la comunità, con una grande gioia. Sin dall’inizio, in effetti, si mostrò allegro, umile, del tutto disponibile, obbediente, silenzioso, dolce nelle relazioni con la comunità. Il fatto stesso di venire quasi senza bagaglio, senza libri e altri oggetti personali, stava ad indicare il suo senso di distacco e di povertà, virtù tanto amate e coltivate dai fondatori e dalla nostra comunità. I padri dicevano fosse nato a immagine e somiglianza per la nostra Congregazione e che avrebbe già potuto indossare l’abito. Si mostrò sin dall’inizio amorevole con i bambini, ancor più con i più piccoli, i più ignoranti e i più poveri, secondo quanto faceva nella parrocchia di montanari. Era un padre amorevole che li istruiva alle verità della fede e nella devozione alla Vergine Maria. Entrò al noviziato e fu novizio, benché i superiori non ritenessero di fargli osservare tutte le regole dei novizi, dato che era già prete d’età matura; ma fu sempre estremamente umile, obbediente, disponibile a ricevere degli insegnamenti come se fosse ancora adolescente.
Fu un prodigio d’acculturazione, prima che questo termine fosse impiegato, e apprese rapidamente il dialetto veneziano per farsi capire e comprendere meglio, e presto riuscì a parlarlo perfettamente. Fu un modello di religioso e di Cavanis. Diventò confessore e direttore spirituale dei bambini e ragazzi delle scuole e talvolta professore, benché avesse difficoltà a far mantenere la disciplina. A poco a poco imparò a mescolare dolcezza e fermezza di modo tale da potersi sostituire ad altri insegnanti, ma non fu mai insegnante di cattedra. Indossò l’abito Cavanis il 28 settembre, come ci ricorda P. Marco in una lettera a P. Vittorio lo stesso giorno e mese nel 1851; ma non si sa l’anno; certamente prima della prima professione e dunque le sole due date possibili sono il 28 settembre 1845 o il 28 settembre 1846.
Fece professione dei voti semplici il 13 novembre 1846, due anni dopo il suo arrivo in Congregazione. Era adesso un Cavanis. Lo stesso giorno inviò una lettera ammirevole ad uno dei suoi amici; fa parecchi riferimenti biblici in essa ed esprime la sua estrema dedizione alla volontà di Dio e alla Congregazione.
Nel 1848 era così stimato dai fondatori, sia per il suo spirito Cavanis, sia per la sua prudenza sia ancora per la sua capacità, che P. Antonio, d’accordo con P. Marco, preparò un documento (10 dicembre 1848) e lo consegnò in custodia a suo fratello Marco, dove dichiarava che il suo successore in caso di morte o inabilità sarebbe stato P. Vittorio. Il documento era scritto da P. Marco (P. Antonio aveva a quei tempi settantasei anni ed era completamente cieco); era firmato da P. Antonio e controfirmato da Marco, con apposto poi il sigillo della Congregazione.
P. Giovanni Chiereghin scrisse che il compito principale affidato a P. Vittorio era quello di direttore spirituale dell’Istituto femminile. Ciò spiega anche la sua presenza eroica presso le suore Cavanis e le ragazze della casa delle “Eremite” o “Romite” durante l’assedio di Venezia. Come detto sopra, durante questo assedio e il bombardamento di Venezia da parte dell’esercito austriaco e dalla flotta, ebbe il coraggio di restare con il fratello laico Giovanni Cherubin, che aveva il compito d’ufficiale di contatto, nel nostro Istituto femminile delle Romite, per officiarvi la messa e per proteggere e incoraggiare la comunità, sfidando le bombe austriache. L’Istituto femminile era, infatti, più vicino alle postazioni dell’artiglieria austriaca in terraferma, soprattutto quelle dei forti S. Giuliano e di Marghera, e le bombe arrivavano dal 30 luglio al 10 agosto. Furono colpite diverse case e strade (fondamenta) attorno all’Istituto femminile, ma pare che le bombe che caddero tra le cinta del convento finirono per conficcarsi nel chiostro e nei giardini.
Nel novembre 1850 P. Marco, già vecchio e molto affaticato, effettuò il suo ultimo viaggio a Milano. In questa occasione si fece accompagnare da P. Vittorio.
Secondo quanto spiegato sopra, nel 1852 padre Vittorio Frigiolini divenne preposito generale (il suo mandato durò dal 6 luglio 1852 al 21 ottobre 1852), in circostanze un po’ complicate ma egli assunse subito il compito importante. Sfortunatamente si ammalò all’improvviso di congestione intestinale, forse, è possibile ipotizzare che si trattasse di peritonite, con terribili dolori al ventre, il mattino del 16 ottobre 1852, e morì prematuramente il 21 ottobre seguente, dopo cinque giorni di dolorosa malattia e infine di agonia, affrontate con santa pazienza, grande fede e accettazione del dolore, annunciando per giunta il giorno della sua morte. La malattia, per l’esattezza storica, viene definita “enterite” nell’atto di morte del comune della Regia Città di Venezia, firmata oltre che dal commesso municipale, dal medico curante dott. Desiderio e dal P. Sebastiano Casara.
Per la comunità e per i fondatori, furono dei giorni di dolore e di tristezza. Una grande speranza venne a mancare. Il racconto dettagliato della sua sofferenza e della sua morte santa è davvero una lettura impressionante. Aveva solo 34 anni quando morì.
Secondo quanto detto sopra, è evidente che essendo preposito, con un mandato tanto breve, tragicamente conclusosi in poco più di tre mesi, P. Vittorio non ebbe molta influenza sulla vita della Congregazione. Tuttavia la sua presenza nella nostra Congregazione per otto anni e qualche mese fu come una brezza soave, fresca ed edificante. Un nuovo percorso di apriva, con la cessione del governo della Congregazione da parte del venerabile P. Antonio e con l’elezione/nomina del secondo preposito.
Ci si potrebbe domandare quale sarebbe stata la situazione della Congregazione nelle sue mani. Forse il fatto che era giovane, straniero, un piemontese, avrebbe dato un’apertura più grande all’Istituto; forse gli avrebbe dato una piega diversa. Ma si tratta solo di futuribili.
Si è detto di lui, citando il libro della Sapienza: «Consummatus in brevi, explevit tempora multa». La sua memoria è in benedizione.
6.19 P. Eugenio Leva
Eugenio Leva nacque a Crema il 23 dicembre 1817; entrò nella “casetta” dell’Istituto il 30 marzo 1841; lo troviamo seminarista a Venezia nel 1847-48, nel seguente gruppo di chierici: Giovanni Francesco Mihator, Eugenio Leva, Paolo Chiozzotto, Antonio Fontana, Giuseppe Bassi. Tolto Paolo Chiozzotto, di cui poco o nulla sappiamo, e che comunque usc’ di congregazione il 4 settembre 1850, tutti gli altri perseverarono in Congregazione fino alla fine.
Non troviamo finora dati sicuri sulla sua vestizione e sulla sua professione religiosa (quella temporanea naturalmente; non si emetteva allora la perpetua); questi due eventi dovettero compiersi tra il 1842 e il 1846.
Eugenio Leva ricevette la tonsura e i quattro ordini minori tutti insieme il 19 dicembre 1846. Era ancora chierico nell’anno scolastico 1947-48, più esattamente il 12 novembre 1848. Viene chiesto che riceva il suddiaconato al card. Patriarca Jacopo Monico il 4 dicembre 1849, e lo riceve il 22 dello stesso mese. Ne viene chiesta l’ordinazione diaconale il 4 marzo 1850. Il 21 settembre dello stesso anno è ordinato prete dal patriarca Monico. L’anno successivo, il P. Marco chiede con lettera dell’8 marzo 1851 al cardinal patriarca l’autorizzazione a predicare e istruire in ambedue gli istituti, maschile e femminile, ottenendone l’assenso.
Si ammala ben presto, nel 1852, o forse era già ammalato da chierico, soffriva di problemi al cuore, e passa un tempo a Lendinara, su consiglio del medico, per giovarsi del clima della campagna. Poco più tardi si lamenta della sua situazione di salute il P. Marco, scrivendo a monsignor Angelo Pedralli di Firenze: “…un altro pur Sacerdote ed ottimo, il quale ha già ricevuto l’Estrema Unzione, ed è in continuo pericolo prossimo di morire…”. Morirà, di fatto, tre mesi dopo.
Sacerdote professo distinto per giovialità, per amore agli esercizi di pietà e per la cura dei fanciulli, rese piamente l’anima a Dio a Venezia il 5 maggio 1853, a 35 anni d’età, 4 mesi e 15 giorni.
6.20 P. Domenico Luigi Piva
Di Castagné, presso Pergine, diocesi e provincia di Trento, dove era nato il 30 gennaio 1842; era entrato in Istituto il 4 novembre 1857. Deve con ogni probabilità aver vestito l’abito religioso Cavanis nel 1860; visse l’esperienza del noviziato a Possagno, in collegio naturalmente; ed emise la prima professione a fine novembre o inizio dicembre 1862, stando alle varie carte, relative alla sua approvazione da parte degli esaminatori e della comunità.
Lo troviamo a Possagno, accompagnato in quel paese da P. Casara, preposito, nel novembre 1860, assieme ad altri novizi e chierici, ma come assistente del vicerettore del collegio e della comunità P. Nicolò Morelli.. Il rettore naturalmente era P. Da Col, che però si occupava più della parrocchia.
Il 17 dicembre 1864 fu ordinato prete, assieme al P. Francesco Bolech, a Venezia, dal Patriarca Giuseppe Trevisanato.
Lo troviamo a Lendinara negli anni 1864-65. Deve essere stato trasferito a Possagno, probabilmente per tentare di salvarne la situazione precaria di salute all’inizio del 1865.
“In età ancor giovane coronò a Possagno la sua innocentissima vita con una morte piissima nel giorno lietissimo della Risurrezione del Signore, il 16 aprile 1865”, come troviamo annotato in stile agiografico nel necrologio della Congregazione.
Fu sepolto in terra nel cimitero di Possagno; ma nel 1921 si erano comprati otto loculi nel sacello per gli ecclesiastici nel cimitero stesso di Possagno, e si propose e approvò che vi fossero deposte, accanto alla salma del P. Santacattarina, quelle “dei nostri Padri: [Domenico] Piva, Da Col, Bassi, Fanton (che ora stanno nella cella) e quella del giovanetto aspirante Carlo Trevisan”.
6.21 P. Giovanni Francesco Mihator
Giovanni Francesco Mihator era nato a Venezia il 26 febbraio 1821. Era rimasto orfano ancora da adolescente ma aveva avuto fortuna e il conte Francesco Revedin, veneziano anche lui, l’aveva preso in affido e lo raccomandò ai venerabili fratelli Cavanis perché l’educassero. Entrò nella “casetta”, cioè visse con la nostra comunità anche se non era seminarista, il 4 gennaio 1832, cosa piuttosto rara per le abitudini dei fondatori. Probabilmente avevano visto in lui un possibile candidato.
Lentamente la vocazione si fece sentire e domandò di entrare in Congregazione. Indossò l’abito Cavanis il 27 agosto 1839, un anno dopo l’erezione canonica. La sua professione religiosa temporanea (non si faceva a quel tempo la perpetua) deve essere stata emessa nel 1840, ma non abbiamo trovato dati sicuri al riguardo.
Ricevette la tonsura, l’ostiariato e il lettorato l’8 agosto 1841. Ricevette poi l’esorcistato e l’accolitato dal patriarca cardinal Monico il 19 dicembre 1846, il suddiaconato il 22 dicembre 1849, il diaconato il 16 marzo 1850 nella cappella del patriarchio, e il presbiterato il 30 marzo 1850 o qualche giorno prima. Ebbe tutte queste ordinazioni dal card. Patriarca Jacopo Monico, a Venezia.
Aveva una calligrafia molto bella, così P. Marco lo impiegò come suo segretario per diversi anni, durante il periodo della sua formazione. Oltre alla bella scrittura, aveva anche una bella intelligenza, e ne fanno prova le pagelle del corso di teologia effettuato per il primo anno di teologia (e probabilmente anche del quarto) nel seminario Patriarcale, e nello studium teologico della Congregazione, per il secondo e terzo anno, che presentano in tutte le cattedre, il massimo voto. Del resto anche le pagelle delle elementari, del ginnasio e del corso di filosofia, presentano voti molto elevati, spesso massimi.
Soffriva in salute e un po’ per questo, un po’ per una crisi spirituale, uscì dalla Congregazione il 28 febbraio 1849. La sua vocazione era autentica e il suo cuore restava vicino all’Istituto e ai suoi padri. L’epistolario ci mostra che restò in contatto con P. Marco, e sembra dal certificato di riammissione nella diocesi di Venezia e in Congregazione, emesso e firmato dal patriarca Giovanni Pietro Aurelio Mutti, che lo stesso Mihator avesse passato almeno un anno nel seminario patriarcale, studiando. Nel 1851 però abitava a Bologna nel convento dei padri domenicani. C’è però un dato differente che proviene dall’Elenco degl’Individui ecc. cit, al n° 59: una ota scritta in fretta e in piccolo carattere a matita da P. Casara, dice “passò ai riformati francescani”. Circa quattro anni dopo l’uscita, però, decise di rientrare in Congregazione e lo fece in occasione del funerale di P. Marco, il 14 ottobre 1853. L’11 novembre 1853 era stato annunciato a Lendinara il suo arrivo; fu vestito dell’abito per la seconda volta l’8 gennaio 1854, e aggregato con la professione religiosa, per la seconda volta, per mano del P. Giovanni Battista Traiber, delegato a ciò dal Preposito P. Casara, il dì 24 agosto dello stesso anno. Sarà a Lendinara soltanto dal novembre 1853 al 21 ottobre 1854, poi sarà richiamato a Venezia.
Fu sempre debole e malato. Restò fedele alla scelta e alla vocazione sino alla morte che arrivò precocemente, a Venezia, il 29 novembre 1877, a 56 anni.
Monsignor Giuseppe Ambrosi lo celebra così nel suo poema: «Il caro aspetto del Mihator, che, sempre sorridente / agitando il suo bianco fazzoletto, / si godeva scherzare tra la gente: / sacrista in chiesa ognor con lieto viso, / oggi è primo sacrista in Paradiso. »
6.22 P. Giuseppe Rovigo
Giuseppe Rovigo nacque il 5 novembre 1817 a Grigno (Valsugana, provincia e arcidiocesi di Trento; ai tempi della sua nascita, la regione si chiamava Tirolo italiano); entrò in Istituto molto presto e molto giovane, il 1° (o 5) novembre 1828, a undici anni. Vestì la talare ecclesiastica il 23 agosto 1834. Ricevette la tonsura e l’ordine minore dell’ostiariato il 23 settembre 1837. Indossò l’abito il 15 luglio 1838, il giorno prima dell’erezione canonica dell’Istituto, con gli altri compagni e con P. Marco; emise la sua professione dei voti il 1° febbraio 1843.
Fu tonsurato e istituito nell’ordine dell’ostiariato il 23 settembre 1837e negli ultimi tre ordini minori (lettorato, esorcistato, accolitato) l’8 agosto 1841 e ricevette il suddiaconato il 18 settembre 1841, nello stesso giorno di Giuseppe Da Col.
Negli studi filosofici e teologici si era distinto per l’ottimo profitto: con risultati sempre di “prima classe” in filosofia, in tutte le materie, e in teologia sempre “di prima”, spesso “con eminenza”.
P. Marco, in una lettera da Vienna, propone che i due nuovi suddiaconi esercitassero il ministero in occasione delle due messe celebrate per i funerali di papa Pio VII e per il patriarca Milesi. Fu consacrato diacono a Venezia il 26 marzo 1842 e prete il 24 settembre 1842.
Nel 1858 lo ritroviamo a Possagno, da dove scrive una bellissima lettera a P. Casara, preposito generale, in occasione della morte di P. Antonio. Tuttavia trascorse gran parte della sua vita a Venezia.
Professore di lettere antiche, latino in particolare, studiava con passione gli autori classici per trasmetterne la conoscenza, il gusto e la passione ai giovani allievi, ma anche per suo diletto personale; diceva che, leggendo il suo preferito, Virgilio, si crucciava interiormente perché questo grande scrittore che egli amava non aveva avuto il bene più importante, la religione dell’amore.
Fu anche prefetto delle nostre scuole a Venezia e superiore locale ed esercitò altre cariche: «Parlava poco, ma era provvisto di straordinaria saggezza, prudenza senza malizia, moderato in tutto il suo agire, onesto nei sentimenti; fu il vero modello di educatore calasanziano, come volevano che fossimo i nostri padri fondatori».
P. Francesco Saverio Zanon ricorda in modo commovente e molto vivo il suo primo incontro con questo padre tipicamente Cavanis, che era allora “prefetto” delle scuole di Venezia, il giorno in cui suo padre lo portò ad iscriversi alle scuole dell’Istituto quando aveva 10 anni, nel 1883. Vale la pena di riportare qui l’aneddoto: «Mio papà mi portò a iscrivermi con il mio fratellino Vito. Era prefetto delle scuole P. Giuseppe Rovigo e la direzione era allora una stanzetta modesta, la metà di quella attuale. P. Rovigo si rallegrava dell’ex-allievo con la sua abituale pacatezza e accolse paternamente i bambini. (…) Sono i primi ricordi di un ambiente pacifico che mi accoglieva e che, d’accordo con i miei genitori, mi impartiva un’educazione cristiana».
P. Zanon continua così: «Di Giuseppe Rovigo, la buona e cara immagine paterna è legata, come già detto nelle prime pagine, all’inizio della mia educazione in Istituto e mi ricorda, quando me ne ricordo, gli stratagemmi pii che ideavano i miei maestri per farmi stare buono, mentre a scuola si sviluppavano serenamente le energie dello spirito. Mi ricordo della devozione con cui il padre rettore [Rovigo] recitava in oratorio il rosario e allo stesso tempo controllava con occhio vigile tutta la chiesa guardando se noi pregavamo tutti.
Me lo vedo ancora intonare nelle feste il notturno della Madonna che cantavamo a quei tempi per continuare le pratiche pie della Congregazione mariana. Dopo, circondato da alcuni dei ragazzi preparati a questo ufficio e che gli restavano vicini, cantava le strofe devote di S. Alfonso, alle quali rispondevamo con il ritornello.
Ma lo vedo anche sorvegliare la disciplina e l’ordine d’ingresso e d’uscita da scuola degli studenti, e far visita alle classi interrogando con fare paterno gli alunni, dicendo sempre qualche buona parola.»
Era del tutto dedito all’educazione dei giovani a scuola; si preparava sempre le lezioni che doveva impartire, lavorava molto nella correzione dei compiti; si sacrificava in questo ministero Cavanis, fino ad ammalarsi. P. Giovanni Chiereghin, parlando di lui, ricorda una frase del nostro antico rito di professione religiosa, che sfortunatamente abbiamo soppresso attorno al 1971: «Scias te ad juventutem erudiendam mancipari». Vedeva questa formula, tipica della nostra spiritualità e del nostro carisma, perfettamente realizzata nella vita e nel lavoro di educatore e d’insegnante di P. Rovigo, veramente al servizio dei giovani; e l’autore già citato sviluppa a lungo questo il tema dell’educazione Cavanis. In breve, egli commenta, prendendo come modello P. Rovigo, che gioia e allegria del religioso Cavanis derivano dal suo sacrificio per l’educazione dei giovani, che è il fine ultimo a cui miriamo, la conclusione più desiderata dopo tutte le nostre fatiche.
Chi fa voto d’insegnare, diceva S. Giuseppe Calasanzio, ha fatto implicitamente voto di studiare. Fedele a questa regola, P. Rovigo studiava durante tutto il suo tempo libero. Si preparava alla scuola, secondo quanto detto, ma studiava anche una lingua straniera, commentava i classici, metteva a confronto i testi di diversi autori, faceva delle ricerche filologiche. Dopo queste considerazioni, P. Giovanni Chiereghin conclude dicendo che P. Rovigo era davvero un figlio dei fondatori.
Aggiunge ancora una frase molto interessante: dice che bisogna immaginarlo mentre ha a che fare con i bambini come un angelo d’amore fra altri angeli negli oratori, un angelo paziente a scuola anche con i bimbi più piccoli dove ce n’era più bisogno; alla ricreazione, l’angelo prudente.
P. Giuseppe Rovigo fu maestro dei novizi, esaminatore, definitore (ovvero consigliere generale); lasciò una breve testimonianza scritta sulla vita, le virtù e il pensiero dei fondatori.
Arrivò a celebrare il 50° di ordinazione presbiterale a S. Agnese il 5 ottobre 1892, assistito all’altare dal P. Ghezzo e fu una grande festa per tutta la comunità.
Nel 1884 fu colpito da una malattia ma, seppur malato, aiutandosi col bastone, voleva ancora far parte dell’ambiente scolastico, che aveva frequentato per quasi 60 anni, soprattutto durante le ricreazioni. Arrivò a celebrare il 50o anniversario della sua ordinazione presbiteriale, il 5 ottobre 1892. In questa occasione, uno dei confratelli gli rivolse queste parole: «Ai nostri giovani e a coloro che verranno dopo di loro, che il Signore voglia ben concederci una vita sempre operosa per il bene dei giovani, affinché alla fine di una giornata si possa dire di loro quanto si dice di P. Rovigo: ‘Sono stati davvero “i figli dei santi fratelli Cavanis”.
Soprattutto dopo la sua malattia, mentre aspettava la fine, era solito prepararsi molto spesso alla morte, con devozione.
Il 27 ottobre 1892 fu colpito da apoplessia. Morì, senza riprendere conoscenza, il 31 ottobre 1892.
Così narra la sua ultima malattia e la morte P. Da Col nel diario a partire dal il 27 ottobre 1892: “Questa mattina il caro nostro P. Rovigo celebrò come al solito la S. Messa. Senza indizio alcuno di straordinaria sofferenza, ed all’un’ora circa pomeridiana, si alzava per recarsi alla mensa comune, quando cadde colpito da apoplessia, che lo privò affatto dall’uso della lingua e forse in parte almeno della mente, di cui non diede contrassegno alcuno, malgrado i prestati rimedj, per il che parve, quasi appena colpito, già entrato in agonia.
Si notificò subito nel pomeriggio la dolorosa disgrazia al fratello dimorante in Grigno, ed ai nostri di Lendinara e di Possagno.
Ricordo, adorando e benedicendo le disposizioni sempre amorose del Signore, che l’amatiss.o mio confratello, al quale fin dall’anno 1832 fui collega nel nostro Istituto, e condiscepolo, fu chiamato, come il fa argomentare il suo stato, a ricevere, forse tra poche ore, il premio delle sua rare virtù, e del fervore della pietà, con cui si veniva disponendo al gra[n] passo, mentre io vivo, dopo che il p.p. Lunedì 24 del corr. ottobre avrei potuto rimaner vittima d’una caduta nel ritornarmene a casa, e veggo un tratto di Provvidenza, che mi eccita a tenermi, a somiglianza dell’egregio confratello, preparato, coll’impiegar bene, la Dio mercè, finchè mi basti la vita, fiat, fiat”.
Il 31 ottobre, P. Da Col scrive ancora, dopo la morte del confratello: “Dopo lunga, e penosissima agonia, senza però dare alcun segno di cognizione, pienamente tranquillo, facendo sempre fino all’ultimo istante ripetere a tutti che concorrevano a visitarlo “ecco il Giusto morente” questa sera alle ore otto il benedetto nostro P. Rovigo esalò l’anima bella, che vuolsi sperar fermamente disposta ad unirsi tra breve ai Beati del Paradiso”. Segue un breve resoconto del funerale, dei commenti della stampa locale, delle lettere di condoglianza e di stima ricevute.
Mons. Giuseppe Ambrosi, in un poema commemorativo, lo chiama «anima cara».
6.23 Fratel Francesco Luteri
Della diocesi di Trento, più precisamente di Tierno, frazione di Mori, nato il 18 novembre 1821, fratello laico, era entrato in Istituto a Venezia il 22 febbraio 1860. È chiamato Lutteri, con due “tt” nel DP, nel DC e spesso altrove, in errore. Per la verità, lui stesso si firma Lutteri in una sua rara lettera, del settembre 1869. Tuttavia è chiamato Luteri nei documenti ufficiali, per esempio nei necrologi di Congregazione, antichi e attuali. Per esempio, è chiamato Luteri nella lettera testimoniale dell’arcivescovo di Trento ma, nella stessa cartella, Lutteri in documento notarile relativo a una sua eredità.
Compì il suo noviziato inizialmente a Venezia, poi a Possagno nel nuovo noviziato, raggiungendo in quel paese gli altri novizi che erano candidati al sacerdozio, nel marzo 1861. Vestì l’abito dell’Istituto il 7 giugno 1861. Probabilmente avrebbe dovuto emettere la professione religiosa nel 1864, dato che il noviziato dei fratelli a quel tempo durava tre anni; sembra tuttavia che l’abbia emessa nel 1865.
Lo troviamo a Possagno dal 1868 al 1877, in situazioni differenti. Infatti, nel 1869, al momento in cui la comunità Cavanis del collegio Canova abbandonò il paese a seguito della soppressione della Congregazione, dell’incameramento dei beni, e di tutte le vicende sgradevoli che seguirono il 19 ottobre 1869, il preposito P. Casara gli chiese se era disposto a rimanere a Possagno con il P. Da Col in parrocchia; accettò, con la condizione di essere richiamato a Venezia se più tardi lo desiderasse. È particolarmente bello trovare e leggere la sua lettera originale, con la sua cara, rozza e grossa scrittura. Normalmente i religiosi non ponevano e non pongono condizioni siffatte, ma in questo caso si trattava di una situazione particolare e nuova, che usciva dalle condizioni previste nelle Costituzioni, dato che si trattava anche di lasciare l’abito religioso. Un fratello laico poi, a differenza di P. Da Col che con la nuova situazione lasciava sì l’abito della Congregazione soppressa, ma passava a vestire la talare e altri ammennicoli propri dei parroci, Francesco passava a vestire l’abito civile, il che senza dubbio gli dispiaceva e lo umiliava.
Rimase tuttavia a Possagno, in parrocchia, per compagnia e per formare comunità con P. Da Col, e come “servente”, fino al 1877, quando richiese e ottenne di ritornare a Venezia ed era stato sostituito a Possagno da un aspirante fratello, tale Antonio Dalboni.
Da Venezia passa quasi subito a Lendinara. Nel 1885 risulta essere a Lendinara, e P. Sapori, pro-rettore, dà notizia a P. Casara che Luteri era stato colpito da una leggera paralisi alla faccia.
Il necrologio della Congregazione commenta che era un uomo semplice, caro a tutti, sempre in attività. Morì piamente a Venezia il 14 giugno 1894, all’età di settanta tre anni. La memoria di quest’uomo pio, silenzioso e obbediente sia in benedizione.
Così ricorda la sua ultima malattia e la sua morte P. Giuseppe Da Col nel Diario di Congregazione in data 14 giugno 1894: “La scorsa notte, dopo di aver passato il giorno in comunità, ed in uno stato abbastanza buono, che gli permise di accostarsi in Chiesa alla Santa Comunione, fu assalito più fortemente del solito dal suo male di cuore. Visitato dal nostro medico Dottor Carli fu dichiarato in pericolo tale, da doverglisi amministrare questa mattina i Santissimi Sacramenti, ed impartirgli l’Assoluzione Pontificia. Accompagnò egli tutto coi più vivi sentimenti di fede, e di fervorosa pietà, ripetendo e prima e dopo durante il giorno i medesimi sentimenti, e frequentissime giaculatorie, e chiedendo perdono a tutti in generale, ed in particolare a ciascuno, che gli si avvicinava al suo letto, senza mai dare in lamenti pel suo male, e per la continua pena pel catarro, che minacciava di soffocarlo. Dietro la terza visita fattagli dal medico la sera, si temeva, pur troppo, che non potesse passare la notte. E, infatti, alle ore 23, dopo brevissima convulsione, confortato colle ultime frasi per gli agonizzanti, ma quasi senza agonia, placidissimamente spirò nel bacio del Signore”. Il funerale si tenne in S. Agnese il 16 giugno 1894 e la salma fu tumulata nel reparto ecclesiastici, del cimitero di S. Michele .
6.24 P. Narciso Emanuele Gretter
In tre righe, così lo ricorda il necrologio di Congregazione: “Sacerdote professo, della diocesi di Trento, benemerito dell’Istituto sia a Possagno che a Lendinara, benefattore di tutti, chiamato il “Padre buono”, consunto da acerbissimi dolori, come aveva chiesto a Dio morì piamente nel Signore il 3 maggio 1896, alla età di cinquanta anni”.
Narciso era nato a Castagné (di Pergine, Trento) l’8 gennaio 1842. Il 12 novembre 1860 entra in Istituto e lo troviamo novizio a Possagno, assieme a due altri “tirolesi” ossia trentini, e a due veneziani, nel noviziato da poco eretto in quel paese; all’inizio nell’edificio stesso del collegio, poi ben presto in una casetta apposita. Vestì l’abito della Congregazione, sembra il 15 dicembre 1860, nell’ottava dell’Immacolata, nel giorno stesso dell’inaugurazione del nuovo noviziato a Possagno. Emise i voti religiosi sulla fine del novembre 1862, a Possagno. Dopo la pubblicazione delle regole nel 1894, emise anche i voti perpetui, il 31 maggio 1894.
Ricevette la tonsura ecclesiastica il 15 aprile 1865, i primi due ordini minori il 15 aprile 1865, i secondi due il 6 agosto dello stesso anno, il suddiaconato il 19 dicembre 1868, il diaconato il 27 marzo 1869 e infine gli furono imposte le mani per l’ordinazione presbiterale il 22 maggio 1869.
Rimase a Possagno e quando il 10 ottobre 1869 la comunità Cavanis si sciolse e lasciò Possagno, P. Giuseppe Da Col rimase come si sa a Possagno come parroco “restando tuttavia congregato” e gli fu lasciato in compagnia il P. Narciso Gretter, anche lui in libertà di accettare questa proposta e con la stessa condizione di rimanere congregato; perché potesse sostenere la scuola dei piccoli (le elementari). Fu anche economo della scuola e, forse, della parrocchia. Nel 1969-70, per esempio, il P. Gretter sosteneva la prima elementare inferiore con circa 50 alunni. Nel 1875 Gretter era ancora a Possagno con il P. Da Col e fratel Francesco Luteri, ma aveva dei problemi in famiglia e, dopo la malattia e morte del padre, chiese di poter rimanere in famiglia per due anni, cosa che la struttura e le regole della Congregazione a quel tempo permettevano: ma la crisi appare superata e un mese dopo P. Gretter si tranquillizzò e rimase obbedientemente a Possagno. Dobbiamo essere grati a questi tre religiosi, e tra gli altri a P. Narciso, per aver ostinatamente (ci si permetta il termine) e coraggiosamente mantenuto la presenza Cavanis a Possagno!
A fine agosto 1880 P. Da Col, parroco, abbandona la sua parrocchia per ordine del preposito P: Casara, lasciando a Possagno il P. Gretter (con il fratello laico Antonio Dalboni) nelle “brighe” che sorgeranno “quando sarà manifesta la cosa”, cioè l’abbandono di Possagno da parte dei padri. Il 13 gennaio 1881 P. Narciso Gretter e fratel Dalboni lasciano anche loro Possagno, dopo aver risolto le ultime questioni della casa e della scuola e ritornano a Venezia, per poi passare a risiedere a Lendinara.
P. Gretter resterà a Lendinara dal 1881 fino alla morte, e fino alla fine di quella casa, nel maggio 1896. Nel 15 novembre 1884 “P. Gretter insegna le materie della primaria superiore a qualche ragazzo che non è obbligato ad andare nella scuola communale (sic)”; il 1° novembre 1885 P. Gretter ha la 2ª elementare;
La nuova comunità di Lendinara nel 1887-88 comprendeva, oltre a P. Sapori, solo i padri Giuseppe Bassi e Narciso Gretter, un fratello laico e il seminarista Giovanni Spalmach. Il diario di comunità di Lendinara era stato abbandonato da P. Sapori, gravemente ammalato, e si ricomincia solo il 13 ottobre 1889, in fogli sciolti allegati ad diario, con la scrittura del P. Narciso Gretter. Ha una bella calligrafia, ma scrive di rado e con un contenuto e uno stile piuttosto malinconico, il che si puà anche capire e compatire, data la situazione ambientale. Il pro-rettore P. Sapori, anziano e malato, gliene aveva affidato l’incarico. Il 31 maggio 1894, P. Narciso, con gli altri membri della comunità di Lendinara che avevano compiuto più di tre anni di professione, pronuncia i voti perpetui secondo le nuove costituzioni del 1891.
Il preposito e il consiglio avevano deciso il 29 agosto 1895 di chiudere la casa di Lendinara. P. Giuseppe Bassi viene trasferito a Possagno assieme al fratello Clemente Del Castagné il 24 settembre. Resta a Lendinara P. Narciso. Egli doveva restare solo durante l’anno scolastico in corso, fino a chiudere la casa, ma dato che si ammalò, di una malattia sempre più grave, ricevette tante visite dai confratelli delle altre case per confortarlo prima di tutto e poi per assisterlo.
La malattia, o meglio le malattie di P. Gretter continuarono a peggiorare durante tutto l’anno. Gli fanno visita il preposito, il vicario P. Casara, il vescovo diocesano d’Adria, e, con molta difficoltà, gli si trova e si invia al suo capezzale il fratello Clemente Del Castagné per assisterlo. Quando si decise esecutivamente di chiudere del tutto la casa, P. Gretter probabilmente non si poteva trasportare a Venezia, anche se c’erano pareri diversi. Soltanto per questo la casa non venne chiusa prima: si attendeva con pena la morte del caro P. Narciso.
I diari di Lendinara e il diario di Congregazione sul finire del 1895 e i primi mesi del 1896 sono pieni di dettagli sul progressivo aggravarsi della salute del povero P. Narciso. Non si capisce bene quale malattia avesse; doveva essere un’infezione generale, forse una setticemia, che gli provocava gonfiori e bubboni in tutto il corpo, e il “cerusico”, come scrive spesso P. Da Col nel diario nei primi mesi del 1896, doveva operargli frequenti e dolorosissimi tagli e incisioni in varie parti del corpo. Si veda per esempio il 22 febbraio 1896: “[P. Larese] confermò quanto scrisse nelle ultime lettere, ed aggiunse che il Cerusico sarebbe per fare al povero paziente qualche altro taglio; ora non ha cuore di parlargliene, mentre purtroppo rimarrebbe tuttavia disperata la guarigione, rimanendo sussistente la causa prima del male. Peraltro(?) il che noi pure non crediamo che sia da molestarlo inutilmente ancor più”.
Una notizia curiosa: “Il P. Larese scrive dell’atto di vendita già compiuto dal caro P. Narciso colla più sentita sua compiacenza pel bene della Congregazione, e ne partecipa lo stato di gran patimento, ma sempre di grande pazienza, e rassegnazione”. L’atto di vendita doveva essere fittizio; infatti, i beni della Congregazione, non avendo essa personalità giuridica, come tutti gli altri istituti religiosi, dal 1867 fino ai Patti Lateranensi (1929), erano intestati a congregati di fiducia; in vista della morte imminente del P. Narciso, i beni intestati a lui dovevano passare, in forma fittizia di vendita (invece che di testamento) ad altro membro della Congregazione.
P. Narciso morì il 3 maggio 1896, a Lendinara. Il diario ne dà stranamente una relazione molto breve, dopo innumerevoli note sulla sua situazione di salute sempre più disastrosa: “Telegramma da Lendinara – Si annunzia per telegrafo da Lendinara la santa morte avvenuta questa mattina del nostro carissimo P. Gretter – Si celebrò subito per esso l’unica Messa che restava da celebrare; si celebreranno senza ritardo le altre tutte di regola, il maggior numero qui, ed una parte dai confratelli sac.[erdoti] di Possagno”. Il funerale si celebrò a Lendinara il 5 maggio, in forma purtroppo molto semplice, data l’assenza della comunità ormai non più esistente; pare fossero presenti, dei nostri, solo il P. Larese e fratel Pietro Sighel, che lo aveva assistito fino all’ultimo. Senza dubbio si celebrarono le corrispondenti esequie a Venezia.
Era stato sepolto naturalmente nel cimitero (vecchio) di Lendinara. Il 18 gennaio 1910, tuttavia P. Vincenzo Rossi, “il preposito, con Don Pietro Rover parroco di Bonisiol[o], presenziarono il trasporto delle ossa dei PP. Domenico Sapori e Narciso Gretter dal luogo ov’erano stati tumulati in Lendinara, al sepolcreto speciale della Congregazione” . Purtroppo, come si spiega meglio nella biografia del P. Vincenzo Brizzi, non si sa dove e cosa sia questo “sepolcreto speciale della Congregazione”. Le sue spoglie si devono quindi considerare disperse.
6.25 P. Pietro Maderò
Pietro Maderò – questo meritevole confratello pochissimo conosciuto nell’Istituto – nacque a Portogruaro, bella città antica, in diocesi di Concordia Sagittaria, oggi in provincia di Venezia, il 2 agosto 1773, e quindi era praticamente coetaneo dei due fondatori. Fu sacerdote diocesano, con ogni probabilità parroco, ed era anche canonico onorario della cattedrale della sua diocesi. Nell’ottobre 1838 entrò in contatto con la Congregazione, proponendo di lasciare alla stessa i suoi beni e di entrare nella comunità, di cui da tre mesi si era compiuta l’erezione canonica.
P. Marco nelle Memorie della Congregazione, in data 14 giugno 1839 scrive: «Il Rdo D. Pietro Maderò di Portogruaro, che fin dall’ottobre dell’anno scorso aveva offerto spontaneamente tutt’i suoi beni alla nuova Cong.ne, cui bramava di ascriversi, significa di esser prossimo a trasferirvisi, e ricerca il beneplacito dei Superiori sulle disposizioni da prendersi riguardo ai beni medesimi».
Seguì tutto un lungo carteggio, sia tra P. Marco e don Maderò, sia di ambedue con il vescovo di Concordia, Mons. Carlo Fontanini, sia con intermediari, soprattutto per quanto riguardava la donazione dei beni, che per vari motivi non sembravano tuttavia realizzabili in denaro e/o trasferibili alla Congregazione.
Interessante la lettera di P. Marco al vescovo Fontanini:
“11 marzo 1840
Mons.r Ill.mo e Rmo
Giunti ormai al sacro tempo Quaresimale era io ben certo che non sarebbe venuto ad unirsi a noi il Rmo Sig.r Can.co Maderò finché non fosse passata la S. Pasqua, troppo essendo disdicevole e inconveniente l’abbandonar la Parrocchia nel maggior uopo. Fu quindi assai generosa la degnazione di V.S. Ill.ma e Rma che coll’ossequiato foglio l0 corr.e volle direttamente farmene un cenno. Stia pure adesso il buon Canonico a travagliare in codesta vigna lieto e tranquillo; noi sarem per accoglierlo a cuore aperto quando piaccia al Signore d’inviarlo alla nostra Comunità. In tale opportuna occasione mi fa un dover di accertare V.S. Ill.ma e Rma che quantunque ci sia molto caro l’acquisto del suddetto esemplarissimo Sacerdote, pure siccome non ci abbiamo messo niente del nostro per indurlo ad ascriversi alla nuova Eccl.ca Cong.ne, così pure ci rimettiamo tranquilli a quel tempo in cui piaccia a Dio ch’egli possa effettuare la vocazione, bramando sol che si adempia la divina adorabile Volontà. Rendo intanto li più ossequiosi ringraziamenti a V.S. Ill.ma e Rma che si è degnata con tanta bontà di onorarmi, e baciandole riverente le sacre mani ec.”
Il 16 dicembre 1839 P. Marco scrive: “Oggi si stipulò una legal Convenzione col Rmo D. Pietro Maderò, colla quale egli cede le sue sostanze alla nostra Congregazione a cui brama di appartenere; ed è questo il primo Sacerdote che ne domanda l’ingresso”.
Ci fu un certo ritardo, sia per evitare che il canonico abbandonasse all’improvviso il suo gregge, sia per qualche problema di salute, oltre che per le difficoltà di sistemare le sue cose; in ogni caso, egli era già molto anziano, di circa 67 anni, quando entrò in Congregazione, il 14 giugno 1840.
Fu vestito dell’abito della Congregazione il 16 luglio 1840.
Nonostante le ricerche incessanti da parte di P. Marco di sacerdoti che volessero unirsi all’Istituto, don Maderò fu il primo, e uno dei soli tre sacerdoti diocesani che entrarono in Congregazione e vi rimasero fino alla morte, nonostante l’estrema povertà della “casetta”, nella quale don Pietro (o P. Pietro) visse per circa 12 anni con molta virtù. Insegnò nelle nostre scuole come catechista ginnasiale dal 1840-1841 e almeno fino al 1850, o comunque fino a poco prima della morte, che sopravvenne l’11 settembre 1852. Fu molto amato dai nostri; si trovano sempre saluti cordialissimi da parte dei padri in viaggio, in trasferta, in villeggiatura, per il nostro, e viceversa.
Il diario della Congregazione, compilato dal 1850 da P. Sebastiano Casara, riporta l’11 settembre 1852: “11. Oggi, giorno di sabbato, è morto piamente, assistito dal P. Preposito, il buon vecchio D. Pietro Maderò, già Canonico onorario della Cattedrale di Concordia, venuto in Congregazione il 14 giugno del 1840, e vestito poi del nostro Abito, benché in seguito, attesa la sua età e i suoi incomodi, non siasi mai sentito di professare.” Aveva 79 anni.
Il suo nome è presente nella data dell’anniversario nella lista dei religiosi defunti nel libretto delle preces dell’Istituto; la sua biografia, senza dubbio troppo breve, quasi un po’ imbarazzata, nel necrologio della Congregazione dice soltanto: “Pietro nob. Maderò. Sacerdote rivestito del nostro abito, rese l’anima a Dio all’età di settanta nove anni, in Comunione con Santa Madre Chiesa. R.I.P.”.
Nei documenti dell’Epistolario e delle Memorie e Diario, lo si trova citato in genere con il titolo di “don”, a volte con il titolo di “P.” o “Padre”, una volta con ambedue i titoli in due luoghi nello stesso documento. Ma quasi sempre è chiamato “don”, come anche nell’annuncio della morte nel diario citato sopra. Nelle scuole e nelle altre attività dell’Istituto aattuava soprattutto come catechista, senza contare le attività liturgiche.
A proposito di don (poi Padre) Pietro Maderò, è importante pubblicare qui la seguente lettera del preposito P. Antonio al patriarca Jacopo Monico, del 2 marzo 1842. In data 28 febbraio il Patriarca aveva comunicato ai Cavanis che il governo chiedeva loro con quale decreto avessero ottenuto il permesso di dar l’abito della Congregazione a don Giuseppe Zambelli, a don Pietro Maderò e al giovane Paolo Chiozzotto. Con la presente il P. Antonio risponde che la Congregazione è riconosciuta dallo Stato e che quindi nel caso non occorre alcun decreto particolare.
La lettera rivela non solo l’esatta posizione giuridica del Maderò, ma anche e soprattutto la Congregazione Cavanis così come la vedevano i fondatori, non solo all’inizio, ma anche nel 1842, cioè quasi 4 anni dopo l’erezione canonica e cinque anni dopo l’approvazione e la pubblicazione delle Costituzioni del 1837. Senza dubbio però non era questa la visione della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari…
“Eminenza Rma
È già noto a Vra Emza Rma che la Congregazione delle Scuole di Carità è un’unione di Ecclesiastici Secolari e non una Comunità Regolare; la qual cosa fu pure significata alla I. R. Corte ed all’Ecc.so Governo, ch’ebbero fra le lor mani l’Apostolico Breve 21 giugno 1836, con cui canonicamente fu istituita la Cong.ne medesima come un corpo di Sacerdoti Secolari uniti insieme col vincolo della commun vocazione e della disciplina uniforme, ma però liberi in ogni tempo a sortire.
Quindi siccome l’abito clericale si veste senza previo ricorso e decreto dell’I. R. Governo, così anche l’abito della Cong.ne, ch’è veste propria di Ecclesiastici Secolari, si è creduto di poter accordarlo liberamente ai nominati Zambelli, Maderò e Chiozzotto, e non possono però citarsi Decreti governativi su tal proposito, perché non si è fatta per tal motivo veruna istanza.
Non si lascia poi di soggiungere esser questa una Comunità che non gravita in modo alcuno né sull’Erario né sulla Cassa della Comune, mentre pel sistema introdotto tutti li suoi Sacerdoti si mantengono da se stessi somministrando alla Casa i mezzi del proprio sostentamento; sicché non può entrar in dubbio l’Autorità Superiore che accrescendosi il numero degl’individui, verun peso si accresca alle Casse erariali o comunali, a cui si ha per massima ferma di non mai domandare anche il minimo provvedimento, benché si affatichi indefessamente a pubblico bene.
Con ciò venendo esaurite le ossequiate commissioni di Vra Emza Rma 28 febbrajo decorso N° 200, nutre insieme l’infrascritto P. Preposito la riverente fiducia che non sia per incorrere alcuna taccia la condotta da lui tenuta finora, essendo questa conforme al metodo in corso riguardo alla vestizione di Chierici secolari.
2 Marzo 1842.”
6.26 P. Vincenzo Brizzi
Vincenzo Brizzi nacque a Bosco della Pieve o a Casio, più probabilmente Castel di Casio paese detto anche Pieve di Casio, una “pieve” situata vicino a Porretta Terme, in provincia e nell’arcidiocesi di Bologna, l’11 aprile 1833. Spronato e consigliato soprattutto da sua madre, donna pia, si presentò all’Istituto Cavanis a Venezia per essere accolto come postulante (aspirante novizio), assieme al cugino Angelo Brizzi, il 9 dicembre 1850, e vi fece tre mesi di prova. Dopo questo periodo, P. Marco, anche a nome di suo fratello maggiore, scrisse al card. Jacopo Monico, patriarca di Venezia, chiedendo che i due giovani fossero accolti entrambi nel clero del patriarcato. Li descrive così: «Avendo dimostrato la loro vita esemplare e ogni altra dote conveniente e opportuna, confermata da documenti autentici, hanno manifestato segni molto consolanti di una felice riuscita, per la loro condotta religiosa e per l’applicazione diligente negli studi.” Il patriarca scrisse di proprio pugno di voler accordare la richiesta dei fondatori in basso alla pagina. Questa lettera suggerisce che indossarono l’abito poco dopo questa data. P. Giovanni Chiereghin ricorda che Vincenzo fu uno degli ultimi aspiranti o postulanti chierici del nostro Istituto a ricevere l’abito dalle mani di P. Marcantonio che «sino a quel momento riusciva a restare in piedi e non dava a nessun altro quella gioia derivante da queste care funzioni familiari ».
I due cugini sono ancora nella comunità Cavanis il 14 ottobre 1851; i due «godono di ottima salute e sono molto contenti». Angelo Brizzi uscì dall’Istituto, e non vi sono sue tracce dopo questa data, ma Vincenzo resterà sino alla morte, dopo 25 anni di vita religiosa nell’Istituto.
I due giovani erano senza dubbio parenti del dottor Bartolomeo Brizzi di Vergato, paese vicino a Roffegno (Bologna) e di suo figlio l’arciprete Zefirino Brizzi, che tra gli altri aspiranti raccomandò a P. Marco il giovane aspirante Domenico Sapori, più tardi professo e prete Cavanis, e poi anche preposito generale. Il dottore Bartolomeo Brizzi era forse il padre di Angelo e lo zio di Vincenzo.
Il 13 giugno 1853 Vincenzo Brizzi (così come gli altri seminaristi, Giovanni Fontana, Giuseppe Bassi e i fratelli laici Avi, Facchinelli e Cherubin) compì la prima aggregazione pubblica all’Istituto, cioè fece la sua prima professione.
P. Casara, preposito, lo inviò a Lendinara, ancora seminarista, domenica 11 settembre 1853, in compagnia di P. Giovanni Paoli e del padre Giuseppe Bassi. Sembra che Brizzi avesse trascorso un periodo problematico di salute prima di questa partenza. Risulta membro della comunità di Lendinara dal 1853 al 1857. Ricevette, ancora a Venezia, gli ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 26 dicembre 1852; l’esorcistato e l’accolitato il 23 aprile 1854. Ebbe il diaconato il 13 gennaio 1856 e fu ordinato prete il 17 maggio 1856. Dopo il 1857 rimase a Venezia alcuni anni. Rientrò a Lendinara nel settembre del 1863, e diventò rettore di quella casa nell’autunno del 1864, ivi trascorrendo dodici anni molto difficili mentre ricopriva questa funzione: gli anni della persecuzione più dura durante i quali mostrò un’equità ed una forza particolari in mezzo a molteplici difficoltà. All’inizio del 1867 si ammalò e il 1o febbraio stava quasi per morire per poi tuttavia recuperarsi.
Sia P. Brizzi che poi P. Giovanni Battista Larese furono i due membri e rettori della casa di Lendinara che vi soffrirono di più dimostrando però più capacità e coraggio nella persecuzione. Per quanto riguarda P. Brizzi, bisogna dire che fu lui che trasferì la comunità espulsa dall’edificio originario, sito nel territorio della parrocchia di S. Sofia, alla dimora provvisoria del «convento» di S. Giuseppe e che comprò e organizzò la nuova casa e le nuove scuole vicino alla chiesa parrocchiale di S. Biagio.
P. Giovanni Chiereghin racconta di lui che, votato all’insegnamento sin da giovane, era dotato di uno spirito pronto, profondo e versatile, capace di apprendere e di padroneggiare diversi campi: per esempio la fisica, la matematica, la meccanica, la filosofia, riuscendo ad eccellere in ciascuno di questi campi. Parla anche delle virtù di P. Vincenzo: la sete di progresso nella vita spirituale, l’umiltà, la modestia, la capacità di valorizzare i consigli e la volontà degli altri piuttosto che i suoi, l’osservazione rigida delle regole, la fermezza di spirito, la piena rassegnazione nelle avversità e la capacità straordinaria nell’essere educatore, insegnante, prete. P. Brizzi, secondo una tradizione più propria ai padri Cavanis a Lendinara, che dei confratelli di Venezia, si proponeva anima e corpo per predicare agli adulti e alle missioni popolari, attività che a loro avviso rientravano nel terzo munus dei Cavanis: il ministero degli esercizi spirituali.
Nonostante il genere letterario piuttosto agiografico del libro di P. Giovanni Chiereghin, è evidente che questo confratello aveva dei grandi meriti e delle solide virtù, che la Congregazione lo amava molto e che riponeva su di lui grandi aspettative.
Si può dunque comprendere come la sua malattia e la morte prematura vennero accettate con difficoltà. Morì a 43 anni fra le lacrime amare dei fedeli di Lendinara e dei confratelli, il 13 gennaio 1876. Un necrologio conservato tra i documenti degli Archivi di Lendinara, lo definisce fra i molti aggettivi usati quale, «Tetragono inconcusso imperterrito». Anche troppo probabilmente: a Lendinara era stato piuttosto duro con gli avversari, a giudizio di P. Da Col, e un po’ più di diplomazia non avrebbe guastato. Così sembra di capire da una dichiarazione del Da Col durante un capitolo definitoriale del 1883: “lodò le qualità personali del P. Larese, accennò alla stima generale, che gode in paese. A giudizio di molti – continuò il Da Col – le cose non sarebbero andate così a rovescio, se il rettore di quella famiglia avesse sempre cercato, come il Larese, di non urtare troppo vivamente i nostri avversari”.
L’elogio funebre fu pronunciato da P. Giovanni Battista Larese, che si rifiutò di far scrivere il suo nome al momento della pubblicazione dell’elogio. Soltanto dopo, nel 1879, quando don Gaetano Brizzi, parroco della diocesi di Bologna e parente di Vincenzo, ne pubblicò un’altra edizione, P. Larese accettò che si scrivesse il suo nome e scrisse anche una lettera/prefazione. P. Casara ne aveva autorizzato la pubblicazione.
6.27 Fratel Luigi Tommaso Armanini
Lo stesso anno di P. Vincenzo Brizzi, il 21 luglio 1851, entrò in Congregazione a 32 anni il giovane Luigi Tommaso. Il 1851 fu un anno ricco di vocazioni per l’Istituto, per grande conforto di P. Marco Cavanis, che cominciava a sentirsi davvero vecchio e malato, prossimo alla morte, e di suo fratello P. Antonio.
Luigi Armanini nacque il 9 febbraio 1819, nel villaggio di Stenico, nella parte italiana del Tirolo, attualmente un comune della vallata delle Giudicarie, nel Trentino occidentale.
Fra Luigi vestì l’abito dei Cavanis nel 1852, il suo noviziato, forse per motivo della sua salute gravemente compromessa, durò, pare, 5 anni anziché 3, come era di regola per i fratelli fino al 1894; avrebbe dunque emesso i voti, a quanto sembra anche dagli esami finali che furono solti sulla sua vocazione e sull’opportunità di ammetterlo ai voti, nell’estate del 1857.
Durante la sua formazione e in seguito si mostrò sempre molto obbediente, attivo, amante della preghiera e dei sacramenti, incline alla mortificazione e a soffrire. Ecco perché, assegnato alla casa di Lendinara, continuava a lavorare duramente negli orti e nei campi della comunità benché avesse dei forti dolori alla gamba destra. Difficile capire che malattia avesse; forse si trattava di un’infezione alla gamba che a poco a poco si estese a tutto il corpo. La malattia peggiorò e quando si decise a parlarne con i suoi superiori era già troppo tardi per curarlo con efficacia.
Assegnato a Venezia, trascorse diversi mesi, allettato o in poltrona per poi restare sempre allettato con terribili dolori alla gamba; riuscì a guarire parzialmente, ma la gamba destra si era accorciata e non era più funzionante, così si aiutava con le stampelle. In questo periodo, nonostante i forti dolori, era ancora dedito al lavoro: rilegava i libri della biblioteca e faceva corone del rosario, ma si dedicava anche ai lavori domestici della comunità; trovava comunque il tempo per pregare a lungo davanti al Santissimo Sacramento. Arrivò quel giorno in cui il suo grande coraggio e la sua pazienza eroica non bastarono più. Allettato definitivamente, non si alzò più fino alla morte.
È interessante leggere nella descrizione che ne fa P. Giovanni Chiereghin, il racconto tragico della malattia e dei metodi della medicina di quell’epoca. Una volta che l’infezione gli aveva raggiunto il petto, il medico gli aveva fatto quattro fori nel torace per fare uscire il pus, ma non fu sufficiente e il povero fratello doveva espellerlo dalla bocca con dei terribili sforzi ripetuti di tosse. Quando non ebbe più forza per tossire e sputare, si soffocò. Aveva vissuto questi ultimi mesi di sofferenza terribile con la più grande pazienza, senza lamentarsi mai e accettando questa croce con fede. Diede un esempio straordinario di coraggio, di resistenza e di speranza ai confratelli che l’amavano, l’ammiravano e lo prendevano da esempio. Prima di ricevere il viatico per due volte, volle entrambe le volte fare atto di pubblico pentimento chiedendo perdono per i suoi peccati; e aveva dichiarato di voler morire nella santa Chiesa cattolica apostolica romana, unito a Papa Pio IX, vicario di Gesù Cristo.
Morì a Venezia il 6 ottobre 1870, alle 15.30, all’età di 51 anni e otto mesi.
6.28 P. Giuseppe Marchiori
Nato a Venezia il 5 luglio 1814, da una famiglia povera di lavoratori, conosciuta per le doti dei suoi componenti: lavoro e risparmio che permisero loro di mantenere i figli con dignità e decoro. Giuseppe era il maggiore di una coppia di gemelli; l’altro gemello divenne un fratello laico molto pio dei Francescani osservanti. Aveva anche due sorelle. Poco dopo i sei anni, i due furono accolti alle scuole elementari dell’Istituto Cavanis. Giuseppe fu amato e stimato per la sua bontà e i suoi risultati scolastici. Dopo le elementari, frequentò anche i sei anni del ginnasio, poi entrò in comunità il 1° marzo 1828 e continuò con gli studi filosofici e teologici al seminario patriarcale di Venezia assieme con altri seminaristi suoi compagni Cavanis. Ancora ragazzino, P. Anton’Angelo gli aveva detto che sarebbe entrato un giorno in istituto; e entrò nella “casetta” e in comunità il primo marzo 1828, a 14 anni e fu ordinato diacono il 25 marzo 1837 assieme con don Sebastiano Casara; divenne prete il 23 settembre 1837, emise la professione dei voti assieme con P. Marco e con gli altri “anziani”, nel luglio 1838, fu dunque uno dei più antichi membri della Congregazione.
Nello stesso anno fu compagno di P. Marco nel suo secondo viaggio a Vienna, la capitale dell’impero austriaco (13.2-6 aprile 1838). P. Marco l’aveva portato con lui affinché potesse ringraziare l’imperatrice-madre Carolina Augusta che aveva donato il suo patrimonio ecclesiastico. Durante il lungo viaggio, Giuseppe scriveva, per conto e sotto la direzione di P. Marco, il diario di viaggio, dove il Padre aggiunse l’ultima riga. Da Vienna scrisse anche una bella lettera a P. Antonio, nella quale descrive perfettamente le virtù dei nostri fondatori.
Fu molto amico con P. Casara, con il quale intrattenne una frequente e interessante corrispondenza. Religioso esemplare, era molto pio, celebrava messa con grande fervore e, scrive P. Giovanni Chiereghin, con abbondanza di lacrime, tanto quanto nella celebrazione della sua prima messa nel 1837.
Visse per molti anni, in due periodi successivi nella casa di Venezia, dove fu vicario, ma visse e si adoperò ancor più per lo sviluppo della casa di Lendinara. Fu di esempio ambedue le case compiendo la funzione educatrice e scolastica. A Venezia ebbe merito speciale per il suo impegno nell’acquisto e nei primi lavori di riforma della chiesa di S. Agnese, nel cui cantiere fu il direttore dei lavori; era inoltre particolarmente abile nell’ottenere contributi e offerte soprattutto in questa occasione. La stessa abilità di farsi amare e di ottenere elemosine per l’Istituto la mostrò anche a Lendinara.
Tornato a Venezia, non solo fu nominato vicario, ma fu anche eletto definitore, cioè consigliere provinciale. Si occupava amorevolmente e diligentemente anche del ramo femminile dell’Istituto in cui fu confessore e direttore spirituale di tutte le suore e della maggior parte delle ragazze. Dimostrò una grande gentilezza, benevolenza e pazienza in tutti i compiti e gli incarichi che svolse, con il risultato che era amato e benvoluto da tutti; ma P. Giovanni Chiereghin fa notare che la gente non sapeva che per natura aveva un carattere estremamente focoso e bilioso, e che la sua gentilezza era frutto di un grande sforzo di virtù cristiana.
Si era ammalato a novembre del 1856, ma la comunità aveva l’impressione si trattasse di una lieve indisposizione; si pregò e in particolare si sa che si fece pregare la Madonna per lui nel santuario di Piné, dove aveva trascorso un breve periodo di vacanza in autunno; ma non ci si preoccupava troppo. Tuttavia, dopo una breve agonia, morì il 13 dicembre 1856, ancora piuttosto giovane, a quarantadue anni e quattro mesi.
Su P. Marchiori, vedi anche il libricino con biografia, di Scolari F.
6.29 P. Antonio Fontana
Antonio Fontana era nato a Stenico, più esattamente, come risulta dal certificato di battesimo, a S. Lorenzo in Banale, chiamato anche Prato in S. Lorenzo, bellissimo paesello ai piedi delle Dolomiti del Brenta, una delle porte del Parco Naturale Adamello-Brenta, in Tirolo (oggi Trentino) il 20 luglio 1824. Era entrato in Istituto il 16 agosto 1846. Aveva indossato l’abito della Congregazione il 24 maggio 1848 ed emesso la professione religiosa il 13 giugno 1853. Già il 26 dicembre 1852 aveva ricevuto la tonsura e i quattro ordini minori. Tutta la sua formazione iniziale si era svolta nella casa di Venezia. Era stato ordinato diacono il 10 giugno 1854 e prete il 19 settembre 1854.
Lo troviamo quasi sempre a Venezia, con l’eccezione dell’anno scolastico 1854-55, che passò impegnato nella scuola elementare a Lendinara.
Durante i trentatre anni della sua vita in Istituto si dedicò all’educazione dei giovani, e particolarmente come maestro dei bambini delle elementari, in genere nelle elementari interiori (I e II). Egli amava profondamente la scuola e in generale stare con i bambini e i giovani in oratorio, in cappella e alla ricreazione. Amava i bambini e ne era ricambiato. Le fatiche scolastiche lo provarono nella salute e dovette ritirarsi; ma non tralasciò mai di essere presente negli ambienti scolastici in primis nei momenti di preghiera e durante le ricreazioni; e si faceva vedere in tutte le occasioni in qualità di padre dei giovani.
P. Sapori scrive di lui: “Tutta la sua vita in Congregazione fu impiegata con esemplare edificazione in pro dei teneri giovanetti, verso dei quali mostrossi sempre infiammato di fervido amore. La Scuola era la sua delizia; il trovarsi in mezzo ai fanciulli nell’Oratorio, nelle ricreazioni il suo maggior conforto. Ed era veramente singolare il modo con cui sapeva guadagnarsene l’animo e meritarsene la stima anche allora che doveva punire”.
Fu uomo buono, semplice e dolce; di quei tipi d’uomo che rifuggono lodi e onori: come risultato, si parla poco di lui nei documenti e nella letteratura dell’Istituto. Monsignor Giuseppe Ambrosi scrive nel suo poema commemorativo: « Padre Fontana non possiamo qui dimenticare, / che con pazienza quasi sovrumana / insegnava in seconda elementare, / e, padre veramente degli scolari, / si fece amar anche dai più somari ».
Morì soavemente a Venezia il 22 maggio 1886, verso le otto di sera, due giorni soltanto prima della morte del confratello P. Giovanni Paoli. Fu molto compianto dai confratelli e dagli allievi ed ex-allievi.
6.30 Fra Francesco Avi
Di questo nostro prezioso fratello, il necrologio di Congregazione dice soltanto: “Fratello laico, consunto da malattia in due mesi, spirò placidamente l’anima baciando negli ultimi istanti l’immagine di Cristo. R.I.P.”, e ne annuncia la data di morte. Si rimane con l’impressione che in Congregazione fra Francesco fosse soltanto defunto. I dati seguenti provengono dalle varie tabelle e da altri testi di questo libro.
Era nato il 10 giugno 1830 a Pergine in Tirolo, arcidiocesi e ora provincia di Trento, in Valsugana, o meglio valle del Fersina. Era entrato in Congregazione l’11 aprile 1850, aveva emesso i voti religiosi il 13 giugno 1853, dopo i tre anni di prassi del noviziato per i fratelli.
Con dati non del tutto completi, cioè con qualche lacuna, lo troviamo con ogni probabilità a Venezia dal 1850 al 1856; a Lendinara dal 1856 al 1858, con l’ufficio principale di cuoco di comunità (funzione che eserciterà per tutta la vita, finché la salute lo assisterà, cioè fino al 3 settembre 1886); a Venezia probabilmente dal 1858, certamente fino al 1883; ma nel 1880 era stato inviato temporaneamente a Lendinara, il 26 luglio, per assistere come compagno e infermiere il P. Nicolò Morelli, ammalato, che morirà però pochi giorni dopo, il 31 luglio 1883; lo troviamo di nuovo a Lendinara dall’autunno 1883 al 1886; il 3 settembre di quest’anno, ormai ammalato da tempo e a questo punto incapacitato a svolgere il suo ufficio di cuoco, viene trasferito a Venezia. Qui muore pochi mesi dopo, il 1° dicembre 1886.
Così lo ricorda P. Sapori, preposito, nel diario di Congregazione: “Stamane fra le dieci e le undici spirava dolcemente nel Signore il carissimo nostro fratello Laico Francesco Avi. Era venuto nell’Istituto l’anno 1852; ed i trentaquattro anni, che vi passò, furono anni di vita veramente religiosa. Sempre pronto all’obbedienza, sempre contento delle disposizioni dei Superiori, sempre esatto nell’osservanza. Lo scorso settembre era stato chiamato a Venezia nella speranza che si potesse ristabilire un poco in salute; ma il Signore disponeva così perché compisse la sua carriera religiosa dove l’aveva cominciata. Sul letto de’ suoi dolori di giorno in giorno andò perfezionando la preziosa sua corona. Volle ripetutamente essere avvalorato col SS. Viatico, e dopo due mesi d’acerbe sofferenze, baciato l’imagine del Crocifisso, placidamente si addormentava nel Signore. E noi dolenti, ma rassegnati alla Volontà divina, non meno che edificati dall’esempio del desideratissimo Confratello, non possiamo che ripetere: Moriatur anima mea morte justorum. L’Avi era l’ultimo dei fratelli Laici, i quali ebbero la sorte di formarsi sul vivo esemplare dei Venerandi nostri Fondatori”.
6.31 P. Tito Fusarini
Nato il 6 dicembre 1812, era originario di Mestre, a quei tempi in diocesi di Treviso, oggi nel patriarcato e nella provincia di Venezia. Era figlio di Domenico e di Luigia Morosini. Fu cappellano, curato e parroco, del clero diocesano, della diocesi di Treviso; parroco per undici anni nel paese di Riese (ora chiamato Riese-Pio X, in provincia e diocesi di Treviso). Era anche direttore spirituale e professore di omiletica (Sacra Eloquenza, si trova scritto) al seminario maggiore di Treviso e consigliere al tribunale ecclesiastico matrimoniale della stessa diocesi. A Riese conobbe Giuseppe Melchior Sarto, un povero bimbo che dimostrava grande interesse per le cose di Dio e anche per gli studi. Giuseppe faceva a piedi ogni giorno diversi chilometri tra andata e ritorno, senza scarpe per non consumarle, per frequentare la scuola in una cittadina assai distante, Castelfranco. Il parroco don Tito orientò il bambino Giuseppe alla vocazione presbiteriale, lo aiutò materialmente negli studi prima a Castelfranco, poi sembra sicuro che intercedesse presso il Patriarca Jacopo Monico (anche lui nativo di Riese) per fargli avere un posto gratuito al seminario di Padova. Questo bambino diventato prete, parroco, vescovo di Mantova, patriarca di Venezia, venne eletto Papa il 4 agosto 1903, con il nome di Pio X, il papa che la chiesa dichiarò in seguito santo Pio X.
Don Tito lascerà più tardi il ministero di parroco, per la grave malattia che cominciò ad affliggerlo, probabilmente già la tisi, come si dirà più sotto, e divenne padre spirituale del seminario diocesano. Desiderava però già da 16 anni di entrare in un Istituto regolare e di lasciare il secolo quando entrò in contatto epistolare con P. Sebastiano Casara e, dopo un breve scambio di lettere, fece il suo ingresso in Congregazione a 45 anni, anzi più esattamente quando gli mancava poco a compiere i 45 anni il 23 agosto 1857, nell’Istituto Cavanis, che egli all’inizio credeva erroneamente fosse una casa dell’ordine degli Scolopi, e desiderava comunque essere figlio del glorioso S. Giuseppe Calasanzio. Vi fu accolto a braccia aperte, sempre con grande manifesta simpatia e stima. Vestì l’abito dell’Istituto nel novembre 1857; fece un solo anno di noviziato (1857-58), perché, essendo già sacerdote, e conoscendo bene il diritto canonico, sapeva che in questa condizione poteva ottenere questo “sconto”; e infatti si conserva la sua richiesta, del 14 febbraio 1859, la risposta positiva del Prefetto della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, e l’autorizzazione del Papa Pio IX al patriarca di Venezia a decidere se concedere l’indulto. Il patriarca, che era Angelo Ramazzotti, ricevuto il rescritto pontificio il 12 febbraio 1859, approvò la riduzione del noviziato a un solo anno il 25 febbraio 1859; don Tito professò i voti poco dopo, in data 11 marzo 1859, in chiesa di S. Agnese, davanti a tutta la scolaresca riunita, tra il giubilo generale. Fu ben presto eletto vicario, dal 1861 della casa di Venezia e della Congregazione poco dopo essere entrato in Congregazione, probabilmente perché era esperto in diritto canonico, e vi rimase fino alla morte, e come “procuratore” come si diceva allora, cioè come economo generale, si occupò dei conti della casa e forse della Congregazione; fu inoltre attivo nel ministero delle confessioni, con grande beneficio per l’Istituto. Il 7 gennaio 1873 ricevette la patente di autorizzazione all’insegnamento elementare dal Regno d’Italia, Provveditorato agli studi, il che vuol dire che voleva veramente fare scuola, non soltanto essere vicario, procuratore ed economo e confessore, ma dedicarsi all’educazione della gioventù. Consumato da un male che lo affliggeva già dai 25 anni, la tisi, con ogni evidenza, morì il 16 dicembre del 1877, confortato dai sacramenti, dopo aver vissuto in Congregazione un po’ più di 20 anni, come osserva P. Casara.
6.32 P. Nicolò Morelli
Il necrologio della Congregazione ci dà di questo religioso soltanto poche righe, piuttosto imprecise e anzi inesatte: “Della diocesi di Trento, sacerdote novizio, si addormentò placidamente nel Signore a Lendinara, dove era stato mandato per soggiornarvi qualche tempo”.
Di lui realmente non sappiamo molto, e i dati del necrologio sono in buona parte errati. Non era affatto novizio quando morì, ma sacerdote professo. La sua storia era stata la seguente: Il P. Morelli, congregato dal 7 agosto 1855 al 1864, dopo un lungo periodo di assenza di tredici anni dalla Congregazione (1864-1877), durante la quale era rimasto prete nel clero diocesano di Trento (assenza più o meno giustificata dalle regole del 1837, per motivi di poca salute sua e di povertà della famiglia), era ritornato spontaneamente in seno alla Congregazione il 18 settembre 1877, a Possagno, e il preposito intendeva chiedere alla S. Sede che questo “figlio prodigo” potesse riprendere la vita religiosa senza dover rifare il noviziato. Consultatosi con un suo amico, il Guardiano Generale dei Frati minori conventuali, seppe che non era necessario fargli rifare il noviziato (era ben conosciuto dalla Congregazione e la conosceva bene) ma, dato il tipo dei nostri voti, che erano definiti ancora “voti locali” (cioè validi solo fino a quando uno apparteneva alla comunità di quel luogo), doveva essere ammesso semplicemente a rinnovare i voti.
Il Morelli dunque era nato a “Canezza nel Tirolo Italiano”, quasi certamente Canezza frazione di Pergine in Valsugana, nell’arcidiocesi e oggi provincia di Trento, il 28 novembre 1821. Era entrato in Istituto il 7 agosto 1855, era stato rivestito dell’abito dell’Istituto il 16 settembre dello stesso anno, risulta novizio il 12 novembre 1856, aveva emesso la professione dei voti temporanei il 28 novembre 1857 e naturalmente non quelli perpetui, il cui uso entrò in Congregazione solo nel 1891. Fu senza dubbio ordinato prete (e ricevette prima tonsura e ordini minori e maggiori): ma non conosciamo le date relative, neanche quelle dell’ordinazione presbiterale. Non è sicuro se abbia ricevuto gli ordini in Congregazione, prima della sua uscita nel 1864, o, cosa più probabile, tenendo conto delle date, in diocesi di Trento; il che spiegherebbe che non ci siano conosciute le dare delle varie ordinazioni.
Lo troviamo nella casa di Venezia dal 1856 al 1860; a Possagno, come vicerettore dal 1860 al 1864; qui sembra abbia avuto problemi di relazione con gli altri (pochi) membri della comunità. Seguono gli anni in cui, dopo essere uscito regolarmente dalla Congregazione, fu prete diocesano nell’arcidiocesi nativa di Trento. Nel 1877 rientra in Congregazione ed è accolto con gioia, rinnova i voti, senza ripetere il noviziato, e dal 1877 alla morte lo troviamo a Lendinara, forse però a Venezia nell’ultimo anno di vita, prima di recarsi per motivi di salute a curarsi, senza successo, a Lendinara.
P. Casara scrive il 26 luglio 1880: “Il p. Morelli, andato da varii giorni a Lendinara non bene in salute, vi si ammalò, e il P. Larese mi scrive essere urgente che gli mandi qualcuno in assistenza. Vi mando il P. Paoli col fr. Francesco Avi, scrivendo al P. Larese che sia questo per compagno al p. Morelli, subito che il medico lo creda in grado di poter andare in Tirolo a rimettersi – Avuto, oggi stesso, lettera scritta iersera dal p. Larese con tristi notizie. Il p. Morelli è molto aggravato, e non senza pericolo. Si tratta di tifoidea. Rescrivo dunque subito al p. Larese in relazione, avvisandolo anche essere necessario cautele, perché non contragga il male chi assiste l’ammalato. Parli di ciò col medico, ecc.” E il 28 luglio: “Ebbi notizie ieri ed oggi del p. Morelli. È molto aggravato e in pericolo. Ieri fu comunicato per Viatico, in una mezz’ora che ebbe libero da sonnolenza. Disse egli stesso con gran sentimento il Confiteor e il Domine non sum dignus. Conobbe (riconobbe, dunque era cosciente) i due andati di qua (n°309), e saluta tutti. Non è perduta ancora ogni speranza (29 luglio).” Il 30 luglio: “Il p. Morelli si aggrava. Ieri alle 5 pom[eridiane] ebbe l’estrema Unzione, e oggi ha quasi continuo singulto. È presente a sè stesso, è tranquillo, prega quasi sempre, ci manda i suoi saluti.” Il 31: “Il p. Nicolò ieri dopopranzo era aggravatissimo, col singulto continuo, e come in letargo. Un momento solo si scosse, disse una giaculatoria e baciò il Crocifisso. Passò la notte nello stesso stato, e la mattina alle 5 ½ era prossimo a entrare in agonia.” Venne poi il momento della morte, avvenuta il 31 luglio 1880.
Così nel parlava il giorno dopo P. Casara nel diario: “Ier sera verso le ore 9 il buon p. Nicolò Morelli placidamente spirava, ricevuti a tempo in piena serenità di mente e fervida pietà i ss. Sacramenti. (omissis). Era di spirito veramente ecclesiastico, di grande umiltà, e di cuore non ordinariamente ampio e fervido. Fu impiegato qui nel fare scuola i primi anni, e poi fu mandato a Possagno, dove stette fino al novembre del 1864, quando per salute assai rovinata ed anche per circostanze di famiglia ritornò in patria: sempre però col desiderio di ritirarsi in qualche Comunità. E ne fece anche la prova, senza potervi riuscire, fra i Carmelitani scalzi a Treviso, e fra i Certosini a Pavia. Conservò tuttavia sempre grande affetto alla Congregazione, nella quale desiderò ritornare, pregò di essere ricevuto di nuovo, lietissimo vi ritornò, e vi si trovava benissimo. Non essendo più in grado di sostenere il peso della scuola, e nemmeno di assistere alcuno ascoltando Confessioni, si occupava assistendo in Sacristia, ed in opere anche di servizio in Casa, ed impiegava buon tempo in orazione – Avendo dovuto chiamar a Venezia il P. Bolech, perchè non restassero in solo due Sacerdoti a Lendinara, vi mandai il P. Morelli, che vi andò anche assai volentieri. Che non istesse bene lo si vedeva, ed anche per questo li feci volentieri cambiar aria, con intenzione che andasse poi a respirare l’aria natia, e prendere delle acque minerali in Piné. Ma egli aveva dissimulato troppo le sue sofferenze! Andato a Lendinara il dì 9 luglio p. p., poté sostenervi appena otto giorni. Fermatosi a letto, il suo male fu tosto riconosciuto grave, e il fu tanto che dopo soli dieci giorni morì. Diede grande edificazione nella sua decombenza per la sua pazienza e pietà e per la perfetta sua rassegnazione alla volontà divina. Ei ci lasciò con la più fondata speranza che lo avremo amorosisimo in cielo, se tanto ci fu amoroso qui in terra”.
6.33 Fratel Giacomo Barbaro (Fratel Giacometto)
Nacque a Venezia, probabilmente nel 1844, e rimasto orfano, fu accolto nel 1850 in un orfanotrofio a 6 anni. Entrò in istituto nell’autunno del 1860 come aspirante fratello laico, mise l’abito l’8 dicembre 1860, fece il noviziato e la professione religiosa a Possagno il 15 dicembre 1863. Era piuttosto basso e in istituto lo chiamavano «Giacometto». Nei primi anni lavorava come sarto della comunità. Dato che era malato e anche debole agli occhi, non poté dedicarsi più a questa attività e venne impiegato in lavori più leggeri e soprattutto ad occuparsi della disciplina dei bambini, cosa rara per un fratello laico a quei tempi. Era anche catechista e preparava i bambini per le confessioni, li sorvegliava alla ricreazione e in oratorio e ancora, quando c’era bisogno, preparava i bimbi alla prima comunione e alla cresima, li seguiva e li preparava per la confessione, faceva sorveglianza alla ricreazione e all’oratorio, e se c’era bisogno suppliva gli insegnanti nella scuola elementare. P. Chiereghin dice che era meraviglioso vedere 60 o 70 bambini (tale era allora il numero dei bambini in ogni classe) silenziosi, tranquilli, contenti, che lo ascoltavano, lui che era laico, basso, mingherlino e che aveva difficoltà anche per parlare. Durante il suo ultimo anno di vita, sostituì per sette mesi l’insegnante di prima che era malato. Aveva davvero il dono di buon educatore Cavanis.
Il caro religioso morì di tubercolosi il mattino del 17 settembre del 1882, all’età di 58 anni circa.
P. Chiereghin conclude questo capitolo, l’ultimo del suo libro, con questa frase: “Noi abbiamo perduto un gioiello, un lavoratore molto utile e troppo prezioso. Che adesso vegli su di noi dal Paradiso”.
Così anche noi oggi possiamo sperare e pregare lui, e tanti tra i nostri antichi confratelli.
Mons. Giuseppe Ambrosi scrive di lui: «Un’altra anima bella e con ragione, / chi non ricorda, Padre Giacometto? / La santa Infanzia fu la sua missione, / e, per riuscire santo inver perfetto, / l’incarico sostenne in tutti i tuoni/ di sorvegliante delle confessioni.».
6.34 P. Giovanni Maria Spalmach
Giovanni (Maria) Spalmach era nato a Venezia il 30 luglio 1868. Lo troviamo seminarista a Lendinara, dal 1886. Nell’anno seguente, si ottiene dal preposito di mantenere ancora un anno «il buon giovane», l’aspirante «Giovanni Spalmach studente di VII, che dimostra un vivido impegno nell’educazione dei giovani; aiuta molto nella dottrina cristiana e a scuola». Purtroppo il seminarista non godeva di buona salute. Il 2 agosto 1889 P. Da Col scrive nel Diario: “Tre lettere da Lendinara, dei PP. Bassi, Sapori e del giovane Spalmach che riguardano (…) la salute dello stesso giovane, e la sua brama di vestire il nostro santo abito. Lo ricevette, dalle mani del P. Sebastiano Casara alla festa della Maternità di Maria, il 13 ottobre 1889. P. Casara si trovava per altro motivo nella cittadina polesana e sostituì il preposito in questa felice circostanza, essendone stato incaricato dallo stesso. P. Giuseppe Bassi, residente a Lendinara, fu incaricato come maestro dei novizi ad hoc per il giovane rivestito dell’abito. La cattiva salute del confratello fu dimostrata anche dal fatto che, venuto da Lendinara a Venezia “per la perizia come coscritto”, “fu dichiarato inabile per la milizia e gli venne rilasciato il relativo documento”.
Il 13 novembre 1891 Spalmach emise la sua professione religiosa triennale a Lendinana, nella chiesetta di S. Giuseppe Calasanzio, nelle mani del preposito P. Da Col.
Dopo aver ricevuto, sempre a Lendinara, la tonsura e gli ordini minori il sabato antecedente il giorno 21 dicembre 1891, cioè il 19 dicembre 1891, fu ordinato suddiacono il 12 marzo 1892 dal vescovo diocesano di Adria (Rovigo) mons. Antonio Polin a S. Apollinare, in occasione di una visita pastorale. Ricevette l’ordinazione diaconale il 2 aprile 1892 dallo stesso vescovo a Badia Polesine (Rovigo) e l’ordinazione presbiterale l’ 11 giugno, sempre del 1892, nella cattedrale d’Adria. A Lendinara naturalmente si celebrò solennemente il 12 giugno la prima messa di P. Giovanni Spalmach, che aveva compiuto i suoi studi proprio a Lendinara, durante almeno 6 anni. Grande gioia della comunità e commozione «dei buoni» della città.
Il 15 novembre 1894 il P. Spalmach e i seminaristi Augusto Tormene e Francesco S. Zanon furono i primi che, una volta finito il triennio di professione temporanea, si unirono all’Istituto con la professione perpetua, secondo le nuove costituzioni (1891) nella loro seconda parte.
Benché sempre cagionevole di salute, attese a Lendinara all’educazione dei ragazzi. Distinto per la semplicità, per la pietà, per la fortezza d’animo nel sopportare i dolori della malattia, da cui era colpito, ci viene presentato morente a Venezia, dove era venuto a passare l’ultima malattia, anche perché la casa di Lendinara stava chiudendo definitivamente i battenti, dalla fine del 1885 all’inizio del 1896. A Lendinara ci restava solamente il P. Narciso Gretter, morente anche lui, Padre Gianmaria si addormentò, infatti, piamente nel Signore, a Venezia, il 2 gennaio 1896, “per celebrare in cielo la solennità dell’ottava di S. Giovanni Evangelista”.
Così ne scrive P. Giuseppe Da Col, preposito, nel diario della congregazione: “Morte beata del P. G. Spalmach – Anche questa mattina il suddetto carissimo confratello desiderò e fece la Santa Comunione, che lo confortò assai a soffrire le gravi angustie cagionategli dalla affannosissima respirazione ecc., colla tranquillità, e con frequentissime spontanee espressioni di confidenza e rassegnazione in Dio, del giusto che sta per incontrare la morte. E la morte ce lo rapì un’ora circa prima della fine di questo giorno precedente all’ottava dell’Evangelista S. Giovanni, del quale portava il nome. La nostra Congregazione, in modo singolare edificata dai santi di lui esempi di pietà, di senno, di zelo per l’educazione della gioventù, nel vivo dolore per averlo quaggiù perduto si consola colla più ferma speranza di averlo avvocato nel cielo”. Il funerale si tenne nella chiesa di S. Agnese, essendo presenti i confratelli, la scolaresca, il clero dei Gesuati e altri preti.
6.35 P. Giuseppe Bassi
Giuseppe nacque a Vigolo Vattaro, provincia e arcidiocesi di Trento, nel Tirolo italiano, l’11 aprile 1832. Entrò in Congregazione ancora adolescente a quindici anni il 15 settembre 1847. Si distinse presto principalmente per la formazione impartitagli dall’anziano dei fondatori.
Lo troviamo novizio a Venezia nel 1847-48; indossò l’abito della Congregazione il 7 maggio 1848; emise la sua professione religiosa il 15 giugno 1853. Aveva già avuto la tonsura e i primi due ordini minori il 26 dicembre 1852. Svolse gli studi teologici a Venezia nei primi anni ‘50. Ricevette l’esorcistato e l’accolitato il 23 aprile 1854, il diaconato il 23 dicembre dello stesso anno. Fu ordinato presbitero il 4 aprile 1855 a Venezia.
Lo troviamo a Lendinara dall’autunno del 1855 al 1860, dove insegnava almeno tedesco, essendo “tirolese”; a Possagno dal 1860 al 1862 (forse fino al 1864) e poi come pro-rettore dall’autunno 1864 al 1869; a Venezia, dopo due anni di lacuna, a Venezia dal 1871 al 1878, e poi di nuovo (dopo una lacuna di cinque anni senza dati, anni passati con ogni probabilità a Venezia) nel 1883-84; ancora a Lendinara dal 1984 al 1895, cioè fino al penultimo anno di questa casa; lì fu pro-rettore dal 1890 al 1895. In seguito fu probabilmente a Possagno dal 1896 alla morte nel 1905.
Pur non arrivando mai a essere eletto preposito generale, esercitò varie cariche della Congregazione: fu segretario del 2° capitolo provinciale ordinario del 14-16 settembre 1858; fu eletto definitore (succedendo allora a P. Casara) nel 3° capitolo provinciale straordinario del 29 settembre 1964; e da allora fu rieletto definitore nei capitoli del 1871, 1883 (quando fu anche eletto vicario della casa di Venezia), 1887, 1891, 1894, 1897, 1900. Nel complesso rimase definitore dal 1864 al 1905, cioè fino alla morte, senza interruzione, per 59 anni, essendo senza dubbio il definitore più longevo nella carica; fu vicario della Congregazione e della casa di Venezia dal 1877 al 1884. Nel 1887 soffrì lungamente “addolorato dalla sua erpete inveterata e maligna”.
P. Francesco Saverio Zanon, che lo aveva conosciuto personalmente, lo ricorda così: “Io non fui scolaro del P. G[iuseppe] Bassi che era vissuto per dodici anni col P. Antonio Angelo; godetti però della sua famigliarità in Congregazione per undici anni, a Venezia quando veniva per i Capitoli, e a Lendinara e a Possagno. Veramente santo uomo, di mitezza, prudenza, amabilità straordinaria. Dotto nella filologia latina e nella greca rendeva piacevolissimo il suo insegnamento tenendo nella scuola una disciplina soave e spontanea che otteneva senza il minimo sforzo. Bastava una parola, un atteggiamento un po’ serio, per correggere qualche esuberanza dei discepoli che egli amava come aveva imparato dei suoi Padri, e che poi conservavano di lui ricordo affettuoso e imperituro. Di tutto questo fui testimonio fin che visse, e ne sono testimoni tuttora i pochi suoi allievi oggi superstiti.
Fino al giorno che precedette la sua morte quasi improvvisa, questo degno figlio dei fratelli Cavanis aveva fatto la sua scuola, e nel libriccino del mese del S. Cuore di Gesù fu trovato il segno proprio alla data del suo transito all’eternità.
Quanti tesori dì sapienza cristiana egli aveva versato nelle anime dei suoi allievi! I pochi cenni dell’orazione funebre fattagli dal suo discepolo D. Emilio Silvestri e di altre piccole pubblicazioni ne possono dare un’idea. Nella sua carriera mortale, si può dire che era stato eccellente nell’insegnare bonitatem et disciplinam et scientiam: con la parola e con l’esempio delle sue virtù.”
Un’altra fonte dice di lui: “Sembrava incarnare straordinariamente tutte le virtù, in particolare quella della pazienza. Dotato di incredibile amorevolezza, attirava a sé qualsiasi anima”.
P. Zanon nota che P. Bassi e P. Giovanni Chiereghin avevano dei caratteri completamente diversi; ma si volevano bene con tutto il cuore, lavoravano assieme ed erano «uniti nella concordia della santa carità religiosa, ricevuta dal prezioso magistero dei fratelli Cavanis». Di passaggio, si potrebbe osservare di P. Bassi e P. Giovanni Chiereghin che erano anch’essi divenuti un cuore solo e un’anima sola, pur essendo molto diversi, e che si poteva applicare anche a loro due, ciò che dicevano di sé i fondatori, cioè che erano, “due teste e un solo cuore come l’aquila austriaca».
Dal sabato 9 maggio 1903 la sua salute risultava molto debole e con seri problemi, ma la situazione volge al meglio nel prosieguo del mese.
Sino al giorno che precedette la sua morte quasi improvvisa, questo degno figlio dei fratelli Cavanis aveva fatto la sua scuola e nel suo libretto di devozione «Il mese del Sacro Cuore di Gesù» si trovò un segno in corrispondenza esatta alla data della sua morte».
Con P. Casara intrattenne una grande amicizia, così come una corrispondenza frequentissima e molto interessante, tra le altre cose, su tematiche inerenti alla matematica e alla geometria. Si dedicò con assiduità e con molto merito all’educazione dei giovani fino al giorno prima della sua morte che avvenne all’improvviso a Possagno, il 3 giugno 1905, dopo aver vissuto in Congregazione quasi sessant’anni, e quand’era nel suo settantaquattresimo anno di vita.
Sulla sua morte, scrive P. Vincenzo Rossi, preposito, nel diario: “Giunge luttuosissimo telegramma da Possagno recante la notizia, che getta la costernazione nei nostri cuori della quasi improvvisa morte del dolcissimo P. Giuseppe Bassi, gemma preziosa della nostra Congregazione. Il giorno stesso precedente aveva fatto scuola nelle ore antimeridiane. Si stende subito un avviso di partecipazione, che viene inserito nel giornale “La Difesa” e se ne spediscono poi varie copie. Il preposito piangente parte subito per Possagno”. E ancora: “Commoventissimi funerali a Possagno nel tempio Canoviano gremito di popolo che ben mostrò la stima grandissima che avea del caro defunto”.
6.36 P. Giovanni Battista Larese
Di P. Larese e delle sue eroiche lotte si è molto parlato nel capitolo inerente alla casa di Lendinara. Il necrologio di Congregazione scrive di lui semplicemente così: “Vicario della nostra casa di Venezia dopo quaranta tre anni di vita tra noi, avendo ricoperto le più importanti cariche sia a Lendinara che a Venezia, sempre dedito alla scuola, nella domenica nella quale aveva stabilito di recarsi a Possagno fu costretto a letto, e al venerdì [15 luglio 1904], al primo mattino, tra il pianto dei confratelli, volò ai piedi della Madre Maria. R.I.P.”
Giovanni Battista Larese era nato a Venezia, nella parrocchia di S. Felice a Cannaregio, il 17 marzo 1845 e, rimasto orfano, era stato raccolto in un orfanotrofio, dove era stato compagno di Giacomo (Giacometto) Barbaro, più tardi fratello laico nella Congregazione Cavanis.
Entrato in noviziato dei Cavanis a Possagno nel 1860, fece in quel paese nella nostra comunità locale la vestizione il 16 novembre 1861, emise la prima professione religiosa il 16 novembre 1863; e in seguito senza dubbio emise privatamente la professione perpetua, dopo la pubblicazione delle regole de 1894.
Passò, ancora seminarista, alla casa di Lendinara nel 1865, e cominciò, ben presto, a compilare il diario di quella comunità, con la sua splendida calligrafia, a partire dal 1866, ricostruendo all’inizio le sette pagine che erano state “censurate” e tagliate, in occasione del periodo della III guerra d’Indipendenza; rimase a Lendinara fino almeno al 1867, ma probabilmente fino al 1872.
Ricevette in una sola volta (caso abbastanza raro) la tonsura e i quattro ordini minori a Venezia il 19 settembre 1868; il suddiaconato, pure a Venezia, dal Patriarca Giuseppe Luigi Trevisanato, il 18 settembre 1869; il diaconato a Venezia il 17 novembre 1869, ambedue dal patriarca a Venezia; e infine il presbiterato a Padova il 18 dicembre dello stesso anno. Continuava però a risiedere a Lendinara.
Lo troviamo a Venezia dal 1872 al 1874; poi di nuovo a Lendinara, questa volta come pro-rettore, dal 1874 al 1884; ancora e definitivamente a Venezia dall’autunno 1884 alla morte, sopravvenuta nel luglio 1904. A Lendinara, almeno, insegnava alle elementari superiori, ma probabilmente anche nel ginnasio. A Venezia non è noto in quale ordine di scuole e quale materia insegnasse. Si sa però che, almeno nel 1893, insegnava nel ginnasio ma, dopo che P. Francesco Cilligot lasciò la Congregazione proprio in quell’anno, e la comunità si trovò in imbarazzo, P Larese accettò umilmente di passare a insegnare nelle classi elementari inferiori, suscitando l’ammirazione dei confratelli e dei superiori.
Fu eletto terzo consigliere generale (o definitore) nel capitolo del 6 agosto 1891, rieletto 3° o 4° definitore, secondo i mandati, nel 1894, 1897 e 1900; fu nominato dal P. Giovanni Chiereghin, che era preposito generale, vicario della casa di Venezia e “procuratore”, ossia economo di quella casa e probabilmente anche economo generale nell’agosto 1900, e rimase tale fino alla morte. Divenne primo definitore e vicario nel 1902, a seguito della morte del P. Giuseppe Da Col, che sostituì.
Durante il consiglio definitoriale (1° settembre 1883), successivo al Capitolo provinciale del 1883, P. Giuseppe Da Col, che era stato per tre anni membro della comunità di Lendinara e ne sarà in seguito il rettore, dando relazione al preposito e ai definitori su quella casa, “lodò le qualità personali del P. Larese, accennò alla stima generale, che gode in paese. A giudizio di molti – continuò il Da Col – le cose non sarebbero andate così a rovescio, se il rettore di quella famiglia avesse sempre cercato, come il Larese, di non urtare troppo vivamente i nostri avversari. Disse non essere state infruttuose le osservazioni del Preposito nell’ultima visita, tenersi ora più regolarmente le Scuole, avvenire assai di raro che il rettore se ne allontani in tempo di lezione, ed anche allora costrettovi dal suo dovere di Capo della famiglia”. Questa lunga dichiarazione, che dovrebbe essere letta integralmente, da un lato, come si è visto, loda entusiasticamente l’operato di P. Larese nella sua abilità, dimostrata nella difficile situazione politica del tempo a Lendinara; ma fa anche capire che P. Larese dedicava troppo tempo alle confessioni e alla predicazione, assentandosi molte volte dalla casa e dalla scuola anche durante il tempo di lezioni.
Nel maggio 1896 P. Larese andò a Lendinara per conchiudere gli ultimi affari di quella casa, dopo la morte del Padre Narciso Gretter e la chiusura formale della casa.
Di P. Larese bisogna ricordare anche il suo prezioso archivio personale, confluito in AICV: contiene tra l’altro un pacco segnato come “Scritti relativi alla corrispondenza del P. Casara col P. Larese rettore della Casa di Lendinara”. Tale pacco, di 953 carte, contiene anche 367 lettere di P. Casara.
Dopo il ventennio (1884-1904) trascorso serenamente a Venezia, la vita del sempre sorridente P. Larese, che era vicario generale in quel mandato, stava avviandosi alla fine e si parla qualche volta dei suoi acciacchi nel diario di Congregazione del 1903 e 1904. La sua morte tuttavia giunse quasi di sorpresa, a Venezia, il 15 luglio 1904. Così ne parla P. Giovanni Chiereghin: “Il Signore è proprio il padrone delle nostre vite. Umilmente quindi ripetiamo col Seniore di nostri Santi Fondatori: Fiat, laudetur, etc. Chi l’avrebbe mai immaginato? Il P. Larese è volato al Cielo a godere il premio, mentre noi speravamo che continuasse ancora ad acquistarsi meriti pel Paradiso. La sera del giovedì (jeri) il medico gli fece un abbondante salasso; speravamo che questo dovesse migliorare le condizioni dell’infermo (!), invece, cominciata la notte, l’infermo principiò subito ad essere agitato per modo che sulle 12 si dovette chiamare il medico, il quale capì subito che l’infermo peggiorava. Con un amore singolare gli fu attorno e tentò tutti i mezzi suggeriti dall’arte, ma tutto fu inutile. Il Signore avea stabilito di chiamarlo al premio. Sulle cinque [del mattino] spirò dolcemente l’anima sua, lasciando i confratelli immersi nel dolore e sbalorditi per la sua quasi improvvisa partenza. Il Signore gli doni l’eterno riposo.
A conforto di tale sventura ci serve il pensiero che morì alla vigilia del Carmine, festa per noi principalissima. Così si è provato una volta di più che tutte le cose nostre per Maria”.
Si celebrò in S. Agnese il 16 luglio alle ore 11 il funerale del “desideratissimo P. Vicario. Il concorso numeroso sì del clero sì delle persone rispettabili del laicato mostrò la benevolenza generale e intima verso l’Istituto, nonchè la stima verso il defunto. Si vuole ricordare specialmente Sua Ecc. il Patriarca che mandò il suo Segretario a rappresentarlo: il Rdo. Jeremich vice rettore del Seminario con larga rappresentanza di chierici; e il clero dei Gesuati sempre eguale ed affettuoso nelle sue manifestazioni di stima all’Istituto.” Ma non basta: il diario annota che “Mons. Pescini scrive che il S. Padre [Pio X] rimase profondamente commosso e gli diede l’incarico di farci pervenire le più vive condoglianze assicurandoci ch’egli unirà i suoi ai comuni suffragi di tanti e tanti ammiratori dell’illustre e benemerito defunto”.
Basti solo aggiungere qui quanto scritto su di lui in simpatici versi da mons. Giuseppe Ambrosi: P. Larese « … che non sapea che cosa fosse fiele, / sempre seren nell’anima contenta / che effondeva con tutti latte e miele, / sempre paterno nel suo bel sorriso, / che brillerà perenne in Paradiso».
6.37 Fratel Giovanni Cherubin
Giovanni Cherubin era nato a Cavazzale, diocesi di Vicenza, il 15 aprile 1808. Entrò in Congregazione già da adulto, a 40 anni, il 31 gennaio 1848. Era ancora in prova quando scoppiò a Venezia la rivoluzione iniziata il 17 marzo 1848, che produsse la gloriosa benché effimera Repubblica di S. Marco. Era dovuto uscire dalla comunità e andare ad abitare in una residenza privata dal 5 al 17 aprile, per evitare che non ci fosse in casa Cavanis uno «straniero», siccome era di Vicenza, durante i giorni delle sommosse popolari.
Durante l’assedio della città serenissima di Venezia Fratel Giovanni Cherubin accompagnò coraggiosamente il giovane P. Vittorio Frigiolini, e andò ad abitare con lui nel nostro Istituto femminile alle Romite, per accompagnare spiritualmente le suore, le ragazze e le maestre del ramo femminile dell’Istituto, proteggerle e incoraggiarle, affrontando le bombe austriache che cadevano più numerose in questo quartiere rispetto al quartiere dell’Istituto maschile. Fratel Giovanni Cherubin aveva il compito di “ufficiale di contatto” tra le due comunità Cavanis (tre in realtà durante l’assedio perché numerosi religiosi si erano rifugiati al seminario patriarcale, ancora più lontano dalle basi dell’artiglieria austriaca). Il suo compito era quello di spostarsi da un Istituto ad un altro e al seminario, compito che era di certo il più pericoloso durante il bombardamento continuo; le suore soprattutto, i confratelli e le ragazze dell’Istituto femminile ammiravano il suo coraggio e la sua generosità, mettendo a rischio la sua vita.
P. Marco annota accanto alla sua riga nel libro di matricola di sua mano, in massima parte, in cui annotava l’entrata e l’uscita dei membri della comunità dell’Istituto, ma anche altri ospiti che rimanevano lungamente: “Sortita – 1848 . 5 . Aprile – Tornato li 17 detto“. E a fianco, in margine destro: “NB: Dovè uscire, benché contro sua voglia, per le apprensioni (preoccupazioni) dei due Padri, timorosi di [?] politici, per lo stato di rivoluzione in che era la città”. Bisogna ricordare che il fratello era “straniero”, perché vicentino; forse questo il motivo era dovuto sparire per un po’. Si noti che questa sua breve assenza di dodici giorni non contraddice la sua presenza in città, perché l’assedio cominciò all’inizio del 1849.
Era prezioso per la comunità dato il suo mestiere di carpentiere e muratore e perché era molto efficiente quando dirigeva e controllava il lavoro degli operai impiegati in Istituto per diversi lavori. Era anche uomo di grande pietà e virtù, sosteneva il confratello con la sua estrema umiltà, la bontà, lo spirito di perseveranza nel rispetto delle regole e della preghiera.
Soffriva di cuore, e si sentiva spesso così male che gli dava l’impressione di morire. Prendeva delle pillole che gli davano un po’ di sollievo. Poco prima di morire, si rese conto prima degli altri che stava per arrivare la sua ora, si confessò fuori dal giorno in cui era solito farlo, si preparò spiritualmente e benché continuasse a lavorare aspettava quel momento. La sera del suo ultimo attacco, chiamò i confratelli, che tentarono invano di soccorrerlo. Pronunciò tali parole: «Arrivo Signore, sto arrivando!» e morì dolcemente.
Sorella morte l’aveva colto a Venezia, in casa madre, il 29 maggio 1877; era il più anziano dei fratelli laici, al momento aveva compiuto 69 anni e 29 di vita in Congregazione. «E noi abbiamo perso un tesoro!» commentava P. Giovanni Chiereghin.
6.38 Padre Andrea Berlese
Si trova di rado citato P. Andrea Berlese, nato il 2 maggio 1820 a S. Lorenzo Campomolendino (O Campomolino?), località o frazione sita nella diocesi di Ceneda. Era entrato in congregazione il 31 dicembre 1859, già adulto; vestì l’abito della congregazione il 15 aprile 1860; compì il noviziato nel 1860-62; professò i voti nel marzo o aprile 1862; la professione perpetua la emise, assieme ai confratelli, con l’entrata in vigore del nuovo codice della costituzioni, il 15 maggio 1894.
La sua formazione l’aveva compiuta in buona parte durante la breve fase del primo noviziato e seminario Cavanis a Possagno. Lo troviamo lì effettivamente nel 1860-61 come novizio; e poi, come professo in formazione, vivente in seminario, ancora il 1° novembre 1864.
Nel frattempo, aveva ricevuto la tonsura ecclesiastica il 20 dicembre 1862; nella stessa data e occasione anche i quattro ordini minori, È ignota la data del suo suddiaconato, probabilmente ricevuto nel 1863; ricevette invece il diaconato il 30 ottobre 1864 e il presbiterato il 15 aprile 1865.
In seguito, dopo l’ordinazione presbiterale, è attestata la sua presenza a Venezia nel 1965-66 e poi in tutto il resto della sua vita, dal 1868 al 1897. Non risulta mai la sua presenza a Lendinara, sebbene ci possa aver passato brevi periodi di villeggiatura, di visita o di convalescenza, come si usava, ma non ce ne risulta registro.
Dai superiori gli era stata affidata la prima elementare, che non aveva ancora finito l’anno di noviziato, e si dedicò a questo umile ma prezioso ministero per quasi 25 anni, con una sorta di umile ma importante specializzazione.
Giunge anche per lui la vecchiaia. Afflitto da numerose malattie, morì a 77 anni il 5 aprile 1897, il giorno di S. Vincenzo Ferrer, che aveva invocato per avere una buona morte essendone molto devoto.
Ecco ciò che dice nel suo poema mons. Giuseppe Ambrosi che scriveva di lui. «Padre Andrea che, esempio di pazienza straordinario, / la sua vita santissima traeva / modesto a insegnare l’abecedario / e dopo cena non un’ora sola / stava a pulir le penne per la scuola.» Era stata, la sua, una umilissima e preziosa vita, consumata nell’educazione dell’infanzia, nel migliore stile dei religiosi Cavanis.
6.39 P. Francesco Bolech
Nato a Miola di Piné, diocesi di Trento, allora Tirolo italiano, il 28 dicembre 1831, entrò in istituto il 15 agosto o più probabilmente, come consta dal lbro di matricola di congregazione, il 10 novembre, comunque nell’anno 1856. Non possediamo dati, per ora, sulle fasi della sua formazione (che in parte visse a Venezia, dal 1856 al 1861, in parte visse a Possagno, nel piccolo seminario locale nel periodo 1861-64) e della professione temporanea. Ricevette la sacra tonsura il 10 novembre 1869; i secondi ordini minori, esorcistato e accolitato, il 21 ottobre 1864; ricevette il diaconato il 30 ottobre 1864. Fu ordinato prete il 17 dicembre 1864 assieme a Giovanni Ghezzo e a Domenico Piva, a Venezia, dal Patriarca Giuseppe Trevisanato.
Egli celebrò la prima messa solenne il giorno di S. Stefano [26 dicembre 1864] nella nostra chiesa di S. Giuseppe Calasanzio a Lendinara. In questa città è probabile sia stato e abbia operato dal 1864 al ’67, sebbene non se ne trovi per ora traccia sicura.
Dal 1867 al 1869 è a Possagno; dal ’69 al ’72 a Lendinara, dove tra l’altro insegnava tedesco nelle scuole; dal ’72 al ’75 a Venezia; dal 1875 al 1881 è a Lendinara, dove come si sa ebbe a soffrire personalmente persecuzioni perché “tirolese” e quindi suddito austriaco, dato che il Veneto ormai apparteneva all’Italia; ma soprattutto perché sacerdote e Cavanis, come si può leggere più diffusamente nella storia della casa di Lendinara; dal 1881 alla morte, nel 1907, è a Venezia.
Fu 3° consigliere generale o, come si diceva allora, definitore, dal 13 gennaio 1903 (quando fu eletto tale, in forma straordinaria, per sostituire il defunto P. Da Col) al 1907. Fu spesso esaminatore dei seminaristi, e a Venezia fu spesso e volentieri appassionato bibliotecario.
Si dice nel necrologio che fu uno splendido esempio di tutte le virtù. Oltre all’insegnamento, a Venezia, a Lendinara e a Possagno, si dedicò soprattutto al ministero importantissimo e utile della confessione dei bambini e ragazzi. Morì a Venezia a 76 anni, il 28 febbraio 1907.
6.40 P. Giovanni Battista Fanton
Il necrologio della Congregazione dice brevemente di questo confratello, i cui dati sono difficilmente ritrovabili nei documenti: “Nostro sacerdote professo, nato a Venezia, addetto per più di cinquanta anni alle nostre scuole, specialmente come insegnante di lettere; oltre a questo attese per molti anni consecutivi con grande diligenza alla cura del culto. Munito debitamente dei sacramenti della Chiesa, quando ormai già da molto si era perduta ogni speranza della sua vita, morì nel bacio del Signore, a Possagno nella casa della Congregazione.” È un necrologio che è anche un elogio, ma manca purtroppo di date e di riferimenti alle sue cariche.
Da notare che poche volte si trova citato nei documenti con il nome completo di Giovanni Battista, in genere è solo P. Giovanni Fanton o P. Fanton.
Giovanni Battista Fanton era nato a Venezia il 20 luglio 1836. Entrò in Istituto il 16 luglio 1856. In antecedenza era entrato dai Frati Minori osservanti della Provincia di Venezia, ed era stato novizio per venti mesi, “ma non potendo per poca salute e gracilità di complessione, resistere ai rigori dell’Istituto, dietro consiglio del medico, dovette spogliare il S.[acro] Abito”. Fu accettato ugualmente dai Cavanis e dette un ottimo risultato nell’Istituto.
Nel mese di maggio del 1858, poco dopo la morte di P. Antonio, lo ritroviamo giovane e malato, ancora postulante o più probabilmente novizio, nella comunità di Lendinara. P. Giovanni Battista Traiber, rettore di questa casa, lo accompagnò a Venezia lo stesso mese per farlo curare; Fanton ritornerà a Lendinara, guarito e dopo aver fatto la professione religiosa a Venezia il 20 ottobre dello stesso anno. Ricevette la tonsura e i quattro ordini minori l’8 settembre 1859; il suddiaconato il 3 marzo 1860; il diaconato il 7 aprile 1860; è ordinato prete il 2 giugno 1860, con dispensa della santa Sede perché gli mancava l’ “età conciliare”, ossia l’età minima prescritta dal Concilio di Trento, per un mese e diciotto giorni. Questo fatto fa pensare che fosse nato nel 1837.
Sembra essere rimasto nella comunità di Lendinara durante tutta la sua formazione ed è probabile che abbia ricevuto gli ordini ad Adria o in ogni caso dal vescovo diocesano d’Adria.
P. Fanton fu trasferito dalla casa di Venezia ancora a Lendinara nell’autunno del 1864 (di certo prima dell’inizio dell’anno scolastico 1864-65); ma l’anno seguente, nella stessa stagione, fu ancora una volta assegnato alla casa e alle scuole di Venezia.
Alla morte di P. Sebastiano Casara il 9 aprile 1898, questi era definitore generale e fu sostituito nella sua carica dal P. Giovanni Fanton, eletto tale dal definitorio il 23 aprile 1898. Rimase però definitore solo alla fine del triennio 1897-1900.
Fu eletto di nuovo definitore nel 1904, e rimase in questa carica fino al 1908, data della sua morte; fu 1° definitore o consigliere e quindi anche vicario generale dal 1907 al 1908.
Era a Possagno quando morì dopo una lunga malattia il primo febbraio 1908. Aveva insegnato ed educato intere generazioni di giovani nelle nostre scuole durante 50 anni soprattutto come insegnante di lettere; si era occupato diligentemente anche della liturgia e del culto.
Di lui, monsignor Giuseppe Ambrosi scrive in versi: « E del Fanton non ci ricorderemo, / della sua inarrivabile allegria ? / Qua ritornando non lo vedremo / beato nella nostra compagnia? / Nella funzione piangeva coi fanciulli, / capo e maestro poi nei lor trastulli.»
Mi ricordo ancora che P. Alessandro Vianello, allora mio maestro al seminario ai tempi della mia formazione propedeutica (1959-1960), lo citava spesso lodandolo.
7. Biografie dei religiosi Cavanis del XX secolo
“Ricordatevi dei vostri capi,
i quali vi hanno annunciato la parola di Dio.
Considerando attentamente
l’esito finale della loro vita,
imitatene la fede.”
(Eb 13,7)
Queste sono biografie di praticamente tutti i religiosi Cavanis defunti nel secolo XX. Sono state costruite da innumerevoli fonti, molte volte ma non sempre citate, per non appesantire troppo il testo. Sono state disposte in ordine cronologico progressivo crescente, secondo la data del loro passaggio alla casa del Padre. Molte biografie sono completamente nuove, nel senso che sostituiscono le poche righe che si trovano, in molti casi, soprattutto per i più antichi, nel necrologio di Congregazione. Sono differenti il genere letterario e quindi anche il tono: le biografie presentate nel necrologio sono quasi sempre automaticamente laudative secondo formule tipiche di questo genere letterario; e molte (troppe), soprattutto nei decenni ’70-’90, seguono uno schema fisso. Qui si è cercato – come del resto nelle biografie dei padri vissuti e defunti nel secolo XIX – di trattare le persone e i loro caratteri a tutto tondo, con pregi e difetti. Si è anche concretizzato e quantificato il loro vissuto, citando date, numero di anni passati in ogni casa, attività diverse e così via. Si sono anche ricostruite, con non poco lavoro, le loro fasi giovanili in Congregazione, con le tappe di studi, le date delle professioni, degli ordini minori o dei ministeri e degli ordini maggiori.
Con poche eccezioni, non si presentano qui le biografie dei religiosi che hanno lasciato la Congregazione o che sono stati dimessi; e questi sono stati ben più numerosi nel secolo XX che nel secolo XIX. Si troveranno tuttavia i loro dati e i segni della loro presenza e attività in Congregazione e nelle case; si potrà trovare facilmente il loro nome e cognome con il sistema di ricerca. Non se ne sono scritte però le loro biografie, non per un ingiusto giudizio negativo su di loro – chi può giudicare, se non il Signore? – ma perché era già un lavoro immenso, di parecchi anni, quello di costruire le biografie dei circa 200 religiosi che hanno perseverato in Congregazione fino alla morte. Scrivere anche quelle dei religiosi usciti di Congregazione avrebbe praticamente raddoppiato il lavoro.
7.1 P. Giovanni Tomaso Ghezzo
“Di Chioggia, nostro sacerdote professo; uomo di somma pietà e osservanza delle regole, impegnatissimo nell’esercizio delle scuole, strappatoci, ancora in pieno vigore fisico, da un’irrimediabile infermità mentale, passò da questa vita, nel sessantesimo quarto anno di età, nell’ospedale di S. Servolo a Venezia, dove, vivendo in spirito tra i nostri, aveva soggiornato per quasi dodici anni.”
Fin qui il laconico ricordo che ne fa il necrologio della Congregazione, secondo lo stile antico di questo libretto.
Giovanni era nato in realtà, più che a Chioggia, a S. Pietro in Volta in diocesi di Chioggia, ma in comune di Venezia, nell’isola di Pellestrina, l’11 dicembre 1841, da una famiglia caduta nell’estrema miseria. La madre, vedova, aveva soltanto lui e un altro figlio, sottomesso al servizio militare.
Il suo nome completo era Giovanni Tommaso, più spesso scritto nei documenti Giovanni Tomaso. Entrato nell’Istituto il 24 maggio 1858, nonostante fosse molto cagionevole di salute, già da giovane; si celebrò la sua vestizione, a quanto pare, nel 1860 ed emise i voti verso la fine del 1861.
Ricevette gli ordini minori l’8 settembre 1864, il diaconato il 30 ottobre 1864, a Feltre, con dispensa per l’interstizio. Fu ordinato prete il 17 dicembre 1864 ancora a Feltre, con altri due preti nostri, P. Francesco Bolech e P. Domenico Piva.
Lo troviamo nella casa di Lendinara (1963), ancora diacono, per un breve periodo, forse un anno, fino all’ordinazione presbiterale; a Venezia dal 1865-66; poi lungamente a Lendinara dal 1866 al 1874; di nuovo a Venezia dal 1874 al 1977 e dal 1983 al 1892.
Nel 1866 P. Giovanni Tomaso diede forse un primo segno di quello che sarebbe stato il grande problema della sua vita – e della comunità: la sua pazzia -. L’11 settembre 1866, poco dopo l’ordinazione presbiterale (avvenuta come si diceva il 17 dicembre 1864) uscì di Congregazione e volle ritornare ad aiutare la sua famiglia molto povera, anche se il P. Traiber, preposito lo aveva assicurato che la Congregazione la avrebbe aiutata in tutti i modi. P. Casara, che nel frattempo era di nuovo stato eletto preposito, ne scrisse al parroco di S. Pietro in Volta, la parrocchia dove abitava la famiglia Ghezzo e lo stesso P. Giovanni Tomaso, parlando di “certe voci che circolano”. La cosa non è molto chiara. In ogni caso, P. Ghezzo risulta rientrato in Congregazione, e fin da prima del 20 gennaio 1867 si trova a Lendinara, senza che si sappia bene come si sono concluse le cose. Si riprese la vita normale.
Nel 1885 P. Ghezzo fu nominato maestro dei novizi. Dal 1892 fu scelto per pro-rettore della piccola comunità che riapriva il collegio di Possagno, il che fa pensare che non avesse fino a quel punto, almeno dopo il 1867, dato segni di pazzia. Manca il registro della sua presenza negli anni dal 1878 al 1882.
Ammalatosi di grave malattia mentale, fu ricoverato il 14 agosto 1893 e fino alla morte all’isola lagunare di S. Servolo, a volte chiamata più formalmente di S. Servilio nel diario della Congregazione, nella quale isola si trovava il manicomio maschile; quello femminile era situato nell’isola di S. Clemente. Si può immaginare quanto abbia sofferto il povero malato, sia per la separazione dall’Istituto, che amava, sia per i metodi di cura in uso a quel tempo. E si può capire quanto ne abbia sofferto la comunità leggendo quanto scrive P. Da Col, preposito, il giorno 13 agosto 1893 da Venezia: “Scrivo al P. Rossi a Possagno, incominciando la lettera con le parole dette in seduta definitoriale dal nostro P. Vicario [Casara]: ‘piace al Signore di vederci umiliati e colpiti da gravi tribolazioni’, alludendo alle circostanze nelle quali qui ci troviamo. Il P. Ciligot partito per non ritornar più, e il povero P. Ghezzo ridotto a tale per pazzia religiosa da dover esser domani trasportato al manicomio di S. Servolo. Dopo un avvicendarsi di parecchi giorni di gravi angustie, invincibili a tutte le più efficaci e caritatevoli riflessioni, e di brevi intervalli di apparente tranquillità, diede il cariss.o confratello in atti, quasi da disperato, che se non ebbero le più terribili conseguenze il dovemmo attribuire a grazia specialissima del Signore. Dietro al giudizio dei medici si dovette predisporre quanto si richieda per essere ricevuto dai Fatebenefratelli in isola [di S. Servolo], non essendo del caso il consegnarlo qui nella loro Casa di Salute, e non convenendo assolutamente per più ragioni di porlo nella Sala di osservazione in questo Civico Ospitale”. L’uscita dal servizio attivo del P. Ghezzo, che era stato recentemente nominato pro-rettore del collegio Canova nella nuova fase di presenza Cavanis a Possagno, creava anche dei gravi problemi di personale, oltre all’umiliazione e a tutto il resto.
P. Da Col continua il 14 agosto 1893: “Nei modi dovuti fu predisposto oggi il carissimo P. Ghezzo a recarsi presso i Fatebenefratelli a S. Servolo, adducendo il bisogno di una cura, che non potrebbe avere qui. Alle ore 1 pom. era pronta la gondola ed accompagnato dal P. Fanton, e dal fratello Cavaldoro vi si recò abbastanza tranquillo. Fu ricevuto amorevolmente dalla carità di quei RR. Padri già di tutto informati; ma pei nostri, specialmente pel povero P. Ghezzo dovette essere di straziante dolore il distacco per lui quasi improvviso.- Preghiamo con gran fede la Madonna e speriamo”. E il 15: “Sia benedetta la Madonna! Eravamo ansiosi aspettando oggi notizia del nostro carissimo Ghezzo, per mezzo del Signor Ferdinando Fanton che doveva recarsi ai Fatebenefratelli de’ quali è amico, a S. Servolo. Venne questa sera a confortarci grandemente colla relazione, che l’amato confratello fin dalle prime diede saggi della sua ammirabile docilità proveniente da quel sodo spirito religioso che avea sempre manifestato in Congregazione, ma in modo speciale in questi primi giorni delle sue sofferenze, nel trattare particolarmente col P. Vicario [Casara], e con me. – “Bisogna obbedire” disse al custode, che con bella maniera lo eccitò a prendere per cautela il busto di forza; e poi nel deporre le vesti di prete e congregato, per indossare l’abito secolaresco.- Fu veduto anche di lontano dallo stesso Fanton, quando passeggiava tranquillo per la terrazza ascoltando la Banda del luogo, che suonava dal giardino. Il P. Superiore Minoretti disse al Fanton di non poter per ora, come ben s’intende, alcun giudizio, né dare speranze ecc. – Ben sentiamo il dovere, ed il grande conforto di sperare, qualche grazia singolare della Madonna, vedendone i consolanti preludj nella pietà e devozione, sempre e massime in questa occasione manifestata dall’amato confratello verso di Lei solito a chiamare la sua Mamma bella, e nelle circostanze di questo suo tramutamento”.
Il 25 settembre le cose peggiorano: “Oggi venne il Dottor Brajon, medico del manicomio di S. Servolo, che con gentile premura ci tiene informati dello stato del povero nostro P. Ghezzo. Pur troppo questa volta dovete dirci che da qualche giorno è agitatissimo, a segno da doverlo tenere legato a letto, e ch’egli spesso nella sua pazzia religiosa dichiara di sentirsi spinto a finire, se potesse, … Deh! ci consoli il Signore, se gli piace; nella nostra vivissima afflizione per l’amatissimo confratello”.
Sebbene malato mentalmente, il confratello aveva momenti di lucidità, nei quali mostrava tutto il suo amore per l’Istituto che aveva servito lungamente tra difficoltà, sofferenze e persecuzioni. Il 1° maggio 1902, nell’occasione del centenario dell’Istituto, che si sarebbe celebrato solennemente il giorno seguente, troviamo questa annotazione di P. Giovanni Chiereghin nel diario di Congregazione: “Il carissimo P. Ghezzo dirigge (sic) dall’isola di S. Servilio quattro versi di numero, ma equivalenti a un lungo poema, nei quali esprime nel modo più toccante il suo affetto all’Istituto. Noi continuiamo a sperare, ed a pregare il Signore che, per la mediazione della Vergine del Carmelo, in vista dei meriti dei nostri Fondatori, ci conceda con quella grazia, per la quale lo abbiamo tanto pregato in questi giorni, e continueremo a pregarlo in avvenire. In questo punto il Preposito risponde al caro Confratello”.
L’originale di questa letterina è stato ritrovato in archivio, e i versi commoventi meritano di essere qui riprodotti:
Alla mia prediletta Congregazione,
Che compie di cent’anni il primo giro,
Io mando dall’intimo del cor un sospiro,
Un bacio, un plauso e una ovazione.
1° Maggio 1902
Il Confratello P. Giovanni Ghezzo
P. Giovanni Ghezzo morì il 6 marzo 1905, e fu pianto dai nostri che lo avevano amato. P. Vincenzo Rossi, preposito, scrive nel diario: “Muore a S. Servolo il povero P. G. Ghezzo. Il 9 il Preposito accompagnò la salma lagrimata a S. Agnese dove fu celebrato il funerale”.
7.2 Fratel Pietro Sighel
Di Miola di Piné, diocesi di Trento, dove era nato il 9 settembre 1835, entrò nella comunità il 16 ottobre 1862 a 27 anni come fratello laico, vestì l’abito il 25 luglio 1863, emise la professione religiosa temporanea poco dopo il 26 ottobre 1866, visse in Congregazione quarantatré anni e diede ai confratelli luminosi esempi di semplicità e pietà.
Di lui conosciamo molto poco. Si ignora quasi tutto della sua formazione e dei primi anni della vita religiosa. Emise i voti perpetui qualche giorno prima del 16 gennaio 1895, a seguito dell’approvazione pontificia delle regole del 1891. Dalle tabelle di questo libro, e quindi da fonti varie, Fra Pietro risulta nelle seguenti case e date: dal 1872 al 1876 a Lendinara; dal 1877 al 1878 a Venezia; dopo un’ampia lacuna, nell’anno 1885-86 ancora a Venezia; dal 1886 al 1889 di nuovo a Lendinara, come cuoco; vi era stato inviato il 3 settembre 1886 a sostituire fra Francesco Avi, sempre ammalato e ormai incapacitato come cuoco. C’è poi una lacuna di dati per il periodo 1889 al 1903; da quest’anno alla sua morte apparteneva alla comunità di Venezia.
Essendosi recato nella casa dei suoi per far visita al fratello moribondo, egli stesso, di malferma salute, venuto in fin di vita si addormentò piissimamente nel Signore il 4 aprile 1905, nel settantesimo anno di età. Si era trattato di una cosa fulminea: P. Vincenzo Rossi, preposito, scrive nel diario la domenica 2 aprile 1905: “Sabato [1° aprile] è partito Fra Pietro Sighel per Miola (Trentino) a salutare un fratello moribondo. Il 4 aprile: “Martedì (4) arriva una lettera – è giunto felicemente, il fratello migliora un po’. Nel pomeriggio giunge un telegramma Fra Pietro Sighel agonizzante. Il Preposito telegrafò chiedendo notizie”. Il 5 aprile poi P. Vincenzo scrive nel diario: “Alla sera alle 11 il Preposito partiva per Miola di Piné ad assistere ai funerali di fra Pietro Sighel, di cui era giunta purtroppo la notizia della morte poche ore prima. Il confratello era morto il 4 precedente alle alle 3 e ½, dopo ricevuti i conforti religiosi.
7.3 Fratel Clemente Dal Castagné
Clemente nacque a Torcegno, diocesi di Trento, in Valsugana, a quel tempo nel Tirolo italiano, il 27 giugno 1854. Era entrato nell’Istituto come fratello laico nel 1886, più esattamente il 29 gennaio; vestì l’abito dell’Istituto il 2 luglio 1886; il diario registra periodicamente, ogni trimestre, i nove risultati positivi degli “esami” compiuti dagli esaminatori eletti in comunità, come per tutti i novizi laici. Il 3 gennaio 1889, in conseguenza di uno di questi esami, si viene a sapere dal diario che fra Clemente era un ottimo religioso, ma che aveva dei problemi di salute: “Si parlò prima intorno alle sue sofferenze fisiche, conforme alla relazione del P. Maestro sud.o. Si stabilì che, non potendo molto occuparsi in cucina attorno al fuoco, si venga addestrando, almeno qualche ora, in luogo del fratello Cavaldoro nell’uffizio di Sagrestano. (…). La votazione gli fu pienamente favorevole”.
Emise i voti temporanei il 16 luglio 1889, nella festa della Madonna del Carmine; i perpetui qualche giorno prima del 16 gennaio 1895, a seguito dell’approvazione pontificia delle regole del 1891. Lo troviamo nel 1893-94 a Lendinara; a Venezia poco prima della morte. Mancano dati, per ora, sulla sua localizzazione negli altri anni. Avendo trascorsi appena sedici anni della nostra vita religiosa, spirò piamente nel Signore l’8 luglio 1902, consunto da inguaribile malattia, confortato dai Sacramenti, a quarant’otto anni di età. P. Giovanni Chiereghin scrive di lui nel diario: “Alle ore 18 il carissimo confratello, dopo un’agonia abbastanza penosa, spirò nel bacio del Signore; e noi, nel dolore della sua dipartita, abbiamo un indicibile conforto nella speranza di avere nel cielo un nuovo confratello, il quale dopo di averci edificati coll’esempio delle sue religiose virtù per sedici anni, ora colle sue preghiere insieme cogli altri confratelli, qui in statu salvationis sunt, attirerà sulla nostra Congregazione quelle speciali benedizioni di cui ha tanto bisogno.” E ancora, due giorni dopo: “Stamane si fece il funerale del desideratissimo F. Clemente. Riuscì modesto come a religiosi si conviene, ma decoroso quanto mai. Il clero dei Gesuati accorse tutto ad aiutarci; degli scolari pochi furono i presenti perché non si ebbe tempo di avvertirli. Il P. Fanton ne accompagnò il cadavere (sic!) al camposanto”.
Nel 2018 e poi ancora nel 2019, alcuni lontani pronipoti, che abitano ancora a Torcegno, sono entrati in contatto con questo archivio generale per aver notizie del loro pro-pro zio, e riprendere contatto con l’Istituto.
7.4 Fratel Giovanni Cavaldoro
Nato a Venezia il 26 maggio 1857, entrò in comunità come fratello laico il 3 gennaio 1876. Il suo nome completo era Giovanni Maria. Vestì l’abito dell’Istituto il 14 (o il 24) agosto 1881. Nell’amore dei confratelli, a questo solo sempre attese, di non smettere mai di faticare, benché di debole salute. Purificato da tutti i sacramenti spirò placidamente il 10 febbraio 1910 a Venezia, nella casa della Congregazione, all’età di cinquantatré anni.
Di questo confratello abbiamo pochissime notizie oltre a quelle date sopra; lo troviamo a Possagno nel 1879, ma a causa di malattia fu inviato a Venezia, dove poteva essere meglio curato, da P. Da Col e lì ricevuto con carità fraterna; fu novizio nel 1881-83; vestì l’abito della Congregazione domenica 24 (o il 14?) agosto 1881; emise la professione temporanea, finito il noviziato triennale (allora e fino al 1894), il 15 agosto 1884; e la perpetua a Venezia il 24 dicembre 1894, nella Vigilia del Natale, dopo la pia pratica degli “ufficietti” alla culla del Bambino Gesù. Lo troviamo, dopo una notevole lacuna di dati, a Venezia nel 1903-04. Il 20 giugno 1903 è a letto per “febbri reumatiche gastriche”, che poi sono definite polmonite, e peggiorano in pleurite, con pericolo di una caduta nella tubercolosi. “Il dopopranzo [del 25 giugno 1903] sulle 3 ½ i medici levarono al Cavaldoro il liquido che s’era formato nella pleura. L’operazione durò un’ora, ed il carissimo infermo nella sua gracilità e debolezza diede prova di fortezza non comune. Non ebbe neppur un leggier svenimento”. Durante il mese di luglio, il caro fra Giovanni continuò tra letto e lettuccio. P. Vincenzo Rossi, nel diario di Congregazione, scrive, circa due anni dopo: “Lo stesso dì [del funerale del P. Giuseppe Bassi, quod vide], al dopopranzo, assistiamo al triste esodo di Fra Giovani Cavaldoro, trasportato all’Ospitale civile (camera apposita) per una seria operazione in una gamba. Il giorno 1 era già stato fatto un consulto col professor Velo”. E in seguito, il 6 giugno 1905: “Il fratel Cavaldoro subì una difficile operazione; gli hanno scarnificato la gamba, tagliato ossa; riuscirà colla gamba accorciata e disarticolata. Ci giungono poi notizie che soffre acerbissimi dolori. In complesso però c’è qualche filo di speranza”.
Così scrive di lui e della sua morte, avvenuta a Venezia, il P. Vincenzo Rossi, preposito generale il 10 febbraio 1910: “Dopo pochi giorni di non penosa malattia, sopravvenuta a lunghi e penosi disturbi, si spegneva dolcemente nel Signore alle ore 11.30 ant. Fra Giovanni Cavaldoro, operoso fratello laico specialmente in quanto riguardo (sic) il decoro della casa di Dio. La sera innanzi presenti i Padri e i fratelli, ricevette il S. Viatico, e la mattina alle 9 Estrema Unzione rimanendo presente a se stesso fino alle ore 11 (sic) circa”.
7.5 P. Enrico Calza
Nato a Mantova il 23 agosto 1879 da Pompeo Calza e Bianca Vezzani, nostro sacerdote professo, pare si sia presentato all’Istituto come aspirante il 16 luglio 1895. Era scolaro delle scuole di Carità a Venezia; non è sicuro però se si tratti di lui, o di un omonimo, perché si ha soltanto il suo cognome. Un dato più sicuro lo abbiamo il 9 ottobre 1896: “I genitori del postulante Enrico Calza rilasciano il loro pieno consenso per l’ingresso del figlio nell’Istituto, e la dichiarazione di rinuncia, ecc., riuscendone felicemente la prova di vocazione”.
La famiglia era evidentemente ben conosciuta in ambiente ecclesiale, perché, mancando un suo certificato di cresima al momento della sua entrata in Congregazione, il padrino di cresima e parente Attilio Vezzani ebbe la sua dichiarazione giurata, sul fatto che il figlioccio Enrico aveva ricevuto la cresima il 12 aprile 1888 nella basilica di S. Zeno a Verona, controfirmata dal Patriarca di Venezia Card. Giuseppe Sarto, che era stato prima vescovo di Mantova. Il Patriarca scrive: “Il sottoscritto, che conosce a fondo il Signor Vezzani Attilio dichiara, esser più che sufficiente l’attestazione di lui per credere, che il giovane Calza Enrico di Pompeo e di Vezzani Bianca ha ricevuto il Sacramento della Cresima. Venezia, lì 4 Decembre 1896. + Card Giuseppe Sarto Patriarca”. Non poteva esserci migliore testimonianza e raccomandazione! Il patriarca rilasciò del resto, il giorno seguente, un certificato formale, su un formulario compilato all’uopo.
Vestì l’abito dell’Istituto il 20 dicembre 1896 in S. Agnese a Venezia e assieme al suo compagno di noviziato Giovanni Rizzardo emise la professione temporanea in S. Agnese il 21 dicembre 1897 e la professione perpetua il 23 dicembre 1900.
Ricevette la tonsura e i primi due ordini minori il 23 dicembre 1899 dal cardinal Sarto; i secondi due dallo stesso patriarca l’8 aprile 1901; sempre a Venezia fu ordinato suddiacono il 3 agosto 1902 dallo stesso, poi diacono nel 1903, e ancora a Venezia fu ordinato presbitero il 26 luglio 1903.
Fu nominato maestro dei novizi dal preposito P. Vincenzo Rossi e dal suo consiglio il 10 agosto 1904, subito dopo il capitolo generale dell’agosto 1904, ma dovette attendere la dispensa d’età dalla S. Sede, perché era troppo giovane per assumere questa carica. La dispensa giunse il 16 agosto successivo. Svolse per un sessennio il suo compito di solerte maestro dei novizi, senza dubbio a Venezia (1904-1910), dove si trovava, come diacono, almeno dal 1903. Fu riconfermato maestro dei novizi il 19 luglio 1910, dal capitolo generale in corso in quell’anno e mese. Rassegnò però le dimissioni da questa carica il 19 aprile 1911 e fu allora sostituito da P. Basilio Martinelli, in modo interino, fino al seguente capitolo generale.
P. Enrico avere presentato le dimissioni perché si sentiva male di salute, e chiese al preposito. P. Antonio di Venezia, di poter andare a Lourdes per implorare dall’intercessione della Madonna la guarigione. Ne ottenne il permesso e vi andò (per la seconda volta). Pare che partisse a fine maggio o inizio di giugno 1911. Non guarì tuttavia e riprese in qualche modo, come potè, la sua vita di comunità “non graziato dalla Madonna, ma un po’ rimesso e allegro”, ancora per un anno e qualche mese.
La sua malattia si rivelò in situazione terminale il 13 ottobre 1912, con ripetuti sbocchi di sangue. Il 14 ricevette, su sua richiesta, l’unzione degli infermi e chiese l’assistenza di un padre che lo assistesse la notte per aiutarlo a pregare e a prepararsi. Il 20 ottobre P. Calza, che teneva con sé per devozione uno zucchetto del papa Pio X, chiese al preposito che intercedesse con monsignor Pescini, segretario del papa, perché questi pregasse per lui. Il 22 ottobre giunse questa risposta: “Vaticano, lì 22 ottobre 1912. Monsignor Giuseppe Pescini, Cappellano segreto di Sua Santità ossequia il reverendissimo P. Antonio Dalla Venezia, e lo prega di significare al R. P. Calza che il S. Padre ben volentieri unisce le proprie preghiere a quelle di Lui per la grazia che implora; esortandolo però ad una piena fiducia nella bontà infinita del Signore, con sempre perfetta sommessione ai divini voleri”.
Lasciò grandi esempi di pietà e di pazienza nel sopportare i disagi di una malattia inesorabile, evidentemente la tisi, specialmente nell’ultima agonia. Si addormentò piamente nel Signore a Venezia, il 24 ottobre 1912, all’età di soli trentatré anni, confortato dai Sacramenti e da molte preghiere.
7.6 Seminarista Carlo Trevisan
Nato a Venezia, era allievo della nostra scuola di Venezia, e vi era stato promosso alla quinta ginnasiale nel giugno 1917. Decise di entrare nel seminario dell’Istituto, ottenne finalmente e con difficoltà il permesso dai genitori, che pure erano cristiani praticanti, e vi fu accolto, pieno di felicità, tra i probandi, il 16 luglio 1917, festa della Madonna del Monte Carmelo. Giovanetto di vivace ingegno, adorno d’innocenza di costumi e di straordinaria pietà, volò al cielo a Possagno nella casa della Congregazione, dove era in vacanza con i nostri novizi, corroborato dai Sacramenti, dopo breve e inesorabile malattia, a quattordici anni, ma già cresciuto di meriti per desiderio della vita religiosa. Il giorno della sua morte fu il 10 ottobre 1917.
Così narra la sua fulminea malattia e la sua morte P. Tormene nel diario della Congregazione: “30 sett. – Domenica – Oggi tornarono da Possagno a Venezia i PP. Borghese e Busellato. Dalla famiglia di Venezia restarono ancora a Possagno il P. Preposito con P. Maestro e Noviziato essendo da qualche giorno gravemente ammalato l’aspirante Carlo Trevisan. (…) 3 Ottobre – Merc. Il P. Preposito venne a Venezia per avvisare la famiglia Trevisan delle gravi condizioni di Carletto. Papà e mamma andarono subito a Possagno. (…) 7 Ottobre + – Domenica – Il padre preposito ritornò dopo pranzo a Possagno per visitare l’ammalato Asp. Carlo Trevisan che trovò gravissimo. 10 Ottobre. Mercordì – Dopo giorni di trepidazioni e speranze, malgrado consulti e cure assidue dei Medici, Genitori e Padri di Possagno, stamattina alle 5 ½ il caro Aspirante Carlo Trevisan volò al Cielo. Avea ricevuto fin da Domenica tutti i conforti religiosi e morì tranquillo, rassegnato, sorridente: avea previsto e predetto che sarebbe andato in Cielo, e benché tutti gli mostrassero speranze che sarebbe guarito, rispondeva sempre: “Se piacerà al Signore, se no andrò in Paradiso” – Era fra noi dal 16 luglio scorso: fin dal primo giorno scrisse nel suo Diario propositi generosi di santa vita religiosa mostrando d’aver pienamente compreso il valore della Vocazione e i suoi obblighi, mostrando anche in ciò la bella sua intelligenza superiore alla tenera età di 14 anni. Lottò assai coi suoi genitori estremamente affettuosi per poter entrare nell’Istituto: la sua tenera età, certi disturbi intestinali rimastigli dopo due serie malattie per cui la mamma giudicava indispensabile la sua cura materna, e la sua stessa serietà e intelligenza che lo rendevano carissimo a tutti, furono ragione di opposizione da parte dei suoi, benché religiosissimi, anzi esemplari. Ottenuto il sospirato permesso quest’anno, anziché l’anno venturo, dopo 5ª [ginnasiale], come era stata la prima e più larga concessione, volò giubilante all’Istituto. Passato il 19 col Noviziato a Possagno, si era rimesso in salute benissimo. Ammalatosi di dissenteria il 26 settembre, quando il 3 ottobre il padre preposito lo avvertì che avrebbe avvisato i suoi, si fece triste dicendo: “La mamma mi ha detto che se mi ammalo mi vuol subito a casa e non mi lascia più venire in Congregazione”. Il Preposito lo consolò con tante speranze, ma che cosa avrà detto quell’Angelo al Signore? Certo ha preferito la morte all’uscire di Congregazione, e di ciò diede durante la malattia indizi non dubbi. È dunque un Angioletto nostro ora che prega dal Cielo pel suo Istituto! Una biografia di lui sarà fatta nel “Nostro Foglietto” di Novembre pei “Figli di Maria” (la Congregazione Mariana) a cui apparteneva”.
Carlo “fu sepolto nel camposanto comune, ma forse sarà da trasportarlo coi PP. quando si farà il loro trasporto nei loculi della Cappella dove già riposa il benedetto P. Santacattarina. Così maestro e scolaro, durante queste vacanze, passarono a dormire vicini il sonno della morte a Possagno: saranno vigili custodi del Collegio”. Così avvenne più tardi, e Carletto riposa nel sacello dei religiosi Cavanis e del clero locale diocesano a Possagno.
Il suo nome consta, come quello dei religiosi, nei vari necrologi di Congregazione. Era rimasto tra noi, in Congregazione, solo 86 giorni, ma è ricordato con molto affetto, che si trasmette di generazione in generazione. Anche oggi, a un secolo dalla sua morte (1917-2017), lo sentiamo con commozione veramente dei nostri, e tra i nostri in paradiso.
7.7 Fra Bartolomeo (Bortolo) Fedel
Di questo caro confratello, chiamato sempre Bortolo negli scritti e documenti della Congregazione, il necrologio dice soltanto: “Di Miola di Piné, diocesi di Trento, nostro Fratello laico professo paziente nelle fatiche, industriosissimo, mite nei modi, carissimo a tutti, morì [il 19 Dicembre 1917 NdA] a Bologna nella casa della Congregazione dei Chierici regolari Barnabiti, dove, sovrastando il pericolo dell’invasione del nemico, era stato mandato momentaneamente dai superiori, dopo breve malattia, munito dei Sacramenti, aderendo pienamente alla volontà di Dio.”
Bartolomeo nacque a Miola di Piné il 24 agosto 1890; era cugino del P. “Amadeo” Fedel e nipote di P. Francesco Bolech, che era suo zio materno. Il suo nome completo di battesimo, come da atto originale del sacramento, era Bortolo, Giovanni Giacomo; figlio di Bortolo e di Bolech Maria. Era entrato in Istituto l’11 ottobre 1906; aveva vestito l’abito dell’Istituto il 20 novembre 1907, svolto il biennio di noviziato (1907-09) a Venezia, avendo come maestro P. Enrico Calza, e aveva emesso la professione temporanea a Venezia il 21 novembre 1909, nella festa della Presentazione di Maria e, a Venezia, della Madonna della Salute, nel pomeriggio, alle 17 e ¼, nell’oratorio dei piccoli, attuale (2017) aula magna delle scuole. Emise i voti perpetui il 23 aprile 1913.
La sua vita si complicò nel 1915, dall’inizio della prima guerra mondiale, ancora prima che l’Italia si schierasse. Varie volte nel diario, si parla del fatto che, come nativo del Trentino, quindi cittadino austriaco, doveva periodicamente presentarsi al consolato d’Austria per motivo di controllo e di coscrizione. Ora, con l’inizio della guerra, l’Austria aveva cominciato a richiamare tutti i giovani in età da servire nelle forze armate, anche se residenti all’estero e anche se religiosi. Era il caso di fra Bortolo. Risiedeva nella nostra casa di Possagno, ma fu richiamato, venne a Venezia, ma si decise con coraggio e fede nel Signore, e con la meditata approvazione del preposito, alla renitenza alla leva o, come si sarebbe detto più tardi, all’obiezione di coscienza. È interessante leggere integralmente questa pagina del diario:
“1 Febbraio [1915] – Lunedì – Alla sera giunse a Venezia da Possagno Fra Bortolo Fedel richiamato alla perizia presso l’I.R. Consolato Austro-Ungarico, benché a suo tempo dichiarato inabile, essendovi ora in Austria la leva in massa in causa della guerra. Considerata bene ogni cosa, e la sicurezza di essere fatto abile, e la sua vocazione e professione perpetua per cui già appartiene alla milizia della Chiesa, e la probabilità di una amnistia o per la cessazione della guerra, o per la cessione del Trentino, o per la morte non lontana di Francesco Giuseppe, si mostrò deciso a non presentarsi. Il Preposito però, pur inclinando anche lui, come pure gli altri Confratelli, a questa decisione, gli consigliò di rimandare al dì seguente la definitiva risoluzione.
2 Febbraio – Martedì – Festa della Purificazione di Maria SS. – Fra Bortolo, fatta la Comunione e pregata la Vergine, come pur fece il Preposito e i Padri perchè la decisione fosse secondo la Volontà di Dio e pel maggior bene del Fratello e dell’Istituto, manifestò assolutamente al Preposito la sua decisione di non presentarsi al Consolato, come avrebbe dovuto far oggi, secondo l’invito. Quindi colla corsa delle 14.35 ritornò a Possagno confidando in Dio pel presente e per l’avvenire. E Dio disponga tutto pel meglio, Egli che vide il motivo santo e generoso di questa deliberazione a vista umana pericolosa. Maria SS. protegga lui e noi!”
Dei tre motivi di amnistia, che Bortolo presentava come possibili e sui quali evidentemente si era ben informato, il primo era quello di una rapida conclusione della guerra; era una opinione molto diffusa a quel tempo, soprattutto in Italia, ma come si è visto, era molto mal fondata, perché la guerra durò altri tre anni interminabili; la seconda era basata sul fatto che in effetti la Germania stava insistendo presso l’Austria perché concedesse il Trentino all’Italia, se questa rimanesse neutrale, o se entrasse in guerra a fianco degli Imperi centrali; nel caso della cessione del Trentino all’Italia, fra Bortolo, divenuto italiano, non sarebbe più stato sottomesso alla coscrizione obbligatoria nelle forze armate austriache; in compenso, però, sarebbe stato sottomesso alla coscrizione nell’esercito italiano! Proprio in quel mese di febbraio 1915 e nel marzo successivo si stava discutendo a Roma e altrove di questa cessione a livello diplomatico. Il terzo motivo, la prossima morte di Francesco Giuseppe, imperatore dell’Austria-Ungheria, dipendeva dall’età molto avanzata di quest’ultimo: nato il 18 agosto 1830, Francesco Giuseppe aveva all’epoca di cui si parla 84 anni; sarebbe morto in effetti non molto dopo, il novembre dell’anno successivo, 1916.
La confidenza di fra Bortolo e dei suoi superiori in un’amnistia tuttavia non era molto ben riposta. L’Austria-Ungheria era molto severa verso i renitenti alla leva e i disertori, e la sua polizia aveva una memoria d’elefante. Per portare un esempio concreto, il bisnonno di che scrive, Dr. Pietro Leonardi, chimico e farmacista, trentino, irredentista, perseguitato dalla polizia austriaca, fuggito in modo drammatico dalla Val di Fiemme in Italia passando a piedi per le montagne innevate nel 1867, fu condannato in contumacia a vent’anni di fortezza, non fu mai perdonato né amnistiato, e tutti gli anni nella parrocchia di Cavalese l’arciprete dal pulpito chiamava il suo nome tra i refrattari alla leva, almeno fino al 15 settembre 1879, e anche quando egli aveva sorpassato l’età in cui generalmente si serve nell’esercito. Aveva allora 33 anni, essendo nato il 12 aprile 1846. Risiedendo a Venezia, egli potè ritornare a visitare i parenti in patria, a Cavalese, solo dopo la fine della guerra mondiale, nel 1919, 52 anni dopo l’inizio del suo esilio, dopo che l’Italia aveva vinto la grande guerra e che l’impero Austro-ungarico era stato distrutto.
Del resto, dopo l’ingresso dell’Italia in guerra contro l’impero austro-ungarico il 24 maggio successivo, anche fra Bortolo, come altri religiosi “tirolesi”, cominciò ad avere problemi non più dalla parte dell’Austria con la coscrizione obbligatoria, ma dall’Italia, in cui risiedeva come cittadino austriaco, quindi virtualmente nemico ed eventualmente pericoloso. Venne trasferito dai superiori a Bologna, ospite dei generosi padri Barnabiti. La corrispondenza e altra documentazione di carattere militare, sia da parte austriaca prima, sia da parte italiana poi è abbondante.
Le cose andarono così. A dicembre 1916, il preposito Tormene andò a prendere a Possagno fra Bortolo Fedel e tramite P. Vincenzo Rossi che lo accompagnò personalmente, cercò per lui un posto come residenza provvisoria in una casa religiosa fuori del Veneto, che correva pericolo di invasione austriaca; perché il fratello come trentino era suddito austro-ungarico e quindi in pericolo. P. Vincenzo Rossi cercò prima a Roma presso gli Scolopi, poi in varie case di altri istituti, infine lo sistemò provvisoriamente a Bologna presso i cappuccini, ma poi come sistemazione definitiva, fino alla fine della guerra (nell’intenzione e come progetto), sempre a Bologna presso la comunità dei PP. Barnabiti, grazie all’amicizia del rettore P. Fracassetti, che era stato ex-allievo dei Cavanis a Lendinara!
Era riuscito, con difficoltà data la situazione di guerra, e la sua situazione di cittadino austro-ungarico, a ritornare da Bologna a Venezia (in realtà, contro la speranza dei padri, e contro ciò che si trova nel diario, solo per una visita alla sua comunità, che si sarebbe interrotta dopo 88 giorni), l’11 agosto 1917. Doveva essere l’ultima sua visita. Infatti “7 Nov. Mercordì. Facendosi più allarmanti le voci, Fra Bortolo Fedel per le speciali sue condizioni nel caso di invasione (quod Deus avertat), partì per Bologna dopo l’adorazione. Se il Noviziato partirà per Budrio, [fra Bortolo] vi si unirà, se no, resterà ospite del buon P. Fracassetti al Coll.[egio] S. Luigi.”
Il Fratello non avrebbe più visto la sua amata comunità. Morì infatti a Bologna, imprevistamente, il 19 dicembre 1917, circa quattro mesi dopo.
Vale la pena di trascrivere integralmente quanto scrive di lui nel Diario della Congregazione, il giorno dopo della morte, il preposito P. Augusto Tormene, che era accorso a Bologna per visitarlo. Questo testo è un vero elogio funebre:
“20 dicembre [1917] – giovedì – Colla Iª corsa il Preposito andò a Bologna, ma troppo tardi. Il carissimo Fra Bortolo Fedel era già morto la sera precedente alle 19 ½. Mio Dio, che schianto al cuore! Il male si era aggravato improvvisamente determinando la peritonite, sospettata dai medici nei giorni precedenti, ma manifestatasi solo jeri, 19, mattina con dolori acutissimi. Ebbe subito tutti i Sacramenti e fu assistito con ogni cura fraterna da quei buoni PP. Barnabiti che gli volevano tanto bene per la sua grande pietà, semplicità, prontezza nel prestarsi a svariatissimi servizi essendo di ingegno molto versatile per cose manuali ingegnose, di molta resistenza alla fatica, ed anche capace di seria disciplina nell’Uffizio di Prefetto affidatogli dal P. Fracassetti e l’anno scorso e anche al presente. Disturbi intestinali ne ebbe anche in passato, non gravi però, ma forse da lui trascurati troppo. Questa volta essi si manifestarono in una forma più allarmante fin da principio, otto giorni fa, per cui sarebbe venuto subito a Venezia, come tentò, ma invano perchè scadutogli il permesso di soggiorno qui (vedi sue lettere). Caro figliuolo, vittima della guerra anche lui, indirettamente! Sentiva tanto, come ci fu riferito e appare anche dalle sue lettere, la nostalgia della sua Congregazione, questa volta più dell’anno scorso! La sua speciale condizione lo salvò dalla guerra, ma gli richiese sacrifici di spirito che possono aver influito anche nel fisico. Durante la malattia avea il pensiero sempre al suo Istituto dolente di esserne così lontano e temendo di morire senza veder nessuno: pregò il P. Fracassetti di scriver subito al Preposito, ma – come Dio dispose – tutto fu troppo tardi. E morì a 27 anni, lontano dall’Istituto, circondato sì da ogni più sollecita cura, ma non dei suoi cari Confratelli, egli che amò tanto l’Istituto, che per esso lavorò indefessamente e a Venezia e a Possagno, che dava di sé le più lusinghiere speranze di vita forte e lunga! Ma la SS.ma Volontà di Dio sia sempre adorata, amata, benedetta! Ora dal Cielo continuerà ad ajutar l’Istituto colla preghiera e di lassù proteggerà anche i suoi cari di famiglia di cui dallo scoppio della guerra nulla mai potè sapere, chissà con quanta tacita angoscia del suo animo sensibilissimo, temendo anche qualche guaio ai suoi per rappresaglia della sua mancata presentazione.
In memoria aeterna erit justus: lasciò nell’Istituto i più cari ricordi di Religioso buono, semplice, obediente, instancabile nella fatica, cordiale pel suo Istituto, a cui fu veramente Fedel. Anche a Bologna il Preposito udì un coro di lodi e di rimpianti. Requiescat in pace!”
Fra Bortolo Fedel dopo il funerale celebrato a Bologna il 21 dicembre 1917 nella chiesetta della comunità e scuola dei Barbabiti e presieduto dal preposito P. Tormene, fu poi seppellito nella tomba speciale dei padri Barnabiti nel cimitero di Bologna. Fu sepolto con l’abito Cavanis, e allo stesso tempo ricevette tutte le preghiere, le messe, gli onori dai Barnabiti, come se fosse uno di loro. Le sue spoglie non furono in seguito trasferite a Venezia e devono considerarsi perdute.
Molte lettere e cartoline di fratel Bortolo, di prima dell’entrata in Istituto, di dopo la partenza per Bologna, dei suoi viaggi di esule e delle sue traversie, sono conservate nella sua busta di documenti. A volte sono di difficile lettura, perché “non è forte in Italiano”, come scriveva di lui un suo parente, avendo frequentato solo le elementari inferiori; ma sono molto commoventi e piene di affetto. Fa impressione vederlo ricostruito da queste antiche carte, di più di un secolo fa ormai: vederlo peregrinare, aspettare treni (di quel tempo, e di tempo di guerra), di giorno e di notte nelle stazioni, essere avvicinato da militari e poliziotti sospettosi, dover ottenere certificati e salvacondotti; sempre con pazienza, con fede, con amore per la sua Congregazione, cui avrebbe meritato poter ritornare.
7.8 Fra Corrado Salvadori
Di questo novizio Cavanis, che era nato il 26 ottobre 1896 a Venezia e che aveva vestito l’abito dell’Istituto il 16 luglio 1913 nella cappella del Centenario, ed era morto in combattimento durante il tempo del suo noviziato, nella prima guerra mondiale, il necrologio di Congregazione dice brevemente:
“Corrado Salvadori della diocesi di Treviso, nostro novizio laico di amabile semplicità e pietà, compiuto il biennio del noviziato, ma per difetto di età non ancora professo, chiamato alle armi, durante un notturno assalto del nemico, colpito da una fucilata, come fu riferito, giunse alla fine della sua vita [il 27 maggio 1917]. Nella mattina stessa, ricorrendo la solennità della Pentecoste, come ardentemente aveva desiderato, essendosi comunicato, si dice abbia confidato a un suo compagno d’armi, che se avesse dovuto morire in quel giorno, sarebbe morto volentieri; la morte gli avrebbe procurato un grande premio.”
E non è poco! Tuttavia è interessante anche sapere che inizialmente apparteneva alla Sanità, e prestava servizio in ospedali militari, ma che alla fine del 1916 fu trasferito dalla Sanità alla Fanteria, e in questa occasione fu visitato dal P. Preposito Tormene, preoccupatissimo, e con buon motivo, perché ciò lo avrebbe condotto al fronte e, più tardi, alla morte in battaglia; e leggere quanto ne scrive lungamente il preposito P. Augusto Tormene nel diario della Congregazione, in data 12 ottobre 1918, giorno in cui era arrivata la notizia sicura della sua morte tragica al fronte.
“12 ott. – Sabato – Messa solenne con Esequie pel Novizio Corrado Salvadori.
Nella notte dal 27 (Pentecoste) al 28 maggio 1917 prese parte ad un’azione militare. Un suo compagno, Possa Francesco di Possagno, scrisse qualche giorno dopo ai suoi di casa e al P. Rettore del Collegio che in quella notte Corrado era stato colpito in pieno. Quando il P. Preposito andò il 24 luglio ’17 a visitare il Nov. Sold. Bolzonello Pellegrino a Cividale, trovò ivi anche il Cappellano Militare di Corrado che ripetè la notizia già data dal Comando Mil. che cioè Corrado era disperso, ma aggiunse anche che, date le circostanze dell’assalto, del luogo ove combattè la Compagnia di Corrado chiamata improvvisamente nel cuor della notte di rincalzo, e la ricacciata dell’avversario nelle sue trincee e il ritorno dei nostri alle proprie, non c’era da illudersi che sia stato fatto prigioniero, ma piuttosto purtroppo! caduto e rimasto lì nel terreno interposto fra le nostre e le trincee nemiche. Il dì dopo e per più giorni di seguito fu impossibile il ritorno su quel terreno per seppellire i cadaveri: poi si svolse altra azione d’altra Compagnia, e riesce quindi impossibile dar ulteriori notizie.
Il suo parroco di Torreselle dando all’Istituto notizia della probabile morte di Corrado, scriveva il 14 giugno: “Egli lo presentiva; mi avea scritto alcuni giorni prima domandandomi di pregare per lui e incaricandomi di consolare la sua famiglia. Il giorno di Pentecoste (27 maggio) aveva potuto ricevere i Santissimi Sacramenti, e ne fu tanto contento da potermi scrivere queste parole: “Se muoio mi aspetta un premio grande, e poi ‘Fiat Voluntas Tua!”.
Da altre notizie raccolte dal Preposito a Cividale si confermò che la mattina di Pentecoste aveva potuto ricevere i SS. Sacramenti che da parecchi giorni sospirava, come egli stesso scriveva allora al Preposito, e che anzi, ricevuta la S. Comunione, era quella mattina così contento da dir a un suo compagno: “Oggi, se anche morissi, morirei contento”.
E quale fosse la sua pietà, il suo spirito di rassegnazione, la sua Fede, il suo attaccamento all’Istituto, ne fanno testimonianza le copiose lettere e cartoline da lui scritte all’Istituto: l’ultima sua poi del 25-5 compendia tutti i suoi sentimenti ed è l’autoelogio di lui.
Era entrato nell’Istituto come Aspirante Fratello laico il 3 novembre 1912: ne aveva vestito l’abito il 16 luglio 1913, a 16 anni, 8 mesi e 21 giorni di età. Sembra tuttavia che, il diritto canonico precedente al CJC del 1917 richiedesse (almeno per i fratelli laici?) 21 anni come età minima per vestire l’abito e cominciare il noviziato. Per una svista giuridica dei suoi superiori, che avrebbe senza dubbio invalidato la vestizione, il noviziato e la professione, Corrado era entrato in noviziato in largo anticipo. Infatti, nella busta di documenti di Corrado Salvatori è conservato un indulto, in cui l’interessato (ma in realtà lo sbaglio era ovviamente della Congregazione) annuncia di essere stato “per errore, ammesso alla vestizione religiosa prima di compiere il ventesimo anno di età, e domanda umilmente alla S.V. la sanazione alla professione dei santi voti”. La sanazione gli viene concessa con indulto datato del 16 giugno 1915, ma per professare dovrà attendere di avere l’età canonica.
Egli aveva sempre compiuto lodevolmente il suo Noviziato di due anni, meritando sempre ottime Relazionida parte del Maestro dei Novizi e dai capitoli che si riunivano periodicamente per esaminare i novizi.
Nel 1915 avrebbe dovuto fare la professione triennale, ma non avendo ancora raggiunto l’età di ventuno anni prescritta dalla S. Sede, come si è spiegato sopra, dovette attendere e accettò con molta rassegnazione e virtù l’inaspettata mortificazione. Frattanto i Superiori avevano ottenuto da Roma che gli fosse validamente computato il biennio di noviziato. – Chiamato alle armi, partì il 7/12/1915. Fu quasi sempre unito o vicino al confratello novizio Bolzonello, meno l’ultimo tempo nel quale erano di Compagnia diversa e non si potevano vedere. – A Padova pel suo carattere mite, timido e facile a servizio altrui, finché fu come soldato di Sanità all’ospedale Arria in mezzo ai tubercolotici, pel troppo lavoro e veglie e servizi pericolosi e sostituzioni troppo frequenti a compagni che approfittavano della sua bontà per sottrarsi essi al lavoro, fece una malattia seria dalla quale uscì sospetto di tubercolosi. Passato poi alla Fanteria, con Bolzonello, benché riconosciuto inabile alle fatiche di guerra, dopo qualche mese di riposo fu mandato agli esercizi e quindi al fronte. La sua storia di vita militare è nelle sue lettere all’Istituto. Era di indole amabile, semplice, piissima: sarebbe stato un Fratello laico amantissimo del suo Istituto ed utile assai per la sua umiltà e docilità unita alla modesta operosità: ma il Signore dispose diversamente, e la Sua SS. Volontà sia benedetta! – Era nato il 26/10/1896.
Dopo la notizia della quasi sicura morte data al Preposito dal Cappelano Mil.re, furono celebrate a suo suffragio (vel pro Confratribus defunctis) le 12 Messe prescritte dalle Costituzioni. Persistendo il silenzio e formandosi ormai in noi la certezza della morte, alla distanza di oltre un anno, poiché ora è in vigore il Nuovo Codice di Diritto Canonico che pareggia nei diritti di suffragio i Novizi ai Professi (Can. 567§1), si giudicò doveroso celebrare a suo suffragio altre 24 Messe, con applicazione condizionata “vel pro Confratribus defunctis” se il caro Corrado fosse ancora vivo (così fosse!). Jersera alle 19 nell’Oratorio di Comunità recita dell’intero Ufficio dei Defunti. – Ogni sera per un mese se ne reciterà il Vespero, secondo le nostre consuetudini.”
Si è voluto riprodurre qui integralmente quanto scrive P. Tormene su Corrado Salvadori, anche se il testo è piuttosto prolisso, non solo a titolo di biografia, come per altri confratelli defunti, ma anche per aprire una finestra sulla situazione di dolorosa incertezza di tante famiglie e anche di tante comunità religiose durante la grande guerra (la grande carneficina, come si è detto) e del resto di tutte le guerre, di dover attendere per mesi e anni il ritorno del figlio – o, nel caso specifico, del caro confratello novizio – e di darlo magari per disperso e sperarlo vivo fino all’ultimo, mentre le sue ossa già biancheggiavano tra le pietraie di qualche cima o quota del Carso!
La relazione piena di sentimento del caro P. Tormene ci mette anche davanti alla mescolanza di sinceri affetti e sofferenze e di formalismo liturgico-giuridico di quell’epoca, prima e dopo la promulgazione del CIC del 1917. Al tempo stesso ci presenta con ogni evidenza la personalità del P. Augusto Tormene, che cercava i suoi, novizi o professi, laici o preti, non solo per corrispondenza ma di persona, sul campo, in prima linea e nelle retrovie, davvero come un padre e come un buon pastore.
Il nome di Corrado Salvadori si trova al secondo posto nella lapide ai caduti nell’androne della nostra scuola a Venezia.
7.9 P. Agostino Santacattarina
Nostro sacerdote professo perpetuo nacque a Venezia, nel sestiere di Castello e più precisamente nella parrocchia di S. Pietro di Castello, il 7 ottobre 1890. Vestì l’abito dell’istituto nel 1906; emise la prima professione, triennale, il 10 dicembre 1907, assieme al P. Enrico Perazzolli. Emisero ambedue, insieme, la professione perpetua l’11 dicembre 1910, nella chiesa di S. Agnese. Già tonsurato in antecedenza, Agostino il 12 marzo 1910 ricevette i quattro ordini minori nella chiesa dello Spirito Santo alle Zattere, ancora assieme a Enrico Perazzolli, che poi riceverà il suddiaconato da solo il 17 dicembre 1910 nella cappella privata del Patriarchio. Nella stessa cappella, ma più tardi, riceverà il suddiaconato P. Agostino il 23 dicembre 1911. Fu ordinato diacono il 21 dicembre 1912, nella stessa cappella dal cardinal patriarca Aristide Cavallari, e prete dallo stesso presule nella chiesa di S. Agnese, il 20 aprile 1913. Il patriarca Cavallari conosceva bene l’ordinato, perché da prete era stato parroco in una parrocchia di Castello, e aveva conosciuto la famiglia Santacattarina e il neo-ordinato da bambino.
P. Agostino rimase quasi certamente i cinque anni circa successivi all’ordinazione, prima della sua morte prematura, a Venezia in Casa madre. Manca tuttavia il suo nome, stranamente, nei documenti che hanno condotto a costruire la tabella della casa di Venezia proprio questi cinque anni; e manca anche dall’altra unica casa, quella di Possagno; casa che del resto era chiusa praticamente, durante la grande guerra. Doveva essere a Venezia. È presente a Venezia, in ogni caso nell’anno 1916-17, e si trovava a Possagno per recuperare la salute evidentemente peggiorata, quando fu colto dalla malattia e dalla morte. Degno di lode per l’amore alla pietà e all’osservanza religiosa, raggiunta quasi la laurea in belle lettere, si dedicò con grandissimo zelo all’educazione della gioventù. Colto a Possagno, dove era andato a giugno perché apparentemente ammalato, da malattia inguaribile, debitamente confortato dai Sacramenti si addormentò nel Signore all’età di ventisei anni, il 30 luglio 1917.
Così descrive l’avvenimento P. Tormene nel diario della Congregazione: “Sulla sera del 30 un telegramma urgente chiamava il Preposito a Possagno al letto del P. Santacattarina aggravatissimo. Partì colla prima corsa del 31, ma giunto sulla sera a Bassano ebbe notizia che P. Santacattarina era morto la notte del 30 alle ore 11.35 colpito da meningite tubercolare che ce lo tolse dopo soli cinque giorni di febbri con delirio. Era andato a Possagno subito dopo la chiusa dell’anno scolastico, perché da un mese deperiva a vista d’occhio. Malgrado le pronte cure e il miglioramento (si capisce apparente) che diceva di provare nelle due prime settimane di soggiorno a Possagno, il male scoppiò irrimediabile la terza settimana. Era di salute sempre molto malferma, ma una catastrofe così repentina non si poteva prevedere, anzi era stata stabilita la sua fermata a Possagno pel nuovo anno! Il Signore dispose che ci restasse sì, ma nella pace del cimitero di Possagno. Sia fatta la Volontà sempre adorabile e paterna di Dio », commenta P. Tormene, «chiniamo la fronte adorando e accettando tutto dalle sue mani santissime; Dominus dedit, Dominus abstulit, sit nomen Domini benedictum! Egli ama l’Istituto che è suo, ne conosce i bisogni, provvederà: lasciamo fare a Lui ».
Il funerale fu tenuto nel Tempio di Possagno, e poi un’esequie a Venezia in S. Agnese. Fu inumato inizialmente in terra nel cimitero di Possagno; ma nel 1921 quando si acquistarono otto loculi nel sacello per gli ecclesiastici (non ancora finito) nel cimitero stesso di Possagno, si propose e approvò che vi fossero deposte, accanto alla salma del P. Santacattarina, quella di altri nostri religiosi. P. Agostino fu quindi il primo a essere sepolto nella nuova cappella per i sacerdoti nel cimitero di Possagno.
7.10 Novizio Nazzareno De Piante
Di questo giovane seminarista Cavanis, morto in guerra, il necrologio di Congregazione dice brevemente:
“Nato a Aviano, diocesi di Concordia, caro a tutti in modo particolare per l’innocenza dei costumi e segni di pietà, appena indossata la veste clericale della nostra Congregazione, chiamato alle armi, dopo aver con straordinaria fiducia in Dio e sempre infiammato d’amore per la Congregazione sofferti i disagi della guerra, caduto in mano dei nemici, fu travolto dalle acque mentre attraversava il fiume e incontrò la morte a diciannove anni, il 27 luglio 1918.”
Vale la pena tuttavia di aggiungere alla sua biografia che era nato il 25 novembre 1899, che, dopo aver frequentato solo il corso ginnasiale, vestì l’abito della Congregazione con altri cinque postulanti ed entrò con loro in noviziato l’8 dicembre 1916, solennità dell’Immacolata; e il commento del preposito in questa occasione: “Forse mai nella storia dell’Istituto avvenne vestizione sì numerosa!”; e ancora ciò che scrive lo stesso P. Tormene 7 mesi dopo: “Il 26 [luglio 1917] il Preposito passò a Verona a visitare il Novizio soldato De Piante Nazareno. Ospitato dal Reverendissimo Arciprete di Sona con fraterno cordialità – per mezzo di esso il novizio poté avere parecchie ore di licenza il 27 e 28 e 29. Anche con questo buon figliuolo ore deliziose. Del suo buon spirito religioso, pietà edificante e amore al suo Istituto rimase ammirato anche il Revmo Arciprete che col Preposito lo volle ospite in Canonica”.
Il diario riporta notizie di Nazzareno il 18 novembre 1917: “Oggi giunge lettera di Nazareno De Piante in data 13 corr. –Era a due ore da Grisolera prossimo a passar in Iª linea al fuoco: scrive implorando preghiere, chiedendo perdono d’ogni mancanza, assicurando che va a fuoco con fede e calma rassegnazione. Quanta commozione leggendola! Vergine SS. proteggi questo povero figlioletto: conservalo al Tuo Istituto! Di Vianello e Bolzonello nessuna notizia ancora!”
Nazzareno riuscì a fare una capatina in Istituto a Venezia a gennaio 1918: “ 13 – Domenica – Alle 15 arrivò improvviso in licenza di quindici giorni il caro Novizio soldato De Piante Nazareno dal fronte sul Piave. Sta bene, ma che vitaccia! Sempre però la stessa tranquilla serenità e abbandono nelle mani di Dio. Anime innocenti sempre pronte e contente in Dio!” Di un’altra più breve visita di Nazzareno alla comunità a Venezia si parla il 9 marzo 1918.
Il 29 luglio 1918 P. Tormene scrive: “Solo oggi giunse una lettera del 23 [luglio] del Maggior Ricci che ci dà notizia che il nostro caro Nazareno De Piante è disperso. Ciò seppe direttamente dal Comando Supremo. Speriamo sia prigioniero”.
E il 5 agosto: “La posta ci portò stamattina la prima cartolina di De Piante Nazareno prigioniero. È in data I° luglio – stava bene di salute – non ancora mandato a destinazione, ma era in un luogo di concentramento dove sperava di veder presto qualcuno della sua famiglia. Doveva dunque esser ancora in Italia poiché molto probabilmente la sua famiglia è sempre ad Aviano”.
Purtroppo, più avanti, bisogna leggere un testo molto triste, dalla penna di P. Augusto Tormene nel diario di Congregazione, mesi dopo, l’8 novembre, già terminata la guerra:
“Altra corrispondenza giunse a mezzogiorno, ahimè, quanto dolorosa! Il nostro caro, amatissimo Nazzareno De Piante fatto prigioniero il 17 giugno ’18 sul Piave e tenuto ancora in Italia in attesa d’esser mandato in campo di concentramento, il 27 luglio fuggito dal posto di prigionia, annegò nel passare il Tagliamento! Così scrisse Borella che comandato di andare ad Aviano vide la famiglia dei PP. Zamattio e Menegoz e del professo Saveri (che stanno bene benchè prive di tutto) e il povero papà di Nazzareno … Che colpo al nostro cuore! Il caro figliuolo ci aveva scritto in data I luglio, una cartolina, l’unica, che giunse qua il 5 agosto, quand’egli era già morto! Come sia avvenuta la fuga, ancora non sappiamo, ma certo deve esservi stato spinto dai patimenti, dalla fame, dai compagni fuggiti con lui, e dalla speranza di raggiungere e salvarsi presso la sua famiglia che gli era abbastanza vicina.
Noi che conosciamo l’estrema timidezza sua, la sua anima bella, retta, uniformata pienamente alla Volontà di Dio, sofferente per amor di Lui d’ogni sacrificio (e ne ebbe, infatti, a soffrire d’ogni genere nel suo duro periodo di milizia e alle istituzioni e al fronte) non sappiamo pensare alla sua fuga senza intravvedere lo spettro della morte che doveva stare per coglierlo per fame o per patimenti! E Dio pose fine al suo santo soffrire: si, santo, perché Nazzareno era un piccolo Santo, che con ammirevole ingenuità e slancio dell’anima sempre unita a Dio, santificava tutti i suoi giorni, le sue azioni, le sue pene. Ne sono prova le sue lettere edificanti che scrisse numerose dalla caserma, dal campo, dalla trincea.
Noi lo aspettavamo ormai quasi con sicurezza e ci si era aperto il cuore alla fiducia sapendolo prigioniero ma sano! In questi giorni poi, vedendo già ritornare a Venezia prigionieri dall’Austria: e proprio oggi prima di mezzogiorno il Preposito ritornando all’Istituto pensava alla gioja se vi avesse già trovato Nazzareno! Ahimè! Tutt’altro. Sia fatta sempre e in tutto la Volontà di Dio Padre nostro! A noi il dolore, ma a Nazzareno la gioja, la pace, la felicità eterna nel Cielo, dove ha riposo e premio dal 27 luglio. Sì, da quello stesso giorno, si spera, perché quell’anima deve aver spiccato un volo al Cielo. Innocenza di costumi, coscienza timorata, paurosa anche dell’ombra del male, fedele alla sua vocazione con una esattezza quasi scrupolosa delle Regole, semplicità di bambino nei suoi pensieri ed affetti, sviscerato attaccamento al suo Istituto che nel doloroso periodo di lontananza formò il suo anelito continuo e la sua più grande gioja nelle brevi licenze, amore schietto per tutti e per ciascuno in particolare dell’Istituto, per cui era incapace di un giudizio temerario e d’una parola men che caritatevole; umiltà semplice, disinvolta, sincera; obbedienza cieca e talvolta affannosa e confusa; pietà sentita, spontanea, fervorosa, che gli fu sempre naturale e pronta, e nel periodo della milizia un vero bisogno dell’anima che gli traspariva dal volto in atteggiamenti edificanti durante la preghiera e la Comunione (come il Preposito poté ammirare a Sona dove fu a trovarlo il luglio del ’17); ilarità costante dell’aspetto, specchio dello spirito tranquillo, felice della sua vocazione, lieto coi compagni, grato coi Superiori d’ogni loro affabilità e attenzione di cui non andava in cerca, perché modesto, ma che visibilmente gustava in Domino; amore al dovere scolastico fino al sacrificio, lottando colle difficoltà che si presentavano alla sua intelligenza mediocre, riuscendone vincitore col merito di chi vede in tutto la Volontà di Dio e per lui è lieto di faticare con uro sentimento del dovere; queste belle doti e virtù erano il corredo del piccolo Santo che Dio ci donò per poco sulla terra, ma a cara memoria ed edificazione ed esempio più specialmente pel Noviziato, ed ora per sempre Angelo protettore ed intercessore nel Cielo.
Anche fra i suoi compagni di milizia e i suoi Cappellani militari e i Parrochi di Sona e Piombino Dese dove soggiornò con la sua Compagnia, lasciò ammirazione di sè per la bontà, la pietà, la tranquilla rassegnazione in quel santo martirio che fu per lui il penosissimo periodo di vita militare pieno di sofferenza, di pericoli, di vere agonie del corpo e dello spirito: mai da quella bocca un lamento, un’accusa, un’espressione di sdegno! Compatire, sopportare, offrire a Dio, aspirare al suo Noviziato, veder in tutto Dio, sempre Dio: ecco la sintesi delle sue lettere e delle sue conversazioni nell’Istituto durante le licenze.
Aveva solo diciannove anni (era nato il 25/11/1899). Era entrato nell’Istituto il 25-10-1911, e vestito l’abito religioso l’8/12/1916. Fu chiamato alle armi il 28 giugno 1917– O manibus date lilia plenis! Piccolo Santo, piccolo martire, prega per il tuo Istituto che hai amato così teneramente! Chiedi a Gesù che ne mandi altri che ti assomiglino!”
Il 15 settembre 1919, P. Tormene, recatosi ad Aviano a visitare la famiglia del chierico Vincenzo Saveri, la quale aveva gravemente sofferto durante l’invasione, soprattutto per la morte di tre delle figlie, sorelle del nostro chierico, aveva ricevuto di persona altre notizie sulla morte di Nazzareno. Egli, infatti, la sera di lunedì 15, era andato a visitare la “famiglia dell’indimenticabile angioletto Nazareno De Piante. Dalla famiglia seppe che fatto prigioniero sul Piave il 17 giugno 1918 fu condotto a Moggio (Udine). Arrivati a Sacile, alcuni suoi compagni di Aviano e dintorni fuggirono e ripararono alle case loro, e vi fu eccitato anche lui, ma si sentiva già sì debole che rinunziò al tentativo, temendo di non aver forza di resistere nella fuga. Da Moggio la tentò, non si sa se da solo o in compagnia, ma sembra solo. Nell’attraversare il Tagliamento, disgraziatamente si trovò in un punto dove è più larga e profonda la corrente, presso Trasaghis. Là fra le pile del ponte fu trovato cadavere il 27 luglio. Riconosciuto alla targhetta, mentre l’Autorità militare austriaca ne dava notizia alla Famiglia, ebbe funerale nella Chiesa di Trasaghis e sepoltura in quel cimitero col distintivo di una croce.”
Il nome di Nazzareno De Piante si trova al primo posto nella lapide ai caduti nell’androne dell’Istituto di Venezia.
7.11 P. Carlo Simeoni
Nostro sacerdote professo perpetuo, era nato a Borgo di Valsugana (Trento) il 4 settembre 1849, fu insegnante come maestro delle classi elementari per più di quaranta anni con grande pazienza, alacrità, diligenza e giovialità, esemplare modello di uomo religioso, chiamato all’ufficio di definitore, per lungo tempo afflitto e purificato dalla diuturna malattia, chiedendo egli stesso i sacramenti, in punto di morte, e da questi rafforzato, si addormentò nel bacio del Signore il 19 (o piuttosto 21) febbraio 1922.
Il suo corpo attende la beata risurrezione nel cimitero comunale di Venezia. Il 3 maggio 1942 le sue spoglie sono state traslate con quelle di altri confratelli nella cappella funeraria dell’Istituto nella chiesa di S. Cristoforo, nello stesso cimitero comunale di S. Michele in isola.
Entrò in Istituto il 30 ottobre 1868. Lo troviamo però tra i seminaristi nel piccolo seminario di Possagno, istituito nel 1860, dove era certamente negli anni 1868 e 1869 incompleto, e da dove, assieme ad altri seminaristi e confratelli, dovette portarsi a Venezia quando si chiuse la casa di Possagno, il 19 ottobre 1869. A Venezia vestì l’abito dell’Istituto il 14 dicembre 1872 ed emise i voti il 20 gennaio 1874 e non si sa dove ricevette la tonsura clericale il 30 maggio 1864.
Rimane con ogni probabilità a Venezia dopo il 1869; la sua presenza come seminarista a Venezia è sicura dal 1871 al 1874. Nell’autunno del 1874 passò, ancora seminarista, probabilmente già professo e tonsurato, a Lendinara, dove rimase dal 1874 al 1879.
Fu così ad Adria, diocesi nel cui territorio si trovava Lendinara, e da quel vescovo diocesano molto cordiale con l’Istituto Cavanis, mons. Emmanuele Kaubeck, che ricevette il suddiaconato il 19 settembre 1874, il diaconato il 20 febbraio 1875 e l’ordinazione presbiterale il 13 marzo della stesso anno. Nel 1894, con le nuove regole, deve aver pronunciato i voti perpetui assieme agli altri confratelli.
A Lendinara insegnò, come per tutta la vita, alle elementari. Aveva, infatti, il diploma o abilitazione per l’insegnamento nelle elementari inferiori. Tale abilitazione non gli fu riconosciuta nel 1877 (o piuttosto non fu riconosciuta per inimicizia verso l’Istituto Cavanis di Lendinara, dal provveditorato di Rovigo), con il pretesto che era “tirolese”, cioè trentino e quindi cittadino austro-ungarico. Ci fu una lunga serie di ricorsi, fino a Roma e al re, ma su questo si veda la storia della casa di Lendinara, nella sua seconda fase. A Lendinara ricevette probabilmente gli ordini minori, poi il diaconato (nel 1875 o 1876) e l’ordinazione presbiterale (nel 1877 o 1878).
Dopo il 1879 molto probabilmente è a Venezia (certamente dal 1891), dove continua a insegnare alle elementari, e la sua salute si va gradualmente indebolendo. Fu eletto discreto (cioè delegato) della comunità di Venezia per il capitolo generale del 1894. Come tale, P. Carlo Simeoni, con imbarazzo presentò al capitolo una lettera in cui comunicava che i membri della casa di Venezia non presentavano alcuna proposta, perché stanchi di presentare ai capitoli e ai visitatori proposte che non trovavano alcun riscontro. Il commento fu contestato da P. Casara.
Fu eletto ripetutamente definitore generale dal 1907 al 1920: quarto definitore nel periodo 1907 al 1909; primo definitore e vicario della Congregazione e della comunità di Venezia nel periodo 1909-1913; secondo definitore nel 1913-1917; terzo definitore nel 1917-1919.
Fu poi vicario della comunità di Venezia dal 1919 al 1922, cioè fino alla sua morte, avvenuta, come si è detto, il 19 febbraio 1922. Non era tuttavia anche vicario generale della Congregazione, perché in questi anni non era definitore; e vicario generale risulta essere P. Antonio Dalla Venezia negli anni 1920-1922 e P. Giovanni Rizzardo dal 1922 al 1925.
Il Diario di Congregazione al 19 febbraio 1922 registra che “Il P. Carlo Simeoni, da anni sofferente di bronchite cronica, fin da ieri ebbe un rincrudimento del suo male. Fu chiamato stamattina il medico, che ordinò alcuni rimedii e che non lo si lasciasse solo. Il caro padre nel tempo del nostro teatrino [era carnevale!] volle confessarsi, ricevere il Viatico, ed anche l’Estrema Unzione. Iddio lo conservi ancora!” E il giorno seguente: “Pur troppo il P. Carlo è morto! È morto da Santo domandando perdono a tutta la Comunità delle sue mancanze. Gli abbiamo raccomandato l’anima in camera, ed in Oratorio dopo il S. Rosario. Quanto avea patito col suo male cronico! Come ha fatto il suo Purgatorio quaggiù! – Il P. Vicario gli ha dato la Benedizione Papale”. Il diario in seguito svolge la lunga descrizione del funerale, celebrato il 21 febbraio 1922.
Il primo numero della nuova rivista Charitas, comunicando la sua morte, scrive “P. Carlo Simeoni, ultimo anello di congiunzione coi vecchi Padri che avevano appartenuto all’età dei Fondatori”.
7.12 P. Arturo Zanon
Nato a Venezia il 28 dicembre 1876, era fratello minore del P. Francesco Saverio. Il necrologio della Congregazione dice di lui: “Impegnato assiduamente agli esercizi di pietà colto da inesorabile malattia, dopo diuturni dolori, confortato dai Sacramenti, riposò nella pace del Signore, a quarantasei anni d’età, a Possagno nella casa della Congregazione, morendo il 7 maggio 1922. Il suo corpo fu sepolto nel cimitero locale nella cappella costruita per i sacerdoti.”.
Arturo era nato dunque a Venezia, e più esattamente nella parrocchia di S. Pietro di Castello, il 28 dicembre 1876; dopo gli studi ginnasiali e liceali, aveva compiuto studi universitari di matematica all’università di Padova dove si era laureato, e nel frattempo era stato assunto come professore (probabilmente della stessa materia) al collegio Canova di Possagno, dove risulta presente almeno nel 1901. Nella sua busta personale di documenti si trova un certificato di “Nomina ad assistente onorario gratuito” ossia “Assistente onorario del Regio Osservatorio di Catania ed Etneo” da parte della Regia Università degli Studi di Catania. Era insomma uno scienziato.
Più tardi era entrato nella Congregazione come aspirante il 2 luglio 1906, già adulto e professore; vestì l’abito dell’Istituto l’8 dicembre 1906, solennità dell’Immacolata; emise la professione temporanea il 17 luglio 1908 e la perpetua a S. Agnese a Venezia il 23 luglio 1911, durante un oratorio autunnale (dice il testo del diario, per abitudine, per significare un oratorio ad libitum, cioè non obbligatorio, come avveniva durante le grandi vacanze. Il testo dice “autunnale” perché anticamente le vacanze si facevano piuttosto in autunno che in estate; anche se in realtà nel novecento si trattava di stagione estiva), frequentato da pochi alunni, durante le grandi vacanze estive.
Arturo ricevette insieme la tonsura e i quattro ordini minori, in un’unica soluzione, il 19 dicembre 1908. Nella cappella del Patriarchio di Venezia ricevette dal Patriarca il suddiaconato, assieme a P. Agostino Santacattarina, il 23 dicembre 1911; il diaconato analogamente, e assieme al P. Enrico Perazzolli, il 6 aprile 1912. Fu infine ordinato presbitero nella basilica della Salute dal Patriarca Aristide Cavallari il 25 luglio 1912.
Si parla poco di lui nelle pagine del diario e negli altri documenti dell’Istituto. Certamente non ebbe lo spicco del fratello maggiore p. Francesco Saverio. Lo troviamo nella casa di Venezia dal 1914 al 1921; con ogni probabilità aveva ricevuto a Venezia tutta la sua formazione iniziale, e vi era stato da sacerdote anche dal 1912 al 1914, anche se non risulta dai documenti. In seguito lo troviamo a Possagno nel 1921-1922, anno, quest’ultimo, della sua morte.
Nel 1916 si era temuto che potesse essere chiamato alle armi, nel secondo anno di guerra, a 40 anni, dato che si chiamavano i suoi coetanei o “coscritti”, i nati del 1876. Per evitargli la ferma, fu nominato (formalmente e per benevolenza del Patriarca e della curia) cappellano di S. Pietro di Castello, la sua parrocchia di origine.
Nel capitolo generale del 1919. nella quinta sessione, del pomeriggio del 1° agosto, a partire dalla lettura della relazione del discreto di Venezia, “dolorosamente” unanime, il capitolo prende la decisione che il P. Arturo Zanon, che “produce danni sempre più gravi nell’organismo della scuola”, deve lasciare il ministero della scuola. E così fu fatto.
Nel 1921 svolse studi sulla copertura antica e sullatarsia affrescata nella parte alta delle pareti laterali della navata centrale nella chiesa di S. Agnese, allora nascosti dalla volta barocca.
Il diario, l’8 giugno 1920, ci fornisce un dato che ci spiega molti aspetti della sua presenza-assenza in Congregazione: “Stasera alle 22 parte per Solbiate Comasco P. Arturo Zanon che volle andare in quella Casa di Salute dei Fatebenefratelli d’intesa col Card. Patriarca a cui ricorse credendosi bisognoso di ritirarsi in un luogo di cura fuori dell’Istituto. Il Preposito, per minor male, si adattò alla proposta del Patriarca. Il povero Confratello forse da qualche anno ha perduto la vocazione, o è sotto l’influenza di neurostenia: però rimane Religioso dell’Istituto, benché a Solbiate vada a fungere da Cappellano in quella Casa di Salute senza termine di tempo. Il Signore ci benedica e ci risani!”. P. Arturo ritornò all’improvviso in comunità a Venezia l’8 (?) dicembre 1920, dopo varie lettere, in una delle quali quasi si congedava dalla Congregazione in modo definitivo. I superiori a novembre avevano ricevuto anche una lettera dal superiore della Casa di Salute di Solbiate, in cui questi invitava il preposito a richiamare in confratello in comunità. Evidentemente non lo sopportavano più. P. Arturo dunque ritornò, senza dare spiegazioni, e rimase chiuso e riservato con tutti come era prima di partire. A quanto pare rimase così fino alla sua morte prematura nel 1922. Di lui e della sua malattia si parla il 24 marzo 1922: “P. Zamattio scrive [da Possagno] che la mattina del 22 P. Arturo Zanon ha perduto affatto la conoscenza e fece stranezze”; e ancora il 6 aprile.
P. Arturo entrò in agonia un giorno o due prima del 5 maggio 1922 e morì l’8 seguente: 8 maggio 1922. In questa data, P. Antonio Dalla Venezia, superiore generale interino, annuncia nel diario: “Ci arriva un telegramma da Possagno annunziante la morte del P. Arturo Zanon. Ebbe un lungo decubito dal 22 marzo, che l’aveva reso, poverino! un cadavere spirante. Nel N. (sic) straordinario dell’Aurora, nell’occasione della Festa dell’Incoronazione della [Madonna della] Salute, avea in un erudito articolo inneggiato alla Vergine”. I funerali furono celebrati il 9 maggio.
7.13 P. Mario Miotello
Nato a Padova il 15 agosto 1899, nostro sacerdote professo perpetuo, carissimo a tutti, morto giovanissimo. Mario era entrato come convittore, da ragazzino, nel Collegio Canova di Possagno, e il 27 agosto 1916, diciassettenne, chiese di poter entrare come seminarista aspirante in Istituto. La sua richiesta venne accolta ed egli entrò di fatto nel probandato il 6 ottobre dello stesso anno, all’inizio dell’anno scolastico. Vestì l’abito dell’Istituto a Venezia, davanti alla scolaresca, il 21 novembre 1917 nel giorno della festa della Madonna della Salute, e così iniziò il suo noviziato. Questo fu interrotto brevemente dal richiamo al servizio militare – si era poi in tempo di guerra, la prima grande guerra mondiale -, ma rimase sotto le armi soltanto dal 18 maggio al 26 giugno (circa) 1918, quando per malattia fu dichiarato “rividibile” (sic), dopo essere passato per vari ospedali militari per pleurite e vari inghippi, e potè ritornare in comunità. Sembra che sia rimasto poi sempre gracile e debole.
Notevole il suo viaggio di ritorno a tappe in comunità: essendo stato rilasciato dall’esercito in prossimità di Alessandria, avutone il permesso del preposito, passò a salutare i confratelli a Tortona, con i quali passò due giorni; andò poi a Piacenza a trovare il confratello G.B. Piasentini, militare in quella città e con lui rimase un giorno; al ritorno passò per Padova e fu alla basilica del Santo per ringraziare S. Antonio, al quale evidentemente si era raccomandato per avere la grazia di rientrare in comunità; e raggiunse poi la comunità a Venezia per riprendere il suo noviziato il 2 luglio 1918 alle 18.30. Rifece il noviziato, che era stato interrotto, e professò i voti temporanei il 2 luglio 1919. Compiuti poi gli studi umanistici liceali – questi ultimi sostituiti positivamente da un esame suppletivo per ex-militari, sostenuto a Novi Ligure (Alessandria), con l’appoggio degli Orionini e di don Luigi Orione personalmente – e teologici a Venezia in Istituto, professò i voti perpetui il 2 luglio 1922; ricevette la tonsura a Venezia dal Card. Patriarca La Fontaine il 14 dicembre 1922; i primi due ordini minori, dalla stesso porporato il 21 dicembre 1922 e il 23 dicembre gli altri due ordini minori . Fu ordinato suddiacono a Venezia il 12 aprile 1924, sabato sitientes, assieme ai confratelli Pellegrino Bolzonello e Giovanni Battista Piasentini. Gli stessi tre religiosi furono ordinati diaconi nella chiesa di S. Salvador a Venezia il 14 giugno 1924.
Infine gli stessi ricevettero l’ordinazione presbiterale dal Patriarca La Fontaine il 22 giugno 1924, nella chiesa di S. Agnese.
P. Mario era particolarmente caro ai fanciulli che accoglieva con straordinaria dolcezza. Grande innamorato della Vergine, iscritto fin da ragazzo alla Congregazione Mariana di Possagno, avendo appena gustato i gaudii sacerdotali del sacro altare, consumato dalla tisi morì a Venezia, nell’ospedale di Sacca Sessola, il 7 ottobre 1924, avendo iniziato da poco il venticinquesimo anno di età.
Anche in ospedale, lasciò mirabili esempi di pazienza e di pietà verso Dio a tutti coloro che lo assistevano nella malattia, bramando ardentemente il Paradiso. Il Preposito, P. Zamattio, andato a trovarlo il 3 ottobre 1924, “lo trovò sempre gravissimo ed ebbe il conforto di dargli la S. Comunione. Le disposizioni di spirito del povero Padre sono edificanti: rassegnato in tutto alla Volontà di Dio, paziente, senza esigenze ha destato l’ammirazione delle Suore, infermieri e del P. Cappellano. Richiesto dal Preposito se desiderava guarire, rispose di sì per darsi tutto a Dio e far del bene alle anime…del resto accetterà quello che a Lui piace”.
Il giorno 7 ottobre P. Zamattio scrive: “Questa mattina alle 6 ¼ spirava la bell’anima del P. Mario Miotello. Ieri sera volle ricevere la S. Comunione e prima alla presenza della Madre sua, del P. Cappellano, della Superiora e degli infermieri volle fare una pubblica confessione, chiedendo perdono a tutti. Passò la notte abbastanza tranquillo, e si addormentò nel Signore, [il 7 ottobre 1924], assistito da due sacerdoti. Ha lasciato un grande vuoto in mezzo a noi, ma egli manterrà la promessa di pregare per la nostra povera Congregazione e attirerà sopra di essa grazie migliori che la sua guarigione da noi tanto desiderata e tanto implorata. Accolto convittore a Possagno nelle elementari, e percorso regolarmente i suoi studi, distinguendosi specialmente nella pietà, fu uno dei primi a far parte della Congregazione Mariana di Possagno”.
Un’altra fonte, il necrologio, dice, con due interessanti varianti, che, “rinnovati per devozione i voti, si addormentò piamente nel Signore nel giorno dedicato alla Vergine del Rosario, come era nato nel giorno della assunzione della Vergine al cielo”.
I funerali si tennero l’8 ottobre a S. Agnese. La sua salma fu sepolta nel campo per gli ecclesiastici e i religiosi nel cimitero civile di Venezia; circa diciotto anni dopo, nel 1942, le sue ossa furono raccolte, assieme a quelle di altri confratelli, e sistemate nella cappella funeraria dell’Istituto Cavanis nella Cappella di S. Cristoforo.
Da notare che, almeno nei momenti più critici, ma forse come sistema, ogni giorno uno dei padri andava a Secca Sessola a trovare i nostri ammalati. Era senza dubbio una missione preziosa, ma anche pericolosa, e senza dubbio molto generosa.
7.14 P. Michele Marini
Normalmente non diamo in questo libro, con rare eccezioni interessanti, la biografia dei religiosi che hanno lasciato la congregazione; ci sono già quasi 200 biografie nel libro, dei religiosi che hanno perseverato fino alla fine, e se si dovessero aggiungere tutte quelle dei confratelli che per un motivo o l’altro hanno lasciato l’Istituto, la cosa diventerebbe eccezionalmente ampia. Di P. Michele Marini, di cui si parlerà spesso qua e là, non si può dare una biografia completa, dato che ha lasciato la congregazione nel 1887 e non sappiamo praticamente niente di lui dopo la sua uscita, e anche perché nell’occasione della sua partenza definitiva ha portato con sé, naturalmente, molti suoi documenti, specialmente quelli relativi agli ordini minori e maggiori, le sue testimoniali e altri. Ci sembra però che sia utile dare una biografia di questi due religiosi, Michele Marini e Giuseppe Miorelli, che tanta parte, in bene e in male, hanno dato alla dinamica interna della vita della Congregazione soprattutto negli anni ’80 del secolo XIX.
Michele era nato a Bassano (ora Bassano del Grappa, provincia e diocesi di Vicenza), il 21 gennaio 1844. Tra parentesi, è molto strano che il libro di matricola della congregazione, di mano di P. Marco Cavanis fino quasi alla sua morte, poi continuato fino agli anni ’70 del secolo XIX, non riporti la data di entrata in Istituto né di uscita né altri dati relativi ai due padri, ambedue usciti di congregazione, a breve distanza di tempo e più o meno per gli stessi motivi, P. Michele Marini e P. Giuseppe Miorelli. In qualche modo forse si è fatto di loro una certa damnatio memoriae. Ma la loro assenza da questo libro di matricola non può certamente dipendere dalla loro uscita, dato che molti usciti sono regolarmente registrati e, come ovvio, dato che si tratta di un libro che registra prima di tutto l’entrata nella convivenza (nel caso specifico, non necessariamente e non sempre come seminaristi), e quindi l’eventuale uscita non può essere prevista al momento della registrazione dell’entrata. Marini entrò in Congregazione il 3 novembre 1862, fu seminarista a Possagno nel seminario iniziato nel 1860, vestì l’abito religioso dei Cavanis il 17 febbraio 1863, e quindi visse per due anni l’esperienza del noviziato a Possagno, avendo come maestro P. Domenico Sapori e come compagni tra l’altro Giovanni Battista Larese, e i fratelli Giacometto Barbaro, Francesco Lutteri e Pietro Sighel. Dopo due anni, come era di regola prima del 1894 per i candidati chierici, mentre i suoi confratelli fratelli laici rimanevano un altr’anno (tre anni in tutto), egli fu ammesso dagli esaminatori e quindi dal preposito ad emettere i voti il 12 febbraio 1865, con 4 voti favorevoli su 5. Deve aver emesso la professione poco dopo questa data. Si faceva notare, in questa occasione, nei verbali di queste riunioni esaminatrici, che il suo carattere era riservato e solitario, peraltro obbediente.
Da chierico, e poi anche da padre, insegnava nelle scuole elementari.
Fu ordinato diacono a Padova il sabato 12 marzo 1870 e presbitero in data ancora incerta, ma comunque precedente al 11 agosto 1871, quando era sicuramente già prete; più probabilmente nel 1871, essendo stato ordinato diacono nel 1870.
L’11 agosto 1878 la comunità di Venezia si riunì alla sera, assente il Marini dato che si doveva decidere a suo riguardo; e presenti gli altri 10 sacerdoti della comunità di Venezia, in riunione presieduta dal preposito P. Sebastiano Casara. Si trattava di decidere se costituire il patrimonio ecclesiastico del P. Marini, che finora era stato ordinato “per privilegio apostolico “titulo servitii Ecclesiae”, essendo questa chiesa, come spiega il verbale suddetto, la chiesa di S. Agnese. Era naturalmente un titolo fittizio. Si voleva ora applicare a lui un legato di lire italiane 7.000 ricevuto pochi giorni prima, come patrimonio autentico e sonante al P. Marini. P. Casara pose ai voti la cosa, e Marini ottenne 10 voti su 10, e gli fu quindi intitolato il legato come patrimonio ecclesiastico. Questo è un segno di stima, tra l’altro, da parte della comunità di Venezia e del preposito come proponente.
Come si vedrà, tuttavia, dopo questo fatto, il suo carattere ombroso lo portò a vari e poi progressivamente gravi scontri con i superiori, particolarmente con P. Casara nei primi anni ’80 e con il successivo preposito, P. Domenico Sapori e con i confratelli; sia su questioni di carattere politico (il risorgimento italiano) sia sulla questione del sistema rosminiano, sia soprattutto sulla riforma e sul completamento delle costituzioni, su cui stavano da tempo lavorando P. Casara e dopo di lui P. Sapori. A parte la sistematica opposizione ai due successivi prepositi generali, Michele Marini, come P. Giuseppe Miorelli, li mise più volte in imbarazzo, sparlando di loro, accusandoli e calunniandoli al Patriarca Agostini e mettendo in difficoltà il processo di redazione delle costituzioni (seconda parte, sul governo, i capitoli, le elezioni, la formazione, l’amministrazione ecc.) e la loro desiderata approvazione da parte della santa Sede. Il gruppo Miorelli, Marini e un po’ meno Giambattista Larese e molto meno Carlo Simeoni nella loro giovinezza, contribuirono abbondantemente alle definitive dimissioni di P. Sebastiano Casara nel 1885. P. Domenico Sapori commenta nel diario di Congregazione: “D.[on] Michele Marini stamane partì allontanandosi dall’Istituto anche fisicamente, che di spirito n’era distaccato da gran tempo: Iddio gli perdoni tante amarezze da lui arrecate alla nostra povera Congregazione. A questa Curia [patriarcale di Venezia, N.d.A.] notifico il doloroso avvenuto, restando egli alla medesima soggetto. E il giorno dopo, 5 luglio: “Il sudd.o Marini scrive una lettera al Superiore, onde gli manda perdono, come pure ad altri offesi da lui con tante impertinenze.”
Come nel caso di Giuseppe Miorelli, venne poi l’aspetto economico: il 25 luglio troviamo nel DC a p. 207: “Il padre (=papà) di don Michele domanda ragione di lire 2000 consegnate all’Istituto un 23 anni sono (=or sono; in realtà 25) per costituire parte del Patrimonio a suo figlio.
Gli rispondo, che investite in Cartelle turche (buoni del tesoro dell’Impero Ottomano, che erano stati deprezzati) toccavano la sorte comune: restano lire 800: venga o le mandi a riscuotere, quando li aggrada. Sopra questo affare e sulla pensione governativa spettante al detto Marini venne dato un Voto dal M.R.P. Casara, il quale desidera che conservi la memoria.”
In seguito “Il sudd.o Marini scrisse una lettera al Superiore, onde gli manda (sic) perdono, come pure ad altri offesi da lui con tante impertinenze”.
Non conosciamo il resto della sua vita, e ignoriamo per ora la data della sua morte. Si suppone che sia rimasto prete diocesano. Salvo incidenti, dovrebbe essere mancato ai vivi verso gli anni ‘20 o ‘30 del secolo XX, essendo nato nel 1844.
7.15 P. Giuseppe Miorelli, nella storia della Congregazione delle Scuole di Carità e poi nella storia della Diocesi di Adria
Come si diceva sopra per P. Michele Marini, normalmente non si sono redatte le biografie di religiosi Cavanis che hanno lasciato la Congregazione. La figura complessa di P. Giuseppe Miorelli, poi don Giuseppe Miorelli, prete diocesano, ha una sua importanza nella storia della Congregazione; la sua opposizione ai due prepositi P. Casara prima e P. Sapori poi, in genere presentata in modo del tutto negativo in congregazione, dovrebbe essere ristudiata criticamente in dettaglio – cosa non facile ma probabilmente utile –; la seconda parte della sua vita, quella di un prete secolare impegnato nel sociale, oltre che nella vita strettamente pastorale, fa poi onore a lui e alla Congregazione. Eccola.
Nascita, patria e famiglia
Giuseppe Miorelli nacque a “Bolognano in Tirolo” (ora Trentino) il 2 giugno 1845. Bolognano è una frazione di Arco (Tn), sita ai piedi del monte Stivo. La frazione confina con i paesi di, in senso orario da nord ad ovest, Massone, il comune di Ronzo-Chienis, Vignole, Pratosaiano e Caneve. Bolognano ha attualmente poco più di 2.000 abitanti (2.102 nel censimento 2011). Giuseppe vive ad Arco (TN) nella sua infanzia e gioventù, fino all’inizio della sua vita di seminarista e poi di sacerdote religioso Cavanis. Arco è attualmente (2018) la quarta città del Trentino, per numero di abitanti (17.588 nel 2017), dopo Trento, Rovereto e Pergine Valsugana. Arco fa parte oggi della Comunità Alto Garda e Ledro.
Dopo l’uscita dalla congregazione nel 1886, probabilmente ritornò brevemente ad Arco, per poi stabilirsi a Molinella di Lendinara (Ro), nella diocesi di Adria fin dal 1887 (forse fin dalla fine del 1886) e vi rimase fino al 1909 (vedi sotto); si ritirò poi ad Arco, sua cittadina natale, dove morì nel 1929.
Al momento dell’entrata in congregazione, che deve essere avvenuta dopo il 24 agosto 1863 e prima dell’8 novembre 1863, Giuseppe era orfano di suo padre, Bortolo Miorelli, ed era minorenne, a quanto pare secondo la legge austriaca, pur avendo 18 anni compiuti; egli era figlio del fu Bortolo Miorelli e di Domenica Chissé, rimasta vedova, e rimaritata con Bortolo Martinelli di Bolognano di Arco. Giuseppe aveva avuto due fratelli maschi: Giovanni e Baldassare, già defunti nel 1863; e inoltre aveva la sorella Teresa. L’asse ereditario del defunto Bortolo Miorelli consisteva in fiorini 347,44 e ½, e consisteva nella casa di abitazione e due altri stabili, valutati insieme in fiorini 1065,43; dal valore di questi tre edifici era stata detratta una passività (debiti) di 721,58 ½ e probabilmente un piccolo diritto notarile. Dell’asse ereditario, così modesto, “si spetta la porzione di legge alla madre Ved.va Domenica”. Restava ben poco, da dividersi tra Giuseppe e Teresa, i due figli ancora viventi.
Il buon arciprete di Arco, P. Giovanni Dall’Armi, scrive l’8 novembre 1863 al preposito generale dell’Istituto Cavanis, che allora per un triennio (1° settembre 1863-1° settembre 1866) era il P. Giovanni Battista Traiber, zoldano, che: “giusto il convenuto io deposito nelle di Lei mani due pezzi da 20 franchi l’uno dei quali potrà servire per completare eventualmente il suo [di Giuseppe Miorelli, N.d.A.] attuale vestito se mancasse qualche capo necessario e per altri piccoli bisogni, l’altro per fare il viaggio di ritorno se mai il giovane non potesse per qualunque causa perseverare nella vocazione e nella Congregazione; nel qual caso Ella vorrà aver la bontà di indirizzarlo a me in Arco, ed io lo prenderò di nuovo in consegna. Per riguardo al di lui patrimonio [ecclesiastico, N.d.A.] io mi impegno per quanto posso a cercare che venga realizzato, depurato ed assicurato onde così salvare la di lui facoltà al giovane in qualunque occorrenza e di metterlo poscia a disposizione di codesta Religiosa congregazione”. Non risulta ma non si esclude che la cosa abbia poi avuto seguito. Ne segue però che, a parte questo piccolo contributo per le prime spese, come quasi sempre accadeva, i venerabili Fratelli Cavanis con ogni probabilità abbiano dovuto sobbarcarsi la costituzione del patrimonio ecclesiastico del giovane candidato allo stato di prete, cosa che molte volte facevano grazie a ricche elemosine, ricevute spesso dall’imperatrice austriaca moglie o madre dell’imperatore regnante o da altri benefattori; altre volte costituivano il patrimonio in modo quasi fittizio, ma con pericolo per i loro beni, cioè sulla base di ipoteche degli edifici di proprietà della loro famiglia o della loro congregazione. Non abbiamo e non possiamo avere in archivio la cartella di documenti relativi a tale patrimonio ecclesiastico, perché P. Giuseppe Miorelli l’avrà portata naturalmente con sé, perché aveva bisogno del suo patrimonio (e delle relative prove documentarie) anche incardinandosi nella diocesi di Adria. Si dovrebbe cercare nel suo archivio personale, forse affluito all’archivio diocesano di Adria-Rovigo (nel 1883 ancora con il nome antico di diocesi di Adria).
Entrata in Congregazione e formazione
Non conosciamo la data esatta dell’entrata in Congregazione del giovane Giuseppe, ma essa deve essere accaduta nell’autunno 1869, attorno ai primi di novembre, dato che il 3 novembre 1863 il parroco di Arco versa alla comunità Cavanis i due pezzi di 20 franchi per l’abito e per le prime spese o per l’eventuale viaggio di ritorno a casa, e dato che risulta che egli sia andato a Lendinara, in compagnia del padre Gianfrancesco Mihator, all’inizio dello stesso novembre, probabilmente partendo da Venezia.
Come numerosi altri giovani trentini, Giuseppe Miorelli era dunque entrato nella Congregazione delle Scuole di Carità.
La presenza del giovane Giuseppe Miorelli in Istituto al momento della sua entrata e almeno per un anno, doveva essere quella di semplice aspirante, non ancora di studente o di novizio, anche se era chiaro che si presentava come candidato non solo alla vita religiosa ma anche al presbiterato; pertanto non fu subito annotato nelle liste annuali dei membri della Congregazione, che il preposito doveva far pervenire alle autorità civili e a quelle religiose; il suo nome non consta per esempio nella “Tabella indicante lo stato personale della Congregazione delle Scuole di Carità dal 1° novembre 1864 a tutto ottobre 1865”, quando egli con certezza era già in Istituto, ma senza esserne membro legale. Si trova invece per la prima volta il suo nome nella “Tabella indicante lo stato personale della Congregazione delle Scuole di Carità dal 1° novembre 1865 a tutto ottobre 1866”, nella quale tabella Giuseppe si trova all’ultimo posto della lista, con la definizione di “studente” ossia di candidato agli studi ecclesiastici e agli ordini sacri; ma il suo nome risulta in questa tabella dopo la lista dei fratelli laici, come ultimo arrivato.
Vestizione, noviziato e professione
Dopo il capitolo provinciale del 1° settembre 1863, celebrato a Venezia, in cui era stato eletto preposito P. Giovanni Battista Traiber, che era stato da tempo rettore della casa di Lendinara, quella comunità era costituita così: i padri Pietro Spernich; Giuseppe Bassi come rettore; Vincenzo Brizzi, il P. Giovanni Fanton dopo il 21 ottobre 1863, il seminarista o diacono Giovanni Ghezzo e i fratelli laici Pietro Rossi e Francesco Avi. Con sette membri, questa è la comunità più numerosa di questa casa dalla sua fondazione. Inoltre all’inizio di novembre era stato mandato da Venezia anche P. Gianfrancesco Mihator che vi accompagnava l’aspirante Giuseppe Miorelli. Non è sicuro se vi sia stato inviato approfittando del viaggio di P. Gianfrancesco Mihator per compiervi una visita o una gita, oppure per rimanervi. Sembra però più probabile che sia stata una presenza passeggera, e che l’aspirante sia ritornato a Venezia.
Lo troviamo infatti come postulante a Venezia dalla fine del 1863 al 1864; poi come novizio a Possagno dall’8 dicembre 1864 al settembre (molto probabilmente) 1965, quando continua il noviziato (il secondo anno) a Venezia, con un noviziato piuttosto prolungato, per l’incertezza sull’autenticità della sua vocazione, e lo troviamo ancora a Venezia fino all’estate 1867: in seguito è a Lendinara dal 1867 al 1870, anno in cui è ordinato presbitero.
Il tempo della sua formazione religiosa e clericale e la sua ordinazione presbiterale meritano qualche dato concreto, e questi dati dipendono fondamentalmente dai verbali dei periodici (e numerosi) esami cui erano sottomessi, secondo i costumi dell’epoca e le regole imposte dalla santa Sede, i postulanti per ottenere la vestizione religiosa, ed erano due esami; e dei periodici esami cui erano sottoposti i novizi (ed erano esami trimestrali per due anni di noviziato, quindi dovevano essere otto esami). Esistevano all’uopo numerosi esaminatori eletti nei capitoli provinciali. Tale prassi valse almeno fino al 1891, quando furono approvate le nuove regole.
Intanto, il 14 ottobre 1864 P. Casara scrive del DC: “Si scrive al Rev.do D. Giovanni Dall’Armi, Arciprete-Decano in Arco, pregandolo di procurarci la Testimoniale pel giovane Giuseppe Miorelli”. E il 27 ottobre successivo annota che l’arciprete risponde che spera poter ottenere e inviare al più presto quel documento.
Il primo esame per l’ammissione alla vestizione del Miorelli fu tenuto a Venezia il 24 novembre 1864; il secondo pure a Possagno il 2 dicembre 1864. Si riporta di seguito il testo completo di quest’ultimo documento, per avere una idea anche degli altri:
Prot. n° 155/15 del 1864
J.M.J
Congregazione delle Scuole di Carità in Possagno
Questo giorno 2 Decembre 1864
Secondo Esame per l’ammissione all’abito nostro
Del giovane Giuseppe Miorelli come chierico
Giusta il venerato Decreto della Sacra Congregazione sopra lo stato dei Regolari del giorno 25 gennaio 1848 i sottoscritti Esaminatori provli [=provinciali] raccoltisi in Capitolo sotto la presidenza del M.R.P. Preposito assente, e recitate da prima le solite preci, prestarono sopra i Santi Vangeli il giuramento prescritto.
Esaminarono quindi le carte e i Documenti presentati e quando venne operato nel primo Esame fatto a Venezia per l’ammissione del giovane postulante suddetto. E avendo trovati i sottoscritti che nulla manca di quanto prescrivono le pontificie ordinazioni sia riguardo all’operato del primo Scrutinio sia riguardo alle qualità e condizioni del postulante, vennero a votazione secreta ed apertosi il voto sigillato del P. Preposito, risultarono suffragi favorevoli 4 – Contrari – Nessuno.
Scioltosi il Capitolo dopo la recita delle consuete orazioni sottoscrissero il presente Atto verbale.
P. Giambattista Traiber [=preposito]
P. Giuseppe Bassi [=rettore della comunità di Possagno, esaminatore]
P. Giuseppe Da Col [=parroco di Possagno, esaminatore]
P. Domenico Sapori [=maestro dei novizi, esaminatore]
Timbro della Congregazione delle Scuole di Carità in Possagno
Nel DC il 5 dicembre 1864 P. Casara annota i due atti di cui sopra compiuti per la vestizione di Giuseppe Miorelli e si dice che il secondo esame vale di “revisione e approvazione del primo”.
La vestizione era stata dunque approvata, e si realizzò a Possagno l’8 dicembre 1864, solennità dell’Immacolata. In effetti, nel DC si trova in data 9 dicembre 1864: “Ieri a Possagno fu ammesso all’abito e al noviziato come studente il giovane Giuseppe Miorelli”.
Il primo anno di noviziato si svolse a Possagno e il maestro dei novizi era il P. Domenico Sapori; questi scrive al preposito il 7 febbraio 1865 una prima relazione trimestrale sul novizio Miorelli, dove dice: “L’osservo infatti ubbidiente divoto e pio; inoltre dotato di molta capacità pel nostro ministero delle Scuole. Riguardo al fisico soffre egli di qualche cosa di tosse, ma non sembra tale da mettere timore di tristo avvenire”.
Nella seconda relazione trimestrale, del 7 giugno 1865 il maestro dei novizi scrive: “…il giovane Miorelli Giuseppe progredisce ognor più nel bene, dimostrando in parole ed in opere vivo spirito religioso, ubbidiente, e tutto amore per la nostra diletta Congregazione”. Riguardo poi a salute sta molto meglio, non però perfettamente ristabilito”.
La quarta relazione trimestrale (manca la terza tra i documenti) è redatta l’8 dicembre 1865, alla fine del primo anno di noviziato, non da P. Domenico Sapori come le precedenti, maestro dei novizi, ma dal buon P. Giuseppe Rovigo, fine formatore, che apparteneva alla comunità di Venezia; il che significa che Giuseppe Miorelli (dal settembre 1865) era passato a continuare il noviziato a Venezia e che P. Rovigo è divenuto il suo maestro dei novizi. Scrive quest’ultimo: “Da quanto ho potuto osservare io e mi viene riferito, egli è quale si tiene comunemente, dotato di molta saviezza, pieghevole; che non fa lamenti né scuse quando gli si ingiunge o raccomanda qualche cosa. Nella pietà pure è esemplare. Si adopera quanto può con impegno volentieri quando è tra gli scolari; asserisce di essere contentissimo della sua vocazione, fermo di perseverare e disposto a legarvisi coi santi voti.
Quanto alla salute, molto incerta in addietro, ora apparisce migliorata, ed egli stesso dice di sentirsi ognor meglio”.
Lo stesso P. Rovigo, nella quinta relazione, del’8 marzo 1866, scrive: “In complesso la sua condotta fu sempre esemplare per pietà, saviezza e sommissione. Si adopera volentieri e con impegno all’assistenza degli scolari. Se alcune volte ebbi ad ammonirlo per qualche mancanza, l’ho trovato sempre arrendevole e volonteroso di correggersi. Nella vocazione è costante”.
Nella seconda relazione trimestrale del 1866, P. Rovigo osserva che finora non si è potuto conoscerlo bene, perché si evitava di contrastarlo perché era malaticcio. Ora che è sano “…in più occasioni manifestossi di mente troppo tenace, dilicato in punto d’onore, con qualche stima di sè, molto difficile a tranquillarsi quando seppe che da taluno era tenuto per poco obbediente e divoto. Così pure si è conosciuto che quando è angustiato stenta ad aprirsi colla dovuta candidezza religiosa. Segno anche questo che sente vivo l’amor proprio. Dopo le correzioni fattegli si è però veduto che vuole emendarsi. Si mostra disposto a sostenere le prove che gli venissero in seguito date; e ciò fa sperar bene”.
La terza relazione del 1866, dell’8 agosto 1866, di P. Rovigo, è più positiva. Lo chiama chierico anziché studente, il che può indicare che aveva già ricevuto in questa data la tonsura o chierica. “…dopo le ammonizioni più volte ripetutegli di dover attendere ad emendare il suo naturale, or freddo, or risentito, or chiuso ec., mi pare che ora sia migliore. Così pure in riguardo alla sua incombenza sui fanciulli l’ho osservato più sollecito. – Forse ha bisogno di un po’ di stimolo circa lo studio”.
La quarta relazione del 1866 (8 novembre 1866, di Giuseppe Rovigo): “In questo ultimo trimestre del suo noviziato si doveva in vero aver prova più rassicurante sul suo spirito religioso. In più circostanze appariva come in addietro tenace della sua opinione, facile ad opporsi alla altrui anche non interrogato; difficile ad umiliarsi. Sopra tutto mi fa temere che manchi del necessario fondo di umiltà la quasi desolazione di spirito in cui cade quando sa che da altri fu accusato de’ suoi difetti. Pure interrogato sulla vocazione, se si sente disposto a far la professione, risponde di sì; ma un sì asciutto senza manifestare nè desiderio nè timore”.
Miorelli avrebbe dovuto emettere la professione dei voti dopo due anni di noviziato, e quindi alla fine del 1866, possibilmente l’8 dicembre di quell’anno; ma “tempora mala erant”, i tempi erano cattivi. Erano quelli della conclusione della III guerra d’Indipendenza, della desiderata riunione del Veneto al Regno d’Italia, ma anche del trascorrere di eserciti sul territorio veneto anche dopo la fine della guerra, non sempre benevoli con la popolazione; sia a Venezia, occupando la città e bloccando per un certo tempo “i passi”, come si commentava negli Atti del capitolo provinciale Cavanis del 1° settembre 1866, cioè il ponte ferroviario Mestre-Venezia, sia a Lendinara, tra l’altro. E si era all’inizio della lotta di questo regno che portava con sé da tempo la speranza della riunione di tutta l’Italia in un solo stato, ma che era anticlericale (e che aveva anche bisogno di denaro per pagare la guerra e i soldati) e nemico degli istituti religiosi. Infatti il 7 dicembre 1866 per il novizio-fratello laico Pietro Sighel che aveva compiuto suoi tre anni di noviziato, si scrive nel DC che la professione è differita “per le circostanze politiche dei tempi”. Ma non fu solo per questo, nel caso del Miorelli. Il ritardo era anche dovuto a dubbi da parte dei formatori e superiori sulla sua vocazione e sul suo temperamento.
P. Casara, di nuovo eletto preposito il 1° settembre 1866, scrive nel diario il 14 gennaio 1867: “Ho creduto bene di esporre in iscritto alcune mie osservazioni ai Sacerdoti capitolari di questa casa [di Possagno], che devono unirsi presto per conferire e votare sull’aggregazione del novizio Miorelli, la quale avrebbe dovuto farsi agli otto dell’ultimo passato decembre. Lo scritto mi si dee ritornare firmato da tutti quanti.”
Seguono tre carte, tutte del 24 febbraio successivo e dintorni. In ordine di numero di protocollo, la prima, della stessa data del 24 febbraio 1867 è una relazione anomala ma molto interessante, che, stranamente, è compilata dal vicario della comunità di Venezia (e automaticamente vicario generale), P. Tito Fusarini e diretta agli esaminatori provinciali, i PP. Giovanni Battista Traiber, Giuseppe Da Col e Giuseppe Bassi. Eccone il testo: “Il Chierico Novizio Giuseppe Miorelli avendo già compiuto il biennio del suo Novizio (sic) fino al dì 8 Decembre 1866, non veniva allora ammesso alla professione dei voti perchè dal Capitolo della casa [di Venezia, N.d.A.] fatto il 4 novembre decorsosi era giudicato essere dubbia la di lui vocazione. Dopo questo lasso di tempo tutti i Capitolari trovarono di cambiar giudizio, e perciò vennero dal sottoscritto ripetute le pratiche volute dalle Bolle Pontificie e dalle nostre Costituzioni. Chiamato quindi il detto Chierico Novizio ebbe francamente a dichiarare com’esso desiderasse l’aggregazione al solo fine di conseguire più facilmente la propria santificazione. Che a chieder di esser aggregato non era mosso da alcuna vista (?) mondana nè da coazione. Che sapeva essere proprio dei congregati l’istruire ed educare la gioventù e a ciò essere dispostissimo. Che conosceva l’importanza dei voti, e quelli intender pronunziare per legarsi per tutta la vita.
Dopo queste dichiarazioni il sottoscritto Vicario interrogò tutti i membri di quella casa, dalla maggior parte dei quali le informazioni furono soddisfacenti, per cui procedette securo alla votazione del Capitolo locale, il cui risultato lo si trova negli atti che a questo si uniscono.
Ora adunque, dovendosi eseguire quanto viene imposto dall’Articolo 213.§.3° Capo XII del libro Secondo delle nostre Regole manoscritte si accompagna a codesti RR. Esaminatori la relazione per iscritto del P. Rovigo Maestro dei Novizi, perchè sull’appoggio di essa e degli altri documenti essi Esaminatori abbiano a decidere a voti secreti se il Miorelli sia da ammettersi alla professione, della quale decisione saranno compiacenti di estendere il relativo Processo Verbale e con gli altri voti computare anche il mio che qui unisco suggellato. (omissis, parole di conclusione).
Venezia la Domenica di Sessagesima dell’anno 1867.
P. Tito Fusarini vicario.”
Il secondo documento, in ordine di numero di protocollo, è del maestro dei novizi, P. Giuseppe Rovigo, una lunga carta scritta con la sua bella calligrafia, caratteristica. Scrive: “(…) Dal settembre del 1865 fino al maggio dell’anno successivo fu sempre di piena soddisfazione sotto ogni riguardo. Ma poi occorso il caso di doverlo riprendere per alcuni difetti venni a riconoscere ciò che prima non sapeva, uno spirito assai poco mortificato, dominato dalla stima di se stesso, ritroso a dimandare scusa, poco aperto e sopra tutto tenace per indole di sua opinione. Avvertitone il Preposito di allora [P. Traiber, N.d.A.], si studiò da lui e da me con frequenti esortazioni ed altri mezzi di fare sì che attendesse di proposito alla propria emendazione. Si vide in seguito del miglioramento; ma poi nuova caduta nei soliti difetti; nuovi miglioramenti bensì, ma non una emendazione piena e da tranquillare sul suo conto. Le sopravvenute vicende politiche e conseguenti timori sulla nostra sussistenza influirono non poco a freddarlo anche nello studio e nella pietà.
Con tutto ciò egli ha sempre mantenuto la volontà ferma di rimanere nella Congregazione e di legarvisi colla espressione dei s. Voti. Conosce la Regola nostra e dichiara di amare la communità [seguono due parole incomprensibili].
Quanto allo scopo particolare della Congregazione ha dimostrato or più or meno di adoperarvisi volentieri; nè manca di quelle doti che, coltivate, il renderebbero utile operajo.
Si dichiara poi, e tengo per certo che lo sia, libero da ogni impegno, sicchè da questo lato nulla osti alla sua professione.
Stando le cose in questi termini venne il decembre p.p. in cui compivasi il biennio di sua probazione; ed io fino ai primi giorni del gennaio era persuaso che la vocazione del Miorelli fosse per lo meno dubbia. Sospesasi per altri motivi fino ad ora la votazione capitolare di q. famiglia io avvertii il novizio che frattanto attendesse di proposito e sinceramente a dar prove più esplicite e meglio rassicuranti sulla verità della vocazione che egli asseriva di avere costantemente avuta, in guisa da togliere da me e da altri il dubbio che egli o non fosse chiamato alla nostra Congregazione o, se chiamato, non ben corrispondervi.
Il consigliai che, poichè provava tanta difficoltà ad aprirsi, scrivesse almeno candidamente quando dinanzi a Dio sentiva; che io, ove occorresse, l’avrei comunicato al Capitolo.
Fu allora che egli estese la dichiarazione che si trova unita agli Atti Capitolari; e la condotta che tenne.
Indi in poi non ismentì i sentimenti in essa espressi. Anzi valse a farmi entrare nella attuale persuasione che si possa ora avere sufficiente fondamento a credere che egli non manchi delle doti e condizioni necessarie ad essere ammesso alla aggregazione, sperando che colla benedizione divina sarà per riuscire membro utile della Congregazione. (omissis: giuramento e conclusione)”
Il terzo documento, pure del 24 febbraio 1867 (la coincidenza di data di questi documenti sa di artifizio), ma di protocollo n° 46 del 1876, è il processo verbale del capitolo locale di Venezia, tenuto appunto in questa data.
Congregazione ecclesiastica delle Scuole di Carità in Venezia
Processo Verbale del Capitolo locale
tenuto il 24 febbraio 1867. dai vocali di questa casa per l’ammissione
alla professione religiosa del Chierico Novizio Giuseppe Miorelli di Arco.
Raccolti nella solita stanza tutti i Padri vocali di questa Casa, il P. Vicario premessa la recita delle solite preghiere espose che il Chierico Novizio Giuseppe Miorelli avea già compito il biennio del suo noviziato, ed ora instava per essere definitivamente aggregato alla Congregazione mediante la profes. dei Voti. Quindi invitavansi tutti i presenti a dichiarare con voto secreto se si dovesse far luogo alla domanda del novizio suddetto.
Prima di procedere alla votazione il P. Maestro lesse una lettera che il novizio dirigeva al Capitolo di questa Casa fino al dì 16 gennaio p.p. che si unisce come parte integrante dell’atto presente. Dopo la lettura venne da qualcuno osservato che il Miorelli avea anche con fatto dimostrato di essersi corretto di alcuni difetti.
Dopo ciò si divenne alla votazione secreta, e risultarono per l’aggregazione del Miorelli voti favorevoli 6, voti negativi 1. Uno.
Ciò riconosciuto si chiuse il Capitolo colle prescritte preghiere, ed esteso l’atto presente fu letto e sottoscritto da tutti gli intervenuti.
(Seguono in ordine di anzianità le firme dei PP.: P. Tito Fusarini vicario, P. Giovanni Paoli, P. Giuseppe Rovigo, P. GianFrancesco Mihator, P. Antonio Fontana, P. Giovanni Fanton, P. Giovanni Chiereghin.
Segue la lettera, allegata e anzi incollata a quella del P. Fusarini, del “chierico Novizio” Giuseppe Miorelli, datata del 16 febbraio 1867. Eccone il testo:
J.M.J.
Reverendi Padri Capitolari
L’affetto per la mia vocazione m’impone l’obbligo di estendere candidamente questa memoria con tutta sincerità, lungi da qualsivoglia doppiezza in quanto sono intimamente persuaso di aprire il cuore non già ad uomini, ma a Dio stesso, che sta di mezzo a due o tre congregati in suo Nome.
E dapprima tacer non voglio. Che il di una vita molto stentata che fuori di Congregazione quasi certamente m’attende, nulla e poi nulla può sul mio spirito a far sì che pronto mi esibisca a novella prova per potermi qui rimanere. Che anzi quand’io credessi indifferente il rimanermi, e lo andarmi pella salute dell’anima mia, ben volentieri questo avrei prima abbracciato, e quello adopo lascierei. Ma quando penso, che difficilmente posso salvarmi, errato per mia colpa il dritto sentiero, su cui Dio mi pose, tremo e pavento. Io non chè egli mi è noto, che male corrispondendo nella Religione è peggio assai. Lo conosco io mal corrisposi, ma questo non toglie che sia dessa la mia vocazione. Come poi verrò a provarla, se fatti ciò comprovanti non esistino?.. Io null’altro posso affermare, che di essere pienamente disposto di adoprarmi in pro’ della gioventù, qualunque sia l’ufficio, che in pro’ di quella venissemi assegnato. Posso attestare la mia volontà ferma e risoluta di osservare tutte le nostre costituzioni, quali conosco, e di cui sono intimamente persuaso; il desiderio infine di legarmi a Dio coi soavissimi vincoli della Professione, per aver quindi uno stimolo maggiore alla mia professione, ed a riparare ai molti difetti, quali, purtroppo commisi nella mia probazione.
Nè qui mi è pesante l’esporli brevemente, perchè, se iddio mi fa la grazia, cui tanto desidero, sia opportunamente ripreso com’essi meglio crederanno; la qual cosa a tutti di cuore domando, ed a tutti prometto nel Signore di ricevere in buona parte. Essi massimamente sono: Tenacità nelle mie opinioni; Superbia ed amor proprio nel ribellarmi, quando pure conosca il torto, ed il male che io feci; come pure un naturale veemente e risentito difficile a domarsi, da cui tutti gli altri miei difetti più o men gravi derivano, dei quali col Divino ajuto voglio e spero emendarmi.
E Dio, che fra le sue braccia accolse benigno il Prodigo figlio, non vorrà certo ripudiare un miserabile, che col cuore sulle labbra a Lui ricorre, confessando di aver peccato e di essere affatto immeritevole di neppur servirlo; ma che tuttavia vuol essere tutto suo.
Che se bramano ancor sapere qual sia il mio sentimento in riguardo alle cose presenti, eccolo in brevi parole dal qual è: Io sono Cattolico, Apostolico, Romano, e quindi Italiano. Come Cattolico Apostolico Romano tengo ed approvo in faccia a qualunque tutto che tiene ed approva il Romano Pontefice, e detesto ed abborro tutto che Egli condanna. Come Italiano sento vivissimo il dispiacere dei mali, da cui è travagliata l’Italia, e nella speranza che rasserenandosi la tempesta che si concilii sinceramente colla Santa Chiesa prego e pregherò sempre che Iddio benedica l’Italia. Aperto così sinceramente il mio cuore ai Reverendi Padri Capitolari nulla altro mi resta, che pregarli di raccomandarmi a Dio professandomi:
16 gennajo 1867
Il loro umilissimo servo:
Miorelli Giuseppe”
La lettera presenta una bella ma difficile calligrafia, una scrittura molto piccola; dimostra un giovane intelligente e formato. Il suo parlare è piuttosto ricercato, anche in rapporto all’epoca e al genere letterario, a mio parere; ma si può spiegare meglio tenendo presente la sua non facile situazione in quel momento.
Il riferimento all’essere Cattolico Apostolico Romano fa pensare che qualche motivo dei dibattiti e scontri con i superiori riguardassero anche qualche punto della dottrina della Chiesa, tema però cui non si accenna altrove; il fatto poi che Miorelli si definisca “…e quindi italiano” (lo erano del resto anche tutti gli altri religiosi e seminaristi Cavanis, anche se alcuni, “tirolesi” come lui, erano fino al 1918 sudditi austriaci) fa pensare che anche su questo punto ci fossero state delle differenze o delle discussioni di carattere politico. Si può pensare che egli si sentisse italiano, anche se il Trentino era ancora sotto l’impero austro-ungarico; forse a differemnza di altri “tirolesi” tra i Cavanis, che si sentissero eventualmente “tedeschi”. Di pensare ciò, non abbiamo però nessun riscontro concreto, salvo questa frase nel documento di cui si parla.
Bisogna ricordare che su questo punto il clima era teso: anche se le dolorose espropriazioni dei beni ecclesiastici e della nostra congregazione furono applicate concretamente qualche mese dopo i fatti che riguardano l’approvazione della professione del Miorelli, erano però già stati pubblicati il regio decreto 3036 del 7 luglio 1866 di soppressione degli Ordini e delle Corporazioni religiose (in esecuzione della Legge del 28 giugno 1866, n° 2987), e la legge n° 3036 del 7 luglio 1866 per la liquidazione dell’Asse ecclesiastico.
Giuseppe Miorelli fu “aggregato” (come si diceva allora) alla Congregazione, cioè emise la professione, la sera del 19 marzo 1867 a Venezia, nelle mani del preposito generale P. Sebastiano Casara, che scrive nel Diario di Congregazione: “Comunico (…) l’aggregazione che questa sera ho fatto del buon Miorelli con molta sua e nostra consolazione”.
Poco sappiamo dei suoi successivi studi teologici e della ricezione degli ordini minori e maggiori. Come si diceva, deve essere stato a Venezia fino all’estate 1867, e nell’autunno, all’inizio dell’anno scolastico, deve essere passato a Lendinara.
Probabilmente, da novizio e da seminarista maggiore, o studente come si diceva, deve aver insegnato come titolare o come aiutante alle scuole elementari o primarie, come si desume indirettamente da alcune relazioni sopra citate; in seguito non sappiamo quali titoli accademici abbia ricevuto e in quali corsi e materie abbia insegnato.
Ordinazione presbiterale
Il diario della casa di Lendinara ricorda che il 13 marzo 1870 P. Giuseppe Miorelli celebrò la prima messa a Lendinara nella chiesa di S. Giuseppe Calasanzio, che era stata costruita dall’Istituto Cavanis per la casa e la scuola nella parrocchia di Santa Sofia e, anche se espropriata dal demanio nel 1867, sembra essere rimasta almeno fino a quest’anno ad uso dell’Istituto.
Dato che la diocesi di Adria si trovava “sede vacante” dal 30 ottobre 1868 con la morte del vescovo mons. Pietro Colli, avvenuta il 30 ottobre 1868 fino all’ingresso di mons. Emmanuele Kaubeck, avvenuto il 27 ottobre 1871, bisognava trovare chi mai l’avesse ordinato.
Per la verità, il diario di Lendinara, al 13 marzo 1870, con la scrittura calligrafica di P. Giambattista Larese, dice solo: « Celebrò la prima Messa il P. Giuseppe Miorelli nella Chiesa di S. Giuseppe Calasanzio ». Quindi può essere stato ordinato altrove. In effetti, nel diario della Congregazione, di mano del P. Sebastiano Casara, si trova alla data del 7 marzo 1870: “Scrivo alla R.ma Curia [patriarcale di Venezia, N.d.A.] per la ordinazione del Miorelli in sacerdote e del [Michele] Marini in diacono; il che sarà in Padova il prossimo sabato”, cioè si viene a saper che P. Giuseppe Miorelli fu ordinato presbitero A Padova nel sabato 12 marzo 1870; e sappiamo che il giorno dopo, domenica 13 marzo, celebrò la messa già a Lendinara, nella chiesa di S. Giuseppe Calasanzio, senza dubbio presente la scolaresca e molto popolo tra gli amici dei Cavanis, come era di costume; come scrive P. Larese sul Diario della casa di Lendinara.
Il 18 marzo 1870 P. Casara ancora scrive nel Diario di Congregazione, a Venezia: “Scrivo al p. Miorelli, ordinato sacerdote sabbato scorso, e che canta Messa per la prima volta domani e gli scrivono anche i pp. Paoli e Larese”.
Ne segue che probabilmente rimane vera la notizia che dà P. Larese sulla prima messa il 13 a Lendinara, ma era messa bassa; poi il sabato 19 marzo il Miorelli celebrò la prima messa cantata o solenne, certamente di nuovo a Lendinara. Sembra anche che non fossero a Padova per l’ordinazione presbiterale né P. Casara, né il p. Giovanni Luigi Paoli (che del resto era molto anziano), né Larese, che pur era giovane. A quei tempi, e fino ai giorni di cui si può ricordare personalmente questo autore che scrive, la prima messa solenne era considerata più importante della stessa ordinazione presbiterale, al contrario di quanto è logico e di quanto accade oggi.
P. Miorelli accedette all’ordine presbiterale dunque proprio nell’anno in cui l’esercito italiano, dopo un breve assedio e attraverso la breccia di porta Pia, il 20 settembre 1870 prese la città di Roma, che divenne (fortunatamente per l’Italia e per la Chiesa, ma quanta sofferenza per i cattolici a quel tempo!) capitale d’Italia, dopo un breve periodo; e l’anno in cui il Papa Pio IX dovette ritirarsi in Vaticano. L’anticlericalismo in Italia, e a Lendinara, raggiungeva il suo climax.
P. Giuseppe Miorelli a Lendinara
P. Miorelli in seguito rimase a Lendinara dal 1870 al 1874 (forse anche fino al 1875). La comunità Cavanis lendinarese in questo tempo di passaggio, dopo la soppressione da parte del Regno di Italia di tutti gli istituti religiosi del Veneto (nel corso del 1866-67) e dopo l’espropriazione e il passaggio al demanio di tutti i suoi (modestissimi) beni ed edifici, abitava provvisoriamente nella canonica di S. Sofia, concessa benignamente da quel parroco; prima di passare in nuova residenza della comunità Cavanis e della sede della nuova scuola nel territorio della parrocchia di S. Biagio.
Durante gli anni scolastici 1872-73 e 1873-74 la comunità di Lendinara era composta dai padri Vincenzo Brizzi, rettore; Giovanni Ghezzo; Michele Marini e Giuseppe Miorelli.
È interessante esaminare i certificati che domandarono e ricevettero in seconda istanza, e che sono conservati in archivio storico della congregazione; P. Giuseppe Miorelli, per esempio, ricevette il 18 ottobre 1878 per uso nella scuola (per presentarlo al provveditorato a Rovigo) un certificato firmato dal sindaco L. Marchiori, dove questi dichiara 1) che il Miorelli si è registrato a Lendinara dal 1868 (circa); 2) che è una persona di levatura morale; 3) che non è un insegnante capace; 4) che «professa dei principi politici non ispirati alle idee liberali nazionali». I certificati di moralità di P. Giambattista Larese e di P. Carlo Simeoni, rilasciati nella stessa data e allo stesso scopo, sono compilati in modo identico. La scuola non fu poi approvata a causa di questi nuovi certificati degli insegnanti. Si trattava chiaramente di certificati tendenziosi e calunniosi, che provenivano da autorità anticlericali. Direttamente o sotto l’influsso del personaggio principale dell’anticlericalismo lendinarese, Alberto Mario.
Non abbiamo dati sulla residenza di padre Miorelli nell’anno scolastico 1876-1877; dall’autunno 1877 al 1879 si trova certamente a Lendinara; segue ancora un biennio incerto tra la fine del 1879 e il 1881, ma è probabile che si trovasse pure a Lendinara, dato che non si trovano sue firme in calce ai verbali della comunità di Venezia in questi anni né altro cenno di una sua presenza a Venezia, e neppure a Possagno. Dall’autunno (cioè dall’inizio dell’anno scolastico) 1881 fino all’agosto 1886 Miorelli è invece senza dubbio a Venezia, mantenendo però la residenza legale a Lendinara.
Difficoltà in comunità
Nel 1883 era cominciato in Congregazione un lungo periodo di problemi interni nella comunità, dovuti soprattutto ma non esclusivamente ai dibattiti e diatribe a volte amare sulla seconda parte delle costituzioni, che si stavano redigendo soprattutto da parte di P. Sebastiano Casara. I quattro padri relativamente giovani Giuseppe Miorelli che restò a lungo in congregazione, ma ne uscì più tardi, Michele Marini che uscì circa un anno dopo e altri due giovani padri (P. Giovanni Battista Larese, che poi moderò le sue pretese e continuò a lavorare con passione e amore nella congregazione e analogamente P. Carlo Simeoni).
Di P. Miorelli, il preposito generale P. Sebastiano Casara scriveva in quell’anno: “Un giovane di buon cuore; ma ha un temperamento che crea impicci e imbarazzi per i Confratelli: coi discorsi turba l’armonia nell’interno della famiglia e minaccia di uscire”.
La situazione di crisi comunitaria dipendeva anche dalla situazione difficile di P. Casara in quanto filosofo rosminiano e per questo criticato e progressivamente perseguitato in certi ambienti di Chiesa, particolarmente dai Gesuiti e dai Domenicani; ma anche visto con preoccupazione (e qualche controllo) dal patriarca di Venezia Domenico Agostini (22 giugno 1877-31 dicembre 1891), che pure aveva grande stima della sua profonda virtù personale. Alcuni padri, e soprattutto il gruppo dei quattro, non accettavano la posizione rosminiana del loro Superiore generale, per motivi teologici ed ecclesiologici, ma anche perché temevano che la Congregazione ne fosse danneggiata, e qui non avevano tutti i torti. Di fatto, nella situazione di guerra aperta al sistema filosofico (ma anche ecclesiologico) del defunto, ora Beato, abate Antonio Rosmini-Serbati di Rovereto, anche i simpatizzanti rosminiani erano combattuti; e tra di essi il P. Sebastiano Casara, preposito generale dei Cavanis, primeggiava.
Questo clima di preoccupazioni e di tensione nella Chiesa, soprattutto in Italia, e nella comunità Cavanis, ancor più a Venezia, può spiegare il fatto che, mentre si erano celebrate grandi feste e le si era descritte in dettaglio e commemorate nel diario della congregazione nel 1881, per la posa della prima pietra e poi per la inaugurazione e benedizione della nuova residenza di comunità dei religiosi Cavanis, che veniva a sostituire la troppo piccola, umida e malsana “casetta delle origini; non si diede alcun spazio nello stesso diario alla posa della prima pietra (primavera 1881) e all’inaugurazione e benedizione (estate 1883) del grande edificio della nuova ala delle scuole di Carità a Venezia. Di questi due avvenimenti non abbiamo neanche la data esatta, ed è stato difficile, soltanto mediante dati indiretti, individuarne il periodo di costruzione.
I quattro crearono un doloroso gruppo di fronda e di maldicenze, interne ed esterne, che contribuì non poco a costringere moralmente P. Sebastiano Casara a presentare le sue dimissioni da preposito generale il 19 luglio 1885.
Già dal 1884 i padri Marini e Miorelli avevano cominciare ad accusare il loro superiore generale, P. Casara, presso il Patriarca Agostini, che era fortemente e visceralmente anti-rosminiano. P. Casara chiedeva con insistenza un incontro chiarificatore con il patriarca, ma questi non lo concedeva. Finalmente l’incontro con il Patriarca accadrà, anche a seguito di una serie di visite fatte al prelato veneziano dal P. Miorelli, che era andato anche a parlar male del P. Casara e a prospettare litigi nella comunità.
Da una lettera quasi delirante del Miorelli, conservata nel fondo Casara, conosciamo le accuse riferite al patriarca: che si stavano manomettendo le regole per salvare un individuo; voleva conoscere, anche se i voti erano ovviamente segreti, chi aveva votato a favore di P. Casara e perché, se i votanti non avevano sofferto pressioni; si lagnava ancora che quasi tutti i Cavanis erano ritenuti rosminiani, e via ancora con tanti rancori. Per fortuna il patriarca, con una sua visita veramente di carattere pastorale e amichevole, poté constatare che le cose non andavano così come raccontava il Miorelli.
Così scrive nel diario di congregazione P. Casara il 14 giugno 1884: “Il p. Miorelli che era stato mercordì, col mio consenso, dal Patriarca a manifestargli ciò che molto lo disturbava, ieri si sconcertò nuovamente, e sta mattina vi ritornò molto turbato. Lo calmò il Patriarca, e ritornò con letterina del medesimo che lo accompagnava, e insieme mi avvertiva che sarebbe venuto a visitarci lunedì dopo pranzo in forma amichevole e privata.” E il 16 giugno 1884: “Ed oggi infatti è venuto con grande bontà ed amorevolezza, ed affrettandosi a dichiararmi che veniva proprio come amico, ma amico antico e di nuovo. Credeva di trovar qualche torbido, e per interporsi a cessarlo, e fu sorpreso assai e consolatissimo trovando tutto invece pienamente tranquillo. In seguito però a quanto erasi riferito dal P. Miorelli del suo colloquio col Patriarca, i pp. Bassi, Rovigo, Sapori e Chiereghin aveano preparato una relativa Memoria da presentare al Patriarca, che gli avrebbero mandata, se non fosse venuto. Dissi dunque io a lui, che alcuni dei miei confratelli desideravano di presentarglisi e parlargli prima di me. Ed egli a me: Quand’ella è contento, vengano pure che io volentieri li ascolto. Gli si presentarono, gli lessero la Memoria, vi discorsero sopra alla lunga, ed egli ne fu contentissimo, e trattò e parlò con tanta esuberanza di affetto, che tutti e quattro ne rimasero entusiasmati. – Dopo essi andai io, e liberamente gli esposi e dissi quanto credetti necessario ed opportuno, ed egli mi corrispose sempre con tutta amorevolezza e cordialità. – Gli si presentò infine tutta la Comunità, che egli accolse con festa, e si trattenne con essa alla lunga, e finì col promettere di venir a celebrare il secondo giovedì di luglio, in che facciamo la festa di S. Giuseppe Calasanzio per gli scolari. Partì, lasciando tutti contenti”.
Il diario, il 20 giugno registra: “L’amico d.[on] Giuseppe Marchiori si affretta a comunicarci, le seguenti parole, dette a lui oggi dal Patriarca: “Vedi che aria di santità spira nell’Istituto Cavanis! L’altro giorno sono partito veramente edificato. Già ho deliberato di mandare a quei buoni Padri una lettera”. A cui il Marchiori: “Eminenza, la terranno preziosa”. E soggiunse nel suo viglietto: Il Patriarca fu commosso nell’udire dal P. Casara le proteste del suo affetto verso tutti i suoi soggetti e della carità con cui scusò lo sbaglio del p. Marini e del p. Miorelli. – Tanto a conforto di tutta la Congregazione”.
P. Casara era sfinito però di tante fatiche e anche di tante contraddizioni interne ed esterne e, come si è detto, il 19 luglio 1885, in anticipo di due anni sul triennio previsto, si dimise definitivamente. Gli successe, per due anni, per completare il biennio mancante, P. Domenico Sapori, senza dubbio meno capace per il governo.
Questi, durante il breve periodo di prepositura, soffrì anche lui per l’opposizione dei tre o quattro religiosi che già avevano fatto soffrire P. Casara, in questo caso solo in relazione alla preparazione della seconda parte delle costituzioni. Già il 22 ottobre 1885, poco dopo la sua elezione, P. Sapori scrive: “Ricevo dai P.P. Larese, Marini, Miorelli e Simeoni delle Proposte sulle nostre Regole, ai quali rispondo brevemente di non poter accettarle”. Il “gruppo dei quattro” cominciava la lotta anche con P. Sapori e gli resero abbastanza dura la vita in quei due anni della sua prepositura: certa volta, parlando di una riunione comunitaria, questi scriveva a P. Casara: «In seguito si discusse della terza osservazione [sulle costituzioni] cosi calorosamente e sfacciatamente, che si dovette interrompere la sessione e dunque la questione delle nostre costituzioni fu interrotta. (…) Capisco che per multas tribulationes oportet me transire ». Un’altra volta scrisse al Casara, evidentemente suo consigliere e consolatore «P. Miorelli dice che accetterà le regole che saranno approvate [dalla Santa Sede N.d.A.]. Aggiunge che non può trovar possibile restare a Venezia. Io gli risposi di andarsene in famiglia. Testa matta!».
Il 16 aprile 1886 troviamo nel diario: “Da Sua Emin.a il Card. Patriarca mi viene comunicato per iscritto le osservazioni a Lui dirette dai P.P. Larese, Miorelli e Marini, contro alcuni punti di Regole contro l’Accompagnatoria, che da me fu presentata a Sua Em.a al fine di ottenere sanzione Pontificia delle Regole medesime”. Il 18 aprile 1886 P. Sapori manda a Lendinara “una copia delle Osservazioni (…) alle quali devono rispondere in lettera chiusa diretta al patriarca i 19 Firmatari dell’Accompagnatoria per le Regole; Alcuni di questi sono accusati di debolezza e pentimento nell’apporvi la loro firma; al proponente [= il preposito Sapori, a quanto si capisce, N.d.A.] poi viene data l’imputazione di pressione o quasi pressione. Accusa obbrobriosa!”.
P. Sapori risponde al patriarca: “Rispondo in breve alle pred.te osservazioni, e chiudo con le seguenti parole: L’ultimo capoverso del suo venerato Foglio [del Patriarca] allude ad una pressione usata ai Firmatari dell’Accompagnatoria a Lei indirizzata; e ne venne fatto cenno da testimone auricolare. Cotanto schifosa accusa non me la sarei mai aspettata. Su questo punto intendo venirne al chiaro. Consapevole e sicuro del fatto mio, la voglio finita con questa guerra sleale e serpentina. O s’intenta un processo a me, o io lo intento altrui”.
Il 28 maggio 1886 le bozze delle regole risultano spedite dal Patriarca a Roma. La loro approvazione fu sollecitata da don Giuseppe Ghisellini, tramite un suo conoscente, l’archivista della S. Congregazione.
P. Domenico Sapori intanto comincia a procedere contro il Miorelli il 26 luglio: “Scrivo al P. Miorelli, che partito pel Tirolo il 19 corr.e non ha per anco scritto una riga; gli ricordo le sue espressioni scandalose fatte ad un Padre giovane circa le Regole, e lo richiamo al dovere, o starsene a casa sua”. E il 30 luglio: “Oggi ricevo risposta dal P. Miorelli, il quale mostra di non capire ciò che gli ho scritto in una mia del 26 corrente. Bisognerà che gli scriva nuovamente e gli spieghi ancor meglio, perchè di questo passo non si può andare innanzi”. Ancora il 1° agosto: “Riscrivo al P. Miorelli in Tirolo facendogli conoscere le sue indiscipline, le parole imprudenti da lui dette a diversi; quindi lo richiamo al dovere di religioso”. “Il P. Miorelli scrive da casa essere lui dispostissimo ad accettare le Regole. Trova poi cosa per esso impossibile il dimorare in questa famiglia [di Venezia, N.d.A.] nell’attuale condizione degli spiriti” “Gli rispondo essere ora di finirla: così non potersi andare avanti, chè ne va il buon ordine e la disciplina religiosa”.
L’11 agosto 1886 P. Sapori annota nel DC: “Notifico ai Padri di Lendinara il sudd.o Rescritto Pontificio. Lor fo nota la inconsulta caparbietà del Miorelli nell’intendere le cose a suo modo affatto contrario a vero spirito religioso”.
Si stava procedendo, su un altro fronte, a preparare il capitolo provinciale da celebrarsi circa un mese dopo, e si erano eletti i discreti o delegati; intanto “l’amico don G[iuseppe]. Ghisellini ne manda l’atteso Rescritto Pontificio, onde la S. Congreg. Dei Vescovi e Regolari proroga ad annum il nostro Capitolo provinciale, che doveva aver luogo ai primi del prossimo 7bre 86. –Ci notifica inoltre che le Nostre Regole hanno già preso un buon inviamento”. Il preposito Sapori comunica la cosa a Lendinara, e riceve dai padri il conforto dell’appoggio nelle sue decisioni a riguardo del Miorelli: “Il P. Da Col a nome pure del P. Bassi, mentre mi confortano a sperare fiducioso in Dio rimettendomi alla sua amabilissima Volontà, manifestano il loro pieno consenso a quelle misure, che dovransi usar per liberare il nostro povero istituto dalle inquietudini, dagli scandali, dalla rovina che da pezza gli sovrasta”.
L’uscita dalla Congregazione
Il 22 agosto 1886 “Il p. Miorelli insiste nel voler essere traslocato a Lendinara; diversamente abbandona l’Istituto, e domanda un Attestato della sua prestata educazione alla gioventù, e che ei sia uscito dall’Istituto spontaneamente”. Il 23 agosto P. Sapori scrive: “Gli si manda l’attestato richiesto, restando egli soggetto a questo Ordinariato”. E il 26 agosto 1886: “Notifico a questa Reverend.ma Curia che d. Giuseppe Miorelli ha abbandonato la Congreg.e, quindi rimane intieramente soggetto al Patriarca.”
Il 9 gennaio 1887 il diario riporta le seguenti frasi: “In una lettera diretta al P. Da Col, annunziandogli che entro la settimana corr.e avrà il denaro dimandato, ve ne includo una per D. Giuseppe Miorelli; onde lo richiedo se intende rilasciare la sua pensione all’Istituto, come aveva altra volta promesso, oppure se crede riscuoterla per proprio interesse”. Il 15 gennaio successivo P. Da Col risponde al preposito Sapori “aver consegnata una mia lettera al Miorelli, che ne riguarda la civile pensione. Ei non ammette la distinzione di diritto legale e di coscienza. Ci pensi lui.”.
D’altra parte, è bene ricordare con simpatia e gratitudine che P. Giuseppe Miorelli, partendo dalla congregazione, le lasciò, forse per straordinaria generosità e per suo ricordo, forse per dovere di regola, forse perché non si rendesse conto del valore dell’opera, non sappiamo, un dono eccezionale, cioè un prezioso volume in folio del 1506. Pur non potendo essere definito un incunabolo, essendo stato stampato 6 anni dopo il 1500, ne ha però tutte le caratteristiche e anche perché è stato prodotto dallo stampatore piemontese Tacuino o Tacuin, da Tridino presso Cerreto, in Monferrato, ma operante a Venezia dai primi anni del ‘500, contemporaneo di Aldo Manuzio, e che produsse vari incunaboli, uno dei quali si trovava nella biblioteca di Lendinara, come annota lo stesso Miorelli nell’ultima pagina di quest’opera. Questa è conservata tra gli incunaboli e le cinquecentine della biblioteca della comunità Cavanis di Venezia fino ad oggi, e di recente è stata restaurata. Si tratta di: L. Plinii Secundi Veronensis historiae naturalis Libri cccviii ab Alexandro Benedicto Ve. physico emendatio res redditi. Venezia, Joannis (Zane) Tacuini de Tridino, 1506. L’opera porta la seguente dedica: “Lorenzo don Lorenzoni al M. Rev. Padre Giuseppe Miorelli delle S. P. 1881”.
Il 6 marzo 1887 giunse una sorpresa: si venne a sapere che “Don Giuseppe Miorelli, ora cappellano alla Molinella di Lendinara, si rifiuta di rispondere a due mie lettere; onde lo ricercava della pia intenzione circa la pensione governativa: però a mezzo del P. Giuseppe Da Col domanda della pensione; gliela spedisco in it £ 4,50 – ottobre, novembre e dicembre p.p.; di più, gli mando il Certificato relativo, perchè quindi innanzi se la riscuota lui.”
P. Giuseppe Miorelli esce dunque giuridicamente di congregazione il 22 agosto 1886, rimanendo dipendente all’inizio dall’ordinario del patriarcato di Venezia, in cui era in qualche modo incardinato, dato che la “Congregazione ecclesiastica delle Scuole di Carità” o Istituto Cavanis era un Istituto di “Chierici secolari”, secondo recitava il nome antico. Su come sia passato poi alla diocesi di Adria, non ci risultano dati. Ma il Miorelli si era trasferito alla Molinella, frazione di Lendinara e quindi in diocesi di Adria probabilmente fin dalla fine del 1886 e certamente già da prima del 6 marzo 1887. Non se ne parla per niente nel diario di Lendinara. Si può immaginare che i religiosi Cavanis della comunità di Lendinara non avessero gradito la presenza di un religioso uscito dalle loro fila, né averlo come residente così vicino alla loro casa. Di solito accade così. Bisogna aggiungere però che in quell’anno 1887 e nei seguenti il diario di quella casa, fino alla chiusura definitiva della stessa nel 1896, è molto breve, laconico e spesso incompleto, compilato a salti, con l’aggiunta di alcuni fogli sciolti. È possibile che P. Miorelli si fosse messo d’accordo con il vescovo di Adria prima della sua uscita di Congregazione; è possibile, ma mi sembra poco probabile, che qualcuno dei religiosi Cavanis residenti allora a Lendinara abbia fatto da intermediario. In quell’anno erano a Lendinara i seguenti: i padri Giuseppe Da Col (rettore), Giuseppe Bassi (vicario), Narciso Emmanuele Gretter, Michele Marini; il fratello Pietro Sighel e un chierico, Giovanni Spalmach.
Il Miorelli del resto aveva a Lendinara, ad Adria e a Rovigo i suoi contatti personali, dato che aveva vissuto e operato in diocesi parecchi anni, fin dalla prima gioventù.
La seconda parte della vita di don Giuseppe Miorelli.
Dopo la notizia del 6 marzo 1887, nel diario della congregazione, sul fatto che P. Miorelli, o meglio, ora, don Miorelli, fosse curato o rettore a Molinella di Lendinara, non si è trovato finora nessun’altra notizia negli archivi, sia nell’archivio storico, sia in quello corrente, sia di Venezia, sia di Lendinara (quest’ultimo del resto confluito nel 1896 nell’archivio storico della Curia Generalizia dell’Istituto a Venezia). In Istituto non si era saputo più niente di lui dopo che l’Istituto era uscito da Lendinara, e non si conosceva la data della sua morte. Sappiamo ora che morì ad Arco, sua cittadina natale, il 17 aprile 1929 a 83 anni, dopo essere vissuto lungamente e con molto profitto pastorale a Molinella fino al 1909. Per i suoi antichi confratelli, i religiosi Cavanis, è stata una gioiosa sorpresa venire a conoscere, tramite la rivista diocesana “La Settimana” di Adria-Rovigo e tramite la “RovigoBanca Credito Cooperativo”, istituto bancario sorto, come si dirà, da un’iniziativa, come una piccola semente vitale, proprio notizie di don Giuseppe Miorelli.
Il paese di Molinella di Lendinara (RO)
Molinella è una frazione del comune di Lendinara, in provincia di Rovigo, nella regione Veneto e, meno formalmente, nella regione fisica, storica e geografica del Polesine; dal punto di vista ecclesiale e pastorale, Molinella dipende dalla parrocchia di San Biagio, nella diocesi di Adria-Rovigo.
La frazione o località di Molinella dista 4,21 chilometri dal centro della città di Lendinara del cui comune essa fa parte.
La frazione o località di Molinella sorge a 6 metri sul livello del mare, una quota molto bassa, tipica del Polesine. Nella frazione o località di Molinella risiedono attualmente (2023) cinquantasei abitanti, dei quali ventisei sono maschi e i restanti trenta femmine. Sono presenti a Molinella complessivamente 22 edifici, tutti utilizzati. Di questi, 14 sono adibiti a residenze, 8 sono invece destinati a uso produttivo, commerciale o altro. Dei 14 edifici adibiti a edilizia residenziale 10 edifici sono stati costruiti in muratura portante, nessuno in cemento armato e 4 utilizzando altri materiali, quali acciaio, legno o altro. Degli edifici costruiti a scopo residenziale 7 sono in ottimo stato, 5 sono in buono stato, 2 sono in uno stato mediocre e nessuno in uno stato pessimo. Una decina di questi edifici risale al tempo in cui abitava e operava a Molinella P. Miorelli.
La chiesa di Molinella
Vale la pena soprattutto di parlare della chiesa di Molinella. Non era in origine una chiesa parrocchiale ma rettoriale; ma fu elevata a chiesa parrocchiale, e il suo territorio e popolo a parrocchia nel 1889 dal vescovo mons. Antonio Polin. Si tratta di una chiesetta a una sola navata (aula unica, secondo il tipico schema architettonico barocco), del tardo settecento, neoclassico, con campanile. La chiesa, dal titolo del Patrocinio di San Giuseppe, sorge in Molinella, a Via Molinella 7, e appartiene alla Diocesi di Adria – Rovigo. Si può vedere bene ed esaminare nei dettagli in Google maps.
Essa sorge isolata, con tipico orientamento Est-Ovest. La facciata a capanna è tripartita e rinserrata ai lati da lesene doriche che sorreggono una cornice modanata. Al di sopra del colmo e ai lati dei rampanti del frontone triangolare si elevano pilastrini con guglie piramidali. Al centro si apre l’unico portale, con stipiti e architrave in marmo, sormontato da un frontone triangolare su mensole. Al di sopra del portale si apre un ampio rosone circolare, con cornice in mattoni a vista. Ai fronti laterali si addossano i bassi volumi delle cappelle votive. Nei fronti si aprono finestroni a tutto sesto tipicamente barocchi.
La pianta della chiesa ha uno schema planimetrico basilicale a unica navata, verso la quale si aprono, con archi a tutto sesto, tre cappelle votive. La navata è coperta da soffitto piano. Lungo le pareti della navata corre una cornice modanata, interrotta. L’area del presbiterio è rialzata di un gradino in marmo sul piano della chiesa. Nella parete di fondo della navata, ai lati, si inseriscono due nicchie. L’abside semicircolare è coperta da volta a catino e tripartita da lesene doriche, al di sopra della quale corre una trabeazione in leggero aggetto. Il tetto è a falde con manto in coppi. Il pavimento è in mattonelle di marmo bianco, grigio e rosso, posate a motivi geometrici. Il soffitto della navata e la volta dell’abside sono dipinti a soggetti religiosi. L’impianto strutturale consta di strutture verticali in muratura di mattoni portante.
La storia della chiesetta parrocchiale è piuttosto semplice:
1600 – 1661 (preesistenze intero bene) agli inizi del 1600 il nobile di Lendinara cav. Petrobello Petrobelli, proprietario di ampi fondi in località Molinella, chiese al vescovo di Adria l’autorizzazione a costruire in zona chiesa e canonica, mettendo pure a disposizione un beneficio per mantenerle. Le misere condizioni di vita, l’impraticabilità delle strade e la lontananza dai centri religiosi rappresentavano per i contadini suoi dipendenti e per gli abitanti di Molinella un ostacolo alla pratica religiosa. Sappiamo che alla morte di Petrobelli (1636) una nuova chiesa, intitolata a S. Giuseppe e S. Caterina, era stata costruita assieme alla canonica. Nel 1661 mons. Riminaldo Busson, delegato dal vescovo di Adria Mons. Agliardi, recatosi a Molinella in visita pastorale, ci ha lasciato la seguente descrizione della chiesa: “Due altari, il maggiore e l’altare della B.V. del Rosario con pala dipinta, porta in facciata a occidente, e una laterale a sud”.
1813 – 1861 (passaggio di proprietà intero bene):
La chiesetta, dipendente dalla parrocchia di S. Biagio, era privata e passò per via ereditaria dai Petrobelli prima ai nobili Mussati di Padova (1813) e poi alla famiglia Giustiniani di Venezia giuspatroni fino al 1861 quando l’immobile divenne proprietà del vescovo di Adria.
1894 – 1953 (rifacimento inter bene)
Nel 1894 don Giuseppe Miorelli, nominato primo rettore a Molinella, avviò la ristrutturazione della chiesa primitiva, allungandola e aggiungendo due altari, fece sistemare anche l’antico campanile e completò la canonica. La chiesa, consacrata l’11 marzo 1926 dal vescovo Rizzi, venne eretta parrocchia col titolo di Patrocinio di San Giuseppe dal vescovo Mazzocco nel 1946, il riconoscimento civile seguì nel 1953.
Don Giuseppe Miorelli a Molinella
Il 15 aprile 1889 il vescovo Antonio Polin decretò l’erezione in parrocchia “della chiesa di San Giuseppe sposo della B.V.M. di Molinella”, con l’assunzione del titolo di “rettoria”, indipendente a tutti gli effetti, con tutti gli uffici attribuiti ai parroci, e con territorio separato dalla parrocchia di San Biagio. Il 28 aprile 1891, nel corso di una visita pastorale, il vescovo annunciò pubblicamente che come rettore di Molinella era stato prescelto proprio don Giuseppe Miorelli.
Chi ha accostato più da vicino l’operato di Miorelli a Molinella (fu l’archivista della curia vescovile rodigina, mons. Alberino Gabrielli, nel suo fondamentale lavoro del 1993 “Comunità e chiese nella diocesi di Adria – Rovigo del 1993”) ha giudicato molto positivamente l’impegno profuso dal sacerdote trentino a favore delle poche decine di povere famiglie rurali a lui affidate: «sacerdote di viva pietà, attento ai segni dei tempi, si buttò nel nuovo campo di lavoro con un turbine di iniziative e commovente entusiasmo» (p. 414). Ancora prima di essere nominato rettore, nell’aprile del 1888, Miorelli riuscì a risolvere un problema non da poco che condizionava la vita della piccola comunità: la mancanza del fonte battesimale. L’ottenimento del battistero in San Giuseppe di Molinella evitò che i neonati dovessero essere portati per il battesimo a San Biagio, i genitori spesso a piedi «percorrendo da 5 a 8 chilometri sotto le intemperie, per istrade fangose; molti [dei neonati] ne morivano». Nel giro di pochi anni ingrandì a proprie spese la piccola chiesa e la casa canonica a fianco, restaurò il campanile, convertì un altro ambiente in asilo rurale preservando i bambini dai pericoli cui erano esposti quando i genitori erano al lavoro (più di qualcuno di loro finiva per annegarsi nei maceri della zona).
In questo suo entusiastico indaffararsi per la vita quotidiana dei suoi parrocchiani (una popolazione che allora si aggirava attorno alla 700 persone) don Miorelli pionieristicamente fondò a Molinella seguendo l’esempio di Leone Wollemborg e in campo cattolico di don Giuseppe Cerutti, una cassa rurale il 29 luglio 1893, la prima della diocesi di Adria. Ebbe il conforto iniziale di 12 soci, tra piccoli proprietari e fittavoli. Ma alla fine dell’anno il loro numero era già raddoppiato (diventarono 26). Il primo semestre fece registrare un bilancio di oltre 10.000 lire, con 4.019 lire concesse in prestito ai soci.
Non si fa fatica ad immaginare il successo delle iniziative pensando allo spirito evangelico con cui don Miorelli interpretò il rettorato di Molinella. Al giornalista Adolfo Rossi che nel 1895 gli chiedeva meravigliato come era riuscito a fare da sé tante cose, Miorelli rispondeva con serafica semplicità: «per i lavori della chiesa ho dato quel poco che guadagno con le messe e il beneficio, contraendo inoltre un debito di qualche migliaio di lire, che andrò pagando un po’ alla volta. Per l’asilo rurale ho raccolto varie contribuzioni di una lira al mese». Per vivere gli restava ben poco, ma all’ora di pranzo e di cena don Miorelli andava ogni giorno per turno nelle case dei parrocchiani meno poveri: «una fetta di polenta la trovo sempre!»; e Rossi di rimando esclamava: «ecco un vero tipo di prete socialista cristiano».
Da vero testimone di solidarietà, riuscì a guadagnarsi ammirazione e generosità tanto presso i suoi umili parrocchiani, bisognosi di fiducia prima ancora che di aiuto, quanto presso qualche agrario illuminato (anche quell’Eugenio Petrobelli che gestiva lì vicino la sua funzionalissima «Molinella»).
Di attenzione verso le nuove istituzioni anche presso le frange liberali meno preconcette, tese a dare una mano agli strati più in difficoltà del mondo contadino di fronte all’usura e alla mancanza di credito, era prova la pubblicazione di una lettera di don Miorelli su “Il Polesine agricolo” del dicembre ’94. In essa il parroco di Molinella ragguagliava sull’attività delle otto casse polesane fino ad allora attivate: «vengono condotte con prudenza sotto la sorveglianza dei parrochi rispettivi. La contabilità, semplice e presto appresa, viene tenuta con sufficiente diligenza, e lo sarà meglio man mano che s’accrescerà il numero delle persone che la prendono in pratica. Si sono costituite con 127 soci, aumentati ora a 263, i quali rappresenteranno più di qualche milione in proprietà fondiaria. Hanno raccolto 33.651 lire di depositi. Quella di Molinella ha emesso 52 libretti; quella di S. Sofia di Lendinara, 42. Hanno distribuito 28.438 lire di prestiti, avvertendo che all’epoca (31 ottobre 1894) a cui si riferiscono questi dati le Casse di S. Biagio e di Fratta non aveano ancora incominciato a lavorare. Il tasso per i prestiti fu il 6% netto da ogni spesa, pagato anticipatamente di tre in tre mesi, con scadenza fino a due anni e più. Si ricevono acconti di qualunque entità in qualunque momento prima della scadenza, rimborsando sugli stessi l’interesse pagato in anticipazione».
A corredo di questi confortanti dati, che confermavano il rapido attecchimento delle casse e per la semplicità dei loro congegni amministrativi e per la rispondenza alle esigenze del mondo rurale, don Miorelli concludeva la missiva con un vigoroso auspicio: «se la cassa venisse fondata in ogni parrocchia – e lo sarebbe facilmente con un po’ di buona volontà – basterebbe forse da sola a redimere il nostro popolo dallo stato di plebe in cui si trova. Ma il popolo educato spagnolescamente, anche da noi preti, a correre dietro alle banderuole non si dà troppo pensiero di provvedere ai casi propri e non insiste presso i propri pastori per avere questa istituzione che riescirebbe provvida per tante contingenze della loro miserevole vita».
Le notizie sulle casse polesane le aveva chieste a don Miorelli lo stesso direttore del “Polesine agricolo”, l’agronomo Tito Poggi, che pubblicandole con una sua nota introduttiva aveva modo di prendere posizione con bonomia e realismo sulla polemica contro il clericalismo di queste «provvide» – come le definisce – istituzioni: «bisogna confessarlo: fino ad ora esse si sono istituite soprattutto per opera dei preti. Ebbene, Dio li benedica questi bravi preti che compiendo così opera veramente cristiana, danno opera a che, anche nella nostra provincia, il piccolo affittuario, il piccolo possidente, il colono, trovino un po’ di credito a buon mercato e siano salvi da quella pestilenza che è l’usura!… A me, non certo clericale, non dispiace punto che siano i preti i benemeriti promotori in provincia della santa istituzione. Io guardo al fine. È, o non è, la cassa rurale una benefica istituzione, sotto il punto di vista morale, economico, sociale, agrario? Sì, sì: ottima, santa, eccellente. E allora, per me, gl’istitutori ne sono benemeriti, portino il cappello a tre punte o il berretto frigio».
Ultimi anni e morte di don Giuseppe Miorelli
Don Giuseppe Miorelli rimase nella parrocchia di Molinella fino al 1909, facendo poi rientro ad Arco. Mancò ai vivi il 17 aprile del 1929. Non sappiamo come abbia trascorso i circa 20 anni passati ad Arco dopo la sua uscita da Molinella. Nel 1909 don Miorelli aveva circa 64 anni, e probabilmente trovo occupazione pastorale, secondo la sua vocazione, almeno fino a quando la salute lo assisté. Certo, con le sue opere gratuite e i suoi interventi sociali, non doveva essersi arricchito, e con ogni probabilità continuò a vivere in povertà e semplicità, come aveva sempre fatto.
Le lapidi di Molinella
Un gruppo cruciforme di cinque lapidi si trova infisso all’esterno, sulla parete laterale di destra (sed) della chiesa di Molinella, non lontano dalla porta principale d’ingresso. Una di queste, al centro, ricorda il generoso sacerdote con queste parole:
«A PERENNE RICORDO DI / DON GIUSEPPE MIORELLI / SACERDOTE E MAESTRO / NELLA CONGREGAZIONE DEI P.P. CAVANIS / CURATO E RETTORE DI QUESTA CHIESA / DA LUI RESTAURATA E AMPLIATA / SPESE IN OPERE DI FECONDO APOSTOLATO / FONDÒ LA PRIMA CASSA RURALE DEL POLESINE / E UN FIORENTE ASILO INFANTILE / VERO PADRE DEI POVERI / ATTIRÒ SOVR’ESSI LA PIETÀ DEI RICCHI / FRA I QUALI EBBE AMICO E CONSIGLIERE / IL COMM. EUGENIO NOB. PETROBELLI / FINÌ PIAMENTE I SUOI GIORNI / NELLA NATIA ARCO DI TRENTO / XVII aprile MCMXXIX».”
Sotto a questa lapide, nella stessa parete, esiste un’altra lapide, che non fa riferimento personale a don Miorelli, ma pur sempre alla sua opera: essa commemora la fondazione della Cassa rurale di Molinella, con le seguenti parole:
“NEL CENTENARIO DELLA PRIMA CASSA RURALE / DELLA DIOCESI, QUI ISTITUITA NEL 1893 / LA COMUNITÁ DI MOLINELLA / A MEMORIA PONE / 27 GIUGNO 1893”.”
Sulla destra, c’è ancora un’altra lapide che ricorda il nostro:
“SIA IN BENEDIZIONE IL NOBIL UOMO / PIETRO PIETROBELLI / D’INLUSTRE CASATO LENDINARESE / CHE NEL MDCXI-III / ERESSE DALLE FONDAMENTA / LA CHIESA E L’ATTIGUA CANONICA / E DEL NON DEGENERE RAMPOLLO / comm. EUGENIO PETROBELLI / INSIGNE CULTORE D’AGRARIA / COADIUVÒ IL RETTORE / don GIUSEPPE MIORELLI / NELLE SPESE DEL CULTO / E DELLA PUBBLICA PROSPERITÀ / IL PAESE RICONOSCENTE / NELL’ANNO MCMXXIX.”
Quest’ultima lapide fu posta con ogni evidenza nell’occasione della morte di don Miorelli, nel 1929.
L’amore per i poveri, così ben mostrato alla Molinella di Lendinara, don Giuseppe Miorelli l’aveva imparato e praticato già nella congregazione, dato che le scuole Cavanis a Lendinara, dove lui era rimasto buon numero di anni, a Venezia e a Possagno, erano completamente gratuite e a favore di bambini e ragazzi principalmente poveri..
Origine della banca di Rovigo (RovigoBanca Credito Cooperativo).
Nel 1883 a Loreggia (Padova), sulla scorta delle Casse Rurali istituite in Germania a partire dal 1849 dal filantropo tedesco Federico Guglielmo Raiffesen, nacque la prima delle Casse Rurali italiane (ora Banche di Credito Cooperativo) ad opera di Leone Wollemborg. Sempre in Veneto, dopo l’emanazione nel 1891 dell’enciclica “Rerum Novarum” da parte di Leone XIII, che invitava i cattolici a dare vita a forme di solidarietà tese a favorire lo sviluppo dei ceti rurali e del proletariato urbano, sorsero le prime Casse Rurali di ispirazione cattolica (e il primo ad avviarle fu don Luigi Cerutti, dando vita alla Cassa di Gambarare di Mira, Venezia).
Come è noto, le Casse Rurali nacquero per scardinare il sistema dell’usura che opprimeva le fasce più deboli della popolazione ed ebbero il merito di consentire l’accesso al credito specialmente agli agricoltori ed agli artigiani con tassi contenuti, al fine di superare particolari situazioni di difficoltà e di favorire così lo sviluppo nel territorio di competenza.
Ben presto questa interessante esperienza approdò anche in provincia di Rovigo, diffondendosi in tutto il Polesine. La prima Cassa Rurale della Diocesi di Adria (CRA) venne fondata il 26 giugno 1893 a Molinella per volontà di don Giuseppe Miorelli, parroco della piccola frazioncina di Lendinara. Il 18 aprile del 1894 venne inaugurata la C.R.A. di Santa Sofia di Lendinara e qualche mese dopo toccò a quella di Villanova del Ghebbo. Risalirebbe al 6 aprile 1895 l’istituzione della C.R.A. di Rasa e, sempre nello stesso anno, prese il via anche quella di Villafora. Nel giro di pochi mesi, in tutto il Polesine fu un fiorire di Casse Rurali plasmatesi all’ombra dei campanili.
La città di Rovigo, cuore operativo e sede centrale di quello che diventò la RovigoBanca, vide un nascere e svilupparsi della CRA dal 1894 (la CRA del duomo) in poi. Qui, naturalmente, si concentrarono gli sforzi maggiori dei vertici cattolici del Polesine; in quegli stessi anni essi avviarono la “Banca Cattolica del Polesine” e il periodico diocesano “La Settimana”. La stessa “Federazione Diocesana delle Casse Rurali Polesane”, fondata a Lendinara nel maggio 1895, fu spostata l’anno dopo a Rovigo, sotto la presidenza di mons. Giacomo Sichirollo.
Il numero delle casse polesane toccò la cifra massima di 55 nel 1908, poi andò decrescendo. La bufera del fascismo spazzò via non pochi istituti. L’avvento della democrazia e della libertà ne ritrovò all’appello un numero più contenuto, con la tendenza al decremento numerico e al potenziamento di quelle che sopravvivevano. Erano 23 a fine 1961, 15 nel 1978. In un rinnovato contesto operativo, con l’allargamento dei limiti circoscrizionali a fronte di una crescita dimensionale, le Casse Rurali e Artigiane, diventando Banche di Credito Cooperativo, cominciarono a fondersi. Dopo varie fusioni successive, con l’Assemblea dei Soci del 30 maggio 2009 venne approvata la variazione della denominazione sociale e nasce: RovigoBanca Credito Cooperativo. Questa è, quindi, l’erede di oltre un secolo di tradizioni ed attività a sostegno della comunità, ed è erede della piccola ma felice iniziativa di don Giuseppe Miorelli, già padre Cavanis.
Alla luce delle sue opere di carità, di educazione, di redenzione del popolo più povero, del suo spirito pastorale veramente Cavanis, la personalità del P. Giuseppe Miorelli deve essere rivista. Si possono fare due ipotesi: la prima, che qualche tempo dopo la sua uscita di congregazione egli si sia riveduto e, in qualche modo convertito; l’altra, che a mio parere è più probabile, è che il religioso avesse sì, a quanto pare, un carattere difficile in comunità; ma che sotto certi aspetti pesanti si celasse, anche nella fase di vita religiosa della sua vita, lo spirito profetico. I profeti in genere sono persone scomode. Lo erano, a quel tempo, anche gli irredentisti, i seguaci di politiche di sinistra e altri che seguivano linee diverse da quelle ufficiali della chiesa.
Sarebbe interessante per l’Istituto che si ricercasse e si studiasse – se esiste – il suo archivio personale per capire meglio la sua persona, la sua storia personale e il suo pensiero.
7.16 Fra Giuseppe Vedovato
Nato a Robegano, paese situato presso Salzano sulla via Castellana, in provincia e diocesi di Treviso, il 28 ottobre 1893, fu un aspirante laico entrato in Istituto l’11 aprile 1915, ventenne, è presente a Venezia come aspirante laico nel 1915 e 1916, indossò l’abito religioso il 25 marzo 1917, lo troviamo come novizio laico a Venezia nel 1917-1918; aveva vestito infatti l’abito dell’Istituto ed era entrato in noviziato il 23 marzo 1917. Fu chiamato tuttavia alle armi durante la grande guerra il 6 dicembre 1917 e rimase militare fino al 24 marzo 1919. Completò allora il suo noviziato biennale ed emise i voti temporanei, triennali, a Venezia il 28 marzo 1921 e i voti perpetui nel giugno 1924. Fu un fratello laico instancabile e industrioso.
Almeno nei primi mesi del 1918 risulta essere stato sotto le armi, il che probabilmente interruppe il suo noviziato; infatti il 29 marzo 1918 P. Tormene annota nel diario: “Sulla sera Gesù ci manda la consolazione di veder arrivare improvvisamente in licenza di convalescenza di 25 giorni il nostro Fra Giuseppe Vedovato, sfinito sì di forze per la lunga malattia e la quasi nessuna cura dei medici, ma in condizioni però di potersi rimettere, come speriamo, fra noi, Deo gratias!” Era ancora parzialmente ammalato quando dovette ritornare a Ferrara al servizio militare. Alla fine della guerra, il 24 ottobre 1918, il diario riporta che, ancora militare, aveva preso la febbre “spagnola”, che aveva ricevuto gli ultimi sacramenti, ma che si era ripreso. Il 2 febbraio 1919 fu operato di otite in un ospedale militare, e così continua il suo calvario, in buona parte dovuto alla mala sanità dl tempo di guerra e dell’ambiente degli ospedali militari. Ritornato in comunità, guarito il 24 marzo 1919, “ricomincia colla benedizione di Maria il suo biennio di Noviziato”. E, come si diceva, emise allora la professione dei voti triennali il 28 marzo 1921.
Quasi subito dopo aver emesso i voti perpetui, il che avvenne in ritardo il 27 giugno 1924, festa del S. Cuore, essendosi in quel giorno fra Giuseppe leggermente ripreso da un periodo di depressione fisica, cadde di nuovo in una lunga e grave malattia, forse conseguenza della guerra e degli strapazzi della vita al fronte.
Il 30 agosto 1924 fu portato di urgenza da Possagno a S. Giuliano, al margine della laguna, e di là con il motoscafo della Croce rossa direttamente a Sacca Sessola, il sanatorio veneziano nell’isola omonima, specializzato in TBC, dove fu internato e rimase fino alla morte. Si trattava dunque di tubercolosi. Da notare che a Sacca Sessola si trovava già, un po’ meglio in salute, anche P. Mario Miotello.
Il povero fratello Vedovato – dice il necrologio di Congregazione – era un uomo di grande pazienza e virtù. Abbracciò con animo sereno in questo sanatorio, per ancora nove anni, la croce mandatagli dal cielo. Il 19 aprile 1931, dopo sette anni trascorsi al sanatorio di Sacca Sessola, fu trasferito a quello di Valdobbiadene, dove fu accompagnato da fra’ Ausonio; con lo scopo di alleviare la monotonia della vita in quella triste isola della Sacca e per tentare di ottenere qualche vantaggio con il cambio di clima. Il 20 settembre 1933 il preposito P. Aurelio Andreatta gli trasmetteva per iscritto il permesso di rompere il digiuno eucaristico, che a quel tempo vigeva dalla mezzanotte, bevendo o mangiando qualcosa, dato lo stato di malattia, come da rescritto della Sacra Congregazione dei Religiosi dell’11 settembre 1933.
Arricchito di molti atti di pietà e pazienza, benemerito della devozione alla Madre di Dio, passando molto tempo a confezionare con straordinaria costanza coroncine del rosario, confortato dai Sacramenti, spirò piamente a Venezia alle ore 3,20 del venerdì 15 Novembre 1935, nel quarantesimo anno di età. Della di lui morte, P. Aurelio Andreatta, preposito, che lo aveva visto la sera prima scrive: “La sera precedente era stato visitato e confortato dal P. Preposito e dal P. D’Ambrosi. Era perfettamente conscio del suo stato e rimesso in tutto alla volontà di Dio. Tratto tratto usciva in espressione edificanti. Sabato mattina la salma fu trasportata privatamente nella nostra Chiesa di S. Agnese, dove alle ore 9 ebbero luogo in forma solenne i funerali alla presenza degli alunni. In corteo con parte della scolaresca, al canto del Benedictus, fu poi accompagnata la salma fino alle Zattere, dove è stata collocata sulla barca dell’Impresa funebre. La seguirono alcuni nostri religiosi fino a tumulazione compiuta nel Cimitero civico”.
Fu sepolto a Venezia nel campo riservato ai consacrati ed ecclesiastici; la salma fu a suo tempo trasferita nella cappellina o absidiola funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesa di S. Cristoforo, nel cimitero civile di S. Michele.
7.17 Fra Filippo Fornasier
Di Possagno, diocesi di Treviso, ove nacque l’11 aprile 1901. Era entrato in Congregazione l’11 ottobre 1916, ricevendo la formazione iniziale a Venezia.
Ancora aspirante fratello laico, a seguito della notte terribile d’incursione aerea austriaca del 27 febbraio 1918, durante la 1ª guerra mondiale, quando i padri e altri religiosi passarono la notte distesi per terra nel corridoio tra l’androne e la residenza della comunità, si ammalò di febbri gastriche e poi di “pleurite destra”. Gli fu estratta l’acqua dalla pleura il 16 marzo e gradualmente migliorò. Ritornò in Istituto dall’ospedale “guarito – si spera completamente – ” il 14 aprile successivo. Rivestì l’abito della Congregazione e incominciò il suo noviziato il 7 dicembre 1918, vigilia dell’Immacolata. Nonostante la situazione di salute, fu richiamato sotto le armi e rimase militare dal 24 novembre 1920 al 21 giugno 1922, risiedendo a Bologna, assieme al giovane seminarista Vincenzo Saveri, e ricevendo appoggio cordiale in quella città dai PP. Barnabiti del collegio S. Luigi. Ritornato a Venezia nel 1922, emise i voti temporanei ad triennium il 2 febbraio 1923 e quelli perpetui il 2 febbraio 1926. Per i voti temporanei, aveva goduto di un indulto della Sacra Congregazione dei Religiosi; infatti era stato chiamato alle armi quando gli mancavano 13 giorni per completare il suo noviziato; a quanto pare avrebbe dovuto ripetere tutto il noviziato così interrotto. Invece la congregazione romana concede che possa emettere i voti senza ripetere il noviziato.
Era attivo e intraprendente e fornito di buono spirito religioso, esercitò finché poté le sue mansioni di fratello laico con fedeltà e impegno.
Lo troviamo dal 5 marzo 1923 al 1931 a Porcari; dal 1931 al 1935 a Venezia; nell’anno scolastico 1935-36 era stato di nuovo assegnato alla casa di Porcari, ma la nuova malattia lo trattenne a Venezia.
Ammalatosi, infatti, all’età di trenta cinque anni, accolto nell’ospedale di Mirano per curare la salute, fu visitato frequentemente dai confratelli e là dopo pochi mesi, giunto inaspettatamente all’ultima agonia, essendo ormai la morte imminente accompagnato dal preposito. P. Aurelio Andreatta e poi tra le braccia di P. Luigi Janeselli, recitando la professione di fede a gran voce, spirò pronunciando i dolcissimi nomi di Gesù e Maria, il 21 luglio 1936. Irradiò così dal suo letto di dolore luce di buon esempio e di santa edificazione sopra quanti l’assistevano.
Fra Filippo fu uno dei pochissimi religiosi Cavanis possagnesi. L’unico anzi dei due di tale origine che si mantenne in in Congregazione fino alla morte.
Le spoglie del caro fratello furono provvisoriamente tumulate nel cimitero di Mirano; in seguito furono trasferite e riposano nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo, nel cimitero civico di S. Michele a Venezia.
7.18 P. Giuseppe Borghese
Nato a Malnisio, del decanato di Aviano, in Diocesi di Concordia, provincia di Pordenone (attualmente), il 7 aprile 1875.
Entrò in Istituto come aspirante il 22 ottobre 1888, condottovi dal compaesano P. Francesco Cilligot. Passò gli anni di formazione iniziale, almeno dal 1892 a 1898, a Venezia. Vestì l’abito dell’Istituto il 17 gennaio 1892. Emise la professione temporanea nelle mani del preposito, P. Giuseppe Da Col, a Venezia il 19 febbraio 1893, e i voti perpetui il 26 gennaio 1896.
Il 30 marzo 1895 ricevette, assieme a Basilio Martinelli, la tonsura e i quattro ordini minori nella cappella del patriarchio di Venezia (vescovado), a fianco alla basilica di S. Marco, dal patriarca Giuseppe Sarto, che più tardi diventerà Papa e santo Pio X, ed era grande amico dell’Istituto Cavanis. Nel giugno 1895 si presentà alla visita militare e e fu dichiarato revedibile per difetto al torace. Più tardi viene visitato ancora e dichiarato inabile. Fu ordinato suddiacono a Venezia dal patriarca Sarto il 19 dicembre 1896. Fu consacrato diacono dallo stesso e nella stessa chiesa il 17 aprile 1897; pure dal patriarca Sarto fu consacrato prete, nella chiesa di S. Cassiano, il 14 agosto 1898.
Sacerdote professo, laureato in Lingue, particolarmente zelante della salvezza delle anime, attese assiduamente all’esercizio della scuola, ministero che svolgeva da vero Cavanis, con grande passione e competenza, con dolcezza e fermezza, con buon umore, con rispetto per gli allievi, grandi o piccoli, con amore individuale che ciascuno degli alunni sentiva rivolto a sé personalmente. Particolare tenerezza P. Bepi rivolgeva agli orfani, allora numerosi anche e soprattutto a seguito delle varie guerre e principalmente della prima guerra mondiale.
Non disponiamo per ora di dati completi sulla sua presenza e attività nelle varie case. Probabilmente rimase sempre nella casa di Venezia salvo nella brevissima esperienza di Conselve. In pratica, abbiamo questi dati: Dopo l’ordinazione presbiterale fu a Venezia con certezza dal 1898 al 1904; nel 1907-08; dal 1913 al 1924; fu a Conselve nel 1924-25; poi di nuovo a Venezia dal 1924 all’inizio del 1936, anno della sua morte.
Negli anni ’30 e fino quasi alla morte, insegnava tra l’altro varie materie teologiche ai chierici teologi Cavanis; nel 1934-35 e 1935-36, almeno, insegnava in particolare Diritto Canonico, Morale, Pastorale, Ascetica e Sacra Eloquenza. In pratica sosteneva da solo almeno metà delle materie del corso di Teologia.
Fu eletto procuratore generale, cioè economo della Congregazione, dal 1931 al 1936; così pure discreto ossia delegato della casa di Venezia nel capitolo generale del 9 agosto 1930; risulta eletto 4° definitore (consigliere generale) nel 1936-37, cosa impossibile dato che morì nel gennaio 1936.
Nel 1924, come si diceva, fu incaricato, con l’appoggio di fra Vincenzo Faliva, di aprire la casa di Conselve (Padova). Vi andò, ma con poco entusiasmo. Il problema della casa di Conselve sembra essere stata principalmente la scarsa disponibilità del P. Giuseppe Borghese, che si lagnava di tutto e che aveva troppa nostalgia della vita più movimentata di Venezia, dove aveva molte amicizie e contatti.
Si dedicò anche a ricevere le confessioni sia del popolo cristiano sia dei giovani, specialmente di quelli appartenenti alla Congregazione Mariana, e al ministero della predicazione. In questo, dietro un genere letterario di informalità e a volte di una giocosa estemporaneità, si trovava una forte e avanzata dottrina, fondata soprattutto sulla Parola di Dio, letta, studiata, compresa, amata. Era frequente nelle sue prediche ed omelie, la frase “leggo nelle Sacre Scritture …”. Nel ministero della confessione e della direzione spirituale, poi “più che altrove, esercitò in modo impareggiabile la sua missione. Dispensatore di perdono e di conforto, aiuto valido nei tentennamenti, capace di accendere una luce di gioiosa speranza nell’anima di chi si sentiva turbato e vinto, era preoccupato sì di porre in evidenza la bruttezza della colpa, ma più ancora di additare la bellezza della vita in stato di grazia, di far gustare il profumo della virtù ed assaporare la letizia e la serenità che gode chi vive nell’amicizia con Dio”. Si acquistò l’amore di tutti per la mitezza della natura e dei costumi.
Era un religioso Cavanis molto stimato dai laici: allievi, ex-allievi, amici dell’Istituto, cristiani che frequentavano la chiesa di S. Agnese, penitenti; un po’ meno negli ambienti ufficiali della Congregazione, e in modo variabile dai diversi confratelli. Aveva un carattere probabilmente non costante e stabile, e un complesso d’inferiorità, anche per il fatto di non aver praticamente mai ricoperto cariche in Congregazione. Tale particolare carattere, come avviene, si avvertiva di più da chi conviveva ogni giorno con lui che da chi lo incontrava di tanto in tanto, cioè gli esterni.
Sulla metà degli anni Trenta del secolo scorso, nel 1935, fu colto da lunga malattia mortale, con ogni evidenza senza speranza, che faceva ricordare ai suoi ex-allievi, che lo amavano molto, una massima un po’ scherzosa, ma anche di cristiana sopportazione, che il caro padre ripeteva spesso; “Sia lodato Dio, che le cose non vanno a modo mio!”. Così racconta il Diario di Congregazione, il 13 dicembre 1935: “Oggi il P. Giuseppe Borghese, affetto da tumore grave allo stomaco, come constatarono dapprima il medico di casa, Dott. Pagnacco, poi il radiologo dell’ospedale ed infine il primario Chirurgo Dott. Forni, è entrato nell’ospedale civile per subire un’operazione. Già dallo scorso giugno si notava nel Padre un insolito deperimento, ch’egli credette di poter curare con un periodo di riposo a Possagno. Ma neppure quell’aria e un trattamento di riguardo gli giovarono, per cui finalmente s’indusse per volontà del Preposito ad una visita medica col risultato di cui sopra.” E il giorno dopo: “Il P. Borghese è operato, ma il male troppo progredito fa sì che l’intervento chirurgico riesca purtroppo inefficace”. Il 24 dicembre, vigilia di Natale, il diario riporta: “Nell’ospedale il P. Giuseppe Borghese è oggetto di affettuose premure, visite di confratelli, scolari, ex-scolari e ammiratori. Medici ed infermieri sono meravigliati dell’eccezionale attestazione di stima e di simpatia verso l’infermo, il cui stato purtroppo va seguendo un progressivo peggioramento. Il male non si può vincere coi rimedi umani e quindi l’unica speranza nella preghiera”.
Rientrò in comunità all’inizio del 1936, ma in pessimo stato, e continuò a peggiorare. Più tardi, dopo diciassette giorni, corroborato dai sacramenti della Chiesa, avendo ricevuto il viatico e l’estrema unzione il 27 gennaio, spirò nel bacio del Signore, a Venezia, il 28 gennaio 1936.
Sul suo laborioso e privato tentativo (1917-1921) di collaborare alla riforma della legislazione propria dell’Istituto, nella fase successiva alla promulgazione del codice di diritto canonico (1917), si veda il capitolo “Breve cronologia delle costituzioni (e norme)”.
Sulla sua idea, un po’ peregrina, di orientare una “pia e ignota benefattrice”, probabilmente una sua penitente, a offrire alla chiesa di S. Agnese una pala di altare di S. Gabriele dell’Addolorata, che poi fu trasferita invece alla chiesa del collegio di Porcari, e in seguito a Possagno, si veda il capitolo sulla chiesa di S. Agnese.
Il suo funerale fu celebrato con grande partecipazione dei suoi antichi scolari, che raccolsero fra di loro un’offerta per la celebrazione annuale in perpetuo di due Messe per l’anima del maestro. Le spoglie del caro padre riposano dal 1942 nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo, nel cimitero civico di S. Michele a Venezia.
7.19 P. Giovanni Tamanini
Il diario della Congregazione riporta la seguente notizia su questo giovane padre: “Giugno 23 – Domenica. La Comunità alle 18 ½ inizia il ritiro annuale, che è predicato dal P. Guerra dei Minori della Vigna.
Il ritiro è in parte turbato dalla notizia (il giorno prima una telefonata dal Collegio [Canova di Possagno] annunciava un improvviso quanto inatteso aggravamento) della morte del P. Giovanni Tamanini avvenuta in Possagno alle ore del 15 del 27 Giugno [1940]. Il P. Tamanini, proveniente da Porcari, da qualche settimana era in cura a Possagno per la febbre maltese, che aveva all’apparenza. Decorso normale. Invece il siero delle punture ordinate dai medici influì subdolamente sulle reni e gli provocò un’improvvisa uremia con perdita della conoscenza e coma. Non si riprese più e dopo trentasei ore di penosissima agonia, ricevuta l’estrema unzione, spirò assistito da quel P. Rettore, mentre i Religiosi della Casa erano in Col Draga ritirati negli esercizi spirituali.
Il Preposito andò subito a Possagno la sera del 27 e, visitata la salma e fatte preghiere per il carissimo Confratello, ritornò il 28 a Venezia per chiudere all’indomani insieme con i Religiosi della famiglia il ritiro.” Aveva soltanto 34 anni, e si può immaginare la desolazione dei confratelli.
P. Giovanni Tamanini (il nome completo di battesimo era Giovanni Innocente) era nato il 1° marzo 1906 nel paese di Mount Carmel (Pennsylvania, USA) da una famiglia originaria di Vigolo Vattaro, diocesi e provincia (attualmente) di Trento. La famiglia era ritornata alla base, e Giovanni risultava abitante a Vigolo Vattaro. A quanto pare, la madre Erminia Paoli era rientrata in Italia con la prole dopo la morte prematura del marito Giulio. Giovanni aveva frequentato, o almeno aveva fatto gli esami suppletivi della seconda ginnasio nel collegio-convitto vescovile di Trento, di cui esiste una pagella. In seguito, Giovanni era entrato in istituto come aspirante il 25 novembre 1919, a Venezia, perché a Possagno non si teneva quell’anno il corso di terza ginnasio, nell’immediato dopoguerra, per via dell’occuazione del collegio da un comando militare italiano. Ancora aspirante, aveva subito un’operazione chirurgica all’orecchio riuscita felicemente il 24 ottobre 1922; lo stesso giorno aveva ricevuto le Testimoniali dalla diocesi di Trento, per i buoni uffici della parrocchia di Vigolo Vattaro; aveva vestito l’abito della Congregazione e iniziato il suo noviziato il 10 dicembre 1922, aveva emesso la professione temporanea il 10 dicembre 1923 ed era unito ai nostri col vincolo della professione perpetua, emessa il 19 marzo 1928, festa di S. Giuseppe, unitamente ai colleghi Gioacchino Sighel, Antonio Cristelli e Angelo Sighel, a Venezia.
Ricevette la tonsura clericale il 20 maggio 1928, i primi due ordini minori (ostiariato e lettorato) il 5 aprile 1930, sabato sitientes, nella sala dei banchetti, dal patriarca La Fontaine; i secondi due ordini minori (esorcistato e accolitato) nella basilica della Salute, dallo stesso presule, il 13 luglio 1930; il suddiaconato nella cappella del Patriarchio il 1° febbraio 1931, sempre assieme ai confratelli Gioacchino Sighel, Antonio Cristelli e Angelo Sighel; il diaconato il 21 marzo 1931 nella basilica di S. Marco. Fu ordinato prete assieme a P. Antonio Cristelli a Possagno, nel tempio canoviano, da monsignor Giacinto Longhin il 7 giugno 1931.
Si era iscritto a Ca’ Foscari, che a quell’epoca era un istituto universitario, ma non ancora una facoltà o, come oggi un’università, per la laurea in lingue estere.
Appena divenuto sacerdote, esercitò a Porcari per nove anni il ministero della scuola e dell’educazione della gioventù, con grande lode di pietà e dottrina. Fu tra l’altro assistente della Congregazione Mariana di quella casa. Era professore di lingua francese, dove aveva raggiunto, anche a detta degli ispettori del ministero, una rara competenza.
Tra i suoi meriti questo è degno di essere ricordato: come amante cultore della musica non tralasciò mai alcuna fatica per istruire con straordinaria pazienza i ragazzi nella musica e aveva organizzato la banda o fanfara del collegio di Porcari. Oltre che per queste attività e questi meriti, fu ricordato dai confratelli anche per la sua pietà sacerdotale e religiosa e per la bontà del suo carattere, che lo rendevano caro a tutti.
Terminate le lezioni dell’anno scolastico 1940, si ammalò di febbre maltese o brucellosi, nel giorno in cui avrebbe dovuto discutere la tesi di laurea all’Università di Firenze, fu trasferito a Possagno per convalescenza; lì, contro le previsioni, la malattia improvvisamente riprese e si aggravò. Ricevuti gli olii Santi e aiutato dalle preghiere dei confratelli spirò piamente [il 27 giugno 1940]. Il suo funerale fu celebrato a Possagno tra il sincero e unanime compianto di confratelli e alunni, e poi, con maggiore partecipazione di popolo, a Porcari, la cittadina che aveva visto la sua benemerita presenza e la sua attività pastorale”.
7.20 P. Luigi D’Andrea e fratel Enrico Cognolato
Il diario di Congregazione, il 4 luglio 1940, riporta questo testo molto triste:
“Una dolorosissima sciagura si era in quel giorno abbattuta sull’Istituto. Verso le due dopo mezzodì, il P. D’Andrea Luigi e Fra Enrico Cognolato si assentavano dalla Casa (per verità senza chiedere la licenza e la benedizione al Vicario P. Pellegrino Bolzonello) e nonostante il cielo temporalesco e le parole amichevolmente dissuasive di cognoscenti incontrati per via, noleggiato un caicco si dirigevano verso S. Giorgio in Alga allo scopo l’uno di avere una prima lezione di nuoto ed il fratello laico di fare un bagno in laguna.
Non si sa quello che è succeduto. Nel frattempo si è anche scatenato un furioso temporale. Si suppone però che il P. D’Andrea sia stato colpito da malore (la distanza dal porto era troppo poca) e che Fra Enrico sia corso al salvataggio, ma con esito infelice. Dopo le 4 i marinai di una nave attraccata alla banchina della Darsena in Marittima avvistavano due corpi galleggianti in balìa della corrente. Accorrono e li ricuperano. In un primo momento si spera di salvarli con la respirazione artificiale, ma tutto fu inutile. Intanto viene recuperato anche il caicco ormeggiato ad una bricola e dai vestiti che vi son dentro si capisce trattarsi di due religiosi del nostro Istituto. Si telefona. Accorrono in Marittima il P. Luigi Janeselli ed il P. Vincenzo Saveri e purtroppo devono constatare la dura realtà.
Col permesso dell’Autorità competente le due salme, sopra una lancia della Croce Rossa, sono portate all’Istituto e pietosamente composte nella Cappella del Noviziato.
Il Preposito al suo ritorno, lì, un po’ sfigurati ma perfettamente riconoscibili, trova i due Religiosi che al mattino aveva lasciati in perfetta salute.
Il cordoglio attorno all’Istituto fu unanime. Al mattino cominciarono le visite di condoglianza, prima fra tutte quella di Sua eccellenza monsignor Giovanni Jeremich Vescovo Ausiliare. Il Patriarca ha inviato un accorato biglietto. I funerali ebbero luogo il sabato 6 luglio alle ore 9.30.
L’anno precedente era stato caratterizzato dalla grande gioia del centenario. Ora in una settimana tre giovani Religiosi sono stati rapiti dalla morte e due in tal modo! Il dolore è immenso. Non resta che meditare a proprio profitto spirituale e ripetere, adorando i consigli della Provvidenza, l’aspirazione così frequente sulle labbra del nostro P. Anton’Angelo: Sia fatta, lodata ed in eterno esaltata la giustissima, altissima e amabilissima volontà di Dio in tutte le cose.”
Le spoglie dei cari confratelli, persi in modo così drammatico e prematuro, riposano nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo, nel cimitero civico di S. Michele a Venezia.
7.21 P. Luigi D’Andrea
Nativo di Pieve di Soligo, in provincia di Treviso e diocesi di Ceneda, ivi nato il 14 luglio 1911. Dopo essere entrato in Istituto il 7 luglio 1925 a Possagno, passò più tardi per continuare la sua formazione in casa-madre a Venezia il 10 settembre 1927; lì vestì l’abito religioso Cavanis il 20 ottobre 1929 e iniziò così il noviziato (1929-30), con i quattro confratelli Guido Cognolato, Luigi Candiago, Antonio Turetta, Alessandro Valeriani, che furono tutti perseveranti fino alla fine; emise la professione temporanea il 10 febbraio 1930; professò i voti religiosi perpetui a Venezia l’11 marzo 1934.
Ricevette la tonsura a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; l’ostiariato e il lettorato pure a Venezia il 19 settembre 1936; l’esorcistato e l’accolitato nella stessa città il 13 marzo 1937. Aveva ricevuto l’ordine maggiore del suddiaconato e aveva cominciato a portare il manipolo il 4 luglio 1937; l’ordine sacro nel grado del diaconato nella chiesa del Redentore a Venezia, dal Patriarca, il 18 settembre 1937; era poi stato consacrato prete, pure al Redentore, dal Patriarca, il 5 dicembre 1937.
Era addetto alle nostre scuole di Lettere e contemporaneamente si era iscritto all’istituto universitario di Ca’ Foscari a Venezia, per la laurea in lingue, particolarmente del francese. Mentre attendeva con impegno al completamento degli studi, esercitava l’insegnamento nelle classi inferiori del ginnasio, rivelando particolare interesse per i problemi educativi, come ci attestano alcuni suoi quaderni in cui raccoglieva note, appunti, riflessioni sull’anima giovanile e e sui mezzi pedagogici più opportuni.
Essendo uscito nel pomeriggio con il confratello Enrico Cognolato per un bagno nella laguna che circonda la città, perì d’improvvisa e misera morte il 4 luglio 1940, non avendo ancora compiuti ventinove anni. Pochi giorni prima, facendo gli Esercizi spirituali, aveva piamente scritto in un foglietto “O morte in qualunque ora tu verrai, sarai sempre grata e accettata”.
Il suo corpo ricuperato dalle acque fu sepolto nel cimitero di S. Michele tra il compianto dei confratelli, di alunni e di numerosi amici della Congregazione.
7.22 Fra Enrico Cognolato
Perì nello stesso giorno e nelle stesse circostanze, in cui era perito il P. D’Andrea, nel pieno fiore dell’età – era nato circa trenta due anni prima (intorno al 1908).
Enrico era nato il 15 luglio 1908 nel paese di Bertipaglia, più esattamente nella frazione di Maserà, diocesi e provincia di Padova. Era entrato in Congregazione come candidato a fratello laico a fine 1923 o inizio 1924; aveva vestito l’abito religioso il 15 dicembre 1924; aveva emesso i voti temporanei il pomeriggio del 18 dicembre 1926 e i voti perpetui il 4 gennaio 1930. Tra l’una e l’altra professione aveva svolto il servizio militare, in sanità a Verona. Nel 1926-27 tuttavia non era nell’esercito ma in congregazione, ed era stato inviato per quell’anno scolastico a Porcari, per aiutare e sostituite il fratello laici che vi si trovava, che era ammalato. La sua esperienza di vita militare si era conclusa definitivamente, con il suo ritorno in comunità, il 21 agosto 1929.
Rimase poi nella comunità di Venezia dal 1929 al 1931; a Porcari dal 1931 al 1934; poi a Venezia per circa sei anni, fino alla tragica morte.
Aveva effettuato, come fratello laico, vari compiti di carattere di servizio pratico, “ed egli tutto assolveva con pronta alacrità, sempre contento ed instancabile. Il lavoro manuale non lo impediva di attendere con fedeltà e spirito di fede ai doveri spirituali che derivavano dalla sua condizione di religioso.”
Ebbe i funerali assieme al P. D’Andrea. Fratello laico, diede luminosi esempi di laboriosità prima e dopo aver emesso i voti perpetui, nelle varie case della Congregazione.
7.23 P. Amedeo Fedel
Nato a Miola di Piné, diocesi e provincia di Trento, il 2 giugno 1890, da Nicolò e da Caterina Bolech, orfano di madre al momento del suo ingresso in Istituto, che avvenne il 12 ottobre 1905, assieme ad Aurelio Andreatta e a Mario Janeselli. A differenza di questi compagni, che erano figli di contadini, Amedeo era figlio di un veterinario. Il quaderno di matricola precisa che Amedeo era detto “Topa”, forse un soprannome di famiglia. Il suo nome completo di battesimo era “Amedeo Ignazio”; si trova, nei documenti che presentò all’Istituto alla sua entrata in seminario, con varianti; Amedeo diventa Amadeo o Amadio; e Ignazio diventa Inazio.
Il quaderno di matricola del noviziato sopracitato ci informa anche sulla politica scolastica dell’Istituto con i suoi aspiranti, a quel tempo: per esempio ci spiega che Amedeo aveva portato “l’attestato di 2ª popol.[are] compìto a Miola – fu messo in IV – maturità a S. Stin [n°]1906 – Studiò nelle vacanze e fu poi messo (1906-07) in seconda ginnasio, che dovette poi ripeter nel seg.[uente] anno 1907-08“.
Analogamente per vari altri aspiranti.
Amedeo entrò in Congregazione, assieme agli altri del suo gruppetto, il 12 ottobre 1905, aveva vestito l’abito religioso il 4 luglio 1909 ed emesso la professione dei voti temporanei il 5 (o 4) luglio 1910 nell’oratorio dei piccoli a Venezia, assieme a tre confratelli, compagni di noviziato; ed emise la professione perpetua assieme agli stessi tre compagni il 5 luglio 1913 in S. Agnese, davanti alla scolaresca. Ricevette la tonsura, assieme a tre confratelli Cavanis, dal patriarca Aristide Cavallari nella cappella del Patriarchio il 12 dicembre 1912; i quattro ordini minori nella stessa cappella, e con gli stessi tre confratelli ma dal nuovo patriarca Pietro La Fontaine il 22 giugno 1916, solennità del Corpus Domini; ricevette il suddiaconato dal vescovo di Tortona, monsignor Simon Pietro Grassi, nel suo episcopio, durante il tempo del profugato, l’8 settembre 1918, nella memoria della Natività di Maria; il diaconato, dopo il ritorno a Venezia, il 21 dicembre 1918 dal patriarca Pietro la Fontaine nella cappella del patriarchio; concluse le tappe del corso teologico, ricevette l’ordinazione presbiterale dallo stesso patriarca, nella basilica di S. Marco, il sabato sitientes 5 aprile 1919. Fu una grande festa, con quattro neo-sacerdoti Cavanis, un record e la presenza di quasi tutti i Cavanis, e anche di don Orione venuto apposta da Tortona.
Attese con operosa attività all’educazione e istruzione dei fanciulli delle scuole elementari, di preferenza nella classe V, che i superiori gli assegnavano quasi annualmente perché ne conoscevano la preparazione specifica e l’ottima capacità nel preparare i bambini all’esame di stato. Insegnò a Venezia, a Possagno, a Porcari, conservando dei suoi alunni un costante ricordo, aiutato da una felice disposizione naturale a ritenere i nomi e anche da un’indole portata al culto delle memorie. Per la semplicità dei costumi e per l’indole gioviale era caro a tutti, specialmente agli ex-allievi, della cui associazione fu amoroso direttore soprattutto a Venezia.
Lo troviamo nel 1919-21 a Porcari, membro della prima comunità; dal 1922 al 1935 e dal 1937 al 1941 a Venezia; nell’anno scolastico 1935-36 a Possagno, collegio Canova; dal 1941 al 1945 a Porcari; gli ultimi mesi di malattia a Venezia.
Nel cinquantaseiesimo anno di età, avendo celebrato a Porcari, nel 1944, il 25° anniversario dell’ordinazione presbiterale, colpito da grave e incurabile malattia, fortificato dai sacramenti della Chiesa e dalle preghiere dei confratelli si addormentò placidamente nel Signore, a Venezia nel pomeriggio del 9 settembre 1945.
P. Aurelio Andreatta, preposito, ricorda così la sua malattia e la sua morte: “Nel pomeriggio [del 31 maggio 1945] arriva da Porcari P. Amedeo Fedel, trasportato con la macchina del Collegio: le sue condizioni di salute appaiono gravi, come del resto ci aveva riferito il P. [Antonio] Turetta il 2 maggio, arrivando a Venezia da Porcari in bicicletta. Si tratta di un tumore allo stomaco ormai avanzato. Si faranno tutti i tentativi per vincere il male: a Venezia non mancano medici di valore e per di più amici dell’Istituto.” “Alla sera del 17 [giugno] ritorna dall’ospedale il P. Amedeo, che vi ha subito un’operazione del tutto inefficace data la natura ed i progressi del male. Egli però si illude.” Più avanti: “Ormai anch’egli ha la sensazione che si avvicina la fine; si era cercato di farglielo capire anche nei mesi precedenti per meglio disporlo all’ultimo passo, ma la speranza della guarigione tratto tratto lo riprende. Lo si dispone agli ultimi sacramenti: si confessa, riceve l’estrema unzione e all’indomani alle 6 ½ gli si amministra il viatico. Compie tutto con piena coscienza e pietà edificante. Ormai si chiude in se stesso e si prepara all’incontro con Dio. La giornata dell’8 [settembre] passa senza sofferenze. Al mattino della domenica 9 riceve la visita di parecchi ex-allievi, che riconosce e saluta con affettuosità. Verso le ore 11 non percepisce più nulla e alla presenza dei Confratelli in preghiera spira serenamente alle 14 ¼.” del 9 settembre 1945, come si diceva sopra.
Le spoglie del caro confratello riposano nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo, nel cimitero civico di S. Michele a Venezia.
7.24 Fra Angelo Furian
Nato a Alonte presso Lonigo in provincia e diocesi di Vicenza il 30 settembre 1869, nella frazione e parrocchia di Carlanzone, Angelo Furian era entrato in contatto con i Cavanis, più esattamente con il preposito P. Sapori il 21 ottobre 1886, tramite lettera del P. Fanton, e buona informazione da parte del parroco di Carlanzone, frazione di Alonte. Arrivato a Venezia il 13 novembre 1886; indossò l’abito dell’Istituto il 16 luglio 1889, nella festa della Madonna del Carmine, aveva emesso i primi voti il 12 novembre 1891. Dovette interrompere per 45 giorni il suo noviziato a partire dal 4 settembre 1890, “per gli esercizi militari di 45 giorni, appartenendo alla 2ª categoria”. Il documento di congedo però, conservato nella busta “Curia Confratelli” in AICV, dice che fu arruolato nel maggio 1889 e congedato in ottobre del 1890. Vestì l’abito dell’Istituto il 16 dicembre 1894 lo stesso giorno di P. Agostino Zamattio, ma in privato. Lo troviamo, con dati abbastanza incompleti, a Venezia nel 1903-04; a Possagno nel 1919-20 e probabilmente negli anni seguenti; a Porcari dal 9 settembre 1928 in poi; di nuovo a Possagno dal 1931 al 1937; ancora a Venezia dall’autunno 1937 fino alla morte nel 1945. Nel settembre 1944 d’altra parte risulta presente a Possagno (forse temporaneamente, per vacanze?), al tempo del grande rastrellamento nazista e repubblichino sul Grappa e, data l’età molto avanzata, non viene preso prigioniero con gli altri padri e religiosi e tanti possagnesi, ma lasciato nel collegio.
“Obbedienza, semplicità, lavoro: ecco l’insegna sotto la quale visse questo fratello, che lascia un sereno e grato ricordo di sè nell’Istituto”. “…lieto e umile ci lasciò non piccolo esempi di osservanza regolare, di pieta e di laboriosità”.
Raggiunti i settantasei anni nel servizio della comunità e dei confratelli, come pure nella sua collaborazione con gli istituti scolastici della Congregazione, presentava sintomi di grave arteriosclerosi e di insufficienza cardiaca. Messosi a letto da qualche tempo e regolarmente assistito, il giorno 21 dicembre 1945 il fratello che lo assisteva avvisò il preposito che fra Angelo si stava aggravando rapidamente. “Accorre al suo capezzale, lo conforta il Preposito e gli chiede se riceve volentieri l’Estrema Unzione. “Subito e volentieri, rispose. Gli viene pertanto amministrata (la S. Comunione l’aveva ricevuta al mattino e nei giorni precedenti); gli si dà anche la benedizione papale. Il sensorio però diminuisce rapidamente, entra in agonia e alle ore 21,30 [del 21 dicembre 1945] placidamente spira assistito dalle preghiere dei confratelli”.
Il funerale fu tenuto in S. Agnese davanti alla scolaresca e alla comunità religiosa la domenica 23 dicembre. E il suo corpo giace vicino a quello del P. Amedeo Fedel, morto qualche mese prima, e degli altri confratelli nel cimitero di S. Michele a Venezia, in terra e più tardi nell’abside mortuaria dell’Istituto nella chiesa di S. Cristoforo.
7.25 P. Carlo Donati
Nostro sacerdote professo nato a Calceranica, diocesi e provincia di Trento, il 16 marzo 1907, ed era figlio di Carlo e Chiara Martinelli. I Martinelli non mancano a Calceranica e dintorni. Il suo nome completo di battesimo era Carlo Giambattista, come si trova nel certificato di nascita e di battesimo.
Carlo entrò nell’aspirandato di Possagno nel dicembre 1919. Vestì l’abito dell’Istituto, assieme al compagno Lino Janeselli, il 23 o 29 giugno 1926, sembra nel probandato di Possagno visse l’esperienza del noviziato nel 1926-27 e si consacrò a Dio con la professione temporanea dei voti il 12 giugno (o luglio) 1927 nella cappella dei padri a Possagno; emise poi la professione perpetua a Venezia, in S. Agnese, l’8 novembre 1931, nella festa della Madonna del Soccorso.
Lo troviamo durante la fase della formazione iniziale, per esempio nel 1931-32, come chierico a Venezia con i suoi compagni sensu stricto o sensu lato: Gioachino Tomasi, Federico Sottopietra, Cesare Turetta, Luigi Ferrari, Bruno Marangoni, Pio Pasqualini, Vittorio Cristelli, Ferruccio Vianello. Prendevano l’abito quell’anno: Egidio Fagiani, Luigi Sighel, Angelo Guariento, Salvatore Gattoni, fratel Olivo Bertelli. Veramente delle belle annate. Di questi 14 giovani chierici, solo due lasceranno l’Istituto.
Il 4 aprile 1930, assieme a due confratelli (Riccardo Janeselli e Marco Cipolat), ricevette la tonsura in Patriarchio a Venezia, dal Patriarca La Fontaine. Ricevette gli ordini minori dell’ostiariato e del lettorato il 19 dicembre 1931, quelli dell’esorcistato e dell’accolitato il 12 marzo 1932, il suddiaconato, nella chiesa dell’Istituto a S. Agnese, il 24 settembre 1932 e il diaconato, nella basilica di S. Marco, il 17 dicembre 1932.
Infine il 2 luglio 1933 fu ordinato prete a Venezia, nella chiesa già cattedrale di S. Pietro di Castello, dal Patriarca Pietro La Fontaine, assieme ai confratelli, Lino Janeselli, Angelo Pillon e Luigi Ferrari.
Prestò la sua preziosa attività, dopo consacrato sacerdote, specialmente a Venezia nelle scuole e in altri ministeri per la salvezza delle anime con grande lode di pietà e di pazienza, per diciassette anni, caro agli alunni specialmente per la mitezza del carattere e la semplicità dei modi.
Più in dettaglio, troviamo P. Carlo Donati: a Venezia dal 1936 al 1941; come prezioso e amato pro-rettore o rettore, secondo i periodi, del piccolo seminario o probandato di Vicopelago e poi di S. Alessio (Lucca) dal 1941 al 1949; a Porcari nel 1949-50, cioè fino alla sua morte. Mancano, stranamente, sue tracce nei documenti dal 1933, anno dell’ordinazione al 1936. Più probabilmente era a Venezia anche in quegli anni.
Durante l’immane conflitto bellico della seconda guerra mondiale, che sconvolse per circa sette anni tutta la terra, coprì l’ufficio di Pro-Rettore del piccolo seminario di S. Alessio, in provincia di Lucca, con industriosa attività tra continue difficoltà. Era molto amato dai piccoli seminaristi, alcuni dei quali continuavano anche fino alla fine della loro vita, qualche ano fa, a stimarlo un santo. A S. Alessio e a Porcari era apprezzato molto dai ragazzi perché era un animatore eccezionale dei giochi e dei passatempi, correva con loro nelle partita a schiavi o all’uomo nero. Lo ammiravano perché era velocissimo.
A lui si doveva l’iniziativa di istituire e cominciare a editare e pubblicare la guida cinematografica S.O.S.
Dedicatosi nel collegio di Porcari ancor più all’amore della perfezione e della pietà fu colto da morte improvvisa nel quarantatreesimo anno di età, il 12 agosto 1950. Fu trovato alla mattina dai confratelli disteso sul letto, completamente vestito, compreso l’abito religioso, e con le mani incrociate sul petto come se attendesse l’ultimo giorno.
Il suo corpo sepolto tra il compianto dei confratelli, alunni e numerosi amici della nostra Congregazione, in sepolcro particolare nel cimitero di Porcari, fu poi traslato in quello di Calceranica.
P. Gioachino Tomasi, rettore del Collegio Cavanis di Porcari, nell’elogio funebre lo chiamò “Padre venerato”. Un’immagine ricordo aggiunge: “P. Carlo Donati, operaio indefesso nella vigna del Signore. Lo consumò lo zelo della casa di Dio, della salute della anime, delle vocazioni al santuario. Religioso esemplare, fattosi tutto a tutti, per sé invocò patimenti, umiliazioni; semplice, piacevole, pio. La sua memoria sarà in benedizione”.
7.26 P. Cesare Turetta
Cesare, detto spesso in famiglia e in Congregazione Cesarino (anche a distinguerlo dal padre, che si chiamava Cesare anche lui) e poi P. Cesarino, era nato il 22 febbraio 1909 a Carbonara, frazione di Rovolon, provincia e diocesi di Padova. Entrò in seminario minore dell’Istituto a Possagno l’11 settembre 1923. Fin dalla fanciullezza si esercitò nella disciplina religiosa e nello studio delle lettere sacre e profane, prima a Possagno, poi a Venezia. Vestì l’abito dell’Istituto a Venezia il 23 ottobre 1927, visse l’esperienza del noviziato nel 1927-1928, a Venezia; emise i voti temporanei in S. Agnese, il pomeriggio della domenica di Cristo re, il 28 ottobre 1928. Emise poi la professione perpetua il 1° novembre 1931, festa di tutti i santi, a Possagno, nella chiesetta del collegio, presenti tutti gli alunni, assieme ai confratelli Federico Sottopietra e Gioachino Tomasi.
Ricevette la tonsura assieme ai suddetti compagni il 14 aprile 1932 dal nuovo vescovo di Padova monsignor Carlo Agostini, che era stato invitato a partecipare alla festa (pro pueris) di S. Giuseppe Calasanzio nel collegio Canova di Possagno. Ricevette l’ostiariato e il lettorato a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; l’esorcistato e l’accolitato il 22 settembre dello stesso anno; il suddiaconato il 22 novembre 1934; il diaconato il 7 aprile 1935. Il 30 giugno 1935 è consacrato sacerdote nella chiesa del SS.mo Redentore a Venezia.
Raggiunto il diploma di maestro il 4 ottobre 1931, esplicò la sua diligente e fruttuosa attività nei collegio di Porcari (1935-43)poi come collaboratore di P. Alessandro Vianello nel seminario minore e, brevemente, noviziato di Costasavia (1943-49), a Venezia (1949-53) fra i nostri scolari come insegnante di lettere e come cappellano e animatore nel Centro di Rieducazione per Minorenni alle Zattere (già, anticamente, Ospedale degli Incurabili e attualmente Accademia delle Belle Arti) e anche cappellano del carcere femminile; e infine passò al Probandato di Possagno (1954-57), di cui fu apprezzatissimo direttore. Si attirava in modo straordinario il rispetto e soprattutto un grande affetto di tutti con la serenità e giovialità. Nei pochi anni trascorsi a Venezia, fu anche economo generale, nel periodo limitato a quanto pare dal 1949 al 1951.
In seguito ad un intervento chirurgico per calcoli alle reni (o al fegato, come alternativa), malattie che lo portava a trascorrere spesso intere notti insonni, ci fu una serie di sequele, tra cui il blocco renale e dell’intestino che lo portò alla morte, Munito dei Sacramenti, che non solo ricevette piamente, ma che domandò lui stesso di ricevere, conscio della situazione, spirò nell’ospedale civile di Venezia il 23 aprile 1957, assistito dal Preposito generale, dai suoi fratelli (tra cui P. Antonio, padre Cavanis anche lui e suo fratello minore) e dalle sorelle e dai confratelli, non avendo ancora compiuto il quarantanovesimo anno di età.
Compiute le solenni cerimonie funebri con grande concorso di alunni e di amici, il suo corpo fu sepolto nel cimitero di S. Michele a Venezia, dove si trova attualmente, assieme a quello di altri confratelli, nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo.
7.27 P. Agostino Menegoz Fagaro
Agostino Menegoz Fagaro, figlio di Angelo e di Caterina Patessio Montagner, nacque ad Aviano, Provincia di Udine e diocesi di Concordia, il 17 maggio 1886. Fu battezzato il giorno seguente, 18 maggio e cresimato il 20 ottobre 1895. Oltre che compaesano, era cugino del P. Agostino Zamattio, il che spiega anche la parziale omonimia: tutti e due dovevano avere lo stesso nonno Agostino.
Tra le sue carte di trova un certificato firmato dal Patriarca Card. Giuseppe Sarto, che dichiara che si trovava a Venezia da due anni, ed è datato del 23.10.1902. Era entrato nel seminario minore dell’Istituto probabilmente nel settembre o ottobre 1898, perché esiste una dichiarazione di assenso di suo padre Angelo a Venezia per entrare in Istituto, datato 20.9.1898; il certificato del patriarca Sarto tuttavia fa pensare che fosse a Venezia dal 1900.
Fu esaminato (dagli esaminatori della Congregazione a Venezia) in vista della vestizione il 19.11.1902; vestì l’abito a Venezia l’8.12.1902; fece il noviziato, con ogni probabilità a Venezia, dall’8.12.1902 al 15.12.1903. Prima professione, temporanea triennale (esplicitamente nei documenti) il 15.12.1903. Il 15.11.1903 si era tenuta la riunione della comunità di Venezia per votare la sua ammissione alla professione temporanea.
Emise la professione perpetua il 19 maggio 1907, con un anno di ritardo sul previsto, sembra che ci fosse stata qualche difficoltà o dubbio per celebrare tale professione l’anno prima, 1906.
Riceve la tonsura e i quattro ordini minori nella cappella del Patriarchio il 19.12.1908; il suddiaconato il 12.3.1910; nello stesso anno, con indulto apostolico riceve sia il diaconato il 1° maggio (nell’oratorio delle Madri Domenicane ai SS. Apostoli a Venezia) sia il presbiterato il 21 maggio 1910 (nella chiesa di S. Agnese), sempre dal card. Patriarca Aristide Cavallari.
Sembra che, viste anche le osservazioni un po’ vistose fatte in alcune fasi della sua formazione, a livello di personalità, comportamento e profitto scolastico e accademico, si sia accelerato un po’ troppo la serie degli ordini maggiori, soprattutto.
7 ottobre 1915 – P. Menegoz ottenne a Padova la Licenza magistrale. Lo stesso padre il 17 seguente tenne il discorso per l’apertura dell’anno scolastico per i piccoli.
Il 23 agosto 1916 il giovane P. Menegoz accompagna il preposito P. Tormene (che era stato anche il suo maestro dei novizi) a visitare i soldati Cavanis al fronte. È evidente dal contesto che il giovane padre gode della stima del preposito.
4 settembre 1917 – Lo stesso va a visitare i parenti ad Aviano
Il 28 ottobre 1917, la commissione militare respinge la domanda di esonero presentata il 17 settembre per Menegoz e altri dell’Istituto, dal servizio militare in tempo di guerra. Si era a pochi giorni dopo la disfatta di Caporetto.
21 aprile 1918 – P. Menegoz è chiamato per una seconda visita militare medica. Ritorna da Bologna il 23 aprile, fatto abile incondizionatamente per tutti i servizi. Non sembra tuttavia che sia stato poi realmente richiamato al servizio militare.
Nel 1919 partecipa come discreto (delegato) della comunità di Venezia al Capitolo generale che si svolse dal 17 luglio al 1° agosto 1919. Subito dopo in capitolo, fu nominato sagrista della Chiesa di S. Agnese dal rettore di Venezia (e preposito) P. Tormene, il 2 agosto di quell’anno.
Lo si ritrova nel 1921 a Venezia, come direttore dei “Figli di Maria” e va il 2 giugno 1921 con quaranta membri di questa associazione dell’Istituto in escursione a Pederobba (Treviso) con il treno, e poi da questo paese a piedi sul Monfenera, poi discendendo a Possagno, sempre a piedi, con visita del Collegio e al Probandato, messa e pranzo. In particolare si visita la tomba di Carletto Trevisan e vi si posa una corona di fiori. Ritorno in “automobile” fino a Pederobba e ritorno a Venezia in treno. Partiti alle 5 del mattino, ritornano a Venezia alle 22.
8 agosto 1921. Accompagna a Possagno da Venezia un ragazzino orfano del collegio Artigianelli di don Orione, che voleva entrare nel probandato Cavanis. Risulta da questo testo che P. Menegoz era confessore presso l’Istituto Artigianelli fin dal 1919.
30 agosto 1921 – P. Menegoz va a Opi-Alfedena (L’Aquila) in Abbruzzo al campo nazionale degli Esploratori Cattolici, poi a Roma con loro per il Congresso della Gioventù Cattolica nel 1° cinquantenario della sua fondazione.
7 settembre 1921 – P. Menegoz ritorna a Venezia.
29 settembre 1921 – Lo stesso ritorna a Venezia da Possagno con il P. Tormene (preposito) e con P. Enrico Perazzolli.
Dopo aver ricevuto nel 1922 l’invito da parte del vescovo di Ceneda (ora diocesi di Vittorio Veneto) monsignor Eugenio Beccegato nel 1922 e averne discusso più volte in consiglio definitoriale, nel 1923 l’Istituto Cavanis aveva accettato la direzione della Fondazione Collegio Balbi Valier a Pieve di Soligo (Provincia di Treviso e diocesi di Vittorio Veneto). Il primo religioso Cavanis che fu inviato (assieme a un fratello laico) a reggere il collegio, fu il P. Agostino Menegoz. In data 11 ottobre 1923 il Diario di Congregazione riporta: “Oggi i Figli di Maria hanno voluto festeggiare il P. Menegoz destinato a Pieve di Soligo. Gli hanno regalato un orologio e una pergamena. Fu affettuosissimo l’addio tra i Figli e il Direttore”.
28.12.1923. P. Menegoz scrive da Pieve al P. Preposito, che era il P. Zamattio, sulla situazione e sulle pratiche di pietà della vigilia e della festa di Natale.
Nell’autunno del 1923 la rivista Charitas ricorda una gita degli ex-allievi Cavanis di Venezia e di Possagno a Pieve di Soligo. L’articolo, che non fornisce la data esatta della gita, ricorda però l’accoglienza cordiale del P. Agostino Menegoz con la sua “faccia piena e sorridente”.
Durante l’anno 1924 giungono alcune buone notizie da Pieve al preposito, e sono annotate sommariamente nel DC.
21.1.1924. Probabilmente come risultato di una di queste lettere, P. Zamattio va a visitare il Collegio Balbi Valier e il P. Menegoz. Il preposito annota nel DC che ci sono delle difficoltà con l’arciprete –ce ne saranno fino alla fine e saranno probabilmente determinanti per l’interruzione di rapporti tra i Cavanis e il Balbi Valier– ma che per il resto le cose vanno bene. Scrive anche che non ci sono difficoltà da parte del nostro padre, ma dal contesto si capisce che questi non accettava molto la collaborazione con la parrocchia, e anche che, secondo il suo abituale carattere, era un po’ ostinato sulle sue idee e non accettava facilmente i consigli del preposito.
Un anno e mezzo dopo, il 13 maggio 1925. P. Zamattio annota che il Consiglio di Stato non ha approvato la trasformazione del Balbi Valier. Si spera che non si debba lasciare la casa “dove P. Menegoz fa tanto bene”.
P. Zamattio annota nel diario di Congregazione alcune notizie da Pieve, ma senza accennare a P. Menegoz, il 17 e il 26 luglio 1925. Non se ne parla più per un anno e mezzo, ma questo periodo fu senza dubbio drammatico e amaro per il P. Menegoz, per l’Istituto, per i suoi superiori e per altre persone.
P. Agostino Menegoz causò dei grossi problemi nella sua condotta di religioso e di direttore di un’opera pastorale e in conseguenza di ciò dovette uscire dalla congregazione. Questa stessa in pratica fu costretta ad abbandonare il Balbi Valier e il paese di Pieve di Soligo, con grande sofferenza di tutti.
P. Menegoz tuttavia non perdette il contatto con l’Istituto, anche perché suo cugino P. Agostino Zamattio, preposito generale (sostituito poi, allo scadere del mandato, da P. Giovanni Rizzardo, che era tutt’altra pasta d’uomo) e molti confratelli lo avevano aiutato negli anni del dolore.
Riprese dunque gradualmente contatto con la comunità Cavanis. Scrive all’inizio da Tortona, poi dal paesetto di Pizzale nell’Oltrepò Pavese, dove si firma come “vicario parrocchiale” e da dove scrive tra l’altro “mi sembra d’esser proprio in un deserto – tra i selvaggi!”, poi a Voghera (Pavia), spesso con carta intestata della collegiata parrocchiale di S. Lorenzo Martire di quella città, però opera anche nel duomo della città, dove svolge ministero pastorale, ma vivendo “in istituto”, probabilmente la casa Divina Provvidenza-Seminario Missioni S. Antonio, degli Orionini, da cui scrive il 27 gennaio 1931.
P. Agostino frequenta don Orione, che lo aveva aiutato a risorgere dalle sue difficoltà, e di cui è entusiasta, e don Sterpi suo vicario. Si muove più tardi anche per Tortona, Torino, Pisa, Roma e ne abbiamo alcuni riscontri nei documenti.
Si interessa molto delle cose della casa di Porcari, per aiutare, e insiste molto perché l’Istituto riesca a fondare e diffondere il ramo femminile, che egli vede come un completamento del programma dei fondatori. Insiste perché non si faccia solo la scuola classica, ma anche quella professionale. Critica il fatto che in Congregazione si dia poco valore ai fratelli laici e suggerisce che si fondi un’associazione (o settore) di cooperatori laici.
Spera anche (25.11.1931) che nel capitolo generale si sia pensato ad aprire una casa all’estero, e in una lettera, purtroppo non datata, insiste perché l’Istituto apra scuole in paesi di missione, e raccomanda Brasile e Argentina, più che l’Africa o la Cina.
L’impressione che nasce da queste lettere è che P. Agostino si allarghi troppo e dia troppi consigli, anche se spesso molto saggi, illuminati e anzi profetici, e presenti anche troppe critiche, per uno che è dovuto uscire dalla Congregazione. Tra l’altro, spesso fa dei confronti (che non dovevano essere graditi a Venezia e altrove) tra altre congregazioni che si stavano espandendo e la nostra che era come bloccata. Si nota anche che nessuno dei suoi consigli venne seguito; e che forse (ma bisognerebbe avere in mano le lettere che P. Zamattio gli scriveva) il cugino P. Agostino gli rispondeva abbastanza raramente e che non si rispondeva alle sue richieste di riviste Charitas, di “santini”, ossia immaginette, dei Fondatori, di reliquie degli stessi.
Perdiamo poi di nuovo le sue tracce, negli archivi, ma almeno verso la fine della sua vita era a Roma, ancora presso gli Orionini. L’ultima sua lettera a P. Zamattio, scritta per consolare quest’ultimo della sua grave (e mortale) malattia, fu scritta infatti con la carta intestata della Parrocchia di Ognissanti in via Appia Nuova a Roma.
P. Agostino Menegoz morì però a Genova, il 14 agosto 1952, a 56 anni. Il diario della casa di Venezia riporta: “Il Rev.mo P. Preposito annuncia la morte improvvisa di P. Agostino Menegoz, avvenuta a Genova, al Piccolo Cottolengo – Salita Paverano, verso la mezzanotte tra il 13 e il 14 agosto – Detto Padre aveva cenato, come il solito, con molta serenità. Al mattino fu trovato morto. Requiescat in pace!”
Il suo nome, il suo titolo abbreviato “P.” [=padre] e la data della sua morte sono conservati nella lista dei congregati defunti compresa nel libretto di preghiere comunitarie, forse da qualche mano pietosa, o forse da qualche mano distratta. Ma la sua biografia non si trova nel necrologio della Congregazione. È una parziale damnatio memoriae.
Tuttavia, pur non appartenendo più alla congregazione, P. Menegoz aveva continuato a voler bene a lei e ai suoi confratelli, anche in modo molto concreto, forse anche sperando di esservi riammesso, il che era impossibile.
Tra l’altro, nel 1932 fece dono (anonimo, ma riconosciuto) alla Congregazione di un grande ritratto dei Fondatori, a olio su tela, da lui, come si seppe più tardi, commissionato al pittore Giuseppe Corolli di Tortona. Tra parentesi, un altro grande quadro rappresentante i fondatori accompagnati da una schiera di bambini e giovani, in un campo di gigli, con il mare sullo sfondo e con un improbabile leone di S. Marco giallo, irraggiante, fu realizzato per la casa di Porcari nei primi anni ’50 del XX secolo dal seminarista teologo Orlando Tisato, che si dilettava di pittura. Il quadro, di cui non si conosce la posizione attuale, essendo stata chiusa da tempo la casa di Porcari, non è propriamente brutto, ma non sembra avere valore artistico, ed è piuttosto un’opera artigianale. Da notare che il bambino in abito bianco (l’abito della prima comunione, nel caso concreto), con la mano di uno dei due padri sulla spalla, rappresenta Fabio Sandri, bambino allora appena entrato nel Probandato di Possagno, poi ordinato sacerdote Cavanis nel 1961 e attualmente (2022) rettore della casa madre di Venezia. Il quadro, ai suoi tempi, era conservato nella sala delle visite del collegio di Porcari.
Ritornando al religioso di cui si parla, risulta inoltre che intervenne presso la santa Sede per far ottenere all’istituto la villa e il parco della Via Casilina, in cui poi l’Istituto nel 1946 istallò la sua comunità romana e la scuola. Ciò risulta da una testimonianza orale del P. Pietro Fietta (30 aprile 2015), preposito generale; egli si ricorda che P. Panizzolo, già preposito generale e uno dei membri della prima comunità Cavanis a Roma, gli aveva raccontato questo fatto. Alle trattative per la cessione della proprietà aveva collaborato anche monsignor Ettore Cunial di Possagno, a quel tempo a Roma, in seguito Vicegerente del Vicariato romano e da sempre e fino alla morte amico dell’Istituto. Un favore non da poco, da parte di P. Agostino, di cui dobbiamo essergli molto grati. P. Menegoz a quel tempo si trovava a Roma, forse ancora presso i padri Orionini.
Sul finire dell’inverno 2019-20 e all’inizio della grande pandemia di Covid-19, vari membri della famiglia dei padri Agostino Menegoz e Agostino Zamattio entrarono in contatto con l’archivista dell’archivio Storico Cavanis a Venezia, per avere notizie dei loro antichi congiunti, e ne nacque un contatto prezioso e un nuovo legame con Aviano e con quelle famiglie.
7.28 Fra Vincenzo Faliva
Oriundo da Alonte, diocesi e provincia di Vicenza, dove era nato il 22 gennaio 1873, era entrato in Istituto a 28 anni, probabilmente il 6 ottobre 1901, vestì l’abito religioso Cavanis il 2 febbraio 1901 e fu aggregato come Fratello con la professione temporanea triennale emessa il 7 febbraio 1903, trascorse quaranta due anni di vita religiosa nell’Istituto.
Caro a tutti per la giovialità del carattere e straordinario per l’amore all’umiltà e alla pietà, instancabile nel lavoro, prestò la sua diligente e varia attività in diverse case della Congregazione. Era stato presentato a P. Giovanni Chiereghin da un amico di Venezia, tale Pèrtile, che propose all’Istituto vari aspiranti. All’inizio P. Giovanni Chiereghin – e a quanto pare tutti – sbagliavano il suo nome, chiamandolo Vincenzo Favilla, cioè lo italianizzavano; poi nel Diario di Congregazione troviamo delle varianti e poi una correzione a inchiostro, dove il cognome diventa Favila, e poi finalmente dal 3 febbraio 1902 si trova il suo cognome scritto correttamente Faliva, ma non mancano casi in cui l’errore riappare nel diario compilato dal P. Giovanni Chiereghin nel 1902 e 1903.
Lo troviamo, anche se la registrazione è ancora incompleta, a Venezia dal 1901 al 1904, e probabilmente anche negli anni seguenti, a Conselve dal 1924 al 1925; a Possagno dal 1928 al 1931, a Porcari dal 1931 al 1937, a Venezia nel 1937-38. Fu parte della prima comunità a S. Stefano di Camastra nel 1938-40, poi nell’effimera comunità di Fietta del Grappa, a servizio del Filippin, nel 1940-42, a Venezia di nuovo nel 1942-43 e probabilmente negli anni seguenti; al Dolomiti di Borca di Cadore dal 1947 in poi, e doveva essere passato da pochi mesi a Porcari quando si ammalò e morì.
Passò infatti all’amplesso del Signore, colpito da mortale e breve malattia, a Porcari, il 13 marzo 1953, all’età di ottant’anni.
Così il diario di Venezia racconta della sua malattia e morte: “Oggi, durante il pranzo, è stato recapitato dal portinaio al Rev.mo P. Preposito il telegramma, annunciante la morte di Fra Vincenzo Faliva, avvenuta a Porcari alle cinque del mattino. Il fratello, che aveva compiuto ottanta anni il 22 Gennaio 1953, era stato colpito da “emiplegia” e successivamente da polmonite. Di lui aveva scritto così il Rettore di Porcari, P. Vincenzo Saveri, alla Comunità di Venezia: ‘Edifica per la sua serena remissività e la totale rassegnazione alla volontà di Dio- Ha quasi sempre la corona del Rosario tra le mani: ricevette con edificante pietà anche l’Olio Santo comprendendo tutto il rito’ ”
Il suo corpo, accompagnato piamente dagli alunni del nostro Collegio, fu tumulato nel cimitero comunale di Porcari.
7.29 Il Venerabile P. Basilio Martinelli
Basilio Martinelli nasce il 27 dicembre 1872 a Calceranica (oggi Calceranica al Lago) nella provincia di Trento, Trentino, al Nord Italia, nell’arco alpino orientale, sulle rive del bel lago di Caldonazzo. Questa provincia era allora ancora sotto la dominazione austriaca e si chiamava, da un punto di vista politico, Tirolo italiano; gli abitanti si chiamavano tirolesi anche se erano di lingua e nazionalità italiana, tranne le eccezioni, costituite soprattutto da molti militari e funzionari dell’impero. La provincia è diventata italiana nel 1919, dopo la 1ª guerra mondiale.
Calceranica è oggi un piccolo paese ridente, affacciato sul lago di Caldonazzo, con vocazione turistica. A quel tempo era soprattutto un paese di minatori. C’era infatti una miniera di pirite (disolfuro di ferro), minerale povero per la produzione di ferro, ma utilizzato per la produzione di acido solforico destinato all’industria chimica e da essa si estrae anche zolfo utilizzato per fabbricare concimi, cellulosa, antiparassitari, cosmetici e vari prodotti farmaceutici. In tempi più antichi si utilizzava anche per produrre lo spolverino, oppure sabbia di pirite, ossia una polvere che era utilizzata per asciugare l’inchiostro da una pagina appena scritta, prima che si inventasse la “carta asciugante”, e prima che si passasse a usare prevalentemente penne sferografiche o biro per scrivere. Questo spolverino è abbondantemente presente , per esempio, negli scritti originali dei fondatori dell’Istituto, e procedeva probabilmente proprio da questa miniera di Calceranica.
Basilio era il secondo figlio di cinque, di famiglia piuttosto indigente, umile e molto cristiana. I suoi genitori si chiamavano Giovanni Battista Martinelli e Carolina Eccher. Erano contadini e lavoravano in una piccola fattoria e in un fazzoletto di terra di loro proprietà. Ma, durante l’estate, il padre andava a cercar lavoro come stagionale in Moldavia o in Austria, per guadagnare qualcosa di più per la sua famiglia. Basilio frequenta per otto anni (1879-1887) la scuola pubblica popolare. Nella parrocchia riceve la prima comunione, e si mostra buono, molto disponibile alla preghiera e alla vita cristiana. Il parroco, che era poi suo zio, don Daniele Martinelli, scopre in lui la vocazione religiosa e sacerdotale e la coltiva, favorendola. Basilio si orienta verso la Congregazione dei Cavanis, che era già conosciuta nella parrocchia e dalla famiglia Martinelli: tra l’altro, Giovanni Giovannini, il fratello della nonna, e quindi prozio di Basilio, era stato seminarista Cavanis, e aveva vissuto santamente nel nostro Istituto sino alla morte santa, sopraggiunta mentre era ancora molto giovane e seminarista, nel 1844.
Don Daniele si dimostra l’uomo della provvidenza in questa situazione: è lui che scrive ai padri Cavanis di Venezia (il superiore generale era allora P. Giuseppe Da Col), che compie tutte le pratiche necessarie per far passare il giovane Basilio, di sedici anni, dall’Austria all’Italia, e che l’accompagna personalmente a Venezia all’Istituto Cavanis.
A quel tempo, si pagava – se si poteva – una retta mensile per il vitto e alloggio nel nostro seminario minore o probandato; don Daniele si impegnò a pagarla personalmente per due anni di prova, dato che la famiglia Martinelli non avrebbe potuto affrontarne le spese. Il Diario della Congregazione registra il giorno dell’ingresso di Basilio in Istituto a Venezia, il 14 novembre 1888: “Oggi il R. D. Daniele Martinelli, Curato di Villa di Giovo, l’amico del P. Gretter (…) condusse il suo nipote Martinelli Basilio di Giambatta (sic), giovanetto aspirante al nostro Istituto – Dato un saggio scritto italiano per conoscerne il grado di istruzione, si trovò più indietro notabilmente di quanto si credeva – Si convenne collo zio di tenere il giovanetto per qualche mese in prova nella classe 1ª ginnasiale, dandogli insieme quel poco che si potrà d’istruzione privata – Il giorno 21 lo zio partì, depositando il sussidio di Lire Sessanta e il mantenimento del nipote, promettendo di aiutarlo anche in seguito, durante la prova, e di spedire in iscritto la dichiarazione del padre, come l’abbiamo domandata”. Basilio era stato accettato soltanto in prova e con qualche dubbio sulle sue possibilità, ma il P. Da Col che scriveva queste frasi non sapeva né poteva sapere quale successo di grazia avrebbe avuto questo giovanetto un po’rustico di aspetto e di scarso livello culturale.
Basilio era felice d’aver realizzato il suo sogno di vocazione religiosa, ma si sentiva «con il cuore grosso», come scrisse nelle sue memorie, lasciando la famiglia che amava tanto e il suo paese natale.
A quei tempi non c’era ancora un vero e proprio seminario, la piccola comunità degli aspiranti e degli altri seminaristi viveva a fianco alla comunità dei padri. Il seminario sarà costruito successivamente all’inizio del XX secolo, anche se c’era stato un tentativo nella seconda metà del secolo XIX, con la costruzione e la conduzione del “noviziato” a Possagno (1964-69).
Il 12 agosto 1891 P. Da Col, preposito, scrive allo zio di Basilio, don Daniele Martinelli ciò che segue: “Confermai ciò che gli notificò il nipote sul buon esito dei suoi studi quest’anno. Aggiunse che la sua condotta fu sempre irreprensibile, che è docile, pio, amoroso. Ma che per la sua lingua inceppata, precipitosa, e per la sua timidezza naturale non possiamo sperare che possa riuscire idoneo per l’insegnamento nelle pubbliche nostre scuole. Oltre a ciò la povertà del nostro Istituto non ci consente di poter in seguito mantenerlo quasi per intiero a nostro carico, avendo ricevuto per lui dal 28 9bre 1888 fino al presente £.113,04, non in ragione, come si riteneva, di centes[imi]. 50 al giorno. Che dunque parli con suo fratello e risolvano come credono. Sappiano però che, se possiamo essere risarciti pel passato, e assicurati della contribuzione anche in seguito, noi non lo licenziamo, perchè ci è caro, come egli pure si dichiara affezionato all’Istituto”.
17 gennaio 1892 – Ammissione al noviziato (a 19 anni) e vestizione di Basilio, assieme con altri novizi. Il gruppo di novizi di quell’annata era di tre giovani. Aveva superato con difficoltà i tre anni di aspirantato: era timido, dalla pronuncia molto provinciale, parlava troppo rapidamente, sembrava poco capace di diventare un giorno un buon insegnante ed educatore. Ma era buonissimo, obbediente e generoso.
Il 22 aprile 1893 Basilio emette la professione temporanea, come chierico, ossia come religioso incamminato al sacerdozio, a 20 anni.
Il 30 marzo 1895 Basilio, a 22 anni, riceve la tonsura e i quattro ordini minori nella cappella del patriarchio di Venezia (vescovado), a fianco alla basilica di S. Marco, dal patriarca Giuseppe Sarto, che più tardi diventerà Papa e santo Pio X, ed era grande amico dell’Istituto Cavanis. Il 7 giugno 1896 si celebra la professione perpetua di Basilio nella chiesa di S. Agnese a 23 anni. Il curriculum di studi era molto più breve a quei tempi. Rispettivamente il 19 dicembre 1896 e il 13 marzo 1897, Basilio riceve dallo stesso card. patriarca Sarto rispettivamente il suddiaconato e il diaconato, sempre in S. Agnese.
La grande data fu il 17 aprile 1897: il card. Sarto gli impose le mani per l’ordinazione presbiteriale (a 24 anni), nella nostra chiesa di S. Agnese, il sabato santo. Ci fu poi una breve visita a Calceranica, con don Daniele suo zio, per celebrare la prima messa solenne in parrocchia, la domenica dell’ottava di Pasqua. Nel settembre successivo arriva per P. Basilio la sua prima obbedienza e destinazione, e fu per la casa di Possagno (Treviso, Italia). A quei tempi la Congregazione aveva solo due case, Venezia e Possagno; la casa di Lendinara era stata chiusa nel 1896; la casa di Possagno era stata riaperta quello stesso anno nell’autunno del 1892, con due soli membri all’inizio e si era ricominciata l’attività educativa nel Collegio Canova: una ripresa modesta, che tuttavia, avrebbe in seguito dato origine ad una delle nostre principali comunità e attività. Anche se impegnato nel lavoro scolastico, P. Basilio volle iscriversi al corso di lingua e letteratura greca presso l’università di Padova (± 70 km da Possagno, e senza molti mezzi di trasporto all’epoca, ma anche oggi del resto). Resterà a Possagno per allora quattro anni.
Il 10 luglio 1892 a Padova, P. Basilio sostenne coraggiosamente la difesa della sua tesi e ricevé la laurea in lingua e letteratura greca. Il giovane trentino aveva dimostrato che non era poi così incapace di studiare, come si era pensato all’inizio. Non tutti però avevano stima di lui. Riaffiorarono i dubbi soprattutto sulla sua capacità di dare scuola. Così per esempio scrive P. Giovanni Chiereghin, preposito generale, in un fascicoletto di questioni da discutere con il definitorio, databile probabilmente all’estate 1901, poco prima della riunione del definitorio in vista dell’inizio anno scolastico: “i Padri [Giuseppe] Bassi e [Vincenzo] Rossi volentieri vedrebbero trasferito il P. Basilio [da Possagno a Venezia]: il contatto coi Professori secolari non gli ha fatto bene, e per qualche tempo parve che tenesse più le parti loro che quelle del Rettore, a ciò si aggiunga la mancanza quasi necessaria di regolare disciplina, che concorre non poco specialmente in uno giovane ad affievolire lo spirito religioso. Ma chi si manda in sua vece a Possagno? – A che cosa potrà servire qui a Venezia il P. Basilio con quella sua indole chiusa, con quel suo parlare imbrogliato, e per di più a monosillabi? Qui abbiamo una gioventù sveglia, furba quanto mai per sottrarsi alla disciplina, terribilmente caustica nel giudicare gli insegnanti, e colla quale ci vuole anche una certa coltura esterna per imporsi. Dunque? Non potrebbe essere che lasciato a Possagno, dopo fatti gli Esercizj, e cambiato l’ambiente, rendesse più contenti i suoi Superiori? Se non cambiasse, un altro anno si verrà al trasferimento”. In pratica però, dopo discussa la cosa con i definitori (due dei quali erano appunto i due padri Bassi e Rossi, della casa di Possagno), si decise di trasferirlo subito a Venezia e di sostituirlo a Possagno con il P. Antonio Dalla Venezia per l’anno scolastico 1900-1901. Resta però il fatto che in padre Basilio si vedeva più il religioso ed educatore e insegnante adatto per l’ambiente rurale che per l’ambiente urbano. È un fatto del resto che P. Basilio ha lasciato una grande impressione e grandi tracce di stima e di affetto a Possagno, ed è passato per Venezia quasi senza lasciare una grande memoria e devozione.
Dal 1901 al 1904 padre Basilio è occupato come insegnante di greco e latino nella casa e scuola di Venezia. Il 2 maggio 1904 ha un grande dolore, suo e di tutta la famiglia: Don Daniele Martinelli, lo zio che l’aveva tanto aiutato, muore a Calceranica. Nel 1904 P. Basilio è assegnato di nuovo alla casa di Possagno e vi rimane, insegnando materie letterarie fino al 1910. Nel 1908 fa un pellegrinaggio a Lourdes, con P. Antonio Dalla Venezia, che era stato suo maestro dei novizi. Egli diventerà preposito generale due anni dopo questa data. Per padre Basilio questo viaggio con il suo preposito, al grande e famoso santuario della Madonna fu memorabile.
Al ritorno, nel decennio 1910-1921, P. Basilio è in genere attivo a Venezia, come insegnante di greco e latino al ginnasio. È eletto consigliere generale (definitore) e scrutatore nel capitolo generale. Dal 19 aprile 1911 è nominato maestro interino dei novizi, dopo la rinuncia e le dimissioni date dal P. Enrico Calza; P. Basilio doveva completare il triennio, fino al prossimo capitolo generale. In pratica, continuò a operare in questo campo della formazione per diversi anni. Nel 1922-1923 è vice-rettore al Collegio Canova di Possagno; nel biennio 1923-1925 insegna a Venezia. Nell’anno scolastico successivo 1925-1926 ritorna come vice-rettore al Collegio Canova di Possagno.
Il 23 marzo 1927 va a far visita a Calceranica a sua mamma, gravemente malata. Ella morirà due giorni dopo, nel giorno dell’Annunciazione. Suo padre era già morto nel 1917, in tempi duri, durante la guerra; tra l’altro in anni in cui le comunicazioni con l’Italia erano impossibili.
Nel 1928-1929 è a Venezia, dove si occupa soprattutto della formazione dei teologi, come maestro dello studentato; nel 1930-31 diviene vicario della comunità di Venezia. L’anno seguente passa di nuovo a Possagno al Collegio Canova, di cui è rettore P. Giovanni Battista Piasentini, futuro vescovo d’Anagni e poi di Chioggia. Vi rimane dal 1931 al 1940.
Per la prima volta nel 1941 lascia il nordest e passa in Toscana, viene infatti inviato nella casa dei Porcari (Lucca) fondata nel 1919; e vi rimane fino al 1943. È significativo un commento finora non conosciuto che si trova in una “Relazione sulla famiglia religiosa della Casa di Porcari (Lucca)” redatta dal “rettore uscente” P. Vincenzo Saveri e datata del 27 giugno 1943: “Ammirabile è l’esempio di osservanza e di obbedienza di P. Martinelli Basilio che edifica la Casa colle sue virtù religiose.”
È a Venezia, durante gli anni più difficili della seconda guerra mondiale (1943-1945). L’anno successivo, dopo la fine della guerra, è destinato ancora a Possagno, si credeva per un solo anno; invece vi rimase molto a lungo, sino alla sua morte (1962).
Basilio comincia ad essere anziano. Nel 1947 si celebra il 50° anniversario, molto solenne, dell’ordinazione presbiterale. Tutto il popolo del paese di Possagno, ex-allievi, amici, confratelli parteciparono anche venendo da lontano, facendogli capire quanta stima e affetto riponessero in lui. Nel 1950 lascerà – a malincuore, ma obbedendo sempre – l’insegnamento, a settantasette anni. Diventa confessore ufficiale di comunità e si dedicherà d’ora in poi al ministero del sacramento della riconciliazione e alla guida e orientazione spirituale sia nella scuola elementare e media, sia soprattutto al liceo Calasanzio. Il suo ministero di consiglio e di perdono e riconciliazione si estende però ben presto anche per la gente di Possagno e alle persone che facevano esercizi spirituali e ritiri nella casa del Sacro Cuore a Possagno. Continuerà a esercitare questo ministero della confessione quasi sino alla sua morte.
Il 7 aprile 1957 festeggia il suo 60° anniversario dell’ordinazione presbiterale nel tempio di Possagno. Riceve la medaglia del ministero dell’educazione per i «meriti culturali e scolastici».
L’ho conosciuto personalmente, ma non bene perché dopo la mia entrata in seminario (1958), lui era a Possagno ed io a Venezia, a quei tempi, inoltre era molto anziano e prossimo alla morte. Mi ricordo di averci parlato qualche volta, di essermi confessato con lui, ma non era stato confessore del nostro gruppo di novizi durante il mio noviziato (1958-1959) a Possagno. Ricordo bene quando il preposito generale, P. Giuseppe Panizzolo, che era nostro professore di sacra Scrittura, andava a fargli visita a Possagno durante l’ultimo periodo in cui era malato, e quando ci raccontò della sua morte santa.
Il 10 marzo 1962, già gravemente malato, P. Basilio celebra la sua ultima santa messa nella cappella della comunità di Possagno, nel Collegio Canova. Allettato, i medici gli trovarono diversi problemi gravi di salute e delle piaghe in tutto il corpo di cui nessuno aveva sospettato dato che non se ne lamentava mai: accettava tutto in silenzio, offrendo le sue sofferenze per la conversione dei peccatori. Gli furono impartiti i sacramenti: la confessione, l’estrema unzione per i malati e il viatico; e alla fine della celebrazione il caro vecchietto commentò nel suo dialetto, con molta fede e gioia: «È stata davvero una bella festicciola!». Qualcuno lo definirebbe un caso tipico di understatement!
Morì il 16 marzo 1962, all’età di 89 anni. Fu sepolto nella cappella per il clero e i membri dell’Istituto Cavanis del paese di Possagno, fino a quanto il suo corpo fu traslato, come si dirà.
Il 18 maggio 1985 il vescovo di Treviso, monsignor Antonio Mistrorigo, su richiesta del preposito generale P. Guglielmo Incerti e, in genere, della Congregazione, dette inizio al processo di beatificazione a livello diocesano di Treviso di P. Basilio Martinelli, nel tempio di Possagno. A suo tempo, concluso il processo diocesano, con una solenne celebrazione presieduta nel tempio canoviano di Possagno dallo stesso vescovo Mistrorigo, il 16 marzo 1988, il processo venne trasferito alla Santa Sede che ha prima esaminato gli atti e approvato il processo diocesano e in seguito ha aperto il processo a livello di Santa Sede. La Positio sulla vita e le sue virtù, edita dal postulatore P. Gioachino Tomasi, è stata depositata nella Congregazione per il culto dei santi a Roma nel 1993.
La Santa Sede ha dichiarato l’eroicità delle virtù del nostro caro confratello e l’ha proclamato venerabile con il Decretum super virtutibus il 1° luglio 2010. Un processo de miro (“su un miracolo”) è in corso a Roma.
Il 1° ottobre 1988 la sua spoglia mortale fu riesumata e traslata dal cimitero comunale di Possagno a una tomba preparata per questo scopo sulla destra della navata della chiesetta del Collegio Canova-Cavanis.
Il suo necrologio ufficiale della nostra Congregazione parla così di lui:
16 Marzo 1962
Il Venerabile P. Basilio Martinelli
Nostro sacerdote professo di Calceranica, diocesi di Trento, dotato di straordinaria mitezza d’animo, attirava a sé l’animo di tutti, specialmente quello dei fanciulli. Particolarmente distinto nell’ascoltare le confessioni dei nostri alunni, era di ammirazione e di esempio a tutti per l’osservanza delle regole, per l’umiltà, per la semplicità. Si mostrò assiduo devoto della Vergine Maria e del S. Rosario.
Avendo esercitato per vari anni l’ufficio di Maestro dei novizi e di Definitore a Porcari, a Venezia, a Possagno, grande benemerito dell’istruzione dei giovani, dopo aver trascorso settanta anni in Congregazione, pieno di virtù e di meriti, munito debitamente dei Sacramenti, spirò nel Signore a Possagno nella casa della nostra Congregazione.
Servo di Dio, il processo per la sua beatificazione è in corso. La Positio sulla sua vita e le sue virtù, edita dal postulatore P. Gioachino Tomasi, è stata depositata alla Congregazione per il culto dei santi a Roma nel 1993. Le sue spoglie mortali sono poste al cimitero di Possagno in una tomba della cappella del Collegio Canova.
Vedi Charitas anno 1962 n.1 pp.7-10 e n.2 pp.6-13”.
“NOL TOCIAVA!”
P. Basilio era un uomo semplice. Di lui si raccontano vari aneddoti, alcuni dei quali già ricordati sopra. Aggiungiamo che, quando ormai era molto anziano, aveva da molti anni lasciato l’insegnamento, continuava però a partecipale nei cortili del collegio Canova alle ricreazioni dei bambini e dei ragazzi (non c’era ancora femmine a quel tempo) non tanto per assistere, quanto per partecipare e continuare, in qualche modo, per essere un Cavanis presente. Quando adocchiava qualcuno con aspetto più abbordabile o anche più pio, cercava di dirgli un buon pensiero, un’esortazione, e a volte di portarlo alla cappella. A volte proponeva ai ragazzi come ideale la vocazione sacerdotale e religiosa.
Mons. Silvio Padoin, ex-allievo dei Cavanis a Possagno e a Venezia e molto affezionato all’istituto, quando era vescovo di Pozzuoli (1993-2005), dove aveva chiamato i padri Cavanis in diocesi affidando loro la parrocchia di S. Artema (1996), raccontava di essere stato uno di questi ragazzi in contatto più stretto con P. Basilio. Da un lato attribuiva a lui, senza dubbio e con gratitudine, il fatto di aver sentito chiaramente di aver la vocazione a essere prete nella chiesa; per altro lato, ricordava come a volte l’insistenza di P. Basilio perché il ragazzetto lasciasse la ricreazione e andasse con lui a dire una preghiera (a volte lunghetta) nella chiesetta del collegio lo infastidisse alquanto; certe volte, confessava, quando lo vedeva avvicinarsi, fingeva una necessità e si allontanava verso i servizi igienici! Ma il richiamo della vocazione funzionò lo stesso, e quanto!
Anche quando la vecchiaia era diventata veramente pesante, e per lui stare in cortile, in piedi, durante le ricreazioni era diventato un sacrificio, specie d’inverno, in giorni di pioggia, o d’estate sotto il sole cocente, tanto più vestito di nero com’era, i confratelli lo invitavano a rientrare e a riposarsi. Magari gli dicevano – con poca delicatezza – dato che ormai era cecuziente: “Padre, ma lei non può neanche vederli!”. E P. Basilio rispondeva: “Io no li vedo, ma essi mi vedono!”. E continuava a stare lì, finché fu fisicamente possibile, e pregava molto per loro.
Quando usciva un seminarista minore dal probandato, lì a Possagno, dall’altra parte del torrentello quasi sempre secco di S. Rocco, P. Basilio, che seguiva con affetto quello che accadeva in quella casa di formazione, commentava nel suo dialetto trentino “Nol tociava!”, cioè “Non inzuppava”. Rivelava così una sua interpretazione molto personale della perdita della vocazione: lo attribuiva alla mancanza di appetito e quindi di alimentazione. Erano anche tempi di guerra e dopoguerra, quanto il cibo era realmente un problema, per la direzione del seminario che doveva provvederlo, ma anche per i seminaristi che dovevano alimentarsene e non sempre apprezzavano. Basilio diceva che un ragazzo, per lo più proveniente dalla campagna, era abituato a mangiare polenta e altre cose tipiche della sua famiglia; e non si trovava con i cibi, del resto pure molto semplici, che poteva offrire il seminario. P. Basilio, probabilmente nella confessione e nell’orientamento spirituale, veniva a sapere che i seminaristi avevano difficoltà con il cibo, e raccomandava ai bambini e ragazzi, se non avevano voglia di mangiare magari il pane raffermo, di “tociar”, cioè di inzuppare il pane nel latte o caffè la mattina, nell’acqua nelle altre refezioni; altrimenti la denutrizione ne avrebbe causato la tristezza e – come nel “figliuol prodigo” (Lc 15, 17-18), la voglia di ritornare alla casa paterna. Strana ricetta vocazionale! E tuttavia, molto umana. Anche il corpo vuole la sua parte.
7.30 P. Francesco Saverio Zanon
Veneziano, della Giudecca (o di S. Pietro di Castello?), nato il 22 febbraio 1877, Francesco Saverio era figlio primogenito del prof. Giannantonio Zanon, che fu per decenni professore di Costruzione Navale e di Macchine a Vapore nel Regio Istituto Nautico di Venezia, e di Giuseppina Pavan. Il prof. Giannantonio era anche un ricercatore e pubblicava nella sua area di insegnamento. Quando il figlio gli manifestò l’intenzione di entrare come religioso nell’Istituto Cavanis, che il padre pure stimava molto, si oppose a lungo. Tuttavia alla fine cedette.
Il Diario di Congregazione riporta in data 30 agosto 1890: “Lettera diretta al p. Preposito dall’egregio prof. Giannantonio Zanon, il quale aderisce alla volontà irremovibile del suo figlio primogenito Francesco Saverio di darsi alla nostra Congregazione. – Rispondo oggi stesso alla lettera del prof. Zanon determinando il giorno d’entrata del figlio, che sarà la festa prossima della Nascita di Maria SS.a”. Francesco Saverio aveva allora 17 anni. Entrò nell’Istituto come aspirante l’8 settembre 1890, dopo essere stato esaminato, come si usava, da un medico di fiducia dell’Istituto, che lo trovò sano ma gracile e affaticato dallo studio: particolare interessante; e dopo essere stato approvato all’unanimità dai padri della comunità di Venezia. Il padre, il prof. Zanon si proponeva di aiutare l’Istituto nella manutenzione del figlio, almeno fino agli ordini sacri, secondo le possibilità, ma a quanto pare con poco entusiasmo su questo punto.
Il giovane ricevette l’abito della Congregazione ben presto, nella festa della maternità di Maria, cioè il 19 ottobre 1890. Visse l’esperienza del noviziato a Lendinara, con P. Giuseppe Bassi come maestro, avendo come compagno di noviziato fra Angelo Furian e un altro candidato a fratello laico, che poi lasciò l’Istituto. Emise i voti temporanei a Venezia, con Augusto Tormene e fra Angelo Furian, il 12 novembre 1891.
Ricevette la tonsura e i quattro ordini minori, tutti assieme, il 4 aprile 1893 a Treviso, dal vescovo diocesano mons. Giuseppe Apollonio. Fu dichiarato riformato e quindi esente dal servizio militare, per la fragilità della sua salute. Emise i voti perpetui il 15 novembre 1894, assieme al P. Spalmach e al suo compagno seminarista Augusto Tormene; furono i primi che, una volta finito il triennio di professione temporanea, si unirono all’Istituto con la professione semplice ma perpetua, secondo le nuove costituzioni (1891) nella seconda parte. Intanto continuava i suoi studi all’università di Padova; l’ultimo esame lo diede il 6 novembre 1894, e ricevette così l’abilitazione all’insegnamento ginnasiale inferiore.
Fu ordinato prete il 4 aprile 1896 a S. Agnese per l’imposizione delle mani del patriarca Giuseppe Sarto, in seguito Papa S. Pio X.
Fu eletto maestro dei novizi il 26 luglio 1913, dal capitolo generale ordinario di quell’anno, e vi rimase per qualche tempo.
Nel 1921 passò un periodo di esaurimento nervoso da eccesso di lavoro, che preoccupò abbastanza il P. Tormene, che era superiore generale.
Oltre alle sue mansioni di professore di teologia (particolarmente di Dogmatica e Biblica, nonostante la poca competenza in questi campi) e filosofia ai seminaristi, svolte per cinquant’anni, fu professore di scienze nelle scuole dell’Istituto a Venezia, soprattutto nei licei, autore di parecchie decine di pubblicazioni scientifiche nel campo della meteorologia, della geofisica, dell’astronomia, della botanica e sull’ambiente lagunare di Venezia; era autore anche di libri di testo di scienze per le scuole secondarie.
Fu membro della direzione del Museo Civico di Storia naturale di Venezia, del Nucleo Italiano d’attinografia fisica; socio della Società sismologica italiana e di quella di meteorologia; dell’Ateneo Veneto di Venezia, della Commissione per la Bibliografia veneziana; direttore della biblioteca e dell’osservatorio geosismico e meteorologico del seminario patriarcale; esaminatore pro-sinodale, giudice pro-sinodale, censore ecclesiastico; direttore dell’osservatorio meteorologico e bioclimatologico dell’ospedale al mare di Venezia.
Aveva una passione straordinaria per le scienze, una memoria eccezionale e una sopraffina capacità d’analisi e sintesi. Non credeva sfortunatamente all’evoluzione biologica, che trovava in disaccordo con la filosofia tomista e con le sacre Scritture. Tuttavia era aperto al dibattito e rispettava le idee diverse di allievi e colleghi. Del resto non era un biologo. Era interessato piuttosto a trovare un legame tra filosofia tomista – di cui era fanatico – e le scienze fisiche, chimiche e matematiche. Lavorò una vita intera a questo progetto, secondo diceva; ma l’intenzione era ancora prematura. Non arrivò mai tuttavia a pubblicare qualche saggio o libro su questo tema. Era profondamente convinto che la scienza portasse a Dio.
Particolarmente innovatrici erano le sue pubblicazioni sulla sismologia applicata alla meteorologia. Preziose le sue osservazioni meteorologiche, i cui dati furono pubblicati regolarmente ogni anno sul Bollettino dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, come del resto si continua a fare fino ad oggi nell’osservatorio meteorologico dell’Istituto Cavanis, attualmente diretto da P. Pietro Luigi Pennacchi, dopo il caro P. Giulio Avi, che ci ha lasciati, ancora relativamente giovane, il 3 novembre 2000. Una continuità di oltre 180 anni!
Nella vita della Congregazione, P. Zanon non ebbe incarichi di governo, anche per il suo carattere assai burbero che non lo rendeva sempre gradevole in comunità. La difficoltà di convivenza in comunità del P. Zanon riguardava i confratelli di Venezia e soprattutto i rapporti con i chierici, ossia i seminaristi teologi, con i quali P. Zanon era molto (troppo) esigente nell’insegnamento della teologia e dei quali non era mai contento. La crisi forse più grave, registrata nel 1936, costrinse il preposito e consiglio a operare vari cambiamenti di confratelli delle comunità, un vero rimpasto, ma, curiosamente, P. Zanon rimase a Venezia, dato probabilmente che era necessario come insegnante di varie materie di teologia e come responsabile dell’insegnamento delle scienze a Venezia nel liceo e dell’osservatorio sismico e meteorologico del seminario di Venezia.
Un altro momento di tensione fu verso la fine del 1949: Così scrive il maestro dei teologi, il P. Luigi Ferrari nel diario: “29.12[.1949] – Oggi il P. Zanon castiga i Ch.ci Teologi perché gli hanno fatto uno scherzo poco gradito. Non vuole far loro scuola durante le vacanze di Natale! (Meglio, le vacanze sono vacanze!). Conseguenza di questo è la sospensione delle prossime straordinarie ordinazioni di alcuni Chierici. Infatti Dal Pos G[iorgio] doveva ricevere il diaconato, Manente e Soldera i due primi ordini minori – Invece niente!!”
P. Zanon fu fatto ritirare dall’insegnamento della teologia ai chierici nella festa dell’Assunta del 1953, per raggiunti limiti di età (aveva 81 anni) e anche per gravi problemi di una sempre maggiore incompatibilità con le nuove generazioni di seminaristi teologi. Se ne lagnò duramente con i superiori e, naturalmente, con i seminaristi, giudicandoli colpevoli di tale affronto. Commentava, dopo aver tentato tutto per continuare l’insegnamento: “Il diavolo ha vinto!”.
Era invece stimato in comunità, oltre che per la scienza e la cultura, per altre virtù tra cui il grande spirito di preghiera. A differenza di altri padri che si dedicavano alla preghiera piuttosto nel pensiero, con la meditazione e la contemplazione, la maniera caratteristica di pregare di P. Zanon, fuori dei tempi di preghiera in comune in cappella, era quella di borbottare o sussurrare dei salmi e altre formule di preghiera, anche quando camminava per i corridoi o saliva e discendeva le scale, e mentre effettuava i lavori manuali di preparazione e conservazione delle collezioni del museo didattico. Come mi si diceva – particolarmente da P. Aldo Servini –, lo si capiva da come aveva le labbra sempre in movimento e lo spirito assorto.
Fu nominato dal preposito P. Augusto Tormene, il 21-22 ottobre 1918, postulatore generale della causa di beatificazione dei padri fondatori; divenne quindi, con la sua tenacia e con il suo metodo di ricercatore e di scienziato serio, uno specialista prezioso della vita dei padri Antonio e Marco Cavanis. Pubblicò su di loro e su altri religiosi Cavanis, diversi libri, ma bisogna ricordare qui principalmente l’insostituibile opera in due tomi «I Servi di Dio P. Anton’Angelo e P. Marcantonio Conti Cavanis. Storia documentata della loro vita.», ovvero la biografia dei fondatori. È un’opera assolutamente preziosa ancora oggi, e di gran lunga migliore rispetto a tutte le biografie dei due benedetti padri che si sono scritte in seguito, che del resto sono state plagiate da quella, o ne sono delle semplici sintesi o “Bignami”.
P. Zanon morì a Venezia il 20 dicembre 1954, sia per la tarda età, sia perché la sua salute era rapidamente decaduta dopo che attorno all’inizio di marzo di quello stesso anno era caduto rovinosamente dalle ripide scale a chiocciola in pietra che portavano all’osservatorio meteorologico e sismologico del seminario patriarcale alla Salute e si era rotto il femore. Ricoverato solo all’inizio di maggio all’ospedale al mare, si trascinò per mesi con le stampelle, e ne ho la chiara immagine nel ricordo, mentre attraversava il cortile, tra l’abitazione della comunità e la chiesa di S. Agnese, accompagnato e in parte sostenuto da Fra Ausonio Bassan, divenuto il suo devoto infermiere e assistente.
Le spoglie del padre Zanon riposano con gli altri confratelli nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo, nel cimitero civico di S. Michele a Venezia.
7.31 Fratel Italo Guzzon
Italo era nativo di Pontecasale, frazione di Candiana, in diocesi e provincia di Padova, dove era nato il 4 dicembre 1929. Era entrato poco più che quindicenne nel probandato di Possagno, alla fine del 1945 o più probabilmente all’inizio del 1946. A 17 anni vestì l’abito dell’Istituto Cavanis, il 21 novembre 1946, nella casa del S. Cuore a Possagno. Fra Italo fu novizio prima nel noviziato della casa del S. Cuore e poi a Venezia durante gli anni 1946-1948; emise i primi voti triennali a Venezia il 28 ottobre 1948. In seguito professò i voti perpetui tra i fratelli laici della nostra Congregazione il 28 ottobre 1951 a Venezia e visse quasi quattordici anni di vita religiosa. Infaticabile, amato da tutti per la bontà e la mitezza, uomo semplice, sempre sorridente e scherzoso, lasciò notevoli esempi di gioia, di pietà e di obbedienza.
Lo troviamo successivamente nelle case di Venezia (1948-51), di Roma a Torpignattara (1951-53), del S. Cuore a Possagno (1953-1961), poi ancora brevemente a Venezia (1961), dove trovò una morte ben prematura. Pare sia stato anche nella casa di Borca di S. Vito di Cadore, sebbene, come purtroppo succedeva per i fratelli laici, il suo nome non consti nelle liste.
Oltre a vari servizi domestici che prestò alla comunità, era famoso per la sua passione per la guida di automezzi e per le riparazioni di motori. In casa del S. Cuore, particolarmente, portava, a gruppi, gli esercitandi dal paese di Possagno alla casa degli esercizi, e compiva tutte le commissioni e gli acquisti della casa. A quel tempo conduceva un “gippone” un po’ preistorico, una specie di furgone per trasporto persone con motore di jeep, che permetteva di salire la ripida strada carreggiabile ancora provvisoria, in terra e ghiaia, che portava “al monte del Signore”.
Dicevamo per scherzo che passava più tempo dal meccanico Giorgio, giù a Possagno, a riparare il gippone suddetto, che a viaggiare.
Più tardi, ritornato alla casa-madre di Venezia, prestava la sua operosa attività nei servizi domestici e a volte gli si domandava se non sentisse la mancanza del gippone e di una vita di maggior movimento come a Possagno. Ma fratel Italo rispondeva serenamente, con il solito sorriso. Un giorno mentre lavorava, la mattina del 29 dicembre 1961, un tragico incidente di lavoro del tutto imprevisto lo ridusse in fin di vita, nel cortile piccolo (a quel tempo non era ancora un giardino, ma un cortile di ricreazione per le elementari e, al pomeriggio, per i seminaristi liceali e teologi, che vi giocavano a pallavolo), tra la studentato a la casa della comunità.
Trasportato rapidamente in ospedale, dopo pochi giorni di agonia, avendo sopportato con forza d’animo atroci dolori, e nonostante tutte le cure mediche e chirurgiche tentate dai medici dell’ospedale civile di Venezia, passò piamente da questa vita il 3 dicembre 1961, all’età di trentun’anni. Il suo corpo, celebrati i funerali, fu sepolto nel cimitero di Pontecasale, suo paese natale, a richiesta della famiglia.
Così narra il nuovo rettore, P. Luigi Ferrari, nel diario della casa di Venezia:
“Questa mattina è successa una disgrazia. Fra Italo Guzzon è stato ferito gravemente al petto e all’addome”. “Portato in camera, venne assistito prima da P. Mansueto Janeselli, poi dal dottor Todesco Vittorio chiamato d’urgenza. Per consiglio del dottore, il P. Rettore lo confessò e gli amministrò per breviorem l’estrema unzione. Assieme a fra Olivo [Bertelli] il P. Rettore accompagnò il paziente, con una lancia, all’ospedale civile. Il P. Preposito [P. Panizzolo] aveva già avvertito per telefono il Direttore dell’ospedale, dott. Mauer.
All’ospedale il malato fu trovato grave assai per la profondità delle ferite. Fu subito operato (…) dal Prof. Romani. (…) Si sta questa sera aspettando con ansia la piega della reazione del corpo del fratello operato. Speriamo che la Madonna ce lo conservi e lo faccia guarire presto”
E il giorno dopo il buon P. Luigi scrive: “I fratelli laici si danno il cambio per assistere fra Italo all’ospedale. I dottori ancora non si pronunciano sulla situazione del ferito che permane sempre grave. Verso sera riscontrano un miglioramento che fa sperare! (…) Il 1° dicembre: “Il fratello ammalato pare vada migliorando. Però i medici non si pronunciano. È continuamente assistito dai fratelli laici e dai Padri liberi dalla Scuola. Questa notte veglia il malato il P. Rettore. Fra Italo passa la notte a momenti calmo, a momenti irrequieto. Durante il giorno è tranquillo, tanto che il P. Rettore è quasi dell’idea che non sia necessaria la veglia notturna. Però verso sera telefono dall’ospedale che è bene sia assistito anche la prossima notte. Va a fare l’assistenza notturna il P. [Marino] Scarparo.”
Il 3 dicembre P. Ferrari scrive: “Oggi 1ª Domenica di Avvento. Alle ore 9 fra Roberto Feller telefona dall’ospedale che è bene che fra Italo sia assistito da un padre, perché il prof. Romani lo ha trovato più depresso. Va il P. [Amedeo] Morandi, il quale alle 11 telefona all’Istituto che il malato peggiora”. Il rettore subito dopo pranzo va all’ospedale (…). Il P. Rettore trova il malato molto depresso e sente dal personale che c’è poco da sperare. Alle ore 16 l’ammalato è messo sotto la campana dell’ossigeno. Alle 16.30 arriva all’ospedale il P. Preposito il quale assiste il paziente e lo va preparando alla morte. Però il Viatico non è possibile amministrarglielo. Il suo corpo non riceve più nulla. Alle ore 19 circa P. Pozzobon Valentino dà il cambio al P. Preposito, che ritorna rapidamente all’Istituto per cenare e poi ritornare. Appena arrivato per telefono avvertono che fra Italo è entrato in agonia. Il Preposito ritorna in fretta e assiste col P. Valentino alla morte di fra Italo. Egli cessa di vivere alle ore 21.15. Domani 4 dicembre compiva 32 anni!”. (…) Alle ore 23.45 ritornano dall’ospedale i due padri! Durante il rosario della sera la Comunità era stata avvertita del rapido declino e prima di lasciare l’oratorio vennero recitate le litanie degli agonizzanti. Dopo cena tutti erano in attesa della notizia triste che arrivò alle 21.15. Che il Signore accolga nel suo paradiso l’anima del buon Confratello.” Fratel Italo morì dunque la sera del 3 dicembre 1961.
Il 6 dicembre il DV descrive lungamente il funerale celebrato nella chiesa dell’ospedale, alla presenza di tutti i confratelli di Venezia e da altre case, e di 120 ragazzi delle scuole.
Nessuno di noi che si trovava nella casa di Venezia in quei giorni dimenticherà quel tragico incidente di lavoro – se così si può dire – accaduto il 29 novembre e i tristi giorni seguenti! E nessuno dimenticherà la semplicità, la bontà, il sorriso, l’amicizia di fra Italo, né le lacrime che abbiamo versato alla sua morte.
7.32 P. Michele Busellato
Nato a Thiene, diocesi di Padova ma provincia di Vicenza, il 15 settembre 1890. Entrò in comunità il 16 ottobre 1907. Vestì l’abito Cavanis l’8 dicembre 1907; emise la prima professione triennale il 18 dicembre 1908; la professione perpetua il 21 aprile 1912; ricevette la tonsura il 21 maggio 1910 nella chiesa di S. Agnese; i quattro ordini minori, tutti insieme, il 25 luglio 1912; la sua carriera di studi teologici fu interrotta per qualche tempo quando venne richiamato alle armi per quasi sei mesi dopo l’inizio della guerra, il 15 dicembre 1915, ma, dopo una lunga e pesante peregrinazione per gli ospedali militari d’Italia, fu rinviato provvisoriamente a casa in convalescenza per questioni di salute e potè rientrare in Istituto nel maggio o giugno 1916. Stava peggio di quando era partito dalla comunità per recarsi alla visita medica e poi via via ai vari ospedali militari.
Fu allora, dopo opportuni esami, ordinato suddiacono il 17 giugno 1916; diacono il 18 giugno consecutivo; e prete il giovedì 22 giugno 1916, solennità del Corpus Domini, in S. Agnese.
Si noti che, per amabile concessione della santa Sede e totale disponibilità del Patriarca Pietro La Fontaine, ma anche per un po’ troppo di fretta, furono saltati gli interstizi e in cinque giorni soltanto il P. Michele Busellato ricevette tutti e tre gli ordini maggiori, dallo stesso patriarca: il suddiaconato e il diaconato in forma privata nella cappella del patriarchio; il presbiterato, come si diceva, in S. Agnese. Erano, si potrebbe dire, ordinazioni di tempo di guerra, o di formula 1! Con qualche dubbio sulla validità di questo processo d’urgenza, nel caso particolare.
Sono conservate la lettera di richiesta del preposito P. Tormene al patriarca, chiedendo di profittare di una licenza per dare tutti insieme gli ordini, e la laconica risposta del card, La Fontaine: “Venezia 22 maggio 1916. Car.mo Padre, Tutto considerato, mi pare che si possa procedere all’ordinazione del Ch. co Busellato, senza preoccupazioni. Sarei quindi d’avviso che Ella lo facesse preparare. Con auguri benedic. Aff.mo in G.C. + Pietro Patriarca”.
Una lettera testimoniale del preposito al patriarca, per le ordinazioni agli ordini maggiori, presenta nel secondo foglio un interessante, dettagliato e completo curriculum studiorum di Michele, che non abbiamo quasi mai degli altri religiosi, di mano della stesso preposito.
Dopo l’ordinazione presbiterale, dovette ripresentarsi al distretto militare, e fu definitivamente riformato il 25 agosto 1916, per motivo di salute insufficiente. Per quanto riguarda la sua preparazione alla scuola, sebbene abbia esercitato il ministero di educatore nella scuola informalmente anche prima, ricevette il titolo di maestro elementare nella Scuola Normale il 26 ottobre 1920. Quanto alla sua residenza, lo troviamo lungamente a Venezia, dal 1916 al 1931 (o più probabilmente dal 1916 al 1928); a Porcari dal 1928 al 1933; di nuovo a Venezia dal 1934 al 1941; a Porcari dal 1941 al 1946; al probandato di Vicopelago e S. Alessio dal 1946 al 1949; nel probandato di Possagno dal 1949 al 1961. Da vari anni i formatori dei nostri probandati suggerivano ai superiori che P. Michele, pur con le sue virtù religiose e capacità artistiche, non era persona adatta per l’attività di formatore (o anche come presenza) nei seminari, a causa dei suoi problemi psicologici e di personalità; eppure vi rimase lungamente. Nel 1961 tuttavia i superiori si decisero tardivamente a trasferirlo alla comunità del collegio Canova a Possagno, dove rimase fino alla morte nel 1966, con certezza almeno fino al 1962.
Prestò la sua attività diligente e operosa in queste varie case, esperto specialmente nell’insegnamento del disegno; molto preparato in musica, compose alcuni inni. Fu scelto come uno di membri del comitato che preparò le celebrazioni del centenario dell’erezione canonica dell’Istituto (2 maggio 1938).
Il necrologio di Congregazione lo loda giustamente come uomo di grande mansuetudine e umiltà e ricorda che diede ai confratelli splendidi esempi di osservanza delle regole e di atti di pietà. Bisogna aggiungere che fu uomo colto, amante dello studio, di ingegno pronto, penetrante e versatile, come ricordava P. Pellegrino Bolzonello nell’elogio funebre. Soffrì molto tuttavia di varie infermità, soprattutto di un blocco psicologico che gli rendeva difficile il contatto con il mondo contemporaneo e con le persone, con i mezzi di comunicazioni sociali. Ebbe seri problemi di estrema ansietà, depressione e dolorosi scrupoli di carattere religioso e morale, che lo fecero molto soffrire. E soffrire anche gli altri. Al fine si addormentò nel Signore il 28 luglio 1966, nell’ospedale di Treviso, nel settantacinquesimo anno di età.
Il suo corpo, trasportato a Possagno, fu accompagnato dal compianto dei confratelli e fu sepolto nella cappella costruita per i sacerdoti e per i religiosi Cavanis nel cimitero di quel paese.
7.33 P. Antonio Eibenstein
Il necrologio di Congregazione recita così a proposito di questo nostro notevole confratello:
“Nato a Venezia, nostro sacerdote professo, dotto nelle belle lettere, dotato di ingegno acuto e di gentilezza, istruì i fanciulli e i giovani specialmente nelle scuole secondarie. Per molti anni consecutivi tenne l’ufficio di Rettore a Porcari, a Possagno e a Roma, sostenne anche per sei anni quello di definitore.
Distintissimo per pietà, per zelo delle anime e per ministero della predicazione, colpito da una improvvisa e insanabile malattia, spirò nel Signore [il 21 Marzo 1967]. I confratelli, gli alunni, gli ex-alunni e grande concorso di fedeli resero solenne il suo funerale. Il suo corpo è stato tumulato a Possagno, nel cimitero del luogo”.
Quanto sopra, non dice molto di P. Eibenstein, secondo quanto era di consuetudine nei laconici necrologi ufficiali dall’inizio della Congregazione, fino almeno a questa data del 1967. E tuttavia c’era già un certo progresso: si erano superate le due o tre righe.
Antonio Eibenstein era nato a Venezia il 6 marzo 1904, da Antonio e Margherita Garavaglia, era stato allievo dell’Istituto Cavanis a Venezia nelle scuole tecniche (prima aveva frequentato le elementari nelle scuole comunali), e in particolare era stato allievo di P. Tormene; a quest’ultimo Antonio il 10 marzo 1918 aveva diretto richiesta di entrare in Istituto come aspirante; P. Tormene gli risponde per iscritto il 13 marzo, dichiarando di accettarlo ben volentieri, ma chiedendo che i genitori, data la situazione grave del momento, con le incursioni aeree e il pericolo di invasione di Venezia da parte delle forze armate austriache, gli facessero avere una lettera a scanso di responsabilità, prima di partire da Venezia come profughi. Sembra di capire che i genitori volessero lasciare il figlio Antonio a Venezia con i padri, forse anche perché non perdesse la scuola. Di fatto tuttavia Antonio entrò in probandato l’11 febbraio 1919, a guerra finita. Era stato profugo con la famiglia a S. Marcello Pistoiese, da dove, come dice la stessa pagina del diario, scriveva continuamente ai padri riaffermando la sua volontà di entrare in Istituto.
Vestì l’abito dell’Istituto il 24 ottobre 1920; visse l’esperienza del noviziato a Venezia nell’anno 1920-1921 ed emise i voti temporanei il 25 ottobre 1921. Nell’ottobre 1922 dette inizio al liceo Cavanis di Venezia, come unico studente liceale religioso, e gli fu associato un unico alunno esterno, tale Francsco Angelini. Fece la professione perpetua a Venezia il 21 novembre 1925. Da giovane, almeno, firmava la sua corrispondenza con P. Augusto Tormene, il preposito generale, con la forma diminutiva veneziana “Toni” o Tonin”, e così senz’altro era chiamato in gioventù, ma non nei tempi di cui chi scrive si ricorda, ossia dal 1950 in poi.
Ricevette la prima tonsura clericale il 5 aprile 1924 nella basilica patriarcale di S. Marco; gli ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 22 giugno 1924 nella chiesa di S. Agnese; l’esorcistato e l’accolitato il 20 novembre 1925 nella cappella del Patriarchio. Fu ordinato suddiacono il 18 luglio 1926 al Redentore; diacono il 18 dicembre 1926, nel patriarchio di S. Marco; presbitero il 4 aprile 1927. Per qualche motivo, era stato ordinato in anticipo, con la dispensa per difetto d’età, per 16 mesi e quattro giorni, dalla Congregazione dei religiosi.
Passò i primi anni come assistente di disciplina a Possagno (1927-1931); il periodo 1931-1934 come insegnante a Venezia e il 1934-1937 a Possagno in Collegio Canova; nel frattempo si era laureato in Lettere a Padova, difendendo la tesi “ Leonardo Giustinian. Un Laudese veneziano”.
Dal 1° agosto 1931 fu inviato dal preposito P. Aurelio Andreatta in Francia per perfezionarsi in lingua francese, e vi rimase un mese. Fu ospite dei Fratelli delle Scuole Cristiane di Les Mées, Basses Alpes, poi presso la stessa Congregazione a Parigi. Era questa una novità, e novità molto opportuna, in Congregazione, per gli insegnanti di lingue; ed era dovuta anche alla riforma Gentile della scuola italiana.
Per lui cominciò un tempo di maggiore impegno essendo nominato rettore e prefetto delle Scuole (preside) a Porcari dal 1937 al 1940, rettore e prefetto delle scuole a Possagno-Canova dal 1940 al 1943. È da notare che fu proprio nel periodo in cui P. Antonio Eibenstein era rettore di queste due case che fu regolarizzata la posizione di queste scuole di Porcari e di Possagno, con il raggiungimento della parifica.
Fu vicario della comunità e naturalmente insegnante a Venezia dal 1943 al 1946, negli anni più duri e tristi della seconda guerra mondiale, quando dovette “salvaguardare gli alunni più grandi richiamati innanzitempo dalle autorità occupanti a prestare servizio militare o di lavoro; interessarsi alle famiglie perseguitate o precipitate improvvisamente nell’indigenza. Ne fanno testimonianza le numerose lettere giunte in occasione della sua morte, piene di ricordi e di affettuosa riconoscenza”.
Nell’autunno 1946 lasciò Venezia perché fu destinato e nominato come primo rettore della nuova casa di Roma-Torpignattara; in questa fase (1946-1949) dovette trattare molti aspetti burocratici e amministrativi della difficile impresa, soprattutto in ciò che riguarda gli stretti e frequenti rapporti con la S. Sede.
Fu poi prefetto delle scuole, insegnante di lettere – come sempre – e 2° consigliere a Venezia dal 1949 al 1951; fu a Possagno ancora una volta, dal 1951 al 1958 essendo qui anche vicario e 1° consigliere dal 1953 al 1955. Durante il mandato di P. Gioachino Tomasi come preposito generale, P. Antonio fu consigliere generale, dal 1955 al 1961. Lo troviamo a Venezia dal 1958 al 1961, ancora a Possagno dal 1961 alla morte, avvenuta come si diceva il 21 marzo 1967. Ma con qualche dubbio sugli anni 1965-67, in cui non mi risulta nelle tabelle di questo libro, presente in nessuna casa. Probabilmente, già ammalato, era ancora a Possagno come negli anni precedenti e come nella malattia finale e morte.
Personalmente ricordo P. Eibenstein non come insegnante ma come prefetto delle scuole a Venezia, al tempo in cui cominciai a frequentare le medie all’Istituto Cavanis. Molto severo ed esatto in tutto, esigeva rispetto degli orari e della disciplina. Ricordo che sulla sua scrivania, in direzione, per il resto completamente vuota, c’era soltanto un dizionario italiano aperto, che evidentemente studiava giorno per giorno, per migliorare la lingua italiana che aveva ricca, fluente, degna di un oratore classico.
Vale la pena anche di trascrivere in proposito di questo confratello anche l’articolo: “La cara e buona imagine paterna” (Inf. XV. 83), di P. Attilio Collotto.
“Nella memoria di ognuno di noi, che abbiamo un certo numero di anni, è presente il ricordo di qualcuno a cui diamo con tutto il cuore il nome di « padre ». Non ha forse con noi vincoli di sangue, ma la sua presenza nel nostro clima morale è costante e diventa un termine di paragone cui, anche senza volerlo, facciamo continuamente ricorso; specie se siamo chiamati ad esercitare il ministero di padri, in senso proprio o figurato.
Due anni fa mi trovai con i miei compagni di liceo a celebrare il ventennio della nostra maturità classica; c’erano con noi anche i nostri vecchi (si dice non d’età) insegnanti e padri e la loro compagnia diede tono familiare alla nostra riunione. Ma non c’era il P. Antonio Eibenstein, morto da pochi mesi. Eppure la sua presenza nei nostri discorsi – e nel nostro ricordo – era la più viva di tutte: quella che aveva lasciato in noi un’impronta e un segno che il tempo aveva non cancellato, anzi marcato con maggior evidenza, liberandola da ogni elemento contingente. Eppure il P. Eibenstein non ci aveva fatto scuola che per un anno, e solo di religione e di latino; ma il suo stile si era impresso nella nostra memoria e nel nostro animo in maniera incancellabile. Volerne ora cercare il segreto nei suoi elementi non è facile. La signorilità e l’affabilità, il rigore scientifico dell’insegnamento e l’umanità nel comunicarlo erano doti che in lui trovano un’ideale convivenza e ci facevano toccare con mano la figura di uno che era maestro, prima ancora di essere insegnante. Mi diceva uno dei miei amici di quei tempi: « Potrò anche aver dimenticato quello che il P. Antonio mi ha detto della egloga IV di Virgilio, ma non potrò dimenticare il modo con cui mi ha fatto sentire che essa è una ricchezza per lo spirito umano di tutti i tempi. Ed io sono diventato per le sue parole più uomo ».
Questa disgressione non vuole essere un panegirico, che sarebbe ben poca cosa; è solo un esempio del modo con cui noi abbiamo sentito la paternità del P. Antonio Eibenstein; umanità che si è trasmessa a noi per virtù di una educazione che ci ha resi più uomini, suscitando la nostra responsabilità e comunicandoci la sua ricchezza. Ora io, padre Cavanis, riconosco in lui e negli altri che mi hanno fatto scuola coloro che mi hanno comunicato questa ricchezza di paternità con cui cerco di esercitare il mio ministero, e ho sentito e sento nel P. Antonio una concreta realizzazione di quel comando della nostra regola « andare ai giovani con amore paterno », non perchè possa trovare in lui delle « regole», ma perchè posso trarne uno «spirito».
Un discorso di questo tipo può essere fatto da molti e per molti altri; e devo dire che l’ho sentito da uomini, giovani ed anziani, a proposito di numerosi padri del nostro Istituto; il che significa che la tradizione della paternità va ricercata in una matrice che nel tempo risale ai nostri Fondatori «veri padri della gioventù» al loro stile educativo, all’esempio e alle esortazioni lasciate ai loro figli.
Ogni titolo di paternità viene dal « Padre nostro che è nei cieli »; e sarà tanto più valido, quanto più si avvicina al modello divino. Questo intesero i nostri Fondatori e questo tradussero in pratica con l’istituire una Congregazione religiosa ove i fanciulli e i giovani trovassero non « soltanto il maestro, ma il padre », « un paterno asilo amoroso », « una grande famiglia, in cui i maestri la fanno da padri solleciti ed amorosi» (e le citazioni potrebbero continuare per molto). E nelle regole lasciarono scritto come primo comando di apostolato per i loro figli: «A questo fine principalmente è stata istituita la Congregazione delle Scuole di Carità, perchè i suoi membri esercitino verso i giovani non tanto il compito di maestri, quanto di padri».
La paternità non si impara con delle leggi: nel senso pieno della parola, uno è padre non perchè conosce le leggi della procreazione in senso fisiologico, e le mette in pratica, ma perchè si assume liberamente una responsabilità di ordine morale; in questo senso diciamo che il nome di padre spetta solo all’uomo e non all’animale. Così la paternità del maestro non è una serie di norme codificate e tradizionali; non é la sua scienza in sé e per sé; non è la sua fedeltà al dovere; non é il suo stare con i ragazzi per un tempo più o meno lungo. Tutto questo entra nell’ordine di un metodo, che é utile e necessario, ma non é la paternità. Non voglio con questo entrare in polemica con i metodi didattici moderni: io non me ne intendo più che tanto, ma sono sicuro che, se manca il « cuore », tutti i metodi non serviranno a fare l’uomo. Al di là dei metodi e della preparazione, che fanno la didattica, sta la paternità come arte, non scienza, dell’educazione.
E l’arte é frutto dello spirito e della vita, non della legge. E lo spirito e la vita sono l’amore. Dall’amore trae quindi fondamento la paternità. I nostri Fondatori, P. Anton’Angelo e Marcantonio Cavanis, sono guidati in tutta la loro opera dalla Carità, cioè dall’amore: la loro meditazione assidua é la prima lettera di S. Giovanni, le loro parole parlano sempre di amore paterno; la loro Congregazione si qualifica per il titolo di Scuole di Carità. E questa particolare impronta caratteristica è l’eredità dei loro figli; sicché anche la nostra paternità deriva dal titolo della Carità.
Bisogna però uscire dai discorsi astratti e calare questa paternità nel contatto educativo con i giovani: ed é in questa prova che essa rivela la sua vera natura. È facile che i giovani scambino la paternità con l’autoritarismo, e gli educatori con il paternalismo: da simili atteggiamenti deriva il rigetto di ogni educazione, perchè si cade nella polemica. I due aspetti sopra ipotizzati finiscono per essere uno conseguenza dell’altro e per creare una reazione a catena di recriminazioni la cui vittima sarà essenzialmente colui che deve essere educato. In questo senso io parlerei piuttosto di coeducazione: perché, se é vero che la paternità é destinata ad educare i figli, é anche aperta ad essere educata da essi. E qui entriamo davvero nel concreto.
Paternità significa innanzi tutto umiltà: coscienza che la missione è grande, ma non impossibile. Umiltà per accettare il giovane così com’é, senza ipotizzare utopistiche perfezioni o recriminare su naturali limiti. Umiltà per sapere che ciò che conta non è lo sfoggio della nostra sapiènza e della nostra cultura, ma far sì che il giovane diventi pienamente se stesso. Umiltà per essere aperti a sentire quello che egli ci dice e vuole e per renderci conto che abbiamo sempre da imparare. Umiltà per riconoscere che non siamo infallibili nei nostri giudizi, che la realtà cambia, le esigenze sono nuove e noi dobbiamo piegarci ad esse e non pretendere di piegarle a noi. È questa umiltà concreta che i giovani ci chiedono e sanno apprezzare ed accettare come base di un rapporto educativo, dal quale scaturirà che anche essi devono essere umili per poter imparare ed essere educati.
La paternità è dare responsabilità ai giovani. Sarebbe un’immagine piuttosto ridicola quella di un padre che imbocca il figlio di quindici o diciotto anni, perché così intende dimostrare con quanta cura paterna egli lo segue. Ridicola e fallimentare. Compito del padre é di insegnare al figlio, in ordine alla vita fìsica, come deve fare da solo; così nella vita morale e spirituale come si deve saper regolare da solo nelle situazioni che coinvolgono la responsabilità dell’uomo. È bene che teniamo presente questo aspetto della paternità, specialmente con i giovani di una certa età, perché non finiamo per credere che il nostro compito di padri sia fare noi o decidere noi tutto quello che devono fare o decidere essi, per evitare loro i pericoli o le difficoltà. Finiremmo per creare degli inetti o degli abulici. Qualche volta i giovani ci rimproverano, a ragione o a torto, anche questo: di essere usciti dalle nostre scuole fragili, avvolti nell’ovatta, e si sono buscati un raffreddore o, Dio non voglia, una polmonite alla prima corrente d’aria. Esigono quindi una educazione che li metta a contatto con la situazione. Questo comporta dei rischi, ma di essi non ci dobbiamo né spaventare né formalizzare, quando abbiamo fatto il necessario perché vengano affrontati con una coscienza morale sicura. D’altronde, lo vogliamo o no, i giovani esigono questo dai loro padri e tollerano assai malvolentieri un « protezionismo », che sentono come condizionante la loro libertà o come un’umiliazione di fronte ai loro compagni. E dalla nostra scuola, me lo dicevano proprio l’altro giorno a proposito dello sciopero degli studenti delle scuole medie superiori e del pericolo di strumentalizzazione à cui si può andare incontro in casi del genere, si attendono non che li estranei artificiosamente da questa realtà, ma che li educhi ad affrontarla con coscienza onesta e cristiana.
Perché la paternità é anche un riflesso di questa qualifica: la nostra é una scuola cattolica. Ed i giovani accettano coscientemente questo, ma vogliono poi che noi lo diamo loro in maniera concreta: cioè che li educhiamo a vivere cristianamente le realtà del loro tempo, non i sogni e le recriminazioni del passato. Il padre si radica nel passato, ma guarda al futuro, perchè sa che lì é l’avvenire: direi addirittura che nella sua persona il passato e il futuro trovano il loro momento di equilibrata convivenza a preparare l’avvenire per il figlio. Così é della nostra paternità nella scuola: nella parola e nell’esempio del maestro il giovane deve sentire la ricchezza, religiosa morale culturale, del passato a servizio dell’avvenire. « Il regno dei cieli é simile ad un padre di famiglia che tira fuori dal suo tesoro cose nuove e vecchie ».
7.34 P. Giovanni D’Ambrosi
Di Malamocco, diocesi di Venezia, piccolo centro situato in una delle due lunghe isole litoranee che separano la laguna di Venezia dal mare Adriatico, dove era nato da Giovanni D’Ambrosi e Virginia Alberti il 10 ottobre 1880 (oppure 1886?). Il 21 settembre 1895 il diario di Congregazione registra: “I genitori dell’aspirante D’Ambrosi – Dichiarano il pieno loro consenso alla determinazione presa dal figlio di dedicarsi al nostro Istituto”. Assieme ad un aspirante di nome Pancino, che non ebbe poi perseveranza, fu condotto a Possagno dal P. Casara, Vicario, per riunirli agli aspiranti che si trovavano in formazione in quella casa. Vestì l’abito dell’Istituto l’8 dicembre 1897. Emise la professione temporanea il 10 dicembre 1898; la perpetua a Venezia il 15 dicembre 1901.
Ricevette la tonsura e i primi due ordini minori il 23 dicembre 1899 dal cardinal Sarto; i secondi due dallo stesso patriarca l’8 aprile 1901; fu ordinato suddiacono il 3 agosto 1902 dallo stesso; presbitero il 19 dicembre 1903 dal patriarca Cavallari, sempre a Venezia.
Soprattutto zelante della salvezza delle anime, si dedicò con grande ardore e diligenza all’esercizio della scuola, soprattutto come insegnante di disegno, a ricevere le confessioni e nell’assidua attività della predicazione. A questo ultimo proposito, il suo archivio personale, confluito nell’AICV alla sua morte, contiene un grande numero di quaderni di materiale predicato o predicabile, di testi per ritiri e esercizi spirituali, di esortazioni per seminaristi, per preti e per religiose, particolarmente.
Un aspetto particolarmente importante della sua vita pastorale fu l’impegno di formatore nei seminari: fu direttore o pro-rettore del probandato di Possagno, dove tra l’altro ampliò e riformò la bella chiesetta, arricchendola anche con il bel musaico del Cristo re dell’altar maggiore. Si dice che avesse fondato nel probandato il giornaletto “I piccoli fiori della Madonna del Carmine”. In realtà, alla data di fondazione del foglietto, P. D’Ambrosi si trovava come pro-rettore a Porcari.
Fu maestro dei novizi e in tanti altri modi influì, direttamente o indirettamente, sulla formazione di intere generazioni di Cavanis.
Fu rettore del Collegio Canova, e anche qui fondò un piccolo giornale, “Il lievito”. Credeva dunque nella comunicazione.
Venne anche eletto per alcuni periodi consecutivi all’incarico di definitore. Distinto per l’amore alla Vergine fece rinascere nella casa di Venezia la Congregazione Mariana, della quale per alcuni anni fu saggio direttore.
Ma è bene ricordare per ordine le case cui venne addetto e i tempi della sua permanenza in esse e nella varie attività, durante la sua lunga vita.
È stato inoltre:
Si può anche ricordare che, per la sua bella calligrafia (di cui era insegnante come era insegnante di disegno) fu compilatore del diario di nell’ultimo anno del mandato di P. Vincenzo Rossi e durante il mandato di P. Antonio della Venezia.
Ma è più importante ricordare, per lumeggiare la personalità del P. D’Ambrosi, e anche la stima di cui godeva, che, come si è detto sopra , nel 12° capitolo generale ordinario del 1928, in realtà P. D’Ambrosi era stato eletto preposito generale, ma che per un grossolano errore, la sua elezione non fu riconosciuta: si disse e si scrisse “Il P. Giovanni D’Ambrosi non è eletto, non avendo raggiunto la maggioranza assoluta, a norma del Can. 101 del Codice di diritto canonico”. Si è trattato di una svista colossale, perché 4 voti positivi su 7 votanti è maggioranza assoluta (anche nel cn. 101 del CDC del 1917). Viene proposto allora il nome del secondo definitore, ossia P. Giovanni Rizzardo, pure “per fabas”, e questi ottiene sei voti favorevoli su sette, ed è proclamato eletto. Da notare, di passaggio, che, a memoria di chi scrive, P. D’Ambrosi mai si lagnò di questo fatto, né il fatto fu divulgato da lui o da altri, che io sappia. Altri lo avrebbero fatto.
Un’altra cosa di cui P. D’Ambrosi avrebbe potuto lagnarsi, e mai lo fece, è il fatto che mentre P. Zamattio ricevette nel 1920 la croce di cavaliere della corona, per la preziosa opera sociale di guidare la popolazione di Possagno durante il profugato, e la stessa croce di cavaliere era stata promessa anche a lui, non la ricevette, e nessuno si preoccupò di fargliela avere come d’accordo, né da parte delle autorità comunali di Possagno, né da parte della congregazione. Eppure P. D’Ambrosi – a mio giudizio – in questa impresa aveva ben più meriti di P. Zamattio.
Furono rilevanti e interessanti i contatti di P. D’Ambrosi con don Divo Barsotti.
P. Giovanni D’Ambrosi per molti anni fu assistente spirituale delle suore dell’Istituto del Santo Nome di Dio, di cui può ben essere considerato a buon diritto non solo come uno dei principali fondatori, ma propriamente il fondatore dell’Istituto, dato che fu lui a istituire a Porcari nel 1921 la Congregazione mariana femminile e subito dopo una pia associazione femminile più impegnata e radicale, che deve essere considerata la vera partenza dell’Istituto del S. Nome di Dio. Per questa associazione femminile P. D’Ambrosi scrisse un primo piano di spiritualità e le prime regole; per loro ancora redasse il libro di spiritualità “La paternità di Dio” (1953) come pure il libro di spiritualità “Il Santo Nome” (1962), libri che per la verità non ebbero molto successo, essendo piuttosto ostici nei concetti e nella forma. Leggendo le osservazioni proposte da teologi da lui consultati prima di pubblicare questi due libri, si può notare che P. Giovanni aveva diverse difficoltà con la teologia, e che nelle disquisizioni sottili dei suoi manoscritti o dattiloscritti preparatori incorreva in seri problemi.
Era senza dubbio un sant’uomo, totalmente dedicato alla Congregazione, all’educazione dei fanciulli e alla ricerca del Regno di Dio; tuttavia era uomo a parere di chi scrive eccessivamente severo, sia nella scuola, sia tanto più negli ambienti della formazione.
Il 21 gennaio 1964 ebbe la gioia di celebrare in S. Agnese, nel giorno della festa della santa martire, il suo 60° genetliaco o giubileo presbiterale, o, come si dice, la “Messa di diamante”.
Spirò santamente il 30 dicembre 1968, munito dei sacramenti, nell’ottantesimo anno non ancora compiuto di età, offrendo straordinari esempi di pietà, di osservanza delle regole e specialmente nel sopportare la malattia.
Mons. Giovanni Battista Piasentini vescovo della diocesi di Chioggia, onorò il suo funerale e ne tessé splendido elogio. Il suo corpo attende la beata risurrezione a Venezia nel cimitero di S. Michele; dopo un conveniente tempo di inumazione nel campo degli ecclesiastici e religiosi, le spoglie furono trasferite con quelle di altri confratelli nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo.
7.35 P. Augusto Taddei
Augusto nacque a S. Lucia di Uzzano (in provincia di Pistoia e in diocesi di Pescia) il 3 dicembre 1931. Fu uno dei primi aspiranti nel seminario dei padri Cavanis in Toscana, a Sant’Alessio, che era stato aperto da poco, nel 1940.
Vestì l’abito dell’Istituto il 17 ottobre 1948, compie a Possagno in casa del S. Cuore l’anno del noviziato (1948-49) ed emette la sua prima professione religiosa il 24 ottobre 1949. La sua professione perpetua fu presumibilmente nell’autunno del 1952.
Nell’ottobre 1955, con i confratelli Angelo Moretti e Feliciano Ferrari, ancora chierici, si trasferisce a Roma, in via Casilina, dove i tre cominciano a compiere il corso completo degli studi teologici presso la Pontificia Università Lateranense.
Pur compiendo gli studi teologici a Roma, compì a Venezia, ivi richiamato dai superiori volta per volta, tutti i passi verso l’altare: ricevette la prima tonsura il 30 novembre 1952, i primi due ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 6 marzo 1955, i secondi ordini minori dell’esorcistato e accolitato il 24 settembre 1955; il suddiaconato, nella cripta della basilica di S. Marco, il 17 dicembre 1955; il diaconato nella basilica di S. Marco il 17 marzo 1956. L’ordinazione presbiterale la ricevette per l’imposizione delle mani del Patriarca Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi San Giovanni XXIII, nella chiesa di Santa Maria di Nazareth, detta degli Scalzi, a fianco della stazione ferroviaria di Venezia, il 24 giugno 1956. Dallo stesso patriarca Roncalli aveva ricevuto tutti gli altri ordini.
Ottenne ben presto il titolo accademico della Licenza in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense, che frequentava dal 1955, e, tramite la legge sull’equipollenza, ottenne l’abilitazione per l’insegnamento delle Lettere; e per più di quindici anni fu insegnante di lettere ed educatore nelle scuole degli Istituti Cavanis di Roma-Casilina (1956-57), di Possagno, collegio Canova (1958-62), di Porcari (1962-67) e del Probandato di Possagno (1967-1970): amato dagli allievi e dai seminaristi che non trovavano pesante la scuola con lui, anche se per principio sapeva essere esigente, convinto che la vera educazione si fonda sul sacrificio; era benvoluto dagli ex-alunni che ritornavano spesso a fargli visita, non per un ricordo vago che talora si conserva degli anni che ci videro scolari, ma perché le lezioni della vita che essi ricevevano, venivano man mano confermando la validità di quelle che P. Augusto impartiva nella scuola, attingendole nel Cuore di Cristo il Maestro buono; era amato e si direbbe anche preferito dai professori laici che collaboravano con i padri: sapeva infatti produrre e mantenere con gioia sia con i colleghi sia con gli alunni un’atmosfera di famiglia e di amicizia personale. Di qui la genuinità e l’efficacia della sua opera modellata sullo stile di vita che i Padri Antonio e Marco Cavanis vollero per le loro scuole e aiutata da una sua particolare sensibilità per quello che è l’ambiente e il significato della famiglia sia in campo umano, sia in quello religioso e scolastico.
Fu chiamato dai superiori a reggere la famiglia del seminario minore della Congregazione in Possagno. Fu un compito che accettò con trepidazione; che portò avanti per tutto il triennio 1967-70, con generosità e competenza, anche se talvolta manifestava il dubbio, quasi il timore che fosse un compito assai superiore alle sue forze, alla sua buona volontà. Comprendeva quale grande responsabilità sia davanti a Dio, prendersi cura di quelli che sono da lui chiamati alla vita sacerdotale e religiosa; sentiva profondamente il problema delle vocazioni e il suo intervento durante il Capitolo Generale Speciale cui partecipavamo insieme, ci disse tutta la sua ansia in proposito.
Nella vita di ogni giorno del nostro Seminario vedemmo brillare la sua capacità di organizzatore che nulla lascia di intentato, la bontà del suo animo per cui i giovani sentivano di poter instaurare un dialogo veramente proficuo con chi è superiore e ogni categoria di persone si trovava a suo agio nel trattare con lui; le attenzioni quotidiane per tutti, padri e ragazzi, affinché pur nella povertà che professiamo non ci mancasse non solo il pane di ogni giorno, ma neanche il fiore che rallegra lo sguardo e lo spirito, il divertimento che rinforza le energie, la parola che rasserena il cuore; e per sé prendeva la parte più pesante del lavoro, l’orario più ingrato, il mezzo più scomodo.
Durante la seconda sessione del Capitolo generale straordinario speciale era stao membro della commissione per la formazione dei membri dell’Istituto. Durante la seconda sessione di questo importante capitolo di riforma della congregazione, nella domenica 9 agosto 1970 il carissimo Padre Augusto Taddei moriva improvvisamente e in modo del tutto imprevisto. Quella mattina molto per tempo, all’alba, egli si dirigeva in lambretta da Possagno a Volpago del Montello (Tv) per celebrarvi la santa Messa domenicale e attendere al ministero delle confessioni. Sulla strada Feltrina, all’altezza di Nogarè di Crocetta, cadeva dal motoscooter a causa di un tronco d’albero che, caduto durante la notte a causa di un temporale, ostruiva la carreggiata. Trasportato immediatamente all’ospedale di Pederobba, i sanitari gli riscontravano la frattura della base cranica e lo giudicavano con prognosi riservatissima: in serata, nonostante le cure prodigategli, P. Augusto spirava tra lo strazio dei parenti, subito accorsi da Pistoia, e dei confratelli: lo amavamo molto.
Il funerale si svolse nel Tempio Canoviano di Possagno il martedì 11 agosto e fu imponente per la partecipazione del popolo di Possagno e di un gruppo di ex-allievi di P. Augusto, ma soprattutto per la presenza veramente straordinaria di Sacerdoti: trentacinque di essi concelebrarono la S. Messa funebre presieduta dal P. Orfeo Mason, Preposito Generale dell’Istituto.
Oltre ai confratelli presenti a Possagno per il Capitolo Speciale, di cui P. Taddei era membro stimato, e a quelli venuti in rappresentanza di tutte le case dell’Istituto, presero parte alla liturgia di suffragio numerosi religiosi e sacerdoti della Pedemontana, legati alla Congregazione Cavanis e al Padre Augusto da lunga consuetudine di vita e collaborazione nel campo delle vocazioni ed in quello pastorale. Significativa la presenza del Vicario generale della diocesi di Treviso, Mons. Guarnier, in rappresentanza del Vescovo, e quella di monsignor Piasentini (Cavanis) Vescovo di Chioggia, che impartì l’assoluzione finale alla salma del caro padre.
Difficile non ricordare, per chi c’era, l’insieme di fede, di speranza e di dolore autentico, che provammo nel funerale di questo giovane e caro padre, mentre cantavamo uno dei nuovi canti post-conciliari, con voce commossa e con lagrime, “Rallegrati, Gerusalemme, raccogli i tuoi figli, nelle tue mura!”.
Capitoli delle colpe
Un tempo, da noi come in molti altri istituti religiosi, si faceva in cappella di comunità, ogni venerdì, il capitolo delle colpe, che era in fondo una specie di auto-correzione fraterna. In essa, ogni religioso, in ginocchio in mezzo alla cappella, si accusava di una colpa minore, esterna o contro le regole e riceveva una modesta penitenza dal rettore. Se ci fossero in casa dei seminaristi, come accadeva sempre a Venezia, questi si accusavano per primi, uno per uno, e poi tutti insieme uscivano dalla cappella; in seguito, si accusavano i fratelli laici e uscivano a loro volta; i religiosi sacerdoti si accusavano per ultimi.
I seminaristi poi potevano essere inviati, in caso di qualche fallo più rilevante, ad accusarsi nel refettorio dei padri; il che era piuttosto sgradevole. Nel caso, il seminarista (tra cui chi scrive) si inginocchiava in mezzo al refettorio, finite le preghiere di rito e la lettura spirituale che vi si faceva, e si “accusava”. Si raccontano a questo proposito delle cose divertenti.
Una volta un tale confessò: “Mi accuso di aver rotto un vetro”. Al che, P. Francesco Saverio Zanon, che era anche direttore del gabinetto di fisica e chimica e del museo didattico di scienze naturali, battè il pugno sulla tavola e disse: “Non era un vetro, era un prezioso strumento scientifico!”. Probabilmente il malcapitato avera rotto una lente, un becker o una storta. Era pur sempre di vetro, ma la sua accusa aveva il difetto del minimalismo. Da notare che era solo il rettore (e P. Zanon non lo era) che poteva intervenire, eventualmente commentare, ma in genere dava solo una piccola penitenza.
Un altro seminarista si confessò di aver rotto la testa a S. Giuseppe; naturalmente si trattava di un incidente con la statua di gesso di questo grande santo, ma la cosa suscitò una grande risata tra i presenti. In un altro caso uno dei giovani disse “Mi accuso (questa era la formula in uso) di aver perduto la pazienza”. Il rettore domandò: “Com’è che hai perso la pazienza, con il P. Maestro, con i confratelli chierici, con i bambini?” E il chierico rispose, “No, Padre, ho perso la pazienza di stoffa, dell’abito religioso”. Aveva lasciato in giro e smarrito il nostro caratteristico scapolare, che si chiamava appunto “pazienza”.
La cosa più divertente fu quando uno si accusò in refettorio dicendo: “Padre, mi accuso di aver saltato il morto”. La cosa richiedeva anche qui una spiegazione, non essendo immediatamente chiara. La mattina, alla fine della meditazione di comunità, si ricordano i nomi dei confratelli defunti di cui si fa anniversario; a quel tempo, a Venezia, un chierico era incaricato di leggere i nomi dei defunti di quel giorno, e per loro si pregava insieme (oggi con la formula “Accoglilo (-li) nell’assemblea festosa dei tuoi santi”) e poi lo o li si ricordava nella santa messa. E il povero chierico aveva appunto dimenticato il suo incarico e quindi aveva, in qualche modo “saltato il morto”.
7.36 P. Alessandro Vianello
La famiglia Vianello, veneziana, poco prima della nascita di Alessandro, si era dovuta trasferire per un breve periodo a Zelarino per motivi di lavoro del padre, che era impiegato, e fu là che Alessandro nacque il 27 luglio 1892. La sua famiglia poco dopo ritornò a Venezia. Ricordo che P. Alessandro, quando parlava del suo luogo di nascita o doveva declinare i suoi dati anagrafici per motivo burocratico, dopo aver detto: “Sono nato a Zelarino il 27 luglio 1892”, amava soggiungere: “Sono nato a Zelarino per caso”. Delle volte noi giovani lo prendevamo amabilmente in giro, scherzosamente e con tutto il rispetto, domandando se era “nato per caso”; ed egli allora rideva, e diceva puntualmente: “Il ‘per caso’ si applica al luogo di nascita, non al verbo!” Ci teneva naturalmente ad essere veneziano d.o.c., come la sua famiglia, e non di Zelarino.
Alessandro seguì con docile prontezza la vocazione alla vita sacerdotale e religiosa, sbocciata durante il curriculum scolastico che aveva seguito nelle scuole dei Cavanis a Venezia. Entrato in Istituto come aspirante nell’ottobre del 1910, a diciotto anni, compì la sua regolare ed esemplare formazione religiosa, attraverso le consuete tappe della vestizione, celebrata il 12 novembre 1911 nella chiesa di S. Agnese, e della prima professione nel 1913. Aveva ricevuto anche la tonsura, assieme a quattro confratelli Cavanis, dal patriarca Aristide Cavallari nella cappella del Patriarchio il 12 dicembre 1912.
Si preparava a fare la professione perpetua nel 1915, e i superiori pensavano di ammetterlo, ma desistettero quando fu chiaro che Alessandro sarebbe stato costretto alla vita militare. Così l’adesione improvvisa dell’Italia alla prima guerra mondiale, il richiamo alle armi, inizialmente nel reparto Sanità, interruppe bruscamente per lui, come per parecchi religiosi, anche dei Cavanis, il suo normale iter. In seguito passò in fanteria, reparto ben più pericoloso; compiuto successivamente, in modo obbligatorio, il corso ufficiali, dato che aveva fatto la licenza liceale, fu promosso sottotenente di fanteria, ricevendo anche 5 giorni di licenza premio, che passò in comunità e con la famiglia a Venezia. Cominciò allora la sua dura e molto pericolosa esperienza come sottotenente di fanteria in trincea, anche in prima linea sul fronte dell’Isonzo, in un corpo speciale, e specialmente pericoloso, di lancia-torpedini: si trattava di corpi che, in prima linea, a breve distanza dalle trincee e fortificazioni nemiche, lanciavano bombe da trincea con mortai, allora chiamati appunto lancia-torpedini.
Venne fatto prigioniero sull’altopiano della Bainsizza, in occasione della disfatta di Caporetto, e dopo un primo smistamento fu condotto e rimase all’incirca per un anno nel campo di concentramento di Sigmundscherberg in Austria, fino alla fine della guerra e alla vittoria dell’Italia.
Si può dire che la sua vocazione in genere, e in specie per l’Istituto Cavanis, uscì rafforzata e maturata nella sofferenza durante il tragico periodo del suo servizio militare e della prigionia nella guerra mondiale 1914-1918. Sulla sua durissima esperienza bellica, come ufficiale di fanteria, e sulla sua prigionia, parleremo più specificamente nel capitolo sulla grande guerra, citando ampiamente il suo diario di guerra e di prigionia.
Troviamo nel diario della Congregazione, tenuto dal P. Augusto Tormene, alcune interessanti annotazioni che sottolineano costantemente la bontà, la pietà, l’amore all’Istituto del giovane chierico-soldato Alessandro, o, come lo chiama a più riprese P. Augusto Tormene nel diario di Congregazione, Sandrino, virtù manifestate nelle sue lettere e cartoline dal fronte o dalla prigionia: «Ha il cuore e il pensiero sempre al suo Istituto» si legge per esempio in data 12 dicembre 1915.
Sandrino ritornò a Venezia dalla prigionia l’11 novembre 1918, lo stesso giorno dell’armistizio tra gli alleati dell’Intesa e la Germania, in condizioni piuttosto precarie di debolezza e di denutrizione e, come si vide dopo, anche di vera malattia nervosa permanente e cronica. Dopo aver espletato ancora alcuni lunghi obblighi di carattere militare, sia per controllo e cura della salute, sia per interrogatori, che oggi si chiamerebbero debriefing, con grande gioia riprese il suo abito Cavanis e il cammino nella vita religiosa e verso l’ordinazione presbiterale. Il 21 dicembre 1918 il patriarca di Venezia cardinale Pietro La Fontaine conferiva nella sua cappella privata nel Patriarchio gli ordini minori dell’Ostiariato e del Lettorato; e il 2 febbraio del 1919 quelli dell’Esorcistato e dell’Accolitato al chierico Alessandro, reduce dalla guerra sul fronte dell’Isonzo e dalla prigionia.
Avrebbe dovuto professare i voti perpetui come si diceva già nel 1915, ma dato che erano allora imminenti la guerra e la chiamata alle armi della sua classe del 1892, tale data fu ritardata; emise dunque la professione perpetua solo il 23 febbraio 1919; erano ai suoi fianchi come testimoni “i compagni di milizia” e giovani religiosi Cavanis Pellegrino Bolzonello e Giovanni Battista Piasentini.
Il 7 febbraio 1919 ritornò da Firenze, completamente esonerato finalmente dal servizio militare, dopo aver avuto tuttavia ancora delle difficoltà e dei cavilli da parte del distretto di Verona. “Così la grazia ottenuta per l’intercessione del P. Marco è completa!”, annota P. Tormene, nello stesso giorno.
Tempo prima in una riunione di comunità aveva riferito ai confratelli, per conto del chierico Vianello, “la grazia da questi ottenuta per l’intercessione del P. Marcantonio, al quale chiese, dopo il ritorno dalla prigionia – quando dovette ripresentarsi al suo Comando – di poter ritornare in Congregazione per l’Immacolata e non dover più smettere l’abito [religioso]”. Aveva chiesto contemporaneamente al P. Anton’Angelo la grazia di ricuperare completamente la salute.
In realtà, se guarì per il momento, rimase però debole e malaticcio – anche se sempre attivo e santamente disponibile – per tutta la vita e, a parte la malattia nervosa di cui si parlerà, soffrì spesso di lunghe fasi acute di febbri.
Alessandro ricevette il suddiaconato domenica 31 agosto 1919 nella basilica di S. Marco, e pure a S. Marco fu ordinato diacono il 20 dicembre 1919. Fu ordinato finalmente prete, veneziano e Cavanis, il 20 marzo 1920 in S. Marco dal patriarca, con solenne pontificale, assieme ad altri ordinandi diocesani e religiosi. Il sacerdote di Verona Don (e San) Giovanni Calabria gli inviava questo telegramma: «Auguri di gran santità». Noi, che conoscemmo bene P. Alessandro, possiamo dire che Don Calabria fu buon profeta.
Compiuto il ciclo della sua formazione culturale e letteraria con la laurea in lettere all’università di Padova, con una tesi su S. Paolino da Nola, difesa il 14 novembre 1930, profuse le sue belle doti di mente e di cuore nell’insegnamento di materie umanistiche nelle scuole inferiori e poi superiori dei nostri istituti.
Tutti i suoi scolari del ginnasio possono ricordare quanto egli si infiammava, quanto il Suo animo godeva nel leggere Dante e Manzoni, ma soprattutto il Manzoni, perché certamente a lui più congeniale nello spirito di moderazione e di umana e cristiana mitezza. Egli, laureato in Lettere, portava una squisita e rara sensibilità nelle letture e nello studio di quegli autori che gli presentavano un mondo dove — in ultima istanza — trionfa non la prepotenza e l’egoismo, ma la bontà, la giustizia, l’altruismo, la cristiana carità.
Lo troviamo successivamente nelle seguenti case e cariche: appena ordinato prete, come assistente degli aspiranti nel collegio Canova, dal 1921 (forse dal 1920) al 1928; a Venezia dal 1928 al 1930; un anno a Porcari (1930-31); a Possagno-Canova dal 1931 al 1937; a Porcari dal 1937 al 1943; però è da notare che dal 1941 al 1943 si trova anche nella lista dei religiosi della casa madre di Venezia, forse c’era stata una prima destinazione che fu cambiata più tardi. Fu il primo direttore e formatore del seminario minore di Costasavina (TN; 1943-46), poi è inviato, come maestro dei novizi, nella nuova casa del S. Cuore a Possagno, dove rimase e operò, sempre come maestro dei novizi, ma anche occupato nell’appoggio all’attività degli esercizi e ritiri, dal 1946 al 1958. È questa la fase più tipica e centrale della sua vita. Dal 1958 al 1960 è maestro dei chierici a Venezia. Visse e operò poi, ormai anziano, dal 1961 al 1970 a Porcari; e infine di nuovo a Venezia, dal 1970 alla morte, avvenuta nell’anno successivo.
Ricordiamo soprattutto P. Alessandro nel suo compito di classico formatore, in varie situazioni e vari livelli: per molti anni e successivamente si dette tutto nel disimpegno scrupoloso delle cariche di Direttore del Probandato di Possagno, a contatto con i nostri aspiranti che egli amò di intensissimo amore di predilezione; di Maestro dei novizi in Casa del S. Cuore fino al 1957-58. Quanti di noi, religiosi Cavanis, del passato e ancora del presente, siamo stati suoi Novizi!
La sua opera di formatore si concluse, infine, con un ultimo incarico, durato due anni (1958-60), per la seconda volta, come maestro dei teologi a Venezia, ossia responsabile del nostro seminario maggiore, avendo in quegli anni come collaboratore e vicario il P. Guglielmo Incerti. Infine la fiducia dei Confratelli lo aveva designato per vari anni anche al compito di Consigliere Generale della Congregazione: come quarto consigliere dal 1940 al 1943 e come secondo consigliere nel mandato 1943-49; fu lungamente anche procuratore generale. Durante tutte queste mansioni, continuò anche il ministero della scuola.
Quale impronta, lo stile personale di bontà e di santità di P. Alessandro? Ciò che colpiva subito esteriormente era il suo abituale e amabile sorriso, espressione di un animo mite, che si sostanziava di pensieri di stima per tutti: perché, per lui, tutti erano buoni; semplicità di animo e benevolenza, mansuetudine: tutti atteggiamenti del suo naturale temperamento, sì, ma anche frutto di conquista, di sforzo, di ascesi interiore. Innanzitutto e fondamentalmente Egli fu uomo di grande Fede — veramente credeva in Dio —, viveva in costante rapporto con Dio; fede che si esprimeva nell’atteggiamento, così facile e abituale in Lui, nella preghiera. Quanto ha pregato, il P. Alessandro, nella sua vita! Le sue devozioni, così vive e calorose, verso il Cuore di Cristo, verso la Madonna! Nessuno di noi potrà mai dimenticare come il suo cuore gioiva e s’infiammava quando parlava di Maria. Anche negli ultimi giorni di sofferenza, ricorda P. Orfeo Mason, quando si avvicinava al suo capezzale e gli sussurrava all’orecchio: «Padre, coraggio, offra tutto al Signore e alla Madonna» vedeva il suo occhio spento farsi vivo e tutto il volto atteggiato a un sorriso di conferma e di gioia. P. Orfeo, preposito generale a quei tempi, ricordava ancora una caratteristica straordinaria di P. Alessandro, l’obbedienza religiosa a tutti i superiori; oh, il suo rispetto anche verso i superiori più giovani! Confondevano P. Orfeo (eletto preposito generale giovanissimo) le sue espressioni di deferenza e di devozione anche verso la sua persona, di giovane preposito generale, ricordando che egli era stato pure il suo P. Maestro di Noviziato. Ricordava anche il suo amore alla povertà, nell’abito, nelle cose a suo uso, nella stanza: preferiva sempre le cose meno appariscenti e più modeste.
Un’altra caratteristica era la sua squisita carità di tratto, la pazienza, lo spirito di mortificazione. Tutto questo egli lo testimoniò in ogni incarico e in ogni attività.
Colpito da emiplegia nel collegio di Porcari e costretto a lasciare a malincuore l’insegnamento impartito per lunghi anni con competenza e innata vocazione alla scuola, P. Alessandro si spegneva serenamente nella casa-madre di Venezia il 24 gennaio 1971, quasi ottantenne. Lasciò una preziosa eredità di virtù sacerdotali e religiose abbellite da un ardente amore a Gesù Eucaristico e alla Vergine, di cui si trovano molti cenni espressivi e commoventi tra l’altro nel diario di guerra e di prigionia.
La numerosa e commossa partecipazione di ogni ceto di persone ai suoi funerali celebrati in S. Agnese a Venezia fu eloquente testimonianza di quanto egli fosse amato e stimato. Le sue spoglie mortali attendono il giorno della risurrezione nel cimitero locale di S. Michele, traslate, dopo un conveniente tempo d’inumazione, nella cappella funeraria dell’Istituto sita nella chiesa di S. Cristoforo.
In questo libro, P. Alessandro è ricordato almeno 142 volte: il che dice della sua importanza nella vita dell’Istituto.
7.37 P. Luigi Sighel
Nato a Miola di Piné, in provincia e arcidiocesi di Trento il 19 novembre 1912, nel fior della sua fanciullezza fu accolto nel probandato di Possagno il 4 settembre 1924, ove diede inizio al corso di studi. Passò alla casa madre di Venezia il 17 settembre 1929. Vestì l’abito della Congregazione domenica 25 ottobre 1931, festa di Cristo re, a Venezia in S. Agnese, assieme a Angelo Guariento e a un collega di nome Egidio Faggian. Compì il noviziato, a Venezia, nell’anno scolastico 1931-32, alla fine del quale, più esattamente il 29 ottobre 1932, emise i voti religiosi temporanei, a Venezia, nell’oratorio di comunità. Emise la professione perpetua qualche tempo dopo il mese di maggio del 1936.
Tonsurato il 4 luglio 1937 nella basilica della Salute a Venezia, ricevette gli ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 4 aprile 1938 e quelli dell’esorcistato e accolitato il 3 luglio 1938 nella basilica della Salute a Venezia; ricevette il suddiaconato qualche tempo dopo, il 9 settembre 1938. Ricevette poi il diaconato il sabato santo 8 aprile 1939 a Lucca, perché si trovava distaccato in quell’anno scolastico a Porcari per aiutare i padri. Già nei precedenti anni scolastici 1933-35, ancora seminarista liceale, piuttosto giovane, aveva ricevuto dai superiori (necessitati, ma piuttosto imprudenti) il compito di assistente di disciplina al collegio Canova, venendo così staccato per due anni dal suo seminario. Ciò indica l’energia e il coraggio che già si vedeva in lui, perché si trattava di un compito notoriamente difficile.
L’ordinazione sacerdotale avvenne nella cattedrale di Lucca nel 1939. Conseguì la laurea in lettere che gli consentì di dedicarsi con maggior preparazione e competenza all’insegnamento delle discipline letterarie nelle scuole inferiori e superiori in varie case della Congregazione, senza peraltro trascurare altre attività apostoliche. Visse e operò successivamente, dopo l’ordinazione presbiterale, nelle case di Porcari (1939-48 e 1949-52); di Borca di Cadore (1948-49), di Venezia (1952-57), di Possagno-Canova (1958-61), di Capezzano Pianore (1961-67), di nuovo al Canova (1968-71, fino alla morte).
Seppe assolvere, senza risparmio di energie e di tempo, con accorta perizia e vero interesse del bene comune l’incarico di economo nelle case della Congregazione riscuotendo la fiducia e la stima dei Superiori e confratelli. Fu anche membro di una commissione per la riforma delle costituzioni nel 1962.
Nella piena maturità, frequenti assalti cardiaci logorarono inesorabilmente la sua robusta costituzione e lo strapparono improvvisamente all’affetto dei confratelli e dei familiari il 16 novembre 1971 nel Collegio Canova di Possagno all’età di cinquantanove anni.
Le solenni esequie celebrate nel tempio canoviano con commosso concorso di confratelli, degli alunni e del popolo, furono il meritato riconoscimento delle sue virtù di sacerdote, di religioso e di educatore. La sua salma riposa nella cappella del cimitero locale, in attesa di essere risuscitata con Cristo a nuova vita.
7.38 Fra Olivo Bertelli
Da Quinto di Treviso, ove ebbe i natali il 31 marzo 1912, entrò nella Congregazione a Venezia, come fratello laico, il 18 aprile 1931; vestì l’abito dell’istituto nell’oratorio domestico a Venezia il 5 marzo 1932, cominciando così il suo noviziato biennale; emise i primi voti triennali nel marzo 1934; e professò i voti religiosi perpetui a Venezia l’8 aprile 1937.
Consapevole dei suoi doveri e dei suoi limiti volle e seppe vivere la sua giornata nella preghiera, nel lavoro e nella imitazione di Cristo lavoratore nelle varie case della Congregazione ove l’obbedienza l’aveva chiamato. Contrassegnò il suo umile ma prezioso ministero di fedeltà, di dedizione, di riservatezza senza presumere di sé, contento solo di fare la volontà di Dio e di essere utile ai confratelli. In lui ebbe felice realizzazione il detto scritturale hilarem datorem diligit Deus.
Visse la sua vita di consacrazione e di servizio ai fratelli, ai ragazzi delle scuole e alla congregazione all’inizio nel collegio Canova dal 1932 al 1936; a Venezia (dove si occupava soprattutto della sacristia e del lavoro di sagrista di S. Agnese) dal 1936 al 37; di nuovo a Possagno dal 1937 al 1943; a Venezia dal 1943 al 1945; non abbiamo notizie del periodo tra il 1945 e il 1949; lo ritroviamo a Venezia dal 1949 al 1955; a Capezzano Pianore dal 1955 al 1960; poi dal 1962 al 1965 a Venezia e dal 1965 al 1967 a Solaro; a Porcari nell’anno scolastico 1967-68; in casa del S. Cuore dal 1968 al 1970. Ed è a Possagno che passa i due ultimi anni.
Non ancora sessantenne il male letale, che da qualche tempo l’aveva colpito, avuta ragione del suo forte organismo, lo portò al traguardo finale del suo pellegrinaggio terreno, nell’ospedale di Asolo, dove morì il 15 gennaio 1972.
Dopo i funerali celebrati nel tempio di Possagno, a cui intervennero numerosi confratelli, gli alunni del Collegio e fedeli della parrocchia, la sua salma fu tumulata nell’apposita cappella del cimitero locale.
7.39 P. Federico Sottopietra
Bosentino, ridente paese del Trentino gli diede i natali il 4 maggio 1908; ancora ragazzo entrò in Congregazione come aspirante a Possagno ai primi di novembre del 1920. Vestì l’abito dell’istituto il 23 ottobre 1927, visse l’esperienza del noviziato nel 1927-1928, a Venezia; emise i voti temporanei a Venezia il pomeriggio della domenica di Cristo Re, in S. Agnese, il 28 ottobre 1928. Emise poi la professione perpetua il primo novembre 1931, festa di tutti i santi, a Possagno, nella chiesetta del collegio, presenti tutti gli alunni, assieme ai confratelli Gioachino Tomasi e Cesare Turetta.
Ricevette la tonsura assieme ai suddetti compagni il 14 aprile 1932 dal nuovo vescovo di Padova monsignor Carlo Agostini, che era stato invitato a partecipare alla festa (pro pueris) di S. Giuseppe Calasanzio nel collegio Canova di Possagno. Ebbe l’ostiariato e il lettorato a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; l’esorcistato e l’accolitato il 22 settembre dello stesso anno; il suddiaconato l’11 novembre 1934; e il diaconato il 7 aprile 1935. Il 30 giugno 1935 è consacrato sacerdote nella chiesa del SS.mo Redentore a Venezia .
Di carattere mite e assai riservato nel mettere in evidenza le sue doti d’intelligenza e di equilibrato senso pratico, attese coscienziosamente alla sua formazione umanistica e teologica. Alle varie mansioni affidategli dall’obbedienza nelle case della Congregazione, tra le quali l’insegnamento nelle Scuole Elementari – ma insegnò molto poco – e l’ufficio di Segretario delle Scuole che adempì, questo sì, per molti anni, sempre diligente, preciso, servizievole nel disbrigo dei molteplici impegni, seppe unire l’esercizio delle virtù religiose, la fedeltà nell’osservanza delle costituzioni, l’accettazione generosa del sacrificio, la pietà caratterizzata dalla devozione alla SS. Eucaristia e alla Madonna.
Appare nelle liste dei seminaristi a Venezia nel 1931-32; lo troviamo, dopo l’ordinazione presbiterale, nella comunità del Collegio Canova (1935-37); a Venezia (1937-41); nel probandato di Possagno come formatore (1941-42); di nuovo a Venezia (1943-53); di nuovo al Canova di Possagno (1953-67); al Tata Giovanni a Roma, in questo periodo particolarmente per le trascrizioni degli scritti dei fondatori di cui si parla in seguito (1967-69); e poi nei suoi ultimi anni ancora al Canova, dove morì (1970-73).
È doveroso sottolineare, come si accennava, anche il suo prezioso contributo dato allo studio per la causa di beatificazione dei nostri fondatori e di altri dei nostri antichi confratelli, col dattilografarne e ciclostilarne numerosi scritti – testi molte volte difficili da interpretare, sia per alcune scritture difficili, sia per la conservazione dei documenti, a volte consunti dal tempo e dagli inchiostri acidi – offrendo a tutti la possibilità di leggerli e di approfondirne la conoscenza. Per essere più precisi e dettagliati, P. Federico trascrisse in una prima fase, prima e durante il Capitolo Generale Straordinario Speciale (1969-70) una selezione di scritte dei fondatori, e un altro di scritti di P. Sebastiano Casara e di altri tra i primi discepoli e compagni dei fondatori; ma in seguito trascrisse con la macchina dattilografica (non esisteva ancora il computer personale, ma solo i grandi computer delle università e altre grandi istituzioni) tutti i 2.132 (duemila centotrentadue) documenti scritti a mano dai fondatori, e in maggioranza da P. Marco, che sono stati poi editati e pubblicati negli otto volumi dell’ “Epistolario e Memorie” da P. Aldo Servini. Sempre lui, fotocopiò per anni tutti i documenti dei Fondatori e molti altri, costituendo così un fondo alternativo, riprodotto, da custodire a Roma, un’altra serie a Possagno e una serie completa di fotocopie a Venezia. Il vantaggio di questo lavoro era che gli scritti originali, molte volte fragili e comunque insostituibili e degni del maggiore rispetto, potevano essere lasciati nel loro repositorio, consultando le fotocopie; e che in caso deprecabile di un incendio o di altro incidente, i documenti originali avrebbero avuto un’alternativa. Un lavoro colossale, che richiedeva una pazienza e una costanza incredibile, di cui la Congregazione gli deve essere del tutto grata.
Colpito da un male non ben diagnosticato, fu ricoverato all’ospedale di Asolo, e da qui più tardi trasferito a quello civile di Venezia. Dopo alcuni mesi di sofferenza che misero a dura prova la sua pazienza e sopportazione, si spegneva a Venezia il 7 settembre 1973 all’età di soli sessantacinque anni. La sua salma trasportata a Possagno, dopo le esequie, celebrate il 9 del mese e rese solenni dalla presenza di numerosi confratelli, dalla larga partecipazione della popolazione del paese, riposa nella cappella del cimitero locale.
7.40 P. Gioacchino Sighel
Nato a Miola di Piné (Trento) il primo giugno 1905, entrò quindicenne come aspirante nel piccolo seminario annesso al collegio Canova di Possagno, il 18 novembre 1919, quasi subito dopo la vittoria italiana nella grande guerra, e il passaggio del Trentino dall’Austria all’Italia. Naturalmente Gioacchino ci sarebbe venuto lo stesso, come già avevano fatto tanti religiosi o seminaristi Cavanis “tirolesi” dei decenni precedenti. Il loro ingresso in istituto si era interrotto soltanto durante gli anni della guerra dal 1915 (forse già nel 1914) al 1918.
Mi raccontava, quando ero ancora ragazzo e suo allievo, che quando si aprì con la madre e le disse che voleva divenire religioso e, come altri suoi giovani compaesani, voleva entrare nel seminario dei padri Cavanis, essa riempì rapidamente una refa o rusack, ovvero uno “zaino”, e partì con lui per un pellegrinaggio a piedi fino al santuario della Madonna di Pietralba o meglio Weissenstein, un famoso santuario dell’Alto Adige meridionale, quasi per consultare Maria SS.ma e pregarla prima di prendere la decisione. Sua madre era evidentemente una donna molto religiosa e molto devota della Madonna; e questo episodio mi ricordava i pellegrinaggi di Anna, moglie di Èlkana al Tabernacolo in Silo (1 Sam 1). Il viaggio richiedeva molte ore di cammino: dall’altopiano di Piné bisognava scendere alla valle di Cembra per Brusago, risalire per Molina e Castello (oppure per Capriana e Anterivo) in Val di Fiemme, scendere a Fontanefredde/Kaltenbrun sulla strada delle Dolomiti, risalire a Redagno/Radein di sotto e poi Redagno/Radein di Sopra, scendere nel profondo canyon di rocce rosse permiane del Bletterbach, risalire sulla strada forestale e di là scendere a Weissenstein. Un pellegrinaggio di tutto rispetto, almeno dodici ore di camminata da Miola a Weissenstein/Pietralba. E poi naturalmente restava da ritornare a casa, sempre a piedi. Evidentemente il responso di Maria era stato positivo, e Gioacchino cominciò di nuovo a preparare la refa per entrare in seminario.
Insieme ai giovani confratelli, Antonio Cristelli, Riccardo Janeselli e Giovanni Tamanini, furono portati a Venezia per il ginnasio e liceo classico, che frequentarono naturalmente in Istituto. Anzi fu proprio per loro che ci si decise in casa madre ad aprire (o riaprire?) il liceo: in questa occasione a loro furono aggiunti alcuni giovani laici, scelti accuratamente, e così cominciò a Venezia il liceo classico, che più tardi però fu soltanto per i laici, mentre i chierici Cavanis studiarono a Possagno nel Canova. In seguito il liceo di Venezia ricevette ancora chierici Cavanis per qualche anno, dal 1957-1958 al 1967-68.
Ritornando a Gioacchino, questi dopo il ginnasio emise i voti temporanei (8 dicembre 1924) dopo l’anno di noviziato, svolto dall’8 dicembre 1923 all’8 dicembre 1924, si unì ai nostri col vincolo della professione temporanea triennale emessa l’8 dicembre 1924 e poi con la perpetua, emessa il 19 marzo 1928, festa di S. Giuseppe, unitamente ai colleghi Giovanni Tamanini, Antonio Cristelli e Angelo Sighel, a Venezia.
Ricevette i primi due ordini minori (ostiariato e lettorato) il 5 aprile 1930, sabato sitientes, nella sala dei banchetti, dal patriarca La Fontaine; i secondi due ordini minori (esorcistato e accolitato) nella basilica della Salute, dallo stesso presule, il 13 luglio 1930; il suddiaconato nella cappella del Patriarchio il 1° febbraio 1931, sempre assieme ai confratelli Giovanni Tamanini, Antonio Cristelli e Angelo Sighel; il diaconato il 21 marzo 1931.
Ricevuta l’abilitazione magistrale, fu inviato a Porcari, ancora chierico, come insegnante e come assistente dei giovani che frequentavano le scuole del nuovo collegio, fondato nel 1919. Compiuti gli studi teologici fu ordinato sacerdote nella cattedrale di Lucca il 31 maggio 1931. Avendo conseguito all’Università di Pisa la laurea in lingua francese e tedesca, rivelò la sua specifica competenza in questo campo, conciliando nell’insegnamento l’autorità con un profondo senso di comprensione e di umanità, in modo da acquistarsi la stima e l’affetto degli allievi.
Vediamo le case in cui risiedette e i compiti e cariche che gli furono assegnati:
Come si può vedere più in dettaglio, fu coadiutore di monsignor Erminio Filippin dell’Istituto di Paderno del Grappa nella breve e frustrante esperienza dei Cavanis nella collaborazione al Filippin; fu rettore, a più riprese, del Collegio Canova di Possagno, e durante questi periodi del suo rettorato furono eseguiti lavori importanti nel collegio e fu fondato e costruito il Liceo Classico Giuseppe Calasanzio ad esso annesso.
Fu Prefetto delle scuole a Venezia nei primi anni cinquanta, e a Venezia si respirò, perché P. Gioacchino veniva a sostituire il precedente prefetto P. Antonio Eibenstein che, nonostante fosse stimato per la sua cultura, era di una durezza militaresca e inflessibile. P. Gioacchino era invece molto umano, e nello stesso tempo capace di mantenere la disciplina e l’ordine nella scuola. Il suo compito non deve essere stato facile perché, anche per l’assenza (e manca tuttora) di un regolamento scritto formale, cioè un mansionario, che definisse le competenze e i rapporti tra il rettore della casa e il prefetto delle scuole, oggi il preside.
P. Gioacchino si trovava a essere prefetto delle Scuole quando era rettore della comunità di Venezia P. Luigi Candiago, ottimo insegnante, anche se provvisto di alcune fisime, come quella di esigere il “signorsì” e “signornò” dagli alunni; uomo gentile e amabile con le famiglie e con gli ex-allievi ma duro con gli allievi e in comunità; non era dunque certo un “condominio” facile. Per esempio P. Candiago dirigeva lui l’oratorio quotidiano (sette giorni su sette) delle scuole medie e superiori, compito che probabilmente sarebbe spettato al prefetto delle scuole. Anche da giovani studenti si avvertiva la tensione in atto.
P. Gioacchino Sighel fu più tardi amato direttore dell’Istituto Tata Giovanni a Roma; seppe assolvere questi compiti di responsabilità con spirito di sacrificio e chiara visione dei problemi ed esigenze dei tempi.
Nell’insegnamento della lingua francese, in cui era molto competente, oltre a mostrare verso gli studenti una bontà straordinaria, veramente paterna, aveva un metodo speciale per incentivare gli studenti più interessati: ci portava nella grande biblioteca della casa di Venezia, per esempio, ci faceva scegliere e ci imprestava volumetti dei classici della letteratura francese, per esempio opere di Corneille, Racine, Molière, Hugo, lavori più recenti di François Mauriac e così via; addirittura, mi ricordo, opere in provenzale di François Mistral e altri libri piuttosto impegnativi, che oltrepassavano il programma del corso e invitavano alla passione alla lettura sia della prosa che della poesia della letteratura francese. Ce le prestava e ce le leggevamo, aumentando il nostro interesse per la lingua e le nostra cultura generale.
Purtroppo non ebbe molte occasioni di insegnare l’altra lingua in cui era laureato, il tedesco, che però gli fu utile in tante situazioni della vita, come ogni lingua in più.
Aveva alcune caratteristiche personali, a parte la sua bontà e la sua professionalità nell’insegnamento: della sua simpatia per l’Austria, di cui aveva come una nostalgia, si è parlato sopra a proposito del periodo nero della Repubblica di Salò nella Pedemontana del Grappa; bisogna dire che anche quegli eventi così tristi non lo guarirono dalla sua passione di austriacante.
Aveva una grande devozione alla Madonna, particolarmente della Madonna Addolorata, e spesso le gite scolastiche organizzate da lui, anche dal lontano Tata Giovanni a Roma, avevano come mèta i santuari mariani dedicati appunto a Maria Addolorata, come quello di Weissestein/Pietralba in Alto Adige, il santuario dell’Addolorata di Fiemme a Cavalese, e soprattutto quello, pure dell’Addolorata, di Montagnaga, sul natio altipiano di Piné, non lontano dal suo paese.
La sua devozione a Maria Santissima era anche un riflesso del suo affetto alla mamma: parlava molto spesso della mamma, sua e in genere, nelle sue lezioni. In questo senso, pur essendo molto adulto e totalmente impegnato, dava l’impressione di essere un “mammone”, anche se la madre era morta da molti anni; ciò gli dava un aspetto un po’ infantile, un po’ di un bambinone, nonostante la mole, l’altezza e la complessione fisica in generale. Sebbene fosse una persona molto intelligente e esperta della vita, sembrava così un po’ ingenuo e credulone, per la sua sincerità e semplicità congenita, come nota il maestro Elio Boito.
Ma oltre al luogo in cui si insegna la scienza, e cioè alla scuola (e a questa il P. Gioacchino teneva moltissimo e spesso si rammaricava che la scuola fosse scaduta di tono nella sua missione di comunicare la scienza), essa era il punto d’incontro tra padre e figli, che si aiutano a vicenda a diventare migliori. Per questo chi era stato alla sua scuola non lo dimenticava più e sentiva la necessità di tornare a udire la sua voce, così austera, eppur così calda di umanità e di bontà. E anche quelli che non erano stati a scuola da lui, ma che lo incontravano per le strade di Possagno e dei paesi vicini, che egli infaticabilmente percorreva, sapevano della sua bontà, della sua cordialità, del suo interesse per i loro problemi piccoli e grandi, della sua fede senza dubbi e tentennamenti, salda e granitica come al tempo antico. Lo sapevano soprattutto tante donne e tanti uomini anziani e infermi, che dalla sua voce ricevevano conforto e speranza.
Alternò la sua attività di insegnante e di educatore col ministero della predicazione e della confessione, per cui aveva particolari qualità di chiarezza e di bontà.
Ebbe qualche difficoltà ad accettare i documenti del Concilio Vaticano II e le sue conseguenze sulla prescritta riforma dell’Istituto Cavanis, in particolare non vedeva volentieri l’apertura in Brasile, che toglieva tanti religiosi dalle scuole italiane: d’altra parte non faceva pesare i suoi sentimenti, e ne parlava senza acrimonia e senza spirito di rivalsa.
La sua laboriosa esistenza terrena fu stroncata da un improvviso attacco cardiaco a Possagno il 9 dicembre 1974, all’indomani della festa dell’Immacolata, di cui aveva filiale devozione. Tra l’altro, era appena ritornato da un pellegrinaggio al santuario della Madonna di Montagnaga di Piné, di cui era molto devoto. Lasciò profondo e sincero rimpianto, testimoniato dal plebiscito di partecipazione ai suoi funerali di ogni ceto di persone, soprattutto di confratelli, di compaesani, di allievi ed ex-allievi, di sacerdoti, fra cui monsignor Antonio Cunial, Vescovo di Vittorio Veneto, di parenti, e di gente del paese e venuta un po’ da tutte le parti, che aveva gremito il tempio di Possagno e che l’aveva accompagnato con lacrime visibili e sincere al cimitero il giorno 11 dicembre 1974.
La sua salma riposa nella cappella del cimitero locale.
7.41 P. Marco Cipolat
Da Aviano di Pordenone, ove ebbe i natali, paese ferace di religiosi Cavanis, il 15 settembre 1900, entrò nella Congregazione all’età di ventitré anni dopo il servizio militare compiuto nell’immediato primo dopoguerra, il 10 febbraio 1923. Prima ancora del servizio militare, aveva visto la guerra vera (1915-1918), in atto, e ne aveva sofferto, con il suo paese invaso dagli austriaci e dai tedeschi, bosniaci e ungheresi, serbi e croati e attraversato tre volte dall’esercito italiano, la prima volta a cammino del fronte dell’Isonzo, la seconda volta in ritirata e poi in fuga; la terza volta verso la vittoria e la nuova occupazione del suolo nazionale, e oltre. Ne aveva sofferto come tutti, nell’adolescenza e nella prima gioventù, per la paura, la fame, la morte di parenti e amici, i bombardamenti, le violenze belliche.
Entrato nel sicuro e sereno, ancorché povero, ovile dell’Istituto, ritrovò la pace e ebbe la sua formazione iniziale in genere a Venezia, dove era localizzato in quegli anni il noviziato e anche lo studentato. Fu inviato però per un solo anno scolastico (1924-25) a Porcari, in aiuto ai padri e religiosi là residenti, assieme ad un altro seminarista, Basilio Dalla Puppa, poi uscito. Al ritorno, vestì l’abito dell’Istituto l’8 (o 15) settembre 1925, nella cappella del probandato di Possagno, con la presenza e la presidenza del P. Preposito Zamattio. Iniziò così il suo noviziato, svolto nell’anno 1925-26; emise la professione temporanea il 7 ottobre 1926; e i voti perpetui il 5 gennaio 1931. Il 4 aprile 1930, assieme a due confratelli (Riccardo Janeselli e Carlo Donati), ricevette la tonsura in Patriarchio, dal Patriarca Pietro La Fontainea Venezia; i primi due ordini minori (ostiariato e lettorato) il 5 aprile 1930, sabato sitientes, nella sala dei banchetti, dallo stesso patriarca; i secondi due ordini minori (esorcistato e accolitato) nella basilica della Salute, dallo stesso presule, il 13 luglio 1930; il suddiaconato il 21 marzo 1931 nella basilica di S. Marco, dal medesimo. Fu poi ordinato diacono nella chiesa dei carmelitani scalzi a Venezia, per le mani del vescovo ausiliare monsignor Giovanni Jeremich il 28 giugno 1931. Fu infine ordinato prete nel sabato sitientes, il 12 marzo 1932, nella basilica di S. Marco, dal patriarca Pietro La Fontaine.
P. Marco durante la sua vita religiosa, durata 49 anni, visse da vero Cavanis, sempre nel ministero dell’educazione dei più piccoli e spesso della formazione religiosa nei seminari minori. Lo fece con una obbedienza e una semplicità straordinaria, di vero religioso, passando da una casa all’altra, sempre disponibile, spesso poco apprezzato nella sua semplicità, ma non per questo protestatario, acido o brontolone, al contrario: sereno, buono, con quei due occhioni sorridenti.
Lo troviamo dal 1934 al 1940 a Porcari (non risulta dove abbia passato i primi due anni di presbiterato, dal 1932 al 1934); negli anni della seconda guerra mondiale, dal 1941 al 1945 è tra Vicopelago, membro della prima équipe di formatori, con P. Carlo Donati e altri, nella villa dell’Orologio e S. Alessio, con un interludio a Porcari nell’anno scolastico 1942-43, in quegli anni dove in Toscana i religiosi Cavanis passavano da una all’altra delle tre case, secondo il passaggio dei tedeschi, degli alleati, di tutte le razze e popoli della terra, cercando di fare ugualmente del bene. Lo ricorda a Vicopelago P. Diego Dogliani che, bambino, al suo primo entrare nel piccolo seminario, conobbe per primo P. Marco Cipolat e rimase impressionato contemplandolo “col suo fare gioviale e gentile, con il suo parlare tranquillo e sorridente”.
Dopo la guerra, passata la bufera, Marco passa un solo anno nel piccolo semianrio di Costasavina a Pergine, poi ritorna in Toscana, passando a Porcari gli anni scolastici dal 1946 al 1949; poi è come assistente ai corsi di esecizi spirituali nella Casa del S. Cuore dl 1949 al 1951: scese al collegio Canova di Possagno dal 1951 al 1955 (dove ricordo anch’io di averlo incontrato, da ragazzotto che ero).
Nel 1954-55 a Capezzano Pianore, anche qui membro della prima équipe Cavanis, funse da economo, con qualche difficoltà; e passò a Venezia in casa madre dal 1955 al 1958, poi a Chioggia con P. Livio Donati e il suo gruppo, dal 1958 al 1964, il periodo più lungo che trascorse in una casa, in essa fortemente radicato e ad essa affezionato. Lo troviamo poi nel piccolo seminario di Fietta, appena istituito, nell’anno 1964-65, poi dal 1965 al 1970 al seminario minore di Levico, che aveva sostituito quello di Costasavina, dove fu eletto primo consigliere della piccola comunità.
Settantenne, passò a vivere gli ultimi cinque anni della sua vita a Possagno nel collegio Canova.
Riassumendo, P. Marco Cipolat compì quasi tutto il giro delle case Cavanis italiane, con l’eccezione di Roma. Prestò senza risparmio di energie la sua opera di educatore e di maestro nelle scuole elementari a Venezia, nei nostri seminari minori di Vicopelago, S. Alessio, di Fietta e di Levico e nelle Case di Porcari, Capezzano e di Chioggia. Nei seminari, almeno, insegnava aritmetica e matematica, e sapeva farle amare, il che non è cosa da poco. Nel Collegio Canova di Possagno chiudeva, dopo lunghe e dolorose sofferenze sopportate con esemplare rassegnazione, l’8 gennaio 1975 la sua esistenza terrena, tutta spesa nel servizio di Dio, nell’educazione delle anime giovanili, specialmente attraverso il ministero della confessione, in una continua crescente ascesi verso il traguardo della perfezione sacerdotale e religiosa. I suoi resti mortali, dopo un solenne funerale, furono tumulati nella cappella del cimitero del paese di Possagno.
7.42 Luigi Janeselli
Bosentino in diocesi e provincia di Trento fu il suo paese natale (il 23 giugno 1892). Accolto come aspirante a Venezia, entrò in Istituto l’11 ottobre 1906. Aveva come soprannome, forse familiare, di “Titin”. Era figlio di Isacco e di Angela. Era orfano di madre, al momento di entrare in Istituto. Nonostante il cognome (comune nella zona) non era fratello o parente dei tre fratelli Janeselli, Mario, Mansueto e Lino.
Giunto con l’attestato di 2ª popolare da Bosentino, fu subito immesso in 1ª ginnasiale.
Aveva vestito l’abito della Congregazione il 4 luglio 1909 ed emesso la professione dei voti temporanei il 5 (o 4) luglio 1910 nell’oratorio dei piccoli a Venezia, assieme ai tre confratelli di cui sopra, compagni di noviziato, Aurelio Andreatta, Mario Janeselli, Amedeo Fedel; ed emise la professione perpetua assieme agli stessi tre compagni il 5 luglio 1913 in S. Agnese, davanti alla scolaresca. Ricevette la tonsura, assieme a quattro confratelli Cavanis, dal patriarca Aristide Cavallari nella cappella del Patriarchio il 12 dicembre 1912; i quattro ordini minori nella stessa cappella, e con gli stessi tre confratelli ma dal nuovo patriarca Pietro La Fontaine il 22 giugno 1916, solennità del Corpus Domini; ricevette il suddiaconato dal vescovo di Tortona, monsignor Simon Pietro Grassi, nel suo episcopio, durante il tempo del profugato, l’8 settembre 1918, nella memoria della Natività di Maria; il diaconato, dopo il ritorno a Venezia, il 21 dicembre 1918 dal patriarca Pietro La Fontaine nella cappella del patriarchio; concluse le tappe del corso teologico, ricevette l’ordinazione presbiterale dallo stesso patriarca, nella basilica di S. Marco, il sabato sitientes 5 aprile 1919. Fu una grande festa, con quattro neo-sacerdoti Cavanis, un vero record per quell’epoca, e la presenza di quasi tutti i Cavanis, e anche di don Orione venuto apposta da Tortona. In congregazione, lo si chiamava affettuosamente P. Gigio.
Con fiducia i Superiori gli affidarono le cariche prima di rettore del collegio di Porcari, poi di direttore del probandato di Possagno e infine di economo della casa di Venezia, a cui portò migliorie per renderla più funzionale ed accogliente.
In ordine, lo troviamo dal 1919, data dell’ordinazione presbiterale, al 1920 a Venezia; da quest’anno al 1928 a Porcari, tra i primi membri duraturi di questa comunità; dal 1928 al 1930 a Venezia; dal 1930 al 1932 a Possagno, come membro della comunità del collegio Canova, ma responsabile e direttore del probandato, in una comunità ancora informale; nel 1932-33 a Venezia; non si riesce a localizzarlo nelle liste di religiosi negli anni 1934 a 1936; è poi a Venezia dal 1937 al 1943; di nuovo al collegio Canova dal 1943 al 1948; nel 1948-49 a Porcari; dal 1949 al 1952 a Venezia; a Roma, in via Casilina, nel 1952-53; e infine dal 1953 alla morte, nel 1975, in collegio Canova.
Nei sessant’anni di apostolato della scuola fu apprezzato insegnante di materie letterarie, ma soprattutto di matematica nella Scuola Media. Meritano di essere messi in rilievo gli espedienti e gli accorgimenti, suggeritigli dalla lunga esperienza per rendere più facile lo studio e meno astruse le formule di questa materia notoriamente ostica. Avendo saputo unire la severità alla paterna comprensione della vivacità giovanile, poté incidere più efficacemente negli animi con la sua azione educativa. Per gli allievi, tra cui chi scrive queste pagine, era realmente un papà.
Concluse la sua lunga giornata terrena all’età di 83 anni il 2 novembre 1975 a Possagno nel Collegio Canova, lasciando ai confratelli esempi di virtù religiose e sacerdotali di una vocazione vissuta ed amata.
Dopo le solenni esequie celebrate nel tempio canoviano, a cui parteciparono numerosi confratelli e fedeli del paese, le sue spoglie mortali furono seppellite nella cappella del cimitero locale.
7.43 P. Andrea Galbussera
Nato a Covolo di Piave (TV) il 25 dicembre 1915, accolto ancora ragazzo come aspirante nel probandato di Possagno il 25 ottobre 1928, passò a Venezia per continuare la sua formazione con gli studi il 12 settembre 1931. La sua vestizione religiosa avvenne il 21 ottobre 1933, visse l’esperienza iniziale del noviziato nel 1933-34. Emise la prima professione religiosa triennale nella Congregazione delle Scuole di Carità il 16 (o 21) ottobre 1934, ed emise i voti perpetui il 24 ottobre 1937.
Svolse i suoi studi teologici a Venezia dal 1937 al 1941. Ricevette la sacra tonsura clericale il 9 settembre 1938, i primi due ordini minori l’8 aprile 1939, di sabato santo; e i secondi due ordini dell’esorcistato e accolitato nella chiesa di S. Francesco della Vigna a Venezia il 3 luglio 1939. Ricevette l’ordine maggiore del suddiaconato il 30 giugno 1940 alla chiesa del Redentore, alla Giudecca; l’ordine del diaconato il 21 dicembre 1940. Fu poi consacrato sacerdote il 29 marzo 1941 a Venezia, assieme al P. Guerrino Molon, nella chiesa del Redentore, da monsignor Giovanni Jeremich, vescovo ausiliare di Venezia.
Conseguita presso l’Università di Pisa la laurea in Lingue e Letterature straniere, come pure l’abilitazione per la stessa area, dedicò le sue energie fisiche e intellettuali all’insegnamento di materie letterarie e di lingua francese in particolare, nelle case della Congregazione, riscuotendo, anche se esigente e severo, la stima e l’amore dei suoi alunni, che cercava di attirare e legare all’Istituto, anche con lo sport, specie del calcio, di cui si serviva come efficace strumento educativo.
Lo troviamo a Venezia dal 1943 al 1946; a Porcari dal 1949 al 1955; nel collegio Canova di Possagno dal 1955 al 1958; con la carica di rettore dell’Istituto Capezzano Pianore dal 1958 al 1963; in seguito di nuovo a Venezia dal 1963 al 1974. Mancano dati per il momento sugli anni dal 1941 al 1942 (in cui probabilmente si trovava a Venezia) e sul periodo 1947-1949. Si acquistò pure stima e benevolenza a Venezia e altrove anche come Assistente ecclesiastico degli ex-allievi e della Congregazione Mariana per il suo zelo, per la sua spontanea cordialità e culto dell’amicizia.
Nel pieno vigore delle sue forze fisiche morì improvvisamente a Venezia, l’8 aprile 1974. Dopo i solenni funerali celebrati nella chiesa di Santa Agnese con numerosissima e commossa partecipazione di confratelli, di compaesani, di allievi ed ex-allievi e amici la sua salma fu tumulata nel cimitero di S. Michele.
7.44 P. Valentino Pozzobon
Nacque il 14 febbraio 1919 a Roncade, in diocesi e provincia di Treviso ed entrò nel probandato di Possagno il 17 ottobre 1928. Passò a Venezia per continuare la sua formazione il 22 luglio 1935. Vestì l’abito della Congregazione il 6 ottobre 1935, a Venezia, con altri due probandi provenienti dal probandato di Possagno, che ben presto lasciarono la via del seminario Cavanis. Iniziò così per Valentino l’anno di noviziato, vissuto nel 1935-36 e concluso con la professione temporanea, emessa l’8 aprile 1937. Si consacrò definitivamente al Signore e alla Congregazione con la professione perpetua nella primavera del 1940. Difficile trovare la data esatta, perché la Congregazione era occupata con gli ultimi eventi del centenario del 1938-39 e della completa riforma della chiesa di S. Agnese; ed essa stessa e tutta l’Italia era occupatissime a dare inizio alla propria partecipazione alla tragica seconda guerra mondiale.
Cominciando i suoi passi verso l’altare, sempre da solo, perché era rimasto lui solo nella sua annata, il religioso Valentino ricevette la prima tonsura ecclesiastica il primo luglio 1940; i primi due ordini minori, dell’ostiariato e del lettorato il 20 dicembre 1941 dal patriarca Adeodato Piazza a S. Marco; i secondi due ordini minori nella primavera del 1942; il suddiaconato dallo stesso patriarca il 28 giugno 1942; il diaconato il 19 dicembre 1942, dallo stesso, nella basilica della Salute; fu infine ordinato prete il 3 giugno 1943, nella solennità dell’Ascensione del Signore, dal Patriarca Adeodato Piazza, nella basilica della Salute.
Dotato d’intelligenza aperta e di forte carattere percorso il curriculum degli studi letterari e teologici, si laureò in Belle Lettere il 2 dicembre 1953 nell’università di Padova, dove difese una tesi sul tema: “S. Gregorio Magno e il canto liturgico”. Ricevette l’abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie e di storia dell’arte nelle scuole medie superiori.
Per le sue rare capacità organizzative coprì nella Congregazione le cariche di Consigliere generale e di Vicario generale, di Prefetto delle scuole a Venezia, dove iniziò anche l’apertura di una casa di villeggiatura per studenti a Cima Sappada; di rettore per nove anni del Liceo Scientifico di Capezzano Pianore, a cui diede più ampio respiro e sviluppo con la costruzione di un nuovo edificio.
Mettendo in ordine le date, lo troviamo a Venezia, dopo l’ordinazione presbiterale dal 1943 al 1946; a Possagno-Canova nei due anni successivi; di nuovo a Venezia nell’anno scolastico 1948-49; in collegio Canova dal 1949 al 1953; a Venezia dal 1953 al 1955; è rettore a Porcari dal 1955 al 1958; prefetto delle scuole a Venezia dal 1961 al ’64; nella casa madre si trovava già dal 1958; a Capezzano Pianore dal 1963 al 1975, essendo rettore di quella casa dal 1963 al 1973. Non si è potuto localizzarlo negli anni 1959-60.
Dal ministero di educatore e insegnante competente e apprezzato di materie letterarie nelle scuole della Congregazione non disgiunse l’esercizio delle virtù sacerdotali e religiose, vivificate dalla pietà eucaristica e mariana.
Nel mezzo della dinamica attività, a soli cinquantasei anni, dopo un subitaneo malore, morì il primo novembre 1975 all’ospedale di Pietrasanta (Lucca). Ai solenni funerali celebrati nella parrocchiale di Capezzano, parteciparono confratelli, ex-allievi e fedeli del paese. La sua salma riposa nel cimitero locale di Capezzano in attesa del dies Domini.
7.45 Fratel Edoardo Bartolamedi
Nato a Roncogno di Pergine (Valsugana, Trento) il 19 giugno 1909, trascorse la sua infanzia e giovinezza al suo paese. Chiamato alle armi a circa 30 anni come soldato semplice nel battaglione Trento degli Alpini durante la guerra mondiale del 1939-1945, fu inviato sul fronte francese sulle Alpi e poi si trovò tra le forze di occupazione del sud della Francia; fu fatto prigioniero dai tedeschi il 9 settembre 1943, quando essi invasero anche il sud della Francia, che prima era stata la repubblica semi-autonoma di Vichy. Rimase prigioniero di guerra prima dei tedeschi, poi degli Alleati, vivendo duramente in successivi campi di concentramento, impegnato in un lavoro di manovalanza in appoggio alle forze armate tedesche e poi alleate, sempre in situazioni di grande pericolo e di sofferenza, sopportata con grande pazienza, speranza, e da una grande e preziosa spiritualità di laico cristiano molto devoto ma non bigotto. Da ricordare il suo prezioso diario della prigionia, di cui si parlerà.
Ritornato in Italia il 21 settembre 1945, dopo la fine della guerra e della prigionia, trascorse in famiglia a Roncogno due anni, durante i quali fu stimato dai compaesani, che lo vollero presidente della loro cooperativa rurale. Da molti anni però sentiva il desiderio di consacrarsi al Signore nella vita religiosa ma per vari motivi, tra cui guerra e prigionia, non aveva potuto farlo prima. Entrò finalmente come postulante fratello nel 1947 nella Congregazione delle Scuole di Carità, che aveva conosciuto tramite P. Angelo Sighel.
Vestì l’abito dell’Istituto il 19 ottobre 1947 a Col Draga, a Possagno, assieme a una quindicina di compagni. Finito il noviziato svolto nella casa del S. Cuore (1947-49) emise i voti temporanei a Possagno il 24 ottobre 1949; in seguito si consacrò definitivamente al Signore con la professione perpetua il 26 ottobre 1952 a Venezia.
Consapevole dei suoi doveri, tutto dedito ai compiti religiosi amati e assolti con dedizione e amore, svolse il suo servizio in varie case della Congregazione. Venne addetto successivamente alle case di Possagno-Canova (1952-54); di Porcari (1954-55); di Venezia (1955-58); di Roma (1958-1961); di Capezzano Pianore (1961-63); di nuovo al Canova (1964-67); poi salì brevemente in Casa del S. Cuore (1968-70); passò a Porcari dal 1970 al 1977; e infine fu trasferito di nuovo a Capezzano Pianore per l’anno scolastico 1977-78, ma vi morì quasi subito.
La sua condotta esemplare e laboriosa, il suo carattere mite e riservato, estremamente gentile, che sapeva infondere bontà e carità intorno a sé, hanno lasciato una testimonianza preziosa della sua vita vissuta con fede e nella oblazione di tutto se stesso agli impegni, che contraddistinguono la vita religiosa.
La sua morte avvenuta improvvisamente il 3 ottobre 1977 all’ospedale di Lucca, mentre da poco apparteneva alla comunità di Capezzano Pianore, ha suscitato grande dolore e vivo rimpianto in quanti lo conobbero. Dopo le esequie celebrate nella chiesa parrocchiale di Capezzano Pianore con la partecipazione di numerosi confratelli, dei famigliari e di molti fedeli, la sua salma riposa nel cimitero locale accanto a quella degli altri confratelli, che lo precedettero nell’incontro con Cristo.
7.46 Fratel Ausonio Bassan
Nato a Vescovana in provincia di Padova il 1° luglio 1883, nella sua giovinezza Ausonio Bassan fu impiegato comunale allo stato civile. Richiamato alle armi nel 1915, prestò servizio nel Genio Telegrafisti 155° Compagnia con sede a Firenze. Chiamato sotto le armi e addetto al 3° Genio telegrafisti, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, durante la prima guerra mondiale, fu trasferito in Albania, in Argirocastro, dove rimase fino al congedo.
Ritornato in famiglia, rimase accanto agli anziani genitori fino alla loro morte. Maturatasi nel frattempo nel suo animo la vocazione religiosa, rispose generosamente e il 7 ottobre 1925, all’età di quarantatré anni fu accolto ed entrò nella Congregazione delle Scuole di Carità.
Vestito l’abito religioso, come fratello laico, il 22 aprile 1926 e compiuto il tirocinio del noviziato, nell’anno 1926-28, Ausonio emise la professione temporanea di voti il 1° (o 2) maggio 1928; e tre anni dopo suggellò la sua donazione totale al Signore e alla Congregazione con la professione religiosa perpetua che emise il 2 (o 3) maggio 1931. Durante i cinquant’anni di vita religiosa, trascorsi quasi tutti a Venezia, avuti dalla fiducia dei superiori gli incarichi di sacrista, di infermiere, di guardarobiere, li compì con fedeltà, con diligenza e grande disponibilità contento di fare la volontà di Dio. Si distinse configurando la sua condotta su quella di Cristo lavoratore, nell’osservanza scrupolosa della regola, della vita comune, nella pietà caratterizzata da un’ardente devozione.
Per essere più esatti, passò i primi anni di vita religiosa (e prima il noviziato) a Possagno in collegio Canova (1931-37); nel 1937 passò a Venezia, dove visse con certezza nei periodi 1937-1946 e 1949-1977. È probabile che continuasse a Venezia anche nei tre anni 1946 a 1949, anche se non ne trovo traccia nei documenti.
Un momento emozionante, fuori della routine, fu per lui quello di domenica 5 dicembre 1971, quando il sindaco di Venezia consegnò al nostro confratello le insegne di Cavaliere di Vittorio Veneto, quale ex-combattente della prima guerra mondiale.
Dopo una breve malattia, nel cuor della notte del 25 aprile 1977 all’età di 94 anni chiudeva la sua lunga e laboriosa giornata terrena per ritornare ricco di meriti alla casa del Padre il 25 aprile 1977. Ai suoi funerali celebrati nella chiesa di S. Agnese parteciparono molti confratelli, i famigliari, gli alunni delle nostre scuole e fedeli della parrocchia. Le sue spoglie mortali attendono il giorno della risurrezione nel cimitero locale di S. Michele, traslate, dopo un conveniente tempo d’inumazione, nella cappella funeraria dell’Istituto sita nella chiesa di S. Cristoforo.
7.47 P. Angelo Trevisan
Nato a Castelfranco Veneto (Treviso) nel 1924, ancora giovanissimo passò a vivere con la famiglia a Ciano del Montello (Treviso), nella dura vita dei campi. Sbocciata la vocazione alla vita religiosa, nel 1936 entrò nel probandato di Possagno e compiuta la sua prima formazione religiosa e culturale, vestì l’abito dell’Istituto, visse l’esperienza del noviziato ed emise i voti temporanei. Passato allo studentato di Venezia, vi fece la sua professione perpetua nel 1947.
Ricevette la tonsura ecclesiastica il 22 giugno 1947; i primi due ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 27 giugno 1948 nella basilica della Madonna della Salute; i secondi ordini minori, esorcistato e accolitato a Venezia il 19 dicembre 1948. Gli fu attribuito il suddiaconato, sempre a Venezia, il 26 giugno 1949; fu consacrato diacono nella cripta della basilica di S. Marco il 17 dicembre 1949. Il 4 giugno 1950 infine fu ordinato sacerdote a Venezia dal Patriarca monsignor Carlo Agostini in Sant’Agnese.
Coerenza e fedeltà a quello che riteneva il suo dovere di sacerdote e religioso contrassegnarono le sue attività quotidiane. Fedele agli impegni dell’obbedienza si dedicò totalmente alla missione di educatore, che aveva iniziato fin dal periodo degli studi di teologia. A Venezia (ancora seminarista ma maestro), a Roma, a Levico molti bambini e ragazzi ebbero da lui un maestro competente, infaticabile e paziente. Espresse il meglio di sé in tre periodi di ministero nella scuola. II primo periodo lo vide giovane maestro nelle elementari di Venezia (ancora seminarista ma maestro). Lo ricordiamo ancora oggi come maestro dotato di straordinarie capacità didattiche: riusciva a mantenere attenti, quasi incantati, 60 o 65 piccoli allievi della prima o della seconda elementare. Li educava meravigliosamente al canto, alla dizione; organizzava recite, piccole accademie, curava la preghiera negli oratori; la sua classe, sempre numerosíssima, non la sentivi neppure quando si portava dal cortile alle aule dell’ultimo piano. Quegli anni di insegnamento ai piccoli sono stati per il maestro ed educatore P. Angelo forse i migliori della sua vita; mi ricordo che anche a distanza di tempo ne parlava con viva gioia del suo spirito. Negli stessi anni ebbe anche, in un periodo, la responsabilità di assistente dei seminaristi liceali. Il secondo felice momento della sua attività educativa fu quello di Roma, a Torpignattara (1953-61), dove continuò ad insegnare in una quinta elementare, insegnò educazione fisica nelle medie, fu assistente ed animatore tra gli aspiranti e juniores dell’Azione Cattolica e dei giovani ex-allievi. Il terzo periodo fecondo dei suo ministero apostolico fu quello svolto nella formazione dei giovani aspiranti alla vita religiosa. I superiori gli confidarono un incarico di grande fiducia nominandolo rettore del nostro Probandato di Levico: c’era già stato nel periodo 1950-53, giovane prete; ma vi ritornò da rettore nel 1961-67; P. Angelo vi dedicò anni di intensa attività impegnando senza risparmio le sue migliori energie intellettuali e la sua squisita sensibilità. Continuò il suo impegno come formatore gi giovanissimi aspiranti e postulanti a Fietta del Grappa dal 1968 al 1970. Fu un anno al collegio Canova a Possagno (1970-71), poi di nuovo a Levico (1971-77). Poi venne, quasi d’improvviso, un prematuro declino delle sue forze fisiche, con sofferenze anche di natura psicologica e morale.
Continuò ad amare profondamente la natura, le cose belle, i fiori, il suo giardino, l’orto di Levico. Affrontò con pazienza una serie di acciacchi, di malattie, fino all’ultima, che egli sopportò con pazienza e accettazione della volontà del Signore.
Proprio nella fase acuta dell’ultima grave malattia, quando gli fu proposto di andare a Padova per essere curato dal nostro caríssimo ex-allievo Prof. Carlon, chirurgo di grande fama, P. Angelo quasi con voce implorante chiese di poter rimanere nell’Ospedale di Levico. «Se devo morire, desidero morire a Levico». Fu accontentato. Assistito dai conforti religiosi morì il 28 dicembre 1977 all’età di 53 anni nell’ospedale di Levico. Dopo i solenni funerali tenuti nella chiesa parrocchiale, a cui parteciparono molti confratelli, sacerdoti diocesani e una larga rappresentanza di persone del suo paese, sincera testimonianza di affetto e di stima, la sua salma fu tumulata nel cimitero locale di Levico. Molto più tardi, su richiesta della famiglia, le sue spoglie furono traslate al cimitero di Ciano di Montello, il paese dov’era cresciuto.
I confratelli lo ricordano con amore e stima, grati a Dio e al caro estinto per tutto il bene che ha fatto nella sua non lunga esistenza.
7.48 P. Ferruccio Vianello
Nato a Venezia il 20 ottobre 1912, mentre frequentava le nostre elementari sentì la chiamata del Signore alla vita sacerdotale e religiosa e rispose con generosità seguendo l’esempio dello zio P. Alessandro Vianello.
Entrò nel seminario minore dell’Istituto il primo luglio 1930. Vestì l’abito dell’Istituto Cavanis nella domenica di Cristo Re, il 26 ottobre 1930, nella chiesa di S. Agnese a Venezia assieme a Vittorio Cristelli e Pio Pasqualini. Cominciò così con loro il noviziato (1930-31). Emise i voti temporanei nell’oratorio domestico a Venezia il 7 novembre 1931, assieme ai confratelli Vittorio Cristelli, e Pio Pasqualini. Fece la sua professione perpetua l’11 novembre 1934. La sua formazione liceale e poi teologica, sempre poi religiosa e sacerdotale, si svolse parte a Venezia e parte a Possagno.
Il 19 settembre 1936 ricevette a Venezia la tonsura; l’ostiariato e il lettorato il 13 marzo 1937, sempre a Venezia; l’esorcistato e l’accolitato, assieme a P. Pio Pasqualini, il 4 luglio 194 nella basilica della Salute, dal Patriarca Adeodato Piazza; ricevette il suddiaconato il 18 settembre 1937; e il sacro diaconato il 4 aprile 1938, poco prima di Pasqua.
Ordinato sacerdote il 3 luglio 1938 e laureatosi in lettere, per tutta la vita finché le forze glielo permisero, si dedicò all’insegnamento e all’educazione dei giovani con grande entusiasmo e impegno esemplare, lasciando un grato ricordo nei suoi alunni P. Marino Scarparo scrive per esempio nelle sue memorie: “Dopo il Natale di quell’anno ebbi come insegnante il P. Ferruccio Vianello, con l’arte del quale feci dei passi da gigante sia nella grammatica sia nell’analisi logica.”. La sua attività didattica (insegnava Lettere nella scuola media) ed educativa la esplicò a Venezia e in altre case della Congregazione, dove fu inviato dai superiori, la cui volontà accettò sempre con prontezza e generosità.
Lo troviamo appena prete brevemente nella comunità e scuola del collegio Canova di Possagno (1938-40); poi ancora a Possagno ma nel Probandato nell’anno scolastico 1940-41; a Venezia nel periodo 1941-46; a Porcari dal 1947 al 1949; di nuovo a Venezia dal 1949 al 1958; A Roma-Torpignattara dal 1958 al 1964; nella comunità e scuola del collegio Canova di Possagno (1965-67); a Levico nel seminario minore, come formatore (1967-74); ancora un anno a Venezia (1974-75), e poi fu a riposo a Possagno-Canova da quest’ultimo anno fino al suo decesso (1975-79).
Era un uomo ricco di un grande buon umore, che contribuiva con i suoi scherzi e con il suo stile di vita a mantenere lieta la comunità. Si distinse nella pietà eucaristica e mariana, nella predicazione facile e incisiva e nell’amministrazione delle confessioni. Si occupava tra l’altro della corale della chiesa di S. Agnese ed educava i ragazzi e i giovani alla musica e al canto liturgico.
Suo fratello, il farmacista Carmelo Vianello della farmacia di S. Margherita ebbe molte volte ad aiutare la nostra comunità.
Colpito da un morbo inesorabile, il Padre Ferruccio accettò la terribile prova con serenità e piena conformità alla volontà di Dio fino al giorno dalla morte, che avvenne il primo marzo 1979 nell’ospedale di Castelfranco Veneto, ove era stato ricoverato. Nel tempio canoviano, a Possagno, dove si trovava da alcuni anni, ebbero luogo i funerali con numerosa partecipazione dei confratelli, di familiari, degli alunni del Collegio e di fedeli della parrocchia. La sua salma fu tumulata nel cimitero locale.
7.49 P. Giosuè Gazzola
Nacque a Fonte, diocesi di Treviso, il 9 novembre 1927. Sbocciata nella sua giovinezza la vocazione alla vita sacerdotale e religiosa, entrò nel nostro probandato di Possagno. Compiuti gli studi ginnasiali, dopo la vestizione compì l’anno di noviziato (1945-46) in Casa del S. Cuore e lì emise i voti religiosi triennali il 29 ottobre 1946.
Passò in seguito nello studentato di Venezia per completare il cursus scolastico liceale e teologico. A Venezia si consacrò definitivamente al Signore e alla Congregazione con i voti perpetui il 30 ottobre 1949, nella solennità di Cristo Re, nella chiesa di Sant’Agnese, davanti ai ragazzi della scuola e ai confratelli, davanti al preposito P. Antonio Cristelli.
Ricevette la prima tonsura clericale il 26 marzo 1950, i primi due ordini minori il primo luglio 1951 e i secondi due il 29 marzo 1952; il suddiaconato il 29 luglio 1952, nella antica ex-cattedrale di Venezia, la basilica di S. Pietro di Castello, dal patriarca monsignor Carlo Agostini; il diaconato, dallo stesso patriarca, il 25 gennaio 1953. Ricevette poi la consacrazione presbiteriale per l’imposizione delle mani del patriarca nella basilica della Salute il 21 giugno 1953.
Ricevuta l’ordinazione sacerdotale e conseguita la laurea in Matematica e Fisica, continuò il suo ministero didattico ed educativo, iniziato nelle Scuole Elementari, nelle Medie e poi nel Liceo Classico a Venezia e poi in quello Scientifico di Capezzano Pianore, riscuotendo la stima e l’affetto dei suoi allievi, che lo ricordano per il suo insegnamento competente e chiaro con cui sapeva rendere facile l’apprendimento anche delle formule più astruse e difficili delle materie scientifiche.
Chiamato dai Superiori a esercitare la carica di economo della casa di Venezia e poi, quello di rettore della casa di Capezzano Pianore, le disimpegnò con abilità, con responsabilità e spirito di sacrificio, sostenuto dalla fede, dall’amore alla Congregazione, e animato dalla pietà eucaristica e mariana, e con esemplare osservanza della vita religiosa.
Per mettere ordine alle fasi della sua vita religiosa e a questi impegni in case diverse, diremo che appena consacrato prete, a metà del 1953, era stato destinato a cominciare nel probandato di Possagno, dove risulta assegnato per il 1953-54; ma l’apertura della casa del Tata Giovanni fece cambiare programma, ed è là che lo troviamo come assistente dal 1953 al 1956. Nel 1957-58 è a Venezia, insegnante ed economo. Dal 1958 al 1965 lo troviamo una prima volta a Capezzano Pianore; dal 1965 al 1967 brevemente a Chioggia; dal 1968 al al 1972 a Venezia. Poi passa nel 1972 come rettore a Capezzano Pianore, e vi rimane fino a settembre 1979, quando i superiori lo destinarono a Venezia.
Compiuto infatti il doppio mandato di rettore della casa di Capezzano, cui diede notevole incremento con la sua dinamica attività, alla vigilia della partenza per la casa di Venezia, a cui veniva destinato di nuovo dai Superiori per insegnare matematica e fisica nel liceo classico, la morte lo colse tragicamente durante una salita sulle Alpi Apuane la mattina del 10 settembre 1979.
Come accenna P. Angelo Moretti nel discorso di elogio e di commiato in occasione delle esequie, e come è poco noto nei dettagli, P. Gazzola aveva l’intenzione di salire un’ultima volta il monte Sella, lungo la crinale principale delle Apuane, tra il Massese e la Garfagnana: “Caro Padre Giosuè, – diceva P. Moretti – prima di partire per la tua nuova sede di Venezia, tu desideravi tanto goderti un ultimo indimenticabile spettacolo dall’alto del Sella”.
Il monte Sella è un monte calcareo, anzi marmoreo (con numerose cave di marmo saccaroide, il tipico e prezioso marmo di Massa e Carrara) di soli 1.739 metri di altezza, ma è un famoso punto panoramico, con una vista a 360° si può dire su tutta la Toscana. Sui suoi fianchi ci sono anche vie alpinistiche di notevole difficoltà, tuttavia P. Giosuè, che andava da solo e che non portava con sé corda per autoassicurazione, né scarpe da aderenza né altri attrezzi alpinistici, deve aver seguito uno dei tanti sentieri, spesso esposti e a volte interrotti da piccole rocce e da passaggi un po’ impegnativi e spesso esposti. Non si trattava propriamente di alpinismo, ma di quello che si chiama “sentiero da escursionisti esperti”. Il monte Sella è conosciuto oltre che per la bellezza, anche perché scivoloso per il ghiaino sparso su lastre lisce di marmo molto ripide. Probabilmente si trattò di una scivolata tragica, ma non c’era nessuno che potesse assistere e testimoniare la dinamica dell’incidente tragico e così doloroso. P. Moretti, che aveva partecipato alle ricerche e che lo ha visto dopo ritrovato, disse: “Purtroppo non ha fatto più ritorno”: dopo due giorni di affannose ricerche, è stato trovato infatti morto in fondo a un canalone.
Imponente e commossa fu la partecipazione ai suoi funerali che si svolsero nella chiesa parrocchiale di Capezzano. La sua salma fu tumulata nel cimitero locale.
Da notare che il vero nome di battesimo di questo confratello era Giosuè, venerando nome biblico, analogo al nome che più tardi fu dato a Gesù, nome dunque sacrosanto; ma in Congregazione era tradizione in tempi passati di sostituire nomi sospetti di non appartenere a santi cristiani, contro la tradizione veneziana di venerare anche santi israeliti; e fu chiamato (ed è citato molte volte) come P. Giuseppe Gazzola. Ma si tratta della stessa persona. E qui ho preferito chiamarlo con il suo vero nome di battesimo, Giosuè. A Gesù, non sarebbe spiaciuto!
7.50 P. Valentino Fedel
Partito dodicenne da Miola di Piné (Trento), ove era nato il 15 agosto 1897, da una famiglia profondamente cristiana, che era in contatto di amicizia con l’Istituto Cavanis e con alcuni suoi membri, che provenivano pure dall’altipiano di Piné. Fu accolto il primo ottobre 1909 come aspirante nella Casa Madre di Venezia; vestì l’abito della Congregazione con altri cinque postulanti ed entrò con loro in noviziato l’8 dicembre 1916, solennità dell’Immacolata. Compiuto il curriculum degli studi ginnasiali, liceali e teologici a Venezia e per un anno a Tortona (Alessandria), dove fu profugo e ospitato durante la guerra 1915-1918 con altri confratelli trentini (quindi, a quel tempo, tirolesi e sudditi austriaci, considerati nemici e potenzialmente pericolosi durante la guerra) dall’Istituto dal Beato Luigi Orione. Di lui il Valentino conservò un profondo e grato ricordo, e di lui parlava spesso con venerazione. Nel 1917 avrebbe dovuto emettere i voti temporanei, ma non poté farlo per mancanza delle lettere testimoniali dell’arcidiocesi di Trento, che non potevano arrivare per causa della situazione bellica. Le testimoniali sostitutive, richieste dal preposito tramite monsignor Pescini a Roma, arrivarono quando il gruppo dei religiosi Cavanis stava già lasciando Tortona; Valentino dunque, assieme a Mansueto Janeselli, emise la professione temporanea triennale in ritardo, ritornato a Venezia dopo la guerra, l’8 dicembre 1918, solennità dell’Immacolata; emise i voti perpetui il 17 dicembre 1922.
Ricevette la tonsura a Venezia dal cardinal Patriarca La Fontaine il 14 dicembre 1922; i primi due ordini minori, dalla stesso porporato il 21 dicembre 1922 e il 23 dicembre gli altri due ordini minori ; fu ordinato suddiacono nella basilica di S. Marco il 17 marzo 1923, nel sabato sitientes; il 22 aprile dello stesso anno fu ordinato diacono nella chiesa del Redentore alla Giudecca dal patriarca La Fontaine, in occasione delle celebrazioni per il centenario di S. Fedele di Sighmaringen; infine il 15 luglio 1923 nella chiesa del Redentore alla Giudecca fu ordinato prete dallo stesso patriarca.
Conseguita la Laurea in Lettere a Padova il 30 giugno 1932, difendendo una tesi su Paride Zanotti, dedicò senza risparmio di energie fisiche e intellettuali la sua opera di educatore e di maestro prima nelle scuole elementari di Venezia e poi nelle scuole inferiori e superiori nelle varie Case della Congregazione. Fu tra i primi padri Cavanis della comunità di Porcari; da Porcari passò poi a Capezzano Pianore quando fu aperta questa casa. Fu economo del Collegio Canova ed esplicò questa attività con senso di responsabilità e premura.
Trasferito nel 1960 dalla Casa di Capezzano Pianore, ove insegnò materie letterarie nel Liceo Scientifico, fin dalla sua fondazione nel 1953, in quella di Possagno, continuò la sua opera di educatore finché le forze glielo consentirono. Fu anche economo del Collegio Canova ed esplicò questa attività con senso di responsabilità e premura.
In pratica, girò quasi tutte le case della Congregazione dei suoi tempi: fu a Porcari dal 1927 al 1931, a Possagno-Canova dal 1932 al 1934, a Venezia in casa madre dal 1934 al 1937, a Possagno nel 1938-40; rimanendo all’inizio membro di quella comunità, passò a fondare la piccola comunità (e alla breve esperienza triennale) di tre padri e fra Vincenzo Faliva a Fietta del Grappa, nell’edificio offerto da don Giovanni Andreatta e a servizio del nuovo istituto di monsignor Filippin, a Paderno del Grappa: P. Valentino fu pro-rettore di questa minuscola comunità nel biennio 1938-40; ritornò poi per un anno a Possagno (1940-41). Passò poi lungamente a sud del Po: a Porcari dal 1943 al 1955; a Capezzano dal 1955, poco dopo l’apertura di quella casa, fino al 1961; fu di nuovo a Possagno dal 1961 certamente fino al 1967, con un breve intervallo a Roma nell’anno scolastico 1963-64.
Alla missione della scuola alternò quella pastorale della predicazione e soprattutto della confessione, che adempì per lunghi anni con esemplare assiduità. Di temperamento energico, cordiale e insieme riservato, sapeva celare con la sua modestia le sue doti intellettuali e gli atti di virtù religiose di una vocazione profondamente vissuta e amata e alimentata dalla pietà.
Il P. Valentino era un tipo svelto ed energico e amava molto muoversi, camminare, vivere in mezzo alla natura. A Possagno, nel tempo libero, gli piaceva percorrere i sentieri nei boschi di castagno della bassa montagna e le abetaie della fascia più alta dei boschi. Ci capitava a volte durante le nostre passeggiate estive sulle falde del Monte Grappa di vederlo sbucare dal folto, già anziano ma molto sereno e sorridente, con il suo volto che ricordava quella di un elfo. Aveva una passione speciale per gli uccelli e per gli altri animaletti dei boschi. Manteneva anche rapporti di amicizia e scambio di dati con ornitologi di passione o di professione.
Almeno negli anni di residenza a Porcari praticava anche l’apicultura, e manteneva delle arnie pure nel probandato a Vicopelago, dove andava a dar lezioni ai seminaristi minori, e dove P. Diego Dogliani, allora ragazzetto aspirante, lo ricorda circondato da un nugolo di api, e sempre senza maschera e senza altre protezioni.
A partire dalla fine degli anni Settanta, soffrì progressivamente per tre anni di forme sempre più accentuate di arteriosclerosi, che fiaccarono le sue forze. Questa malattia lo fece soffrire molto, soprattutto perché poco a poco perdette l’autonomia, cui teneva moltissimo, essendo piuttosto riservato e indipendente, e la possibilità di praticare le sue passeggiate solitarie. Il 31 gennaio 1982 spirò, confortato dai sacramenti e assistito dall’affetto dei confratelli.
Dopo i funerali celebrati solennemente nel Tempio canoviano la sua salma fu tumulata nel cimitero locale di Possagno.
7.51 P. Giuseppe Pagnacco
Nacque a Possagno (TV) nel 1906, dove il padre, medico, si era trasferito con la famiglia. Ritornato poi con la famiglia alla città cui apparteneva la famiglia, Venezia, si laureò in Economia e Commercio a Ca’ Foscari e si diede ad attività nel campo aziendale, svolta per un certo periodo anche in Africa, più esattamente a Massaua, in Eritrea, sulle coste del Mar Rosso, per conto della sua impresa. Insoddisfatto di quel lavoro e in genere del mondo, o, diciamo, del secolo, desideroso di realizzare la vocazione allo stato di vita più perfetta, lasciata l’attività impiegatizia nel ramo commerciale, maturo di anni e di esperienza entrò nella nostra Congregazione nel 1947. Visse l’esperienza marcante del noviziato nel 1947-48 a Possagno, con novizi molto più giovani di lui, ma con grande umiltà e semplicità.
Consacratosi con la professione temporanea il 20 ottobre 1948, passò a Venezia nel teologato il 21 ottobre 1948, iniziò pazientemente gli studi teologici (era già laureato alla sua entrata nell’Istituto) e manifestò il suo impegno definitivo al Signore con la professione perpetua emessa il 28 ottobre 1951 a Venezia, nella solennità di Cristo re.
Ricevette la sacra tonsura il 17 dicembre 1949 nella cripta di S. Marco; i primi due ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 23 dicembre 1950, gli ordini minori dell’esorcistato e accolitato il primo luglio 1951; il suddiaconato il 23 dicembre 1951, nella cripta di S. Marco, dal patriarca Carlo Agostini e il diaconato a Venezia il 29 marzo 1952, dallo stesso patriarca; infine, compiuti gli studi teologici, ricevette l’ordinazione presbiterale il 7 giugno 1952 in S. Agnese, dal confratello, e vescovo di Chioggia monsignor Giovanni Battista Piasentini.
Già molto maturo e per la sua competenza in economia, venne nominato economo del Collegio Canova di Possagno; incarico che adempì con scrupolosa fedeltà e con spirito di sacrificio per circa 20 anni, con una breve interruzione, acquistandosi la stima e l’affetto dei confratelli. Lo faceva per stretta obbedienza, anche se con molta competenza e con amore; perché avrebbe voluto dedicarsi alla pastorale della gioventù, per la quale era entrato in Congregazione. Non si lamentava mai, ma periodicamente chiedeva ai superiori di poter compiere veramente la sua vocazione.
Avendo chiesto ancora una volta di attuare il suo desiderio, che accarezzava da lunghi anni, di essere missionario, i Superiori lo destinarono a Castro, nel Paraná, Brasile, nel 1972. Rimase in quella piccola città fino alla malattia finale e alla morte. Vi esercitò il suo apostolato in varie attività, ma in particolare nell’assistenza ai poveri, specialmente fanciulli, che sfamava, vestiva, catechizzava con pazienza, bontà e spirito evangelico; inoltre nelle visite all’ospedale e nelle favelas dove portava la sua parola preziosa di amore, di zelo, di fede e di speranza con aiuti anche materiali. A questo riguardo, si può anche ricordare che con l’età avanzata era cresciuta in lui la misericordia, l’amore e l’opzione per i poveri. Strettamente povero per quanto lo riguardava personalmente (le sue scarpe bucate e fruste e i suoi abiti lisi erano proverbiali), cercava fondi in tutti i modi per aiutare i suoi poveri. Ciò lo portò da un lato ad essere straordinariamente generoso, dall’altro a farsi ingannare da falsi poveri che raccontavano qualche storia pietosa, e anche da non eseguire una beneficenza programmata dalla comunità e approvata dai superiori. Si tratta di un fenomeno visto altre volte tra i nostri, quando la pietà per l’immensa miseria di tanta gente fa cambiare addirittura i costumi di persone per tutta la loro vita estremamente lige alle regole comunitarie e a una carità bene ordinata.
Merita pure di essere ricordata la sua profonda spiritualità e devozione unite all’osservanza fedele delle regole, della vita comune, che alimentarono la sua spiccata ascesi sacerdotale e religiosa nascosta dalla sua modestia.
Dopo una breve malattia, si spegneva serenamente nell’ospedale di Ponta Grossa il primo marzo 1988, confortato dai sacramenti e dalla presenza dei confratelli all’età di 82 anni. I funerali furono celebrati a Castro e presieduti dal vescovo di Ponta Grossa Don Geraldo Micheletto Pellanda, con numerosissimo concorso di popolo di ogni condizione sociale, testimonianza di quanto fosse amato e stimato per le sue virtù e per la sua inesauribile carità verso i poveri.
La sua salma riposa nel cimitero municipale, nella tomba della comunità della provincia brasiliana, in attesa del “Dies Domini“.
7.52 P. Bruno Marangoni
Nato a Crespano del Grappa, diocesi di Padova e provincia di Treviso l’8 aprile 1908, entrò nel probandato di Possagno come aspirante il 17 ottobre 1921. Il 10 ottobre 1926, “Per l’apertura dell’anno sc[olastico] si fece la funzione della Vestizione di Marangoni Bruno”, non è chiaro se a Venezia o a Possagno, più probabilmente a Venezia. Segui l’anno di noviziato, nel 1926-27, probabilmente a Possagno, e il corso liceale; Bruno emise la professione temporanea l’11 settembre (o ottobre, come sarebbe più giusto) 1927; e la professione perpetua a Venezia, in S. Agnese, l’8 novembre 1931, nella festa della Madonna del Soccorso. Il 4 ottobre 1931 ricevette anche l’abilitazione per l’insegnamento elementare.
Tonsurato il 14 aprile 1932, ricevette l’ostiariato e il lettorato a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; l’esorcistato e l’accolitato il primo luglio dello stesso anno; il suddiaconato il 22 novembre 1934; il diaconato il 7 aprile 1935. Completati gli studi teologici, il 30 giugno 1935 fu consacrato sacerdote nella chiesa del SS.mo Redentore a Venezia .
Conseguita l’abilitazione per l’insegnamento delle Lettere nelle scuole medie inferiori, dedicò tutta la sua vita alla formazione intellettuale e morale della gioventù. Insegnò nelle scuole elementari e nelle medie inferiori a Venezia e in altre case della Congregazione, acquistandosi per le sue doti di bontà, di affabilità, unite alla severità, la stima e l’affetto dei suoi alunni, ai quali trasmise il suo insegnamento ed educazione con entusiasmo e competenza.
Nel giugno 1940, poco dopo che l’Italia dichiarasse guerra alla Gran Bretagna e alla Francia, fu chiamato alle armi come cappellano militare, inizialmente di stanza a Conegliano, dove lo visitò il preposito, all’epoca il P. Aurelio Andreatta. In seguito sembra che lasciasse molto presto, dopo pochi mesi, per motivi ignoti, questo compito di cappellano militare, e infatti nella rivista Charitas del luglio-dicembre 1940 si trova la strana notizia relativa alla celebrazione formale civile dell’inizio dell’anno scolastico a Possagno-Canova, il 16 ottobre 1940: “Il comandante della G.I.L. cedette poi il comando delle squadre al P. Bruno Marangoni, ex-tenente cappellano, che diresse la sfilata in tono di dignità e di fierezza.” Mi sembra di vederlo!
Lo stesso numero della rivista, a pag. 47 riporta una foto del P. Marangoni, mentre dà la comunione a soldati, con la didascalia: “Assistenza spirituale ai soldati. P. Bruno Marangoni, richiamato come Cappellano Militare di un reggimento di artiglieria, distribuisce, durante una Messa al campo, la S. Comunione”.
In dettaglio, P. Bruno fu presente nelle seguenti case e attività: chierico a Venezia almeno dal 1931 all’estate 1935, quando fu ordinato prete; dal 1935 al 1943 a Possagno, almeno nei primi anni come addetto al compito di formatore nel probandato, in appoggio al P. Alessandro Vianello, che non godeva di buona salute, come sempre; dal 1943 al 1946 fu a Porcari; dal 1946 al 1949 di nuovo a Possagno; nell’autunno di quest’anno 1949 passò in montagna – un ambiente, quello, che P. Bruno amava immensamente – all’Istituto Dolomiti di Borca di Cadore, fino al 1953, anzi era stato assegnato alla casa anche per il 1953-54, ma la comunità Cavanis dovette ritirarsi; nell’anno scolastico 1953-54 lo troviamo formatore per un breve periodo nel probandato di Possagno; dal 1955 al 1958 ritorna a Porcari. Dal 1958 al 1964 passa alla casa di Venezia, dove, dal 1960 al 1964, oltre che insegnante nelle scuole medie P. Bruno fu ora per quattro anni anche insegnante di Storia della Chiesa nello Studium teologico dell’Istituto a Venezia. In seguito, nel 1964-65 fu ancora a Porcari, dal 1965 al 1967 a Solaro, dal 1968 al 1971 al seminario minore di Fietta del Grappa. In seguito lo troviamo dal 1971 al 1979 a Venezia e infine a Possagno, collegio Canova dal 1979 fino al 1988, anno della sua morte.
Alla missione di maestro e di educatore alternò il ministero della confessione e della predicazione sobria ed efficace. Della sua scrupolosa puntualità alla vita comune e dell’osservanza delle regole lasciò eloquenti esempi di virtù religiose e sacerdotali. Alimentò la sua pietà con una particolare devozione al S. Cuore eucaristico di Gesù e alla Madonna che facilitò la maturazione della sua ascesi spirituale.
Nell’ultimo scorcio della sua vita fu colpito da forme sempre più accentuate di arteriosclerosi e di disturbi di cuore, che lo accompagnarono fino alla morte, che lo colse il 31 agosto 1988, all’età di 80 anni, ricco di 53 anni di sacerdozio e 61 anni di vita religiosa, nel Collegio Canova di Possagno. Si spense nel suo letto, durante il riposo pomeridiano; come si addormentò così fu trovato senza vita, con gli occhi chiusi, sereno com’era in quell’ultimo periodo.
La sua salma dopo i funerali solenni celebrati nel tempio canoviano fu tumulata nella cappella del cimitero locale.
“Soppressiamo” i Gesuiti
Da chierici, come tutti gli studenti, alle volte eravamo malvagi e non ne perdonavamo una ai nostri professori di teologia, tutti scrupolosamente Cavanis negli anni Sessanta. Il professore di Storia ecclesiastica era P. Bruno Marangoni. Si appassionava molto nell’insegnamento, che impartiva bene, ma con molti gesti delle mani e con un po’ troppo di retorica, a volta con cenni di nazionalismo. Combattivo qual era, da ex-cappellano militare, quando parlava dei nemici della Chiesa si riscaldava di sacro sdegno e di indomita parresia, e, calvo com’era, si vedeva distintamente elevarsi dalla lucida pelata una colonnina di vapore. Insegnava con carisma, e, almeno a chi scrive, trasmise la passione per la Storia della Chiesa.
Un giorno, parlando della riforma laica e anticlericale nel Portogallo nel secolo XVIII, promossa dal Marchese di Pombal, P. Bruno, ardente di zelo, pronunciò la storica frase: “E allora il Marchese di Pombal che cosa disse? Disse: “Soppressiamo i Gesuiti!”
Ora, Sopressar in dialetto veneto è un verbo che significa stirare gli abiti; e noi impietosamente cominciammo a guardarci, a ridacchiare e a fare il segno di stirare la roba, come se avessimo in mano un ferro da stiro.
Inoltre, la soppressa è un delizioso – e pesante – salume dell’alimentazione regionale veneta. L’idea di ridurre i Gesuiti in carne suina macinata e speziata e farne delle sopresse era troppo crudele anche per l’anticlericale Marchese di Pombal. Ce n’era di che farci venire in mente il De mortibus persecutorum di Lattanzio. Naturalmente il nostro caro professore di Storia voleva dire “Sopprimiamo i Gesuiti!”. Gliel’abbiamo raccontato e spiegato dopo la lezione, e P. Bruno ne rise anche lui.
7.53 Fratel Guerrino Zacchello
Nato a Veternigo (Tv), nel 1930, dopo aver trascorso la fanciullezza nel suo paese natale, fu accolto in un istituto presso Imola, dov’ebbe l’incarico di assistente degli alunni. A questo proposito, è bene ricordare, come fa P. Diego Dogliani nell’articolo citato, che tutti gli anni da Imola giungeva a Fra Guerrino un invito per la festa annuale di quell’istituto, il che indica che il fratello aveva lasciato un caro ricordo. Egli non partecipava, ma rispondeva puntualmente all’invito con delle belle letterine.
In quegli anni trascorsi a Imola però si era maturata nel suo animo la vocazione alla vita religiosa e all’educazione cristiana della gioventù, e egli rispose con generosità all’invito del Signore ed entrò nella Congregazione delle Scuole di Carità a Venezia nel 1950 all’età di 20 anni come fratello laico. Compiuto il noviziato nella Casa del S. Cuore con ogni probabilità nel 1951-1953, periodo in cui era incaricato della sacrestia, di giardiniere, con l’incarico anche della pulizia della “pineta” e di tutta l’area esterna; emise i voti temporanei nell’autunno del 1953 e quelli perpetui consacrandosi definitivamente al Signore, il 15 agosto 1957 in casa del S. Cuore.
Seppe e volle vivere la sua giornata nella preghiera, nel lavoro, nell’imitazione di Cristo lavoratore nella varie case della Congregazione, dove l’obbedienza lo chiamò. In vari incarichi affidatigli dall’obbedienza, tra i quali quello di autista, di sagrestano e di portinaio, li adempì con fedeltà, con disponibilità e responsabilità, senza presumere di sé, senza risparmio di energie, sapendo di fare la volontà di Dio e di cooperare nel suo umile, ma prezioso servizio al bene dei confratelli che lo stimavano per l’amabilità del carattere e la delicatezza d’animo, schiva e semplice. La condotta esemplare e laboriosa, l’osservanza delle regole e della vita comune, la devozione al Cuore di Gesù, alla Madonna e ai venerati Padri fondatori, caratterizzarono la sua non lunga vita religiosa.
Fra Guerrino, dopo gli anni di formazione iniziale, passati sembra a Venezia per un anno e poi in casa del S. Cuore, fu a Possagno, nel collegio Canova, nel 1953-58; sempre a Possagno ma nel probandato nel 1958-61 (e fu questo uno dei pochi periodi in cui ci fu un fratello laico nel probandato di Possagno, perché in questa casa tutti i servizi venivano svolti, di solito, dai seminaristi stessi); lo troviamo poi a Solaro dal 1962 al 1964: poi per un lungo periodo (1964-1979) nella casa e scuola professionale di Chioggia. In questa casa, aveva tra l’altro l’incarico del trasporto scolastico, cioè di autista dello scuolabus, lavoro non facile, soprattutto d’inverno, con la nebbia e il ghiaccio, sulle strette strade degli argini del Brenta e degli altri fiumi e canali. In seguito fra Guerrino passò in Casa del S. Cuore nel quadriennio 1979-1982, e in questo periodo seguì il cantiere per la rettificazione e parziale rifacimento della strada che da Possagno portava alla casa degli esercizi. La sua jeep era vista lungo la strada da mane a sera; e fra Guerrino si faceva amici tutti gli operai, sterratori, tecnici, come nota P. Diego Dogliani.
Non è chiaro, dalla documentazione, dove il fratello abbia trascorso gli anni dal 1982 al 1985. Fu poi comunque, nella fase finale della sua vita, nella comunità del collegio Canova, dal 1985 alla morte. In questo periodo, di particolare sofferenza fisica, P. Dogliani testimonia che recitava tutto il rosario intero ogni giorno, di 150 Ave Maria. Nelle lunghe ore che trascorreva nella portineria del collegio, in questo periodo, leggeva anche molti libri di spiritualità. Aveva, scrive P. Dogliani, anche una spiccata devozione per i Fondatori, specialmente verso P. Marco.
Negli ultimi anni la sua robusta fibra fu minata da una lunga e grave malattia, un tumore maligno, che lo portò più volte all’ospedale, ove fu operato ben otto volte, due volte rimanendo poi in sala di rianimazione, ma senza grandi vantaggi. La malattia gli procurò acute e indicibili sofferenze sopportate con edificante rassegnazione, fino alla morte che lo colse nell’ospedale di Castelfranco Veneto il 20 ottobre 1988 all’età di 58 anni. I funerali furono celebrati solennemente nel tempio di Possagno con numerosa e composta partecipazione di confratelli, di parenti, di alunni e di fedeli del paese. La sua salma fu tumulata nella cappella del clero del cimitero locale.
7.54 P. Angelo Pillon
Di Santa Bona, in provincia di Treviso, alla periferia del capoluogo (e nell’ospedale di Treviso), ove ebbe i natali il 19 settembre 1898, già maturo di anni e di esperienza acquistata nel servizio prestato in parrocchia, entrò il 20 ottobre 1925 come postulante nel seminario di Possagno, all’età di 27 anni, dopo mille prove e difficoltà. Passò un anno come seminarista in appoggio ai religiosi professi a Porcari, durante il 1926-27, con Marco Cipolat. Vestì l’abito della congregazione il 16 luglio 1928 e cominciò il noviziato (1928-29). Emise la prima professione il 16 (o 23) luglio 1929, la perpetua il 4 settembre 1932 a Possagno.
Compiuto il corso di studi teologici, infine il 2 luglio 1933 fu ordinato prete a Venezia assieme ai confratelli Lino Janeselli, Carlo Donati e Luigi Ferrari.
Prestò quindi, senza risparmio di energie e di fatiche, l’opera di educatore e di maestro nei nostri seminari di Possagno e di Levico e nei collegi di Possagno e di Porcari come pure nella casa di Roma. Coprì le cariche di economo del Collegio Canova di Possagno e di direttore della Casa del S. Cuore con prudenza, spirito di sacrificio e consapevolezza delle proprie responsabilità.
In ordine di tempo, la sua vita religiosa è scandita in questi periodi:
Alla missione di maestro e di educatore alternò il ministero pastorale della predicazione e specialmente delle confessioni dei giovani dei nostri istituti e a Porcari si prestò con zelo e amore delle anime per l’assistenza e per la direzione spirituale dei fedeli della parrocchia. Dopo che non poté più dedicarsi attivamente all’educazione e istruzione dei ragazzi e giovani, compariva sempre però alle ricreazioni e negli altri momenti di convivialità, dando così una buona pratica e buon esempio di spirito Cavanis, e questo fino alla fine.
La sua pietà fu caratterizzata dall’amore a Gesù Eucaristico e da una speciale devozione alla Madonna, che alimentarono la spiccata ascesi presbiterale e religiosa, nascosta dalla sua modestia.
Nel 1986 il suo organismo mostrò una serie di problemi: particolarmente il sistema cardio-circolatorio aveva mostrato segni inarrestabili di logoramento. Dopo breve malattia terminale, durante la quale era stato amorevolmente assistito dal fratel Giusto Larvette, inviato dal preposito per alleviargli l’infermità, P. Angelo chiuse la sua laboriosa e lunga esistenza il 2 gennaio 1987, all’età di 89 anni, nell’ospedale civile di Lucca, dove era stato ricoverato dalla comunità di Porcari.
I funerali furono celebrati solennemente nella chiesa parrocchiale di Porcari. Dopo il funerale, i giovani della cittadina diedero una testimonianza commovente di fede e di gratitudine. Vollero portare a spalle la salma del defunto P. Angelo dalla chiesa al cimitero, nonostante il tragitto sia lungo e scomodo. La sua salma fu tumulata nel cimitero locale e si trova ancora oggi (2020) in quel cimitero.
7.55 Padre (Vescovo) Giovanni Battista Piasentini
Giovanni Battista Piasentini era nato a Venezia il 31 luglio 1899, da Pietro Piasentini e Teresa Palazzi, in una famiglia tipicamente veneziana, di Cannaregio.
Dopo aver frequentato l’ambiente religioso dei Carmelitani Scalzi e il patronato dei Padri Canossiani a S. Giobbe, nel 1910 intraprese gli studi ginnasiali nell’Istituto Cavanis. Entrò poi in Istituto come aspirante il 7 ottobre 1916, durante la prima guerra mondiale, a Venezia. Aveva chiesto di entrare in Istituto come aspirante o postulante già due anni prima, ma il preposito gli aveva proposto di aspettare ancora due anni e di terminare il ginnasio come esterno. Giovanni Battista aveva rinnovato poi la domanda di essere ammesso l’8 settembre 1916, con la sua bellissima scrittura calligrafica, e questa volta la domanda fu accolta. Vestì quindi l’abito della Congregazione con altri cinque postulanti ed entrò con loro in noviziato l’8 dicembre 1916, solennità dell’Immacolata.
Dopo una parentesi che lo vide arruolato nell’esercito dal 2 luglio 1917 al 6 giugno 1919, come pontiere del Genio lagunare, tra i “ragazzi del 1899”, cioè l’ultima leva che venne chiamata alle armi nella disperazione della fase della guerra che si svolse dopo Caporetto, cosa che lo costrinse a interrompere il suo noviziato e a riprenderlo in seguito, ritornando in comunità solo il 7 aprile 1919 cinque mesi dopo la fine della guerra, per poi riprendere un breve periodo di vita militare fino a giugno. Percorse le tappe della formazione iniziale e della sua giovane vita religiosa regolarmente. Riprese gli studi, infatti, dopo essere stato congedato. Integrò i giorni che gli mancavano di noviziato, con la licenza della S. Sede motivata dalla situazione speciale di guerra ed emise la professione temporanea triennale il 4 maggio 1920; compiuti poi gli studi umanistici liceali – questi ultimi sostituiti positivamente da un esame suppletivo per ex-militari, sostenuto a Novi Ligure (Alessandria), con l’appoggio degli Orionini e di don Orione personalmente – e teologici a Venezia in Istituto emise la professione perpetua a Venezia in S. Agnese il 4 maggio 1923
Ricevette la tonsura a Venezia dal cardinal patriarca La Fontaine il 14 dicembre 1922; i primi due ordini minori, dalla stesso porporato il 21 dicembre 1922 e il 23 dicembre gli altri due ordini minori. Fu ordinato suddiacono a Venezia il 12 aprile 1924, sabato sitientes, assieme ai confratelli Pellegrino Bolzonello e Mario Miotello. Gli stessi tre religiosi furono ordinati diaconi nella chiesa di S. Salvador a Venezia il 14 giugno 1924. Ed egli fu ordinato prete il 22 giugno 1924 dal Patriarca Pietro La Fontaine. Compì gli studi in lettere presso l’università di Padova e si laureò. Dopo i primi anni da prete, passati a Venezia, dal 1928 insegnò lettere nel Collegio Canova di Possagno, ricoprendovi poi la carica di rettore dal 1931 al 1940. Fu ideatore e costruttore della Casa di esercizi spirituali del S. Cuore a Coldraga, una collina di circa 600 m che si erge sopra il paese di Possagno sulle balze del massiccio del Grappa, casa cui resterà sempre legato. Fu prefetto delle scuole a Venezia dal 1940 al 1943 e procuratore generale della Congregazione, sempre con sede a Venezia, dal 1944 al 1946, anno in cui fu elevato all’episcopato.
La sua capacità brillante nella predicazione, il suo zelo pastorale, il contatto con molti ecclesiastici nella casa del S. Cuore di Possagno, i suoi contatti a Roma come procuratore dell’Istituto, furono elementi che lo avevano messo in vista e che lo portarono alla scelta da parte di Pio XII e alla nomina come vescovo di Anagni, e alla consacrazione episcopale, avvenuta a Venezia il 19 marzo 1946, in S. Marco, per le mani del patriarca Adeodato Piazza.
Durante sei anni di episcopato nella storica città d’Anagni (Frosinone) di cui era stato eletto vescovo nel 1946, seppe esprimere tutta la sua fermezza e bontà di pastore attivo, zelante e prudente, impronta evidente del suo apostolato tra il clero e nelle anime dei fedeli che lo apprezzarono e corrisposero il suo amore di pastore. Non fu una sinecura, tuttavia.
Trasferito dalla S. Sede nel 1952 in qualità di 77° vescovo dell’antichissima città di Chioggia (Venezia), dove entrò e prese possesso solennemente il 30 marzo, assunse la carica di una diocesi piena di problemi spirituali e materiali, in parte di origine antica e tradizionale di una zona cronicamente depressa, in parte dalla situazione creatasi durante la seconda guerra mondiale e il successivo dopoguerra; P. Piasentini immediatamente iniziò a ricostruirla. Il nostro caro vescovo si rimboccò le maniche e si mise duramente e ostinatamente al lavoro. Una chiara testimonianza è data dal bilancio di molte e differenti opere in campo religioso, sociale ed educativo e dei numerosi edifici (chiese, asili, scuole, centri sociali) progettati e realizzati nei suoi 25 anni da pastore, durante i quali lavorò senza sosta e sempre scrupolosissimo in conformità con la sua missione episcopale indicata chiaramente nel suo motto iscritto nello stemma episcopale Spiritu ferventes. A Chioggia fu seguito e accudito da sua madre, la signora Teresa, che raggiunse novantanove anni di età, e dalla fedele domestica o Perpetua Augusta. Fu anche, dall’inizio della sua attività di vescovo di Chioggia, amministratore apostolico, per un certo tempo, della diocesi di Adria-Rovigo.
Prima di diventare vescovo fu educatore e professore nei nostri istituti di Venezia e di Possagno e si prodigò in questo ministero con i suoi doni d’intelligenza ed energia fisica, con passione e amore per i giovani. Si rivelò un predicatore forte e un forgiatore lucido di coscienze.
Da notare, ai tempi del suo mandato di responsabile della casa di Esercizi spirituali del S. Cuore a Possagno: durante la triste epoca della cosiddetta repubblica di Salò, P. Giovanni Battista Piasentini, aveva accolto e nascosto in questa casa a lungo almeno una famiglia di ebrei, in grave pericolo di essere catturati e deportati nei campi di sterminio. Il diario della casa Cavanis di Roma in via Casilina dice che tra di essi c’era l’ex-allievo dell’Istituto Giorgio Franco e suo padre; probabilmente c’erano altri membri della famiglia, ma mancano per ora dati esatti. Il Diario non precisa per quanto tempo essi sono stati ospiti segreti di P. Piasentini e della casa del S. Cuore; sembra che ci stessero a lungo e che – secondo racconta P. Fabio Sandri –, quando c’erano avvisaglie di pericolo, essi si nascondevano in una specie di stanzetta o cripta sotterranea scavata alla base della caratteristica torretta esagonale appunto del primo modulo della casa del S. Cuore, quella che guarda verso Possagno. P. Fabio Sandri racconta anche di aver saputo dall’ex-allievo Giancarlo Degan, scomparso nel 2015, fratello di P. Franco Degan e figlio dell’ex-allievo e per lungo tempo presidente degli ex-allievi e della Congregazione mariana di Venezia, Attilio Degan, che egli stesso, Giancarlo Degan, allora liceale, forse compagno di scuola di Giorgio Franco, viaggiava periodicamente e pericolosamente da Venezia, dove abitava, a Possagno, come staffetta per mantenere il contatto con Giorgio Franco e la sua famiglia, provvedere alimenti, trasmettere messaggi a parenti nascosti a Venezia e viceversa. Un atto veramente eroico per questo giovane; ancora più eroico da parte di P. Piasentini, che avrebbe potuto essere condannato alla deportazione e/o alla morte se la famiglia di ebrei ospite dei Cavanis fosse stata localizzata e scoperta. Del resto, la casa del S. Cuore in quel tempo era anche conosciuta per dare appoggio morale e fisico ai partigiani, giovani possagnesi e altri che si erano dati alla macchia.
La sua pietà eucaristica profonda e ardente deve essere ricordata, così come la sua speciale devozione alla Santa Vergine e al Sacro Cuore di Gesù di cui si ha una prova tangibile data dalla costruzione su sua iniziativa della casa del Sacro Cuore di cui si diceva.
Dal 10 giugno 1976 abitò a Possagno, ospite della comunità Cavanis, vescovo emerito di Chioggia, dopo essersi ritirato dalla sua diocesi, avendo presentato le dimissioni, come di prassi, per raggiunti limiti di età. Abitava nel caseggiato chiamato casa Bombarda, nell’appartamento che si era preparato per sé, prima di lui, monsignor Ettore Cunial.
Morì a 88 anni il 31 agosto 1987, nel Collegio Canova di Possagno. Il suo funerale solenne ebbe luogo nel tempio di Canova, in presenza di monsignor Antonio Mistrorigo, vescovo di Treviso e di numerosi confratelli e dei suoi preti del clero diocesano di Chioggia, ma anche di altre provenienze, dato che era molto conosciuto e stimato. Celebrazioni solenni vennero svolte in seguito nella cattedrale di Chioggia. Il rito ufficiale venne officiato dal card. Patriarca di Venezia Marco Cè, dai vescovi del Triveneto con numerosi preti e fedeli. L’elogio funebre fu tenuto dal vescovo di Chioggia monsignor Sennen Corrà, suo successore. Il corpo fu seppellito nella cattedrale di Chioggia, sotto il presbiterio, come egli stesso aveva desiderato, e dove gli fu eretto un monumento nel 2006.
Una storia a parte è quella dei segretari del vescovo Piasentini. Infatti egli volle sempre ( e ottenne) un padre Cavanis come segretario e principale collaboratore, anche con lo scopo di vivere in qualche modo in una piccola comunità Cavanis. Tra i suoi segretari prima ad Anagni e poi a Chioggia, ricordiamo: P. Riccardo Zardinoni (a Anagni, dal 1946 al ?49), P. Narciso Bastianon (ad Anagni dal 1949 al 1952, poi a Chioggia fino al 1955), P. Franco Degan (1955-60), P. Diego Beggiao (1960-65), P. Giuseppe Francescon (1965-67); solo più tardi il vescovo ebbe come segretario un prete diocesano di Chioggia, don Luigi Dalle Nogare. La congregazione aveva perso i servizi di uno dei suoi sacerdoti per ben 21 anni. Ma ne valeva la pena.
“SÉGNITE!”
Di uno di questi segretari del nostro monsignor Piasentini, segretario che “per degni rispetti non nomino” si racconta in Congregazione che una volta il vescovo, durante una visita pastorale a una parrocchia, gli disse in dialetto veneziano “Ségnite”, cioè “Prendi nota nell’agenda!”, al riguardo di una cosa che bisognava annotare per non dimenticarsene. Il segretario capì in modo differente, e si segnò, cioè si fece il segno della croce. La storia divenne famosa in Congregazione. Sono le piccole cose che mantengono serena e allegra la vita della comunità.
D’altra parte, che scrive queste pagine cadde in un equivoco simile. Durante l’anno di noviziato in casa del S. Cuore, don Giovanni Andreatta, collaboratore dell’Istituto, quasi membro dello stesso e, in quell’occasione come in tante altre, predicatore di esercizi spirituali nella Casa del S. Cuore, mi chiese “Giuseppe, hai visto il mio bastone?” e io risposi un po’ perplesso: “Sì, un bel bastone!”. In effetti era un bel bastone da passeggio, brillante sostegno della sua cara vecchiaia, in ebano e con la testa in argento; ma non era questa la risposta che don Giovanni si aspettava: lo aveva semplicemente smarrito e lo cercava. Mi presero in giro, benignamente, per molto tempo per questo episodio.
7.56 P. Vincenzo Saveri
Vincenzo Saveri nacque il 22 gennaio 1901 in Friuli, ad Aviano, un paese sito in diocesi di Concordia Sagittaria, dal quale provennero numerosi religiosi Cavanis. Entrò nel seminario dell’Istituto come aspirante a Venezia il primo ottobre 1910; vestì l’abito della Congregazione con altri cinque postulanti ed entrò con loro in noviziato l’8 dicembre 1916, solennità dell’Immacolata; emise i primi voti triennali il 2 febbraio 1918, con qualche ritardo dovuto ad eventi di guerra; fu richiamato nuovamente sotto le armi e rimase militare dal 24 novembre 1920 al 22 giugno 1922, risiedendo a Bologna e ricevendo appoggio cordiale in quella città dai padri Barnabiti del collegio S. Luigi, poi fu avvicinato a Venezia, come infermiere presso l’Infermeria presidiaria di S. Chiara. Frequentava i corsi e dava gli esami di teologia “a rate”, come poteva, venendo a ricevere dei corsi in Istituto la sera, durante la libera uscita, quando ci riusciva.
Si consacrò al Signore di nuovo il 2 luglio 1922, privatamente, con la professione temporanea “ad annum, secondo le prescrizioni sui giovani tornati dalla milizia”, mentre giungevano su di lui le lodi scritte da parte dei PP. Barnabiti di Bologna e del cappellano del suo corpo militare; e con la professione perpetua il 17 dicembre 1922; ricevette la tonsura clericale a Venezia dal Card. Patriarca La Fontaine il 14 dicembre 1922; i primi due ordini minori, dalla stesso porporato il 21 dicembre 1922 e il 23 dicembre gli altri due ordini minori ; fu ordinato suddiacono nella basilica di S. Marco il 17 marzo 1923, nel sabato sitientes; fu ordinato suddiacono nella basilica di S. Marco il 17 marzo 1923, nel sabato sitientes ; il 22 aprile dello stesso anno fu ordinato diacono nella chiesa del Redentore alla Giudecca dal patriarca La Fontaine, in occasione delle celebrazioni per il centenario di S. Fedele da Sigmaringa; infine, compiuti gli studi teologici ricevette l’ordinazione sacerdotale il 15 luglio 1923 a Venezia dallo stesso patriarca nella basilica del Redentore.
Dotato d’intelligenza perspicace e di carattere energico, percorse il curriculum di studi fino a frequentare il corso di Storia e Filosofia che lo portò brillantemente alla laurea presso l’Università di Padova. In seguito, in questi stessi campi del sapere ottenne l’abilitazione per l’insegnamento nei licei, il 27 maggio 1959.
Per le sue rare capacità organizzative e per la sua esperienza nel maneggio degli affari fu rettore delle case di Porcari, Venezia, Capezzano Pianore, Prefetto delle scuole di Venezia, Procuratore generale, Definitore, Postulatore della causa di beatificazione dei fondatori. In tutte queste cariche, impresse la sua impronta di organizzatore e di lavoratore instancabile. Le date della sua presenza e attività nella varie case e opere Cavanis in Italia sono le seguenti:
Tutti o quasi i padri Cavanis ricevevano un soprannome dagli studenti; lui, lo chiamavano “il gancio” perché aveva l’abitudine di tenere sulla cattedra la mano destra chiusa a pugno, con il pollice piegato all’indietro più dell’ordinario, come appunto un gancio.
Era un uomo di grande cultura e fornito di particolare amore per le cose belle, l’arte, la musica, specialmente appassionato di musica sinfonica e lirica. Ricordo che a volte chiamava noi chierici, la sera, nel suo ufficio della direzione delle scuole a Venezia, cosa per noi graditissima, e ci faceva ascoltare e ci aiutava ad apprezzare la musica, in tempi in cui i chierici teologi non disponevano ancora di radio né di giradischi nello studentato ed erano del tutto privi di mezzi di comunicazione sociale e anche di musica che non fosse sacra, fino a quando il ricambio di formatore ci portò il P. Orfeo Mason, che ci provvide di un apparecchio radio e di un giradischi con un album di dischi di musica sinfonica.
Ricordo delle sessioni in cui ascoltammo in direzione, con P. Saveri, riprodotte in dischi a 33 giri, la “Cavalleria Rusticana”, opera in un unico atto di Pietro Mascagni e l’opera comica in un atto di Giacomo Puccini “Gianni Schicchi”; come pure alcune commedie in veneziano di Carlo Goldoni, per esempio I quatro rusteghi o le Baruffe Chiozzotte.
In tempi in cui le gite scolastiche si limitavano ai dintorni di Venezia, in occasione dell’eclisse totale di sole del 15 febbraio 1961, evento rarissimo alle latitudini dell’Italia, organizzò una gita del liceo di Venezia a Firenze, dove l’eclisse era realmente totale, per far assistere dal Piazzale Michelangelo a questo importante e raro fenomeno astronomico ai giovani dei licei, compresi i chierici che stavano frequentando il liceo a Venezia, come per esempio il padre Remo Morosin.
Alternò la sua attività d’insegnante con la predicazione in cui dimostrò chiarezza e incisività accompagnate da una sicura dottrina.
Fu 4° consigliere generale durante il mandato del P. Gioacchino Tomasi (1955-61).
La sua carica di postulatore generale della causa di beatificazione la svolse negli anni Sessanta, mentre era stato assegnato alla comunità di Torpignattara e poi soprattutto del Tata Giovanni, alla Piramide a Roma, in modo da poter accedere abitualmente alla Congregazione per il Culto dei Santi a Piazza Pio XII presso Piazza S. Pietro. Come tutti i postulatori, faceva la spola tra l’archivio storico della Congregazione a Venezia e la sua sede in Roma. Si serviva però soprattutto degli scritti originali dei fondatori, che allora si trovavano ancora depositati alla Congregazione per il Culto dei Santi, e più tardi delle fotocopie che ne erano state eseguite proprio in quegli anni da P. Federico Sottopietra al Tata Giovanni.
Produsse nel 1968 tre quaderni ciclostilati, nel complesso di 315 pagine, contenenti soprattutto le trascrizioni delle relazioni, della corrispondenza dei fondatori e di altri documenti, relativi al viaggio e alla permanenza a Roma di P. Marco Cavanis, per domandare l‘approvazione delle regole e della Congregazione. Erano i primi preziosi quaderni di trascrizioni di scritti dei fondatori messi a disposizione della comunità Cavanis.
La breve attività di P. Vincenzo Saveri come postulatore della causa dei fondatori tuttavia non fu molto proficua, sia perché con il suo carattere forte, da friulano, come diceva in Congregazione, non era molto docile al relatore generale assegnato alla causa specifica dall’ufficio storico della Congregazione per il Culto dei Santi, per cui da quell’ufficio fu gentilmente suggerito un’alternanza di personale da parte dei superiori; sia perché in quegli anni immediatamente postconciliari, in cui erano apparse molte novità, P. Saveri si servì dell’accesso diretto e della lettura degli scritti dei venerabili fratelli a scopo di polemica e di propaganda delle proprie idee sulla Congregazione, sul suo carisma e sulla sua spiritualità e particolarmente sui mezzi da usare per l’educazione della gioventù, spesso in opposizione a quanto si stava decidendo nel corso del Capitolo generale straordinario speciale (1969-1970). P. Vincenzo non ne era membro ma vi si opponeva frontalmente, spalleggiato da un gruppo di religiosi, del quale egli era in qualche modo l’antesignano e l’ideologo.
Pubblicò in particolare il quaderno ciclostilato “I due complementi”, in cui commentava a modo suo appunto i due complementi di specificazione che fanno parte del nome della Congregazione: “delle Scuole…di Carità”, per dimostrare che soltanto la scuola (in senso stretto e nel sistema classico) era il metodo, il mezzo, anzi il fine dell’Istituto, invece che tutta la serie di “ajuti” sui quali tanto insistevano i fondatori. Scrisse e distribuì ai congregati anche un analogo quaderno “I due pilastri”. Essi furono diffusi abusivamente tra i religiosi Cavanis e spediti anche ai membri del capitolo speciale, creando un certo sconcerto e molte polemiche. L’attività di polemista gli impedì di dedicarsi al lavoro di preparazione della Positio della causa dei fondatori, che in questi anni stava così stagnando.
Concluso il capitolo, dopo le sue due lunghe sessioni, P. Saveri fu rilevato dalla sua carica e sostituito come postulatore generale dal P. Aldo Servini, nominato dal preposito generale P. Orfeo Mason. P. Aldo con infinita pazienza e con un metodo perfetto condusse l’opera a compimento.
Progressivamente sempre più conservatore, P. Vincenzo si oppose come poteva a molte novità nella chiesa, e particolarmente all’uso del clergyman, ormai autorizzato almeno officiosamente e entrato nell’uso anche in Italia dopo il Concilio; un clergyman molto nero e molto austero all’inizio almeno. Aveva in proposito una frase divertente, intrigante e caratteristica. Diceva “Io sono disposto anche ad andare in bikini in Piazza S. Pietro, se me lo comanda il Papa; ma il clergyman non lo metterò mai”. Evidentemente la sua profonda e enciclopedica cultura, da buon religioso, non arrivava a conoscere i termini propri dell’abbigliamento da spiaggia.
P. Vincenzo Saveri esercitò le virtù religiose e sacerdotali vivificate da un grande amore al Signore e da un’ardente, spiccata devozione alla Madonna, che testimoniò in particolare come direttore della Congregazione Mariana di Venezia e nell’istituzione del liceo e convitto Marianum Cavanis, inaugurato a Capezzano Pianore nel 1954, anno mariano per tutta la chiesa universale.
Colpito, negli ultimi anni, da artrosi cronica sopportò con esemplare rassegnazione i dolori spesso lancinanti fino alla morte che lo colse a Capezzano Pianore il 31 ottobre 1980 all’età di 79 anni. Dopo i funerali celebrati nella chiesa parrocchiale di quella cittadina, cui diede particolare solennità la numerosa partecipazione, la salma fu tumulata nel cimitero locale.
7.57 P. Pellegrino Bolzonello
Nato a Cornuda, provincia e diocesi di Treviso, l’8 luglio 1896, da Giovanni Battista e Agnese Commazzetto, apparteneva a una famiglia di agricoltori benestanti con undici figlie e figlie. La sua vocazione alla vita religiosa di maturò durante gli studi come convittore nel Collegio Canova, di cui fu alunno dall’11 novembre 1909. Pellegrino attribuisce la grazia della vocazione a tre elementi: alla comunione quotidiana, cosa rara e nuova a quei tempi, pratica che Pellegrino aveva iniziato nel maggio 1910, in quinta elementare; la partecipazione alla Congregazione Mariana, eretta dal P. Agostino Zamattio (Pellegrino fu uno dei primi dodici convittori che il padre Agostino aveva scelto per dare inizio alla pia associazione, l’8 dicembre 1911); e la direzione spirituale e “la cura paterna” da parte del rettore del collegio P. Augusto Tormene.
Fu accolto nel seminario dell’Istituto Cavanis di Venezia il “17 luglio – giovedì – 1913, primo giorno degli Esercizi Spirituali per la comunità”. Dal diario di Congregazione risulta che qualche giorno prima del 13 giugno il giovane convittore Bolzonello aveva espresso il desiderio di entrare in Congregazione ed era stato accettato.
Dopo la vestizione religiosa, anticipata al 31 (o 30) ottobre 1915, per legarlo di più all’Istituto e possibilmente impedire che fosse chiamato “nella milizia”, come si diceva allora, cioè sotto le armi, divenne novizio; tuttavia l’adesione dell’Italia alla prima guerra mondiale era diventata realtà già dal 24 maggio 1915 e egli fu chiamato alle armi il 5 dicembre di quell’anno, novizio o no, e prestò servizio nella Sanità prima presso gli ospedali militari di Padova e successivamente di Verona; poi alla fine del 1916 o inizio del 1917 fu trasferito dalla Sanità alla Fanteria, e in questa occasione fu visitato dal P. Preposito Tormene, preoccupatissimo, e con buon motivo. Venne promosso a caporale, senza molto entusiasmo da parte sua. Partecipò alle azioni di guerra in prima linea nelle tre ultime terribili battaglie sul fronte dell’Isonzo, al cimitero di Gorizia, all’altopiano della Bainsizza e al Monte S. Gabriele. Qui fu preso prigioniero da truppe tedesche, e inviato in prigionia prima in Baviera, poi più a nord in Germania. In tutto aveva passato da militare quattro anni, tra terribili pericoli per l’anima e per il corpo: un anno in sanità, curando le terribili ferite e malattie dei suoi commilitoni che ritornavano dal fronte; un anno in trincea; un anno in prigionia in Germania e poi, anche se terminata la guerra, ancora un anno in sanità.
Dopo il ritorno in Italia, fu definitivamente congedato solo il 20 dicembre del 1919, più di un anno dopo la fine della guerra. Dovette rifare completamente il noviziato e professò i voti triennali o professione temporanea il 21 dicembre 1920. Compiuti poi gli studi umanistici liceali – questi ultimi sostituiti positivamente da un esame suppletivo per ex-militari, sostenuto a Novi Ligure (Alessandria), con l’appoggio degli Orionini e di don Orione – e teologici, ricevette la tonsura a Venezia dal cardinal patriarca La Fontaine il 14 dicembre 1922; i primi due ordini minori, dalla stesso porporato il 21 dicembre 1922 e il 23 dicembre gli altri due ordini minori . Il 23 dicembre 1923 emise i voti perpetui. Fu ordinato suddiacono a Venezia il 12 aprile 1924, sabato sitientes , assieme ai confratelli Giovanni Battista Piasentini e Mario Miotello. Gli stessi tre religiosi furono ordinati diaconi nella chiesa di S. Salvador a Venezia il 14 giugno 1924. Infine gli stessi ricevettero l’ordinazione presbiterale dal patriarca La Fontaine il 22 giugno 1924, nella chiesa di S. Agnese.
Conseguita la laurea e l’abilitazione all’insegnamento delle Lettere, rivelò le sue belle doti di educatore e insegnante di lettere nelle inferiori e di greco e latino nelle superiori a Venezia e a Possagno, meritandosi l’affetto e la stima incondizionata per la sua competenza didattica, e ancor più per l’inesauribile bontà ispirata alla sapienza del Vangelo. Da notare che negli anni passati a Possagno in Casa del S. Cuore, scendeva (e risaliva!) a piedi, come usava a quel tempo, con il suo passo lungo da montanaro e con le sue caratteristiche grosse scarpe da montagna, a Possagno paese, per insegnare in collegio Canova.
Fu maestro dei novizi per un decennio (1930-1940) e maestro dei chierici, Rettore del Collegio Canova (1943-1946) e della Casa Madre di Venezia (1949-1952), Direttore della Casa del S. Cuore in due periodi (1946-1949 e 1955-1961), e poi ancora animatore dei corsi di Esercizi Spirituali per molti anni; fu anche eletto Definitore generale (1943-1949). Seppe assolvere i delicati incarichi con prudenza, responsabilità e spirito di caritatevole servizio, con un’estrema e proverbiale mitezza e affabilità e, come aveva detto il cardinal patriarca Angelo Giuseppe Roncalli, con il suo garbo.
Quest’ultima qualità soprattutto fu sottolineata dal patriarca nel suo Diario dell’Anima.
Particolarmente importante per lui e per la Congregazione fu il lungo periodo, in cui fu direttore dei corsi di esercizi della casa del S. Cuore a Possagno: per innumerevoli persone e soprattutto preti e religiosi fu guida e esempio nella conversione e nella ricerca della santità. Era conosciuto e stimato da un’infinità di preti e religiosi di tutta Italia, anche perché in quel periodo la casa del S. Cuore teneva corsi di esercizi soprattutto per sacerdoti.
Durante questo periodo, il 4 giugno 1972, ricevette un riconoscimento che, pur formale e universale per tutti i sopravvissuti a quella catastrofe che fu la prima guerra mondiale, gli arrecò un immenso piacere: fu nominato dal presidente della Repubblica italiana, attraverso il sindaco di Possagno, cavaliere di Vittorio Veneto e ricevette le relative medaglie.
Avvicendò queste attività con il ministero della predicazione e della confessione, in cui emersero le sue doti di predicatore efficace, nutrito di solida dottrina, e di plasmatore d’anime.
Visse in modo esemplare la sua consacrazione a Dio, uniformando la sua vita allo spirito e alle regole della Congregazione, che amò intensamente. Caratterizzò la sua vita sacerdotale con una profonda e ardente pietà eucaristica, con una particolare devozione alla Madonna e al S. Cuore di Gesù, ed infine con incrollabile fede nella provvidenza durante le vicende liete e tristi, che accompagnarono la sua lunga esistenza. La concluse serenamente nel Collegio Canova l’11 aprile 1991, confortato dai Sacramenti e assistito dai confratelli.
I funerali furono celebrati solennemente nel tempio Canoviano e la salma fu tumulata nel cimitero di Cornuda, su richiesta formale della famiglia.
7.58 P. Mario Janeselli
Ancora fanciullo, udita la chiamata del Signore, lasciava Bosentino (TN) suo paese natale, dove aveva visto la luce l’8 giugno 1894, per entrare nella casa di Venezia come aspirante il 12 ottobre 1905.
Aveva vestito l’abito della Congregazione il 4 luglio 1909 ed emesso la professione dei voti temporanei il 5 (o 4) luglio 1910 nell’oratorio dei piccoli a Venezia, assieme a tre confratelli, compagni di noviziato; particolarmente tutte queste date corrispondono a quelle di P. Aurelio Andreatta. P. Luigi Janeselli e P. Amedeo Fedel. Un gruppetto che rimase fedele alla Congregazione fino alla morte. Mario emise la professione perpetua assieme agli stessi compagni il 5 luglio 1913 in S. Agnese, davanti alla scolaresca.
Ricevette la tonsura, assieme a quattro confratelli Cavanis, dal patriarca Aristide Cavallari nella cappella del Patriarchio il 12 dicembre 1912; i quattro ordini minori nella stessa cappella, e con gli stessi tre confratelli ma dal nuovo patriarca Pietro La Fontaine il 22 giugno 1916, solennità del Corpus Domini; ricevette il suddiaconato dal vescovo di Tortona, monsignor Simon Pietro Grassi, nel suo episcopio, durante il tempo del profugato bellico, l’8 settembre 1918, nella memoria della Natività di Maria; il diaconato, dopo il ritorno a Venezia, il 21 dicembre 1918 dal patriarca Pietro la Fontaine nella cappella del patriarchio; concluse le tappe del corso teologico, ricevette l’ordinazione presbiterale dallo stesso patriarca, nella basilica di S. Marco, il sabato sitientes 5 aprile 1919. Fu una grande festa, con quattro neo-sacerdoti Cavanis, un record e la presenza di quasi tutti i Cavanis, e anche di don Orione venuto apposta da Tortona.
Completò la sua formazione letteraria con il conseguimento della laurea in lettere. La sua carriera accademica fu tuttavia un po’ sofferta. Dal diario di Congregazione apprendiamo che “Il P. Mario Janeselli ha dovuto cambiare facoltà (studiava scienze e aveva già frequentato per i 4 anni) perché non poteva più resistere allo studio. Si è interessato assai il Prof. Dall’Agnola e così ha potuto risparmiare un anno di tasse e fu accettato nel 2° anno di lettere”.
Ebbe incarichi direttivi e di responsabilità: oltre a Rettore del Collegio Canova di Possagno e del Collegio Dolomiti di Borca di Cadore, tenne la direzione delle scuole di Venezia e fece parte del Consiglio Generale. Questi incarichi non gli impedirono di comunicare agli alunni delle scuole inferiori e superiori, che lo ebbero docente valido ed esperto, la sua profonda cultura letteraria e scientifica.
Nell’ordine cronologico, questa fu la sua presenza e attività pastorale nelle case dell’Istituto:
La versatilità della sua intelligenza gli consentì di dedicarsi alla composizione di opere teatrali di qualche valore, che scriveva per incentivare e rendere più educativa l’attività dei gruppi filodrammatici dei collegi e delle scuole. Di qualcuna esistono ancora i libretti, in AICV e nella biblioteca dell’Istituto a Venezia.
Mentre nel collegio di Capezzano Pianore continuava a dare il contributo delle sue energie fisiche e intellettuali di insegnante e l’esempio di virtù sacerdotali e religiose alimentate da profonda pietà, lo colpì una lunga e penosa malattia dipendente dal mal di cuore e dall’arteriosclerosi acuta, che determinò la fine della sua esistenza terrena all’età di 78 anni e tre mesi, il 25 settembre 1972. Aveva ricevuto almeno due volte i sacramenti dell’Unzione degli Infermi e della Comunione in forma di viatico; la prima volta in forma solenne, ben cosciente, e aveva edificato la comunità con le sue commosse parole di amore alla congregazione, la sua richiesta di perdono, una calda esortazione all’osservanza delle regole e alla consacrazione religiosa; la seconda volta essendo ormai poco o nulla cosciente. Era stato assistino amorevolmente nella malattia soprattutto da suo fratello P. Lino, membro della comunità di Capezzano, da fratel Giusto Larvette; quando era possibile, altri religiosi erano stati inviati per qualche mese ad aiutare nell’assistenza, tra cui P. Loris Ermenegildo Zanon e fratel Roberto Feller, da altre case.
P. Valentino Pozzobon, rettore della casa di Capezzano Pianore al tempo della morte del P. Mario, così lo commemorava: “Si potrebbe, a questo punto, ricordare le doti naturali di cui questo padre Cavanis fu fornito: l’intelligenza o il discernimento, per esempio; la versatilità o l’iniziativa, la capacità direttiva o la cultura, l’eloquio forbito o la ponderazione, che lo rendeva sempre consigliere prezioso. Qualcuno potrebbe tessere un elogio, sottolineando i numerosi incarichi a cui padre Mario fu chiamato durante la sua vita, o lumeggiando aspetti singoli di una personalità vigorosa e monolitica, quale poté apparire anche ad osservatori distratti. (…)
“Padre Mario fu un sacerdote di preghiera: è questo un esempio che egli ci lascia. A Venezia, a Possagno, a Borca di Cadore, a Capezzano, dovunque, rettore o preside o religioso senza incarichi di rilievo, fu sempre puntualissimo alla preghiera di comunità. Ma non gli bastava: a parte aggiungeva altro tempo all’orazione individuale. Tutti ricordiamo di averlo trovato più volte, nella penombra della cappella, raccolto, in atteggiamento assorto e devoto. E quando l’infermità gli impedì di unirsi alle preci comuni, anche nello stato di spossatezza, lo si udiva bisbigliare, a tratti addirittura declamare la Salve Regina e il rosario. E le parole di queste consolanti invocazioni gli fluivano spontaneamente dalle labbra anche nei momenti di scarsa lucidità: erano per lui una dolce abitudine, un conforto, una necessità.
Quando entravamo a salutarlo, dal letto della sua sofferenza ci guardava e diceva, lo ricordiamo tutti molto bene: “voi lavorate tanto e io qui non faccio nulla … io vi aiuto con la mia preghiera; non posso far altro . . . anche stamani ho detto il rosario per voi.” È un esempio che vale la pena di meditare e di imitare, in questo mondo in cui viviamo talora con spensieratezza, più spesso con affanno, presi da una forma di alienazione che non riusciamo a superare e forse nemmeno a comprendere e a catalogare.
C’è anche un altro esempio che Padre Mario ci lascia, e che può giovare. Egli ebbe il senso dell’amicizia, come nota caratteristica della sua vita. Chi lo avvicinava se ne accorgeva, e immancabilmente ne riceveva un influsso. Cordiale e affabile, egli sapeva trasmettere agli altri il gusto di sentirsi amici e di esser buoni. Effettivamente, molti hanno trovato nelle sue parole, nel suo tratto, nella sua sensibilità un aiuto per diventar migliori. Era, la sua, un’amicizia vera, concreta nei fatti. Tanto è vero che Padre Mario non esitava a scomodarsi per aiutare gli altri. Lo ricorda bene chi, durante la guerra, se lo sentì vicino in mezzo a pericoli gravissimi, fra il turbinare di passioni contrastanti. Fu edificante, allora, vedere questo sacerdote sinceramente amico prodigarsi con rischio personale in favore di chi si trovava in difficoltà a causa delle leggi razziali. Ed è bello oggi guardare da vicino a questo esempio; perché noi saremmo portati spesso a non credere più nell’amicizia e nella solidarietà umana. Forse perché aspettiamo con ostinazione che siano sempre gli altri a far il primo passo verso di noi.”
Il necrologio ufficiale della congregazione dice che “Ai funerali che ebbero luogo nella chiesa parrocchiale di Capezzano Pianore con larghissima partecipazione di confratelli, di popolo e degli alunni del collegio seguì la tumulazione della sua salma nel cimitero locale”; il realtà, il diario della Casa di Capezzano degli anni 1970-1990, ritrovato e salvato dalla rovina sul finire del 2021 da P. Edmilson Mendes, Superiore delegato, mostra che la comunità rimase molto delusa dal piccolo numero di parrocchiani, di amici, di ex-allievi, che erano intervenuti al funerale. Dice esattamente quanto segue: “Ci attendevamo una partecipazione larghissima della popolazione al funerale. Invece questa non c’è stata. Sono intervenuti parecchi fedeli, ma non s’è vista una grande affluenza. Gli ex allievi, anche se avvertiti personalmente, non si sono presentati.”. In compenso erano effettivamente venuti “molti Confratelli dalle diverse case. C’è stata una concelebrazione di quasi tutti i Padri presenti. Ha presieduto il Rev.mo P. Preposito, venuto espressamente”.
Il tempo passa, e la gente dimentica i benefattori, gli educatori, i religiosi, soprattutto quando questi, dopo il tempo dell’attività, passano un lungo tempo nella malattia e nella vecchiaia. Ma il genere letterario “necrologio”, in questo caso e in altri, continua a parlare di “folle plaudenti”, anche quando non è il caso. La teoria delle forme, o “Formgeschichte” insegna. Fu comunque sepolto nel cimitero di Capezzano dove il suo corpo si trova ancora nel 2020. Si pensa di trasportarlo, appena possibile, a Possagno, assieme al corpo di altri confratelli delle case di Toscana.
7.59 P. Lino Janeselli
Pur nella sua riservatezza schiva di pubblicità, P. Lino Janeselli della Congregazione delle Scuole di Carità-Istituto Cavanis era conosciuto da moltissimi soprattutto a Chioggia, dove molti lo chiamavano el prete pescaore, cioè “il prete pescatore”, perché negli ultimi anni, quando ormai non poteva più dedicarsi all’insegnamento o ad altre attività troppo impegnative per questione di età e di salute, pur dedicandosi molto alla predicazione e al sacramento della riconciliazione, trascorreva lunghe ore nel passatempo della pesca, o sul ponte lungo di Chioggia, o, in seguito, sulla riva interna dell’Istituto, al margine della laguna; attività sportiva e ricreativa per la quale del resto aveva sempre avuto una grande passione e che aveva esercitato, per esempio, molti anni prima, nel suo Trentino nel lago di Levico.
P. Lino Janeselli era venuto a Chioggia con la fondazione della casa religiosa Cavanis per l’attività del Centro Professionale Maria Immacolata nel settembre 1954 e se ne era allontanato solo per un biennio, allo scopo di assistere il fratello P. Mario della stessa Congregazione, nella lunga malattia che precedette la morte. Rimase a Chioggia poi fino alla sua morte, avvenuta nel 1981, dopo circa 27 anni. L’attività di P. Lino era stata molteplice e variegata, anche se a pochi nota.
Nato a Bosentino (Trento) il 23 novembre 1907, seguì da giovane i fratelli Mario e Mansueto, per diventare come loro un Padre Cavanis, nella Congregazione delle Scuole di Carità. A essi si sarebbe unita in seguito la sorella Livia, suora e poi per lungo tempo superiora generale della Congregazione delle Figlie del Santo Nome, dette anche, informalmente, “Suore Cavanis”. Così, in una famiglia di sani principi e di vita esemplare, su otto figli, quattro dedicati al Signore nella stessa “Famiglia Cavanis”, nei rami maschile e femminile!
Entrò allora come aspirante nel probandato di Possagno il 18 novembre 1919, a 12 anni, con una folta schiera di compagni trentini. Sembra citato per la prima volta nel diario della Congregazione quando, con i fratelli P. Mario – appena ordinato prete – e Mansueto, chierico, andò a Piné per la festa delle multiple messe novelle. Il diario lo chiama “fratellino aspirante Lino”!. Ricevette la cresima personalmente dal patriarca La Fontaine, nella sua cappella, il 15 novembre 1919.
Vestì l’abito dell’Istituto, assieme al compagno Carlo Donati, il 23 giugno 1926, sembra nel probandato di Possagno.
Ebbe difficoltà con gli studi: P. Zamattio registra nel diario: “Mi sono deciso oggi di mandare in tipografia degli Artigianelli i due aspiranti Janeselli Lino e Andreatta Fortunato per apprender tale arte. I detti aspiranti per due anni si presentarono agli esami di licenza ginn[asiale]. senza riuscire e, siccome c’era poca probabilità di riuscita anche quest’anno, ho ascoltato il consiglio di D. Orione e, pur ammettendoli come aspiranti al sacerdozio, dovranno riuscire maestri d’arte”.
Lino si consacrò a Dio con la professione temporanea dei voti il 12 giugno (o luglio) 1927 nella cappella dei padri a Possagno e poi definitivamente con la professione perpetua il 12 marzo 1931; ricevette, dopo la tonsura, i primi due ordini minori, ostiariato e lettorato, il 21 marzo 1931 nella basilica di S. Marco, dal patriarca La Fontaine. Trascorso il curriculum degli studi teologici, il 2 luglio 1933 fu ordinato prete assieme ai confratelli, Carlo Donati, Angelo Pillon e Luigi Ferrari, e venne addetto all’inizio al collegio Canova di Possagno. Conseguita l’abilitazione magistrale, prestò brevemente la sua opera di educatore e di maestro nelle scuole elementari di Venezia; fu in Toscana nella casa di Porcari (Lucca, 1934-1940) con molteplice attività, con particolare passione per i campi della filodrammatica e dell’elettricità; poi nel seminario minore o probandato di Possagno dal 1940 al 1942, con compito di formatore. Di temperamento calmo, cordiale e ricco di comprensione, si guadagnò ovunque l’affetto e la stima dei suoi alunni e di molte altre persone.
Iniziata e già inoltrata la seconda guerra mondiale, nel periodo 1942-1943 svolse la mansione di tenente cappellano militare di artiglieria sui fronti di Jugoslavia e poi di Sicilia. Nella prima zona, molta parte del territorio era controllata dai partigiani e il nostro coraggioso e generoso cappellano militare ogni volta passava lui per primo con un camion guidato da lui personalmente, come unico passeggero, su ponti e passaggi che potevano esser minati. Quante volte ha rischiato la vita così? Lo faceva – diceva lui – perché gli altri soldati avevano famiglia, quindi era “naturale” che lui si dovesse preoccupare meno della vita! La seconda zona, la Sicilia, divenne teatro di guerra con lo sbarco degli alleati, avvenuto il 10 luglio 1943.
A volte, di una persona parecchio più anziana di noi, si ricorda soltanto l’aspetto che abbiamo conosciuto e visto di persona, cioè l’aspetto di una persona vecchia e stanca, un po’sfinita, anche se cara. Così lo descriveva un suo ex-alunno del corso “muratori”, che poi ne parlava molto bene, con nostalgia: “Chi come me entrava ai Cavanis di Chioggia per imparare un mestiere, se avesse scelto l’arte del muratore, al momento di essere assegnato alla squadra degli edili, si trovava davanti un prete un po’ gobbo, con le sopracciglia fittissime e un po’ lunghe, un baschetto azzurro e una bacchetta tra le mani. Non era una presentazione consolante. Poi tutto cambiava. Già alle prime parole, a quel tono di voce lento, profondo, segnato di cadenza trentina, scoprivamo la pasta dell’uomo; da quel momento il P. Lino era nostro.” Bisogna allora andare a vedere le fotografie di P. Lino relative alla fase militare della sua vita, quando aveva attorno a 35 anni: aitante, bruno di capelli (anche se questi cominciavano a stempiarsi prematuramente), con la barba e i baffi da alpino, sorridente, in divisa militare da ufficiale o, all’altare sul campo, con il camice e la pianeta.
Seguì poi l’arresto di P. Lino da parte dei tedeschi dopo il 3 settembre 1943 e il trasporto con tanti altri soldati italiani in una tradotta militare per prigionieri, molto probabilmente con carri-bestiame, fino in Piemonte e più esattamente ad Alessandria per la prigionia. Decisa la fuga dal carcere di questa città tra commilitoni prigionieri, fu lui a offrirsi come “sgabello” per permettere agli altri numerosi prigionieri di arrampicarsi sulle sue spalle per scalare la recinzione del carcere e fuggire. Rimasto quindi l’ultimo, Lino venne catturato e avviato, dopo maltrattamenti, ai campi di concentramento. Questa volta non c’era da sacrificarsi per gli altri e fuggì dal treno che lo avrebbe portato in Germania, riprendendo la sua normale vita di religioso e le attività di educatore e d’insegnante nelle case dell’Istituto. In particolare, già nel 1944, appena ritornato dalla guerra gli fu affidata la difficile carica di economo del collegio Canova di Possagno, in tempi di carestia.
Della sua quasi cinquantennale attività bisogna ricordare ancora varie fasi e differenti incarichi: fu a Possagno dal 1940 al 1946 (e forse fino al 1948; apparteneva giuridicamente a quella famiglia anche quando era cappellano militare al fronte e nella breve prigionia); si impegnò poi nel seminario minore di Levico, in provincia e diocesi di Trento, dal 1949 al 1953. Infine passò a Chioggia con l’équipe fondatrice, guidata da P. Livio Donati, dove rimase, come già detto, circa ventisette anni e vi si dedicò con competenza e spirito di sacrificio all’insegnamento teorico e pratico nei corsi affidatigli.
Era responsabile in particolare del reparto “muratori” della scuola professionale. Le sue capacità lo resero subito caro all’ing. Massimo Locatelli, allora ingegnere responsabile delle opere edilizie realizzate dalla diocesi di Chioggia per i molti «cantieri» che il Vescovo monsignor Giovanni Battista Piasentini, che proveniva anche lui dall’Istituto Cavanis, organizzava sempre un po’ dovunque, per la costruzione di asili, scuole, chiese. Di P. Lino era sempre richiesta la collaborazione per la competenza e per la profonda intuizione che aveva in questi campi. Diresse anche per l’Istituto (e per la diocesi insieme) i lavori di ricostruzione della chiesa e del salone dell’Istituto e la costruzione ex novo dei reparti «tornitori» e «radioriparatori».
Dotato di un’intelligenza eclettica, aveva buona esperienza – lui che non era riuscito molto negli studi formali – in molti aspetti dello scibile: medicina, caccia, pesca, elettricità, edilizia, motori… Motori soprattutto! Anzi, qui bisogna dire che ci fu un periodo, negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, in cui i tre fratelli Janeselli, Mario, Mansueto e Lino, avevano assunto il monopolio del modestissimo “parco macchine” delle varie case dell’Istituto Cavanis: solo i tre fratelli Janeselli avevano la patente, guidavano, solo loro tre potevano mettere mano ai motori; almeno secondo un’insistente tradizione orale della comunità.
La pesca era diventata l’hobby di P. Lino ed anche quasi un’occupazione negli ultimi anni della sua vita. A Chioggia, stava per ore sul ponte longo, che unisce Chioggia alla terraferma, da una ventina d’anni chiamato ufficialmente Ponte Antonio e Marco Cavanis; oppure, più tardi, indebolito dalle molte primavere, pescava da un piccolo molo in legno costruito provvisoriamente in modo artigianale in fondo alla fondamenta interna del Centro Professionale. Pescava più spesso con la lenza, a volte con una rete a bilancino.
Oltre che nella sua attività pastorale come educatore e insegnante, la sua attività di sacerdote Cavanis si svolgeva con la sua buona predicazione negli anni di piena efficienza; e specialmente nel confessionale, rimanendo pronto e disponibile ad ogni richiesta, sempre pieno di misericordia. Era diventato, negli ultimi anni, confessore straordinario per la parrocchia di Foresto e paesi vicini, sempre in diocesi di Chioggia. Ci andava spesso, portato dal parroco don Mario Trivellato, accolto sempre con simpatia.
La sua semplicità, la facilità del discorso, il suo sorriso cordiale attiravano tutti: il cosiddetto “trampolino” della pesca era diventato il suo pulpito. In mezzo ai racconti sugli episodi del suo passato che ripeteva sempre alla lettera con minuzia di particolari – pioveva da lui la buona parola, il parere richiesto o suggerito, il ragionamento bonario che convinceva, la battuta scherzosa. Difficile staccarsi da lui dopo esser divenuti suoi amici. Quanti ne ha avuti? Impossibile fare il computo, ma sempre qualcuno tornava a visitarlo, per rivivere episodi lontani e godere della sua compagnia.
Arrivò così a quasi settantaquattro anni. Sempre desideroso di non disturbare, passava sotto silenzio i disagi di salute, o meglio di malattia, di cui soffriva, fin che non ne poté più. Quando finalmente si persuase di non potercela fare da solo, accettò di essere ricoverato in ospedale. Era già troppo tardi. Ai mali che già aveva se ne aggiunse un altro, che riuscì ad abbattere la sua forte fibra di montanaro, ma non arrivò alla conclusione della sua vita senza aver dato prima l’esempio di una morte edificante. Quando capì che ogni speranza era vana, volle pregare per i confratelli della sua comunità uno per uno, per altre persone che gli erano state vicine; volle offrire la sua vita «per le vocazioni e per la carità»; volle seguire ancora una volta la recita dell’ufficio divino, che non poteva più fare da solo.
Domenica 25 ottobre 1981 decedette serenamente, dopo solo quattro giorni di degenza all’ospedale. Così ci ha lasciati, con semplicità, con troppa fretta, forse per non voler scomodare oltre con la sua malattia coloro che lo assistevano con amore. Il commento che si sentiva in quei giorni a Chioggia e altrove alla notizia della sua morte: «Era un buon uomo davvero!», riassume la sua vita di semplicità, di riservatezza e di profonda umanità, di squisito spirito Cavanis.
I suoi funerali furono celebrati solennemente nel duomo di Chioggia dal vescovo diocesano con numerosa e commossa partecipazione di confratelli, di sacerdoti diocesani, di alunni e di fedeli. La sua salma riposò nel cimitero di Chioggia per qualche decennio, ma recentemente fu trasferita a Possagno nella cappella mortuaria di quel cimitero. Che il ricordo dei suoi insegnamenti e di quanto ha fatto di bene continui a lungo ad memoriam.
7.60 P. Mansueto Janeselli
Mansueto, partito dodicenne da Bosentino (TN), ove era nato il 15 dicembre 1898, fu accolto come aspirante nella nostra Casa di Venezia il 13 novembre 1910; vestì l’abito della Congregazione con altri cinque postulanti ed entrò con loro in noviziato l’8 dicembre 1916, solennità dell’Immacolata. Nel 1917 avrebbe dovuto emettere i voti temporanei, ma non poté farlo per mancanza delle lettere testimoniali dell’arcidiocesi di Trento, che non potevano arrivare per causa della situazione bellica. Le testimoniali sostitutive, richieste dal preposito tramite monsignor Pescini a Roma, arrivarono quando il gruppo dei religiosi Cavanis stava già lasciando Tortona; Mansueto dunque, assieme a Valentino Fedel, emise la professione temporanea triennale in ritardo, ritornato a Venezia dopo la guerra, l’8 dicembre 1918, solennità dell’Immacolata; proseguiva gli studi e si consacrò a Dio con la professione dei voti perpetui l’8 dicembre 1921, ricevette la tonsura a Venezia dal cardinal Patriarca La Fontaine il 14 dicembre 1922; i primi due ordini minori, dalla stesso porporato il 21 dicembre 1922 e il 23 dicembre immediatamente seguente gli altri due ordini minori ; fu ordinato suddiacono nella basilica di S. Marco il 17 marzo 1923, nel sabato sitientes; il 22 aprile dello stesso anno fu ordinato diacono nella chiesa del Redentore alla Giudecca dal patriarca La Fontaine, in occasione delle celebrazioni per il centenario di S. Fedele da Sigmaringa; infine, compiuti gli studi teologici ricevette l’ordinazione sacerdotale il 15 luglio 1923 a Venezia dallo stesso patriarca pure nella basilica e nella festa del Redentore.
P. Mansueto era fratello dei due altri padri Cavanis P. Mario e P. Lino; e di madre Livia, per lungo tempo superiora generale delle suore del Pio Istituto del Santo Nome di Dio.
Conseguiti i titoli per l’insegnamento delle Lettere, con laurea conseguita a Pisa con 95/110 l’8 dicembre 1931 e più tardi la laurea in matematica, consumò le sue energie per circa 60 anni, a spezzare il pane della sua solida cultura a tante generazioni di giovani nelle case della Congregazione, in circa 60 anni di insegnamento e di attività di educazione. Fu anche insegnante di varie materie e particolarmente di omiletica per gli studenti teologi dell’Istituto, fin verso la fine deli anni ’60, quando il teologato Cavanis si portò a Roma.
Coprì le cariche di Consigliere generale (3° consigliere, 1949-1955, durante il mandato di P. Antonio Cristelli), di economo nel Collegio Canova (1937-1939) e in quello di Porcari (1940-1955); vicario della casa di Porcari (1940-1961) e di Venezia (1979-1989); le assolse con spirito di servizio e responsabilità.
Lo troviamo successivamente a Venezia dall’ordinazione presbiterale dal 1923 al 1925; a Porcari dal 1925 al 1936; a Venezia una prima volta nel 1936-37; a Possagno Canova nel 1937-40; a Porcari nel lungo periodo 1940-61: a Venezia infine dal 1961 alla morte nel 1989.
Anche lui, come i suoi fratelli aveva un grande senso pratico e un notevole amore per l’elettricità, la meccanica, l’idraulica, sicché per una lato partecipava al fenomeno che era chiamato “il monopolio Janeselli della patente automobilistica e della guida delle automobili”, cui si è accennato; per altro lato veniva spontaneo considerare P. Mansueto, almeno negli anni della sua giovinezza e maturità, meno nella sua vecchiaia, come “recapito delle varie necessità di una casa: impianto elettrico, centrale termica, motori in avaria”. Si distinse pure nella premurosa assistenza ai malati avendo conseguito il diploma d’infermiere.
In realtà, una delle caratteristiche principali di P. Mansueto è la sua versatilità; le due lauree di cui si parlava, il diploma d’infermiere e le sue capacità pratiche in vari “mestieri” gli permetteva di svolgere numerosi compiti, abituali o eventuali e di essere molto utile in comunità.
Su raccomandazione e domanda di P. Giovanni D’Ambrosi, quando questi lasciò Porcari e il suo gruppo di pie donne e ragazze, P. Mansueto accettò di continuare la sua iniziativa; prestò quindi la sua opera saggia e prudente nel processo di erezione della “Pia Società del S. Nome di Dio” divenendone padre spirituale.
Alla missione d’insegnante e di educatore alternò il ministero della predicazione e della confessione e si rivelò dotto, prudente e saggio direttore d’anime ed esperto formatore di coscienze. Uniformò il suo stile di vita con assoluta fedeltà allo spirito e alle regole della Congregazione e alla vita comune, che gli facilitarono attraverso anche alla sofferenza, la continua ascesa al traguardo della perfezione religiosa incentrata nella pietà eucaristica e mariana.
Dopo una lunga malattia, cristianamente accettata, chiuse la sua giornata terrena ricca di meriti, presso l’ospedale civile di Venezia il 26 luglio 1989 all’età di novant’anni, quasi novantuno, e avendo compiuto da poco sessantasei anni di vita presbiterale. Dopo i funerali celebrati solennemente il 28 luglio nella chiesa di S. Agnese, la sua salma fu tumulata nel cimitero di S. Michele.
7.61 P. Luigi Ferrari
Da Calceranica (arcidiocesi e provincia di Trento) dove ebbe i natali il 13 novembre 1908, entrò nel probandato di Possagno il 18 novembre 1919. Vestì l’abito dell’Istituto a Venezia il 23 ottobre visse l’esperienza del noviziato nel 1927-1928, a Venezia; emise i voti temporanei a Venezia il pomeriggio della domenica di Cristo re, in S. Agnese, il 28 ottobre 1928. Superato il corso degli studi umanistici e teologici e consacratosi al Signore, con la professione perpetua a Venezia, in S. Agnese, l’8 novembre 1931, nella festa della Madonna del Soccorso.
Infine il 2 luglio 1933 fu ordinato prete a Venezia assieme ai confratelli, Lino Janeselli, Angelo Pillon e Carlo Donati.
Conseguita l’abilitazione magistrale e l’insegnamento delle Lettere, profuse le sue belle doti di mente e di cuore nell’insegnamento delle lettere nelle medie inferiori di Venezia, di Porcari e in altre case.
Si acquistò dovunque l’affetto e la stima dei suoi alunni per la sua bontà, affabilità e per il suo metodo educativo e didattico ispirato all’amore e alla sapienza del Vangelo. Aveva un modo molto personale di dimostrare il suo amore per i bambini, i ragazzi e i giovani. Li amava molto e ne era molto amato, anche per la sua semplicità, per la sua verità, per il suo eterno sorriso.
Racconterò un episodio personale. Io non volevo essere iscritto alle scuole medie all’Istituto Cavanis. Durante e dopo la seconda guerra mondiale, i miei genitori avevano preferito che io frequentassi la scuola elementare delle suore di Nevers, più vicine a casa e quindi più facilmente raggiungibili. Ma alle medie decisero di mettermi ai Cavanis, scuola tradizionale, che avevano frequentato ambedue i nonni, gli zii e naturalmente anche papà. Io mi ribellavo, perché credevo che iscrivendomi ai Cavanis avrei perduto la possibilità di continuare ad essere chierichetto e membro dell’Azione Cattolica della mia parrocchia (dei Frari). Entrai dunque in Istituto (nel quale poi sarei rimasto tutta la vita!) con spirito di malcontento e di rivolta interiore e in parte esteriore. Bastò tuttavia che il primo giorno di scuola in prima media A, salissi al primo piano delle scuole e mi inoltrassi per il corridoio, verso l’aula prossima alla chiesa di S. Agnese, nell’angolo SW delle scuole, perché il mio malcontento finisse. Ricordo ancora il P. Luigi Ferrari appoggiato sullo stipite della porta della classe, sorridente e accogliente, mentre attendeva i nuovi alunni: quello sguardo buono mi conquistò.
Troviamo P. Luigi appena ordinato prete a Porcari nel 1933-34; a Possagno nel 1934-36; dal 1936 al 1940 a Porcari; nel 1942-43 al Canova a Possagno; dal 1943 al 1946 ancora a Porcari.
P. Luigi fu maestro dei seminaristi liceali a Borca di Cadore dal 1946 al 1948 e in questi anni è registrato sia a Venezia sia a Borca, dato che la residenza ufficiale dei seminaristi, liceali e teologi era a Venezia, ma di fatto si trovavano a Borca, per studiare ma anche aiutare. È ancora a Venezia nel 1948-49 e al collegio Canova di Possagno nel 1051-52. Fu eletto alla carica di consigliere generale dal 1955 al 1961, durante il mandato di P. Gioachino Tomasi. Dal 1952 al 1958 è al probandato di Possagno, vicario e in certi tempi anche responsabile dei seminaristi liceali. Lo troviamo poi rettore a Porcari dal 1958 al 1961 e a Venezia dal 1961 al 1964; al Canova nel 1964-65 e a Venezia nel periodo 1965-67. È rettore nel seminario di Levico (1967-70) ed è poi nel seminario minore di Fietta del Grappa (1970-85). Gli ultimi anni (1985-89) li passa nella comunità del collegio Canova.
Come formatore e maestro dei chierici si comportò con prudenza, saggezza e spirito di servizio coadiuvato dalla mitezza e cordialità del suo carattere. A queste attività seppe unire le più belle virtù sacerdotali e religiose, vivificato da profonda pietà e, inoltre, il ministero della predicazione e della confessione.
Forme sempre più accentuate di arteriosclerosi negli ultimi anni della sua vita gli procurarono mortificanti sofferenze, che accettò con cristiana rassegnazione. Ammalatosi gravemente, fu ricoverato nell’ospedale di Asolo, dove dopo breve degenza si spegneva serenamente nella pace e nella gioia del Signore il 5 Novembre 1989 all’età di 81 anni.
Celebrate le esequie nel tempio di Possagno, alle quali diede particolare solennità la numerosa partecipazione, la sua salma fu tumulata nella cappella del cimitero locale.
7.62 P. Guido Cognolato
Ebbe i natali il 21 gennaio 1911 a Maserà di Bertipaglia, diocesi e provincia di Padova, figlio di Solimano (senza essere per questo islamico!) e di Pasqua Calore. Entrò il 22 agosto 1923 nel probandato di Possagno ove iniziò gli studi ginnasiali, che poi continuò a Venezia (dal 10 settembre 1927) in casa madre. Qui vestì l’abito religioso Cavanis il 20 ottobre 1929 e iniziò così il noviziato (1929-30), con i quattro confratelli Luigi Candiago, Luigi D’Andrea, Antonio Turetta, Alessandro Valeriani, che furono tutti perseveranti fino alla fine; emise la professione temporanea l’11 febbraio 1930; professò i voti religiosi perpetui a Venezia l’11 marzo 1934.
Ricevette la tonsura a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; l’ostiariato e il lettorato il 2 febbraio 1936; l’esorcistato e l’accolitato il sabato sitientes, sempre a Venezia, il 28 marzo 1936; ancora a Venezia, il 19 settembre 1936 ebbe l’ordine maggiore del suddiaconato; fu consacrato diacono il 13 marzo 1937. Superati dunque gli studi letterari e poi teologici nello Studio teologico dell’Istituto a Venezia, fu consacrato prete a Venezia nella basilica della Salute il 4 luglio 1937. Laureatosi il 3 novembre 1941 nella Facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università di Padova, difendendo una tesi sulla pedagogia di Gesù nei vangeli, non risparmiò le sue energie fisiche e intellettuali nell’insegnamento delle Lettere nelle scuole medie inferiori e poi di Storia e di Filosofia nelle superiori a Venezia, a Possagno e in altre case della Congregazione.
Lo schema delle varie fasi della sua vita nelle diverse case dell’Istituto in Italia è come segue:
Non si accontentava di insegnare storia e filosofia, ma anche religione, e organizzava una varietà di attività culturali, ricreative, inventava passatempi e intrattenimenti, ma anche ritiri spirituali.
I suoi alunni conservano un grato ricordo del suo insegnamento trasmesso con indubbia cultura e competenza didattica, avvivato spesso da battute argute e scherzose, suggeritegli dal suo temperamento vivace e gioviale. Non sempre gli allievi – tra gli altri chi scrive – concordavano tuttavia con la sua visione della storia moderna e contemporanea che risentiva di un sentimento profondo di cristianità e di cesaropapismo, come pure di Laudatio temporis acti e di critica in blocco del Risorgimento italiano. I suoi studenti a volte criticavano, anche apertamente, durante le lezioni, anche il fatto che egli considerava come “sana filosofia” solo il sistema aristotelico-tomistico-scolastico, e mostrava apertamente di disprezzare tutti gli altri sistemi filosofici, che pure conosceva bene, come per esempio l’idealismo, il sistema proposto da Immanuel Kant, il Rosminianesimo – pure apparentato all’Istituto Cavanis – e quant’altro; anche l’evoluzione biologica e altri aspetti della scienza.
Si acquistò stima e affetto come padre Direttore della Congregazione Mariana a Venezia, per la sua ardente e sincera devozione alla Madonna; devozione che si adoperò di infondere nei congregati con la sua parola fervida e incisiva.
Aveva la vocazione, più che di filosofo, di poeta, come narra l’anonimo autore dell’articolo della rivista Charitas sopra citato, che parla di lui dopo la sua morte; aveva una verve incredibile, era capace di improvvisare versi e strofe e ballate, in ogni occasione comunitaria, con una vena estemporanea, facile e felice, che a volte faceva pensare e riflettere, a volte faceva sbellicarsi dalle risa.
Si sforzò di essere coerente e fedele a quello che riteneva il suo dovere di sacerdote e di religioso nella sua attività quotidiana.
Esonerato negli ultimi anni della sua vita dall’insegnamento per motivi di salute, attese maggiormente al ministero della confessione e della predicazione e a scrivere una breve biografia del P. Basilio Martinelli. La sua salute minata da un edema polmonare, non facilitato dall’abitudine di fumare abbondantemente, andò sempre più peggiorando e il 5 novembre 1981 lo colse sorella morte all’età di 70 anni, a Possagno nel Collegio Canova. La sua salma, dopo le esequie celebrate solennemente nel tempio canoviano, fu tumulata nella cappella del clero nel cimitero locale.
7.63 Fra Giorgio Vanin
Nato a Quinto (Treviso) il 30 marzo 1898, dopo aver trascorso l’infanzia e la giovinezza in famiglia, prestò servizio con lodevole condotta nell’Arma dei Carabinieri.
Ritornato in famiglia e maturata nel frattempo nel suo animo la vocazione alla vita religiosa, rispose con generosità all’invito del Signore ed entrò nella Congregazione, a Possagno, il 19 marzo 1928, all’età di trent’anni, come aspirante Fratello.
Vestì l’abito dell’Istituto il 27 ottobre 1928, assieme a un altro candidato fratello, poi uscito, di nome Antonio Cadorin; compiuto il Noviziato a Venezia negli anni 1928-31, emise la professione temporanea il 10 febbraio 1931 e professò i voti religiosi perpetui a Venezia il 12 marzo 1934. Nei più di cinquant’anni di vita religiosa assolse con fedeltà e amore i compiti affidatigli dall’obbedienza, contento di fare la volontà di Dio e di essere utile ai confratelli, in spirito di umile, premuroso servizio. Si distinse per l’esatta osservanza delle regole e della vita comune, modellando la sua condotta su quella del “figlio del falegname”.
Dopo la fase di formazione iniziale a Venezia, in casa-madre (1928-1934), servì la comunità e le sue opere a Possagno dal 1934 al 1940; fu assegnato per il 1940-41 alla casa di Santo Stefano di Camastra in Sicilia, ma vi rimase soltanto pochi mesi perché, con la chiusura della casa, passò al nuovo seminario minore di Vicopelago, dove visse e s’impegnò dal 1941 al 1944. Non abbiamo per ora chiaro in quale casa fosse tra il 1944 e il 1951, come pure nel 1961-62; lo troviamo comunque attivo a Roma-Torpignattara dal 1951 al 1961, poi a Capezzano Pianore dal 1962 al 1983, cioè fino al suo decesso.
Dopo una lunga malattia, sopportata con edificante rassegnazione, chiese l’estrema Unzione. Poco dopo aver chiesto ai confratelli che lo assistevano, se era giunto il momento, il 6 maggio 1983, all’età di ottantacinque anni, chiuse la sua lunga giornata terrena nella casa di Capezzano Pianore. Spirò serenamente, senza far rumore, come era vissuto, mentre i confratelli stavano svolgendo una riunione di scrutini della scuola. Con lui al momento della morte c’era fratel Giusto Larvette; lo raggiunse subito il rettore, P. Gianni Masin per benedire la salma del caro confratello.
Dopo la celebrazione dei funerali nella chiesa parrocchiale, alla presenza dei confratelli, degli alunni del collegio e dei parrocchiani, la sua salma fu tumulata nel cimitero locale, accanto a quella dei confratelli che lo precedettero nell’incontro con Cristo.
7.64 Fratel Sebastiano Barbot
Nato ad Aviano (Provincia di Pordenone) nel 1889, all’età di quindici anni fu accolto come aspirante nel Collegio Canova di Possagno. Vestì l’abito della Congregazione il 20 novembre 1908.
Il corso del tirocinio triennale del noviziato, svolto a Venezia, fu interrotto dal richiamo alle armi, in vista della guerra della Tripolitania, o guerra italo-turca o ancora, come è detta più spesso, guerra di Libia (1911 e decadi seguenti). In effetti, il diario di Congregazione in data 9 novembre 1910 scrive che: “Il novizio laico Barbot Sebastiano, che s’era presentato il 27 d’ottobre al distretto di Sacile, e n’era tosto ritornato in breve licenza con notizia che sarebbe stato trasferito a Reggio Calabria, riparte oggi per la milizia con destinazione a Bologna, e speranza di essere poi girato a Venezia per le raccomandazioni fatte dal P. Calza Enrico, il quale andò a Sacile a raccomandarlo al Colonnello, e interessò all’uopo il Prefetto di qui”.
Il diario della Congregazione, come pure il libretto Dies quas fecit Dominus alla data del 9 novembre 1911 non sono molto chiari in proposito; ma da un lato risulta che sia stato richiamato già prima del 4 settembre 1911 e che abbia quindi interrotto il noviziato e lasciato Venezia: il 4 novembre 1911 è in famiglia, col permesso dei superiori, avendo ricevuto il “congedo illimitato”; il 2 ottobre si chiede alla S. Sede che il Barbot sia esentato in tutto o in parte dalla necessità di ripetere totalmente il noviziato “essendo ritornato dal servizio militare”; un mese dopo, il 9 novembre, tuttavia si annota che “doveva tornare sotto la milizia fra i richiamati per la guerra della Tripolitania, viene rimandato a casa perché considerato di un’altra categoria, che era stata in antecedenza richiamata sotto le armi, meno lui”. Nello stesso giorno arriva anche la dispensa da parte della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari dal dover rifare il noviziato. Probabilmente la prima chiamata alle armi era per il normale servizio militare; la seconda specificamente per la guerra di Tripolitania. Poco tempo dopo, l’8 dicembre 1911, emise la professione temporanea in S. Agnese, e quella perpetua nel 1914, consacrandosi al Signore come Fratello.
Non fu sufficiente il suo servizio militare del 1911. Fra Sebastiano partecipò alla guerra del 1915-18 con il grado di sergente maggiore. Chiamato alle armi per la seconda volta, fu assegnato al XXIII Corpo della III Armata nella VI compagnia Sanità. Dallo scoppio delle ostilità fino all’infausto ottobre 1917, svolse la sua attività assistenziale in successivi ospedaletti da campo sul fronte orientale, durante le famose — e terribilmente sanguinose — dodici battaglie dell’Isonzo. Fra Sebastiano ricorda con particolare soddisfazione un episodio, occorsogli a Butrio, nello stabilimento di bachicoltura dell’on. Morpurgo, trasformato in ospedale: «Una mattina (dicembre 1915), molto per tempo, mentre stavo sistemando la visita medica, si presentò un militare proveniente dalla linea di combattimento. Non si capiva a quale corpo appartenesse, tutto sudicio e malvestito. Era il re, che senza seguito veniva a far visita ai feriti ricoverati. Presentai i miei ossequi e lo accompagnai lungo lo stabile, rendendogli noti i particolari di ciascun ricoverato. Alla fine si congedò, soddisfatto dell’alto morale trovato nei feriti ».
Dopo la battaglia per la conquista di Gorizia (9 agosto 1916), al nostro bravo sergente maggiore veniva attribuito “l’encomio solenne per l’infaticabile servizio prodigato ai feriti”.
In seguito al disastro di Caporetto (24 ottobre 1917) — che anche fra Sebastiano ricorda a tinte raccapriccianti — il fronte si stabilizzò sul Piave. Il nostro eroe continuò a prestare il suo servizio ai feriti di guerra a Mira, a Mogliano e a Caposile almeno fino alla vittoria di Vittorio Veneto, il 4 novembre 1918.
P. Tormene scrive nel diario di Congregazione: “23 nov[embre 1917] – Venerdì. Dopo scuola il Prep. andò a Mogliano. Trovò fra Barbot all’Osped. o al Pellagrosario, e passò felicemente un po’ di tempo con lui che gli narrò tante cose della sua fuga dai pressi di Aquileja, dov’era al momento dell’invasione alla fine della scorso ottobre. Sta benissimo di salute e sempre affezionato assai al suo Istituto a cui sospira. Ha ogni opportunità di ascoltare ogni mattina la S. Messa e far la S. Comunione – è bene amato dal suo R.do Cappellano e dai Superiori militari dai quali ebbe l’Encomio che fu pubblicato nel Bollettino ufficiale con la seguente motivazione: “Fu di grande e intelligente ajuto agli Ufficiali Medici nella cura ed assistenza dei feriti contribuendo all’ottimo funzionamento del servizio anche in momenti difficili.” Zona di operazioni, maggio 1917.
P. Guido Cognolato aggiunge, a queste notizie sulla partecipazione di fra’ Bastian alla Grande Guerra, altre notizie sulle appendici di questa guerra: “La Conferenza di Versaglia si chiuse senza definire la questione di Fiume. Allora D’Annunzio raccolse a Ronchi un gruppo di «legionari» e occupò la città in nome dell’Italia, installandovi un governo detto «Reggenza del Carnaro» nel settembre 1919. Com’è noto, Giolitti nel novembre 1920 concluse a Rapallo un Patto con la Jugoslavia. Quanta saggezza politica e abilità diplomatica! Perché la Jugoslavia riconoscesse Fiume non già all’Italia, ma come Stato indipendente, rinunciò a quasi tutta la Dalmazia, attribuitaci nel Patto di Londra, e inviò truppe a sloggiare i legionari da Fiume. E l’Italia pianse sul triste Natale di sangue del 1920!”
“Ebbene, a fra’ Sebastiano spetta anche la gloria di aver raggiunto a Fiume il D’Annunzio, completando il suo servizio umanitario di aiutante di Sanità. L’esonero gli giunse appunto nel 1920. Ben meritata, dunque, la nomina di Cavaliere di Vittorio Veneto. C’è da ammirare e da congratularsi calorosamente.”
Dopo aver prestato servizio militare durante la guerra 1914-1918 e pure nelle sue sequele dannunziane, se ne ritornò felicemente in Istituto.
In complesso, dai dati trovati qua e là e riportati nelle tabelle di questo libro, con la solita difficoltà di documentazione che troviamo per i fratelli laici, sembra che si possano riportare i dati seguenti: fra Bastian fu aspirante a Possagno-Canova dal 1904 al 1908; novizio e poi religioso professo a Venezia dal 1908 (almeno) al 1915; durante la prima guerra mondiale servì lungamente, come si è detto, negli ospedali militari, ma era assegnato in teoria alla casa di Venezia; dopo la grande guerra, dopo una breve permanenza a Venezia (parte del periodo 1918-1920), rimase a Porcari negli anni 1920-23; fu poi, dal 16 febbraio 1923 a Possagno, nella comunità del collegio Canova, fino al 1943; a Venezia dal 1943 al 1946; in seguito, sembra sia rimasto sempre a Possagno-Canova per trentasei anni dal 1949 al 1985, anno della sua morte.
Non a torto P. Diego Dogliani, allora rettore del Canova, nel funerale disse: “Carissimo Fra Bastian, il dono della tua persona nella nostra comunità del Collegio Canova e per quanti ti hanno conosciuto è stato grande; ed ora che ci hai lasciato, ci accorgiamo, ma lentamente e quasi con discrezione, che ci manchi”. E proseguì, parlando del caro Fratello: “Era stato, a Possagno, responsabile della sacrestia, teneva ogni cosa al suo posto e ben curata e piegata; distribuiva quaderni, penne, cartoline ai ragazzi e fece questo per molti anni. Cosa strana, i nostri giovani lo ricordavano proprio per questo modo originalissimo di compiere le mansioni più umili. Amava i fiori, coltivava il giardino, era amico delle creature del buon Dio e degli animali. Chi non conosceva la cornacchia di fra’ Bastian che pronunciava il suo nome ed era lieto svago per tutti i ragazzi del collegio? Amava le persone sincere con cui comunicava immediatamente, serviva la comunità consacrando la sua vita a Dio e agli uomini”.
Avuti dalla fiducia del Superiori gli incarichi di sacrista, cuoco, economo, li adempì con amore, dedizione e responsabilità, consapevole di fare la volontà di Dio e di cooperare nel suo umile e prezioso servizio al bene di tutti i confratelli. La condotta semplice e laboriosa, l’osservanza scrupolosa e fedele delle costituzioni e della vita comune caratterizzarono la sua lunga vita religiosa (96 anni di vita; 74 anni di vita religiosa), vissuta con fede e contraddistinta da una particolare devozione a Gesù e alla Madonna.
Nel febbraio 1972 ebbe la soddisfazione di ricevere le medaglie al merito e il titolo di cavaliere di Vittorio Veneto dal presidente della Repubblica, attraverso il sindaco di Possagno. Così è descritto l’evento: “Alla presenza dei padri, dell’arciprete, dei veterani della prima guerra mondiale di Possagno e delle scolaresche il Sindaco Maestro Gianni Mercorella consegnava ufficialmente le insegne di Cavaliere di Vittorio Veneto a fra’ Sebastiano Barbot.
In apertura, il P. Gioacchino Sighel con brevi ed efficaci parole presentava alla numerosa e attenta assemblea la figura del festeggiato, che da tanti anni svolge la sua attività nel collegio.
Il Sindaco, prima della decorazione, pronunciava elevate espressioni all’indirizzo del neo-Cavaliere, felice di poter cogliere tale circostanza per sottolineare la riconoscenza sua e della popolazione per la più che secolare opera educativa svolta dai Cavanis in Possagno.
Il conferimento delle insegne avveniva fra i calorosi battimani dei presenti, ai quali il cavaliere fra’ Sebastiano rivolse commosse parole di ringraziamento e ricordò agli studenti il sacrificio di milioni di giovani che più non ritornarono dai fronti di combattimento.
La serata si concluse con un’amichevole libagione, rallegrata dai canti della montagna e della prima guerra mondiale.”
Dopo una breve malattia fra Bastian morì, ricco di meriti, nella casa religiosa di Possagno (Collegio Canova) ove aveva trascorso molti anni della sua esistenza terrena, il 7 febbraio 1985, all’età di 96 anni. Celebrati solennemente i funerali nel Tempio canoviano, con la partecipazione dei confratelli e dei parrocchiani, la sua salma fu tumulata nella cappella riservata ai sacerdoti e religiosi, del cimitero locale.
7.65 P. Vittorio Cristelli
Nato a Miola di Piné, in diocesi di Trento, il 20 agosto 1913, fu accolto nel probandato di Possagno il 15 ottobre 1922, passò in seguito, per continuare la sua formazione, a Venezia, in casa-madre il 7 settembre 1928. Da bambino, come raccontava lui stesso a chi scrive, aveva avuto un serio incidente: maneggiando una forbice, se l’era conficcata in un occhio, e a partire da quel momento, per tutta la vita, soffrì di parziale cecità, che però non gli impediva di guardare e vedere dall’altro occhio. Si notava comunque chiaramente la ferita. Vestì l’abito dell’Istituto Cavanis domenica 26 ottobre 1930, nella chiesa di S. Agnese a Venezia assieme a Pio Pasqualini e Ferruccio Vianello. Cominciò così con loro il noviziato (1930-31). Emise con loro i voti temporanei nell’oratorio domestico a Venezia il 7 novembre 1931 e con i confratelli Antonio Turetta e Ferruccio Vianello la professione perpetua l’11 novembre 1934.
Il 4 luglio 1937 ricevette a Venezia la tonsura; ricevette gli ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 4 aprile 1938 e quelli dell’esorcistato e accolitato il 3 luglio 1938 nella basilica della Salute a Venezia; il suddiaconato il 9 settembre 1938. Ricevette poi il diaconato il sabato santo 8 aprile 1939 nella cappella del seminario patriarcale, dal patriarca Adeodato Giovanni Piazza.
Terminato il corso di studi umanistici e teologici, ricevette l’ordinazione sacerdotale a Venezia nella basilica della Salute il 2 luglio 1939 dallo stesso patriarca.
Conseguita la laurea in Lettere, dedicò tutte le sue energie alla formazione intellettuale e morale della gioventù. Insegnò nelle case della Congregazione: a Venezia, a Porcari, a Roma, a S. Stefano di Camastra in Sicilia, a Possagno nel Collegio Canova, acquistandosi l’affetto e la stima di tante generazioni di fanciulli e di giovani per la sua discreta preparazione culturale e per il suo metodo didattico-educativo ordinato e ispirato all’amore di Dio e alla sapienza del Vangelo. Come professore di lettere nei primo biennio del liceo classico, allora chiamato ginnasio (IV e V ginnasio, corrispondenti a I e II liceo classico), era ben preparato in Latino, molto meno in Greco, nell’insegnamento del quale aveva esordito nel 1954.
Per esporre con più ordine i suoi dislocamenti nel tempo, diremo che lo troviamo a Venezia come chierico dal 1930 al 1938, a Santo Stefano di Camastra in Sicilia dal 1938 al 1941; a Possagno, collegio Canova, nel periodo 1941-43; a Venezia dal 1943 al 1947 (alla fine di questo periodo fu anche assistente dei seminaristi del liceo); a Porcari dal 1947 al 1951; a Venezia dal 1951 al 1958; a Roma, come rettore, dal 1958 al 1961, per un triennio; di nuovo al collegio Canova di Possagno per più di 22 anni, dal 1963 al 1985.
Estese la sua attività al ministero della predicazione e della confessione, in cui si rivelò confessore molto richiesto e prudente e saggio direttore di anime; come pure quotato predicatore, di facile parola, nutrita di solida dottrina, benché di stile un po’ datato, anche in proporzione al suo tempo. Nella confessione e nella direzione spirituale espresse forse la parte migliore della sua vita pastorale, aiutando i ragazzi e i giovani – ma anche tante altre persone – a sviluppare la loro vita cristiana sulle orme del Signore Gesù, maestro e guida e liberatore misericordioso.
Consapevole della dignità della vocazione sacerdotale e religiosa, informò il suo stile di vita allo spirito e alle regole dell’Istituto, che facilitarono, anche attraverso la sofferenza, la sua continua, crescente ascesa al traguardo della perfezione religiosa.
Negli ultimi anni la sua robusta fibra fu minata da una grave e lunga malattia, fino alla morte che lo colse in piena rassegnazione alla volontà di Dio, il 6 novembre 1986, nell’ospedale di Asolo, all’età non estrema di 74 anni.
I funerali solenni furono celebrati nel tempio canoviano di Possagno, con numerosa e commossa partecipazione. La sua salma fu tumulata nella cappella degli ecclesiastici e dei religiosi Cavanis, del cimitero locale.
7.66 P. Pio Pasqualini
Pio era nato a Bosentino, in arcidiocesi e provincia di Trento, il 12 ottobre 1912, figlio di Dionisio e di Giulia Eccher. Fu battezzato a Bosentino il 16 ottobre 1912, cresimato nel maggio 1920 a Trento. Partì all’età di dieci anni esatti da Bosentino, fu accolto nel Probandato di Possagno il 12 ottobre 1922. Passò poi a Venezia, in casa-madre il 7 settembre 1928. Vestì l’abito dell’Istituto Cavanis domenica 26 ottobre 1930, nella chiesa di S. Agnese a Venezia assieme a Vittorio Cristelli e Ferruccio Vianello. Cominciò così con loro il noviziato a Venezia (1930-31). La vigilia avevano ricevuto l’abito due novizi fratelli laici, che poi lasciarono l’Istituto.
In questa fase lo troviamo registrato come professo temporaneo nell’anno scolastico 1930-31 (con evidente contraddizione col testo precedente) con i confratelli-colleghi di corso Vittorio Cristelli, Ferruccio Vianello, Carlo Martinelli e altri. Emise comunque i voti temporanei nell’oratorio domestico a Venezia il 7 novembre 1931, assieme ai confratelli Vittorio Cristelli, e Ferruccio Vianello.
Nell’anno successivo 1931-32 lo troviamo a Venezia, nello studentato, associato ai nomi dei compagni di corso, sensu stricto o lato, Gioachino Tomasi, Federico Sottopietra, Cesare Turetta, Luigi Ferrari, Carlo Donati, Bruno Marangoni, Vittorio Cristelli, Ferruccio Vianello.
Prendevano l’abito quell’anno: Egidio Fagiani, Luigi Sighel, Angelo Guariento, Salvatore Gattoni, fratel Olivo Bertelli. Di questi 13 seminaristi, ben 11 furono perseveranti in congregazione fino alla fine.
Negli anni scolastici 1933-35 Pio, sebbene ancora seminarista teologo, assieme a due compagni di studi, Luigi D’Andrea e Ferruccio Vianello, fu assegnato alla casa di Possagno, Collegio Canova, per aiutare nel compito (piuttosto duro) di assistenti di disciplina, pur continuando – nei limiti del possibile, in questa spiacevole situazione – gli studi. I tre ritornarono a Venezia nell’autunno 1935, e lì rimarranno in seguito tutti i teologi.
Emise i voti perpetui, assieme al collega Angelo Guariento, il 16 luglio 1936, nella festa della Madonna del Carmine, a Possagno, nella chiesetta del collegio.
Il 19 settembre 1936 ricevette a Venezia la tonsura; l’ostiariato e il lettorato il 13 marzo 1937; l’esorcistato e l’accolitato il 4 luglio 1937; ricevette “con gioia”, come scrive, il suddiaconato il 18 settembre 1937 e il diaconato il 4 aprile 1938. Superato poi tutto il corso degli studi umanistici e teologici, fu consacrato prete a Venezia nella basilica della Salute, il 3 luglio 1938, assieme al P. Ferruccio Vianello, dal patriarca Adeodato Giovanni Piazza.
Conseguita la Laurea in Lettere a Padova, si dedicò all’insegnamento delle materie letterarie nelle scuole inferiori e superiori in varie case.
Fu a Porcari dal 1938, appena ordinato, fino al 1941; nel 1941-42 nella casa di Fietta del Grappa, dove appartenne brevemente all’équipe Cavanis d’appoggio all’Istituto Filippin, casa ed esperienza che furono chiuse nell’estate 1942. Nel 1942-43 lo troviamo di nuovo a Porcari, da dove faceva frequenti visite al seminario e ai seminaristi minori di Vicopelago, dove era accolto con gioia dai seminaristi per la sua giovialità e simpatia, (e anche per il suo binocolo, che diventava “un oggetto magico” e prezioso nelle mani dei ragazzini, per osservare il paesaggio toscano) come ricorda P. Diego Dogliani. Dal 1944 al 1953 è a Venezia. Dal 1953 al 1987 è a Possagno, alla comunità del collegio Canova. Negli anni 1977 e 1978 troviamo però con qualche frequenza, ma non in modo sistematico, la sua firma nei registri delle messe della casa di Levico. Anzi probabilmente è rimasto vari mesi consecutivi a Levico nel 1978. Muore a Possagno il 12 luglio 1987.
Nelle case dell’Istituto P. Pio fu anche zelante Assistente di Azione Cattolica, la GIAC: Gioventù Italiana di Azione Cattolica. I suoi alunni conservano un grato ricordo del suo insegnamento trasmesso con indiscutibile preparazione e competenza didattica, permeato da vero amore per i giovani. Si preparava alla scuola con grande cura e con molto impegno, il che dimostrava il suo amore per questo ministero e il rispetto per i giovani. Li seguiva anche fuori della scuola, sia nelle ricreazioni, sia per mezzo dell’associazionismo, di cui aveva molta stima, con particolare riguardo alla Congregazione mariana e all’azione cattolica.
Continuava a seguire i suoi ragazzi anche dopo che avevano terminato il loro ciclo di studi nel collegio Canova: mediante la corrispondenza, il telefono, le visite che accoglieva o faceva, manteneva il contatto.
Un’attività particolare come mezzo di educazione, in cui credeva particolarmente, era la biblioteca; acquistava libri, li leggeva, li presentava e commentava ai ragazzi, incentivava in loro il gusto per la lettura, come mezzo di conoscenza e di approfondimento.
Pur essendo stato raramente destinato dai superiori ai seminari, svolgeva o appoggiava con gioia qualsiasi attività che gli fosse richiesta in questi ambienti di formazione; a Fietta per esempio tenne nei mesi estivi dei corsi di Cineforum di grande interesse, sia dal punto di vista ricreativo, sia per lo sviluppo del senso critico per i seminaristi preadolescenti e adolescenti.
Di temperamento mite, cordiale e molto sensibile, gentilissimo, si prestava volentieri in comunità a umili servizi e favori per il bene dei confratelli e copriva con il manto della carità i loro difetti. Si sforzò di essere coerente e fedele a quello che riteneva il suo dovere di sacerdote e di religioso, nelle sue attività quotidiane, entro i limiti, negli ultimi anni della sua vita, delle sue possibilità psichiche, sopportando con pazienza e rassegnazione frequenti dolori cerebrali.
La devozione a Gesù Eucaristico e alla Madonna Addolorata caratterizzò la sua pietà. La sua vita fu stroncata inaspettatamente da un collasso cardiaco il 12 luglio 1987, all’età di settantacinque anni, nel collegio di Possagno. I funerali solenni ebbero luogo nel tempio e la salma fu tumulata nel cimitero locale.
7.67 Fratel Luigi Santin
Nato a S. Lucia di Piave (TV) il 30 settembre 1916, entrò a ventuno anni come fratello nella nostra Congregazione, il 30 agosto 1937; proveniva dalla GIAC, Gioventù Italiana di Azione Cattolica. Vestì l’abito di Congregazione come fratello laico il 17 marzo 1938. Compiuto a Venezia il noviziato (1938-40), si legò al Signore e alla Congregazione con la professione temporanea triennale, celebrata probabilmente nel marzo 1940, poi con la professione dei voti perpetui nel 1943.
Nei cinquantadue anni di vita religiosa assolse con fedeltà e disponibilità gli incarichi affidatigli dall’obbedienza, contento di fare la volontà di Dio e di essere utile ai confratelli, in spirito di umile e premuroso servizio. Di carattere tranquillo e riservato, si distinse per la condotta esemplare e laboriosa, nell’osservanza delle costituzioni e nell’accettazione generosa di ogni sacrificio, sempre animato e sostenuto da una particolare devozione alla Madonna, soprattutto mediante la recita frequente e più che quotidiana del S. Rosario. Era poi un confratello buono, gentile, amabile, di quelli con cui si sta molto volentieri insieme.
Servì il Signore e i fratelli nelle case di Venezia (1940-42; 1961-63; 1967-89), forse a Possagno Canova (in questo caso dal 1945 al 1947; poi sicuramente dal 1948 al 1953), Porcari (1942-43; 1953-61; 1963-65). Era stato anche presente nella fase iniziale della casa di Cima Sappada nel 1962.
Il 21 giugno 1974 fra Luigi ricevette dal preposito generale P. Orfeo Mason, a Venezia, il ministero dell’accolitato e il 19 marzo 1975 quello del lettorato, assieme ai fratelli Roberto Feller e Aldo Menghi.
Nell’ultimo ventennio prima della sua morte era rimasto stabile nella casa-madre di Venezia, dove era stato cuoco e, dopo l’arrivo delle suore Cavanis, sagrestano della chiesa di S. Agnese, di cui era diventato quasi geloso. A Venezia, finché gli fu fisicamente possibile, ogni settimana si recava al cimitero di S. Michele in isola, per deporre un fiore sulla tomba dei confratelli.
A quanto pare, era anche appassionato di costruzioni in traforo, di edifici in compensato. Si veda per esempio una foto di una “Mostra sacra in traforo” preparata appunto da fra Luigi in un numero del Charitas del 1959. Difficile dire dalla brevissima didascalia, se avesse traforato e montato quelle riproduzioni in traforo di edifici e di oggetti sacri lui stesso (il che sembra più probabile) o se avesse soltanto organizzato la mostra.
Logorato da lunga e penosa malattia, il diabete, sopportata con rassegnazione, morì improvvisamente all’alba del 12 marzo 1989, all’età di 73 anni, stroncato dal coma diabetico. Dopo i funerali celebrati solennemente nella Chiesa di S. Agnese con la partecipazione di numerosi confratelli, familiari, alunni delle nostre scuole e di fedeli, la sua salma fu tumulata nel cimitero di Ponte della Priula, a richiesta della famiglia.
7.68 P. Giuseppe Cortelezzi
Giuseppe era nato a Belluno il 30 marzo 1926. All’inizio della seconda guerra mondiale perse il padre (già invalido della prima guerra mondiale) e mamma Giulia dovette provvedere agli otto figli; P. Giuseppe le serbò fino alla morte un grande amore.
Entrò in Istituto nel 1939. Dopo l’armistizio del settembre 1943, giovane seminarista, dovette darsi alla macchia per sfuggire alla chiamata alle armi da parte dell’amministrazione tedesca, cui la provincia di Belluno, in cui era nato, fu soggetta direttamente dopo l’8 settembre. Anche nell’ambiente della resistenza si attirò la simpatia di tutti. Appena possibile, rientrò in seminario a Possagno e fu ammesso al noviziato, in casa del S. Cuore, con la vestizione religiosa celebrata nel 1943. Visse l’esperienza del noviziato nell’anno 1943-44, e terminò l’anno con la professione temporanea, emettendo i voti triennali l’8 ottobre 1944.
Dopo la guerra, continuò a Venezia la sua formazione con gli studi per il conseguimento dell’abilitazione magistrale e con il corso teologico. Soffrì in questa fase di qualche problema di salute, dovette allora interrompere gli studi (era allora in II liceo) e dal 2 gennaio al 24 settembre 1947 fu inviato a Roma per cambiare aria e al contempo aiutare la nascente comunità di Torpignattara. Vi ebbe tuttavia qualche problema. In difficoltà con la maturità classica, si abilitò maestro elementare. Emise la professione perpetua l’11 ottobre 1948.
Ricevette la tonsura il 26 marzo 1950, i primi due ordini minori dell’ostiariato e lettorato il primo luglio 1951, i secondi due, dell’esorcistato e accolitato il 29 marzo 1952, il suddiaconato il 29 giugno 1952 nella chiesa già cattedrale di Venezia di S. Pietro di Castello, il diaconato a Chioggia, per le mani del confratello monsignor Giovanni Battista Piasentini, il 25 gennaio 1953 e l’ordinazione presbiterale a Venezia il 21 luglio 1953 per l’imposizione delle mani del Patriarca di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi divenuto S. Giovanni XXIII.
Fin dalle prime esperienze nella Scuola Elementare a Venezia, durante la formazione teologica, rivelò le sue belle doti di educatore saggio e di valido insegnante cattivandosi l’affetto e la stima dei suoi piccoli alunni.
Dopo aver svolto il suo ufficio di economo nel probandato di Possagno e per tre anni (1956-59) quello di vicedirettore dell’Istituto “Tata Giovanni” a Roma, fu mandato dall’obbedienza nel 1964 a Chioggia come economo e segretario e successivamente fu nominato rettore della casa.
P. CORTELLEZZI E PAPA PAOLO VI
P. Cortelezzi fu mandato a Roma, come vicedirettore nel collegio “Tata Giovanni”, accattivandosi le simpatie dei ragazzi e la cordialità e l’apprezzamento degli amministratori. Cosa rara e significativa, quando fu trasferito alla casa di Chioggia, ebbe in dono una medaglia d’oro come segno di riconoscenza.
Tra gli ospiti del “Tata Giovanni” ci fu un ragazzo che era stato presentato da monsignor Giovanni Battista Montini, allora Sostituto alla Segreteria di stato. Il vicedirettore del Tata domandò con discrezione a quest’ultimo, quando fece la sua raccomandazione: “Chi paga la retta? Certi monsignori a volte fanno la carità coi soldi degli altri”. Montini assicurò che se ne sarebbe assunto lui la responsabilità, e di fatto pagò puntualmente.
Quando nel 1964, prima di lasciare Roma per trasferirsi a Chioggia, chiese e ottenne un’udienza da Paolo VI con la mamma, il Papa si ricordò di lui e disse benevolmente: “Lei è quello che insegna ai monsignori…”. L’aneddoto dimostra sia la buona memoria di Papa Montini, sia il senso di responsabilità e di onestà, come pure il coraggio e la franchezza (un po’ rude ma molto efficace!) di Padre Giuseppe.
Sempre a Roma, questi fece da autista al cappellano del Quirinale monsignor Lanutti, ma era di carattere aperto, e fece amicizia con autisti e altri impiegati di vari ministeri. La cosa gli servì egregiamente più tardi, già in azione a Chioggia, per far superare al Centro Professionale Maria Immacolata, dell’Istituto Cavanis, le difficoltà in cui si dibatté dal 1961 con la riforma del ministro Sullo. In vista della scuola media dell’obbligo, furono improvvisamente chiusi 12 corsi su 20, poi ci furono altre difficoltà burocratiche. Si deve in gran parte a lui se, prima da Roma e poi da Chioggia, riuscì ad aggirare gli ostacoli che via via si presentavano.
Per ben ventun anni fu direttore del Centro professionale, mettendo in evidenza le sue grandi doti di amministratore saggio e prudente, preciso fino a rasentare la pignoleria. Fu eccellente organizzatore per tenere sempre aggiornata l’attrezzatura dei laboratori, fino ad arrivare, cosa nuova in quegli anni, ad acquistare con contributo della Regione Veneto una fresatrice a controllo numerico per avviare al lavoro di automazione gli allievi meccanici.
Vedeva l’attività del centro professionale in pieno stile “Cavanis”: scuola di avviamento e formazione umana per giovani, specialmente poveri, ai quali donarsi con attività instancabile, preoccupandosi della formazione umana e cristiana. Ci teneva anche a insegnare a leggere la busta-paga: sembra una sciocchezza, ma – diceva – se un operaio dimostra di capire sbagli e imbrogli, viene subito valutato, rispettato e non subisce soprusi. Forse al primo impatto i giovani sentivano una certa soggezione: era sempre il direttore. Quando entrava nelle aule per qualche lezione, il tono cambiava. Alle esigenze dello studio, alla competenza dell’insegnamento, sapeva sempre unire la battuta umoristica, che “apriva” e tutto diventava facile e quando qualche allievo veniva mandato in direzione, era facile convincerlo dello sbaglio senza ricorrere a castighi.
Era sempre preoccupato della sorveglianza (i fondatori Cavanis parlavano di “amorevole sopraveglianza”) per cui si vedeva sempre dappertutto, sia nelle officine, come in ricreazione, sempre prudente nel prevedere pericoli. Si può dire che risiedesse nel reparto “tornitori”, il più esposto agli infortuni per la pericolosità delle macchine.
Nel 1965 era nata un’associazione di Centri cattolici professionali, la F.I.C.I.A.P. (Federazione italiana centri d’istruzione e addestramento professionale) per coordinare le azioni di tutti nella non facile lotta contro la burocrazia e per difendere la formazione professione da ogni attacco specialmente da parte della Pubblica Istruzione. Padre Cortelezzi ne fu uno dei fondatori: lo conferma la medaglia di riconoscenza ricevuta nel 25° della sua attività.
Nonostante la salute precaria, denominatore comune di tutta la vita di Padre Giuseppe fu una laboriosità instancabile in ogni campo: dal lavoro di ufficio, alla sorveglianza, alla pulizia dei locali, alle sostituzioni d’insegnanti assenti, quando erano necessarie, all’aiuto di mera manovalanza, alla mensa. Puntualmente nei pranzi di fine anno trovava una scusa buona per mettersi a servire, invece che sedersi a tavola. Arrivava a tutto, anche al di fuori delle incombenze ordinarie. Per quanti pensionati o gente di poche risorse di Chioggia e dintorni compilò per anni i famosi moduli “740” per dichiarazione dei redditi? Sono qualche centinaio, e sempre gratuitamente, contrariamente a ciò che accadeva in altri ambienti, da commercialisti e da patronati.
Alternò queste attività con l’insegnamento per molti anni della Religione nelle Scuole Medie statali. Da queste attività non disgiunse l’esercizio delle virtù religiose e sacerdotali e le opere di apostolato, vivificato dallo spirito di preghiera, dalla pietà eucaristica e dalla devozione alla Madonna. Sopportò con ammirevole pazienza le sofferenze cagionategli dalla sua precaria salute.
Un grave incidente stradale di cui fu vittima sulla micidiale via Romea, il 26 agosto 1991, mentre la percorreva sul suo motorino, lo stroncò nel pieno vigore delle sue forze, all’età di sessantacinque anni. Morì nell’ospedale di Padova il 3 settembre successivo, dopo un lungo e straziante periodo di coma irreversibile, pianto da tutti: oltre che dai confratelli e dalla famiglia, si può dire da tutta la città di Chioggia. I funerali imponenti per concorso di popolo, si svolsero a Chioggia nella Basilica di S. Giacomo, presieduti dal vescovo monsignor Alfredo Magarotto. La sua salma, trasportata nel cimitero di Visome (Belluno), riposa accanto alla tomba della madre.
7.69 P. Giuseppe Da Lio
Difficilmente si troverà traccia di P. Giuseppe Da Lio nelle carte non riservate dell’Istituto Cavanis, perché era uscito dalla Congregazione nel 1955, mediante esclaustrazione, passando come sacerdote diocesano alla diocesi di Seattle, U.S.A., e incaricato della cura pastorale di una parrocchia della piccola città di Walla Walla (Washington, USA) eppure trovo giusto e interessante non farne scomparire la memoria. Prendo lo spunto da un piccolo articolo apparso nella rivista Charitas in occasione della sua morte, avvenuta il 23 agosto 1991.
Ecco l’articolo, non firmato:
Martedì 3 settembre 1991 la Comunità di Venezia, assieme a molti suoi ex-allievi, amici e parenti ha partecipato ad una Santa Messa di suffragio per P. Giuseppe Da Lio, già Padre Cavanis, ora parroco di Walley (Usa) morto il 23 agosto. È stato presentato questo bel profilo di P. Giuseppe, stimato e amato da molte persone, uomo di fede e di carità.
“A metà luglio era stato ospite da me. Quando ho appreso la notizia i ricordi che mi legano a Padre Da Lio mi sono passati rapidamente nella memoria. Ho rivisto lui insegnante nelle classi del liceo Cavanis negli anni 1953-54. Per noi rappresentava un nuovo modo di porsi con gli allievi e suscitava un interesse speciale, anche perché ci consentiva un dialogo a tutto campo sui temi della vita, che non eravamo mai stati abituati ad avere. Lo fece senza perdere il ruolo e il fascino dell’insegnante.
D’allora lo rividi sei-sette anni fa per la prima volta. Seppi della sua travagliata esistenza, che ci raccontò senza enfasi e senza nostalgie.
Partito da Venezia immediatamente dopo il nostro esame di maturità, nei paesi dell’America centrale, poi nel Messico, poi nel Texas e infine nell’Oregon passò la vita a contatto delle situazioni sociali più difficili di quei luoghi. Infine la sua vita di Parroco a Valley caratterizzata da una abitazione di modestissima costruzione, che realizzò in parte con le sue mani e con l’aiuto dei suoi parrocchiani, 350 persone circa distribuite in un territorio grande come la provincia di Venezia e che gli garantivano il sostentamento che potevano. Ma mi disse “là sto bene perché ho un fiume che corre vicino a casa in cui pesco nelle stagioni delle trote, circa 500 pesci, li metto in freezer e così ne ho circa uno al giorno. La legna poi non mi manca perché lo Stato consente di raccogliere tutti i legni caduti che si possono portar via in un giorno con la spesa di un dollaro. Qualche volta vado anche a caccia”.
Era animato da un profondo desiderio di conoscere e soprattutto di instaurare un rapporto personale e intenso con il suo interlocutore.
Così lasciò ovunque un segno della sua presenza disinteressata sempre, che riaffermava i valori della persona e della fede che testimoniò tutta la vita. Ora il suo Vescovo gli diede la facoltà di andare in pensione da qualche mese, e grandi programmi di viaggi e di ritorno definitivo in Italia lo animavano. Morì tra quella che fu la sua gente, esempio indubbio anche della formazione dovuta alla grande scuola dei Cavanis”.
Negli anni ’50 del secolo scorso io – che scrivo – ero allievo delle medie e poi del ginnasio e liceo classico dell’Istituto Cavanis di Venezia. Non ho avuto come insegnante P. Da Lio, che insegnava storia e filosofia, brillantemente, nel triennio dei nostri licei e che deve essere uscito di Congregazione quando io ero ancora in V ginnasio, quindi probabilmente nel 1955 o prima di questa data. Lo ricordo tuttavia con simpatia, come un padre Cavanis differente, amato dagli studenti e, apparentemente, per noi ragazzi, poco amato da molti religiosi Cavanis. Era appunto diverso, come scrive anche l’autore della testimonianza qui sopra. Era aperto, attivo, vivace, avanzato nelle idee e nelle forme dell’educazione, poco clericale, non moralista. Sembra che insegnasse molto bene la storia e la filosofia nei nostri licei, senza dubbio uno dei migliori in questo campo. In particolare, senza dubbio P. Da Lio insegnava storia e filosofia in modo più aperto e moderno, rispetto ai padri Antonio Turetta e Guido Cognolato che ho avuto come professori di queste materie in liceo e che già allora (1955-58) mi sembravano alquanto retrivi e clericali nelle loro posizioni, tanto da averne con loro qualche scontro verbale in classe.
Tra l’altro, P. Da Lio era uno dei pochi tra i Cavanis che avesse pubblicato (in parte) la sua tesi di laurea de Universa Teologia, con tesi su “Razionalità della fede e valore probativo dei miracoli in Tertulliano”, difesa in lectio coram alla Pontificia Università Gregoriana il 13 dicembre 1952.
Ricordo che uno dei punti di scontro con la comunità di Venezia è stato il fatto che P. Giuseppe Da Lio organizzò una riunione, con sede nell’edificio dell’Istituto ove ora si trova l’albergo Belle Arti, tra giovani della Gioventù di Azione Cattolica (GIAC) – naturalmente maschi – dell’Istituto Cavanis, tra cui anche chi scrive, e ragazze della Gioventù Femminile di Azione Cattolica (GF) dell’Istituto S. Cuore delle Suore Canossiane, nell’anno scolastico 1954-55 o nel successivo. L’iniziativa, che non si realizzò, con nostra sorpresa, dato l’invito, suscitò forti critiche da parte del nostro Istituto, e noi allievi fummo interrogati e criticati in classe per aver dato l’adesione (teorica) a questo genere d’iniziative. La coeducazione non era evidentemente ancora benvenuta!
Non posso affermarlo con sicurezza, ma sono sempre rimasto dell’opinione e/o dell’impressione che aver lasciato uscire di Congregazione il P. Giuseppe Da Lio, e aver moralmente facilitato la sua uscita, è stata per l’Istituto una perdita notevole, un’occasione perduta. Certo, cosa gravissima, per alcuni religiosi Cavanis dell’epoca, il suo difetto maggiore era giudicato quello di non portare mai in testa il berretto da prete!
Aveva ricevuto la sacra tonsura, assieme a Giuseppe Colombara, il 18 dicembre 1943, i primi due ordini minori, dell’ostiariato e lettorato, il 22 giugno 1946 e quelli dell’esorcistato e accolitato il 22 marzo 1947. Gli fu conferito il suddiaconato e il diaconato nella basilica patriarcale di S. Marco il 22 marzo 1947. Ricevette poi l’ordinazione presbiterale il 22 Giugno 1947, a Venezia.
I primi anni di vita da sacerdote in congregazione li visse a Roma, via Casilina, dal 1948 al 1950. Fu poi a Porcari dal 1950 al 1954 o 1955. A Venezia, deve essere stato pochissimo, nel 1955-56, probabilmente già in crisi con la comunità Cavanis.
Dopo uscito dall’Istituto Cavanis, rimase prete diocesano, rinunciando invece alla vita religiosa, e mi risulta che sia stato incardinato lungamente in un diocesi statunitense, risiedendo a Walla Walla, capoluogo della contea omonima, nello stato di Washington. Questa città si trova nella zona sudorientale dello Stato e dista tredici miglia dal confine con l’Oregon. Questo dato deve probabilmente essere sostituito a quello di una sua residenza e attività a Walley o Valley riportato nell’articolo citato, e spiega la confusione fra i due stati di Washington e Oregon.
7.70 P. Angelo Sighel
A chi ha conosciuto il P. Angelo Sighel vengono spontanee in mente le parole di tenerezza del profeta Osea: “Ad Efraim io insegnavo a camminare, tenendolo per mano… io lo traevo con legami di bontà, con vincoli di amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare”. La sua vocazione fu ad essere un uomo semplice e buono di cuore, limpido di occhi, pacifico nell’atteggiamento; in una parola: ad essere amabile. Veramente padre.
Questa fu la sua vocazione di fondo, pur nelle diverse condizioni di vita, da quando, piccolo pastore, conduceva al pascolo il gregge di caprette che gli veniva affidato, a quando, adulto, ricordava quegli anni felici e senza pensieri, in cui la sua compagna di vita era quella “Anna” che gli forniva il latte caldo per i suoi poveri, ma deliziosi pasti. Quella capra che, diceva, poteva essere esempio di obbedienza a molti frati, perché alla voce del suo padroncino sapeva anche rinunciare a un cavolo che era alla portata della sua bocca.
Da questa ingenua condizione di vita, Dio lo chiamò ad essere, da pastore di caprette, pastore di uomini. Fu uno di quella numerosa schiera di chiamati, che dalla feconda terra di Piné, o del Trentino in generale, soprattutto dai primi anni del 1900 in poi entrarono a far parte dell’Istituto Cavanis e lo arricchirono non solo numericamente, ma soprattutto con qualità significative di mente e di cuore.
Angelo era nato a Miola di Piné il 19 marzo 1907. Entrò in Istituto, a Possagno, il 18 novembre 1919. A Possagno cominciò gli studi medi inferiori e superiori; vestì l’abito Cavanis l’8 dicembre 1923 e visse l’esperienza del noviziato a Possagno da questa data all’8 dicembre 1924, data in cui emise la professione temporanea dei voti religiosi; a Venezia si unì ai nostri col vincolo della professione perpetua, emessa il 19 marzo 1928, festa di S. Giuseppe, insieme ai colleghi Gioacchino Sighel, Antonio Cristelli e Giovanni Tamanini, a Venezia, assieme ai quali aveva percorso tutto il cammino di formazione.
Ricevette la tonsura il 20 maggio 1928, i primi due ordini minori (ostiariato e lettorato) il 5 aprile 1930, sabato sitientes, nella sala dei banchetti, dal patriarca La Fontaine; i secondi due ordini minori (esorcistato e accolitato) nella basilica della Salute, dallo stesso presule, il 13 luglio 1930; il suddiaconato nella cappella del Patriarchio il primo febbraio 1931, sempre assieme ai confratelli Gioacchino Sighel, Antonio Cristelli e Giovanni Tamanini; il diaconato il 21 marzo 1931 nella basilica di S. Marco. Fu poi ordinato prete, assieme al P. Riccardo Janeselli, nella chiesa dei carmelitani scalzi a Venezia, per le mani del vescovo ausiliare monsignor Giovanni Jeremich il 28 giugno 1931.
Gli studi, umanistici e teologici, le professioni religiose e le sacre ordinazioni li completò per prepararsi a quello specifico Cavanis, che lo caratterizzò per tutta la vita: “Insegnare la scienza ed educare i giovani con cuore di padre”. Questo si tradusse in uno studio attento, metodico e appassionato della natura e delle sue meraviglie, fino a conseguire la Laurea in Scienze Naturali con una preziosa tesi sulle alghe della Laguna Veneta, che ebbe l’onore di essere pubblicata dall’Istituto Veneto di Lettere, Scienze e Arti.
Mio padre Piero Leonardi, che era stato suo professore di geologia a Padova, anche se era più giovane di lui, mi raccontava che Angelo Sighel dopo la laurea era stato invitato come assistente a quell’università, non so in quale istituto, ma che non aveva potuto accettare, dato che la Congregazione aveva bisogno di lui per l’insegnamento. P. Angelo non ricordava mai questo episodio che da un lato gli doveva aver dato molto piacere, ma in cui la rinuncia doveva essere stata senza dubbio dolorosa.
Dopo la laurea, per sessant’anni insegnò nelle scuole medie inferiori e poi superiori nelle varie case della Congregazione, soprattutto a Possagno e secondariamente a Capezzano Pianore. circa da quando aveva cominciato alle elementari, acquistandosi sempre la stima per la solida cultura scientifica e per la capacità di trasmettere la sua passione per le scienze, e la simpatia degli alunni per il suo carattere mite e cordiale, che accettava facilmente anche gli scherzi e le monellerie studentesche senza maggiori problemi.
Lo stesso accadeva anche in comunità: si scherzava con lui, anche se più anziano, e lui se la rideva o rispondeva a volte con battute ironiche o mordenti, sempre con il sorriso sulle labbra.
Fu anche formatore, coprendo la carica di direttore del probandato di Costasavina (TN) e in seguito del probandato di S. Alessio (LU), cariche che seppe assolvere con spirito di sacrificio e di responsabilità. Inoltre nel 1943-44 fu anche collaboratore del Maestro dei Novizi P. Alessandro Vianello, assieme al giovane e buon P. Cesare Turetta, in casa del S. Cuore a Coldraga.
Riassumendo, P. Angelo fu a Venezia da appena prete, nel 1931 al 1935; al Canova di Possagno, ma operando a Fietta dal 1937-38 (1935-1938); a Fietta del Grappa, insegnando nell’Istituto Filippin (1938-41); nel probandato di Possagno come formatore (1942-43(44)); ancora come formatore a Costasavina (TN, 1943-48); a Porcari (1948-49, 1953-55, 1953-55 e 1970-72); di nuovo come formatore a S. Alessio (Lucca, 1949-52); a Capezzano Pianore, in liceo scientifico, insegnando science come farà anche nelle case seguenti, 1955-63); a Venezia dal 1964 al 1970; e infine a Possagno-Canova (1972-1991).
Lo studio in lui fu assecondato da una intelligenza sempre in esercizio, che tutto osservava con sapiente curiosità per cogliere la realtà delle cose in sé, ma anche per andare al di là dell’apparenza sensibile. Tutto: dal serpente all’uccello, dal pesce all’elefante, dal microcosmo al macrocosmo era per lui opera meravigliosa del Creatore che aveva fatto con infinita varietà gli esseri e le cose più diverse, per far vedere la ricchezza della sua potenza e del suo amore per gli uomini. Tutto, diceva, ha nell’ordine del creato il suo posto e il suo significato. È bello contemplare le stelle e conoscerne il movimento, ma lo è altrettanto guardare il percorso tortuoso delle formiche o il volo sicuro degli uccelli. A noi, letterati ignoranti, non si stancava di ripetere che dovevamo aprire gli occhi per leggere la scrittura di Dio nelle cose.
Questa non era solo poesia: era scienza vera, competente e metodica. Nei lunghi anni d’insegnamento nella scuola media inferiore e superiore il P. Angelo seppe dispensare, secondo il livello degli studenti, la propria scienza con amore e costanza, cercando di usufruire di tutti gli strumenti che poteva avere a disposizione, costruendo da solo certi ingegnosi apparecchi di fisica e di chimica utili pedagogicamente, realizzati con mezzi semplici, ma efficaci. Era veramente un homo faber. A lui si deve l’organizzazione o la riorganizzazione dei musei di Scienze dei nostri Istituti di Venezia, Possagno, Porcari, Le Pianore, con collocazione ordinata scientificamente del materiale didattico. In questi Musei passava poi non solo le ore scolastiche, ma il maggior tempo dei suoi pomeriggi per arricchire, catalogare, preparare gli esperimenti e il materiale naturalistico per le lezioni successive. Lezioni, che suscitavano da parte degli allievi quella curiosità, che a volte sconfinava nell’impertinenza, subito dominata con modi che, anche quando erano severi, furono accettati con cordialità dai ragazzi. “Mi non so parché, ma se i altri alsa la vose, i fioi tase; co lo fasso mi, i sorride”. E le testimonianze dei suoi ex-allievi confermano puntualmente quanto sopra detto.
C’è però un altro aspetto della vita di P. Angelo: quello del Sacerdote e del Religioso. La sua vocazione era fondata su una fede certa, diritta, ostinata. “Così mi hanno insegnato, così dice la Chiesa, quindi non si discute: il nero è nero, il bianco è bianco, non ci sono sfumature di possibili compromessi” diceva.
Al centro di questa vita sacerdotale era l’Eucaristia, con la frequente sosta giornaliera davanti al SS. Sacramento; si devono ricordare la partecipazione all’Associazione dei Sacerdoti adoratori, la sua cura nella preparazione delle celebrazioni liturgiche, come sacrista della chiesa del Collegio.
Accanto a questa, la devozione confidente in Maria, più volte pregata dal mattino alla sera con la corona del Rosario, compagna inseparabile delle mani del P. Angelo. Ma c’è un tratto della pietà del P. Angelo che gli è stato caratteristico e caro: la devozione alle anime del Purgatorio, che si esprimeva non solo nella preghiera, ma nella partecipazione a quanti più funerali poteva sia di confratelli, sia di ex-allievi, sia di paesani, di parenti o amici.
Insieme alla vita sacerdotale, la vita religiosa, che per lui era soprattutto la Regola, amata, letta e riletta, alla cui osservanza teneva in maniera particolare e a cui richiamava con fermezza anche gli altri o la Comunità, quando gli pareva che ci fosse qualche negligenza nel tenerne il debito conto.
Con questi tratti il P. Angelo vive nella memoria affettuosa di chi l’ha conosciuto come strumento di Dio per diffondere pace, amabilità, amicizia e grazia intorno a sé, e far conoscere quanto è amabile il volto di Dio nelle sue creature.
Ha lasciato scritto con semplicità e fede: “Desidero morire nella S. Chiesa Cattolica Romana, nel seno della mia amata Congregazione, con questi sentimenti accompagnati dal più vivo dolore di tutti i miei peccati. O Gesù, ti voglio amare con tutto il cuore e l’animo mio e con il Cuore della tua Madre, Maria santissima”.
Ammalatosi gravemente, fu ricoverato all’ospedale di Castelfranco Veneto, dove, dopo breve malattia, chiuse serenamente la vita il 29 dicembre 1991, all’età di ottantaquattro anni, confortato dall’affetto profondo dei confratelli. Aveva davvero saputo farsi amare. Dopo i funerali celebrati solennemente nel tempio canoviano, la sua salma fu tumulata nel cimitero locale di Possagno.
7.71 P. Luigi Candiago
“Pregai e mi fu elargita la prudenza; implorai e venne in me lo spirito della Sapienza. La preferii a scettri e troni, mai un nulla la ricchezza al suo confronto” (Sap 7, 7-8).
Mi sono ricordato di questo tratto della lettura, dal libro della Sapienza, l’altro giorno in ospedale, a fianco del letto P. Luigi, quando un infermiere molto gentile gli disse “Padre, in questo mondo di matti, di tangenti e di sequestri, Lei con la sua vita religiosa ha fatto la scelta più saggia”. È senz’altro bello sentirsi dire una frase del genere da un estraneo, sul letto di morte. In altra circostanza, mentre P. Luigi era assopito, una buona e brava infermiera, esclamò parlando a se stessa: “Quanto buono è questo Padre?! Mai un lamento, con quello che ha e che gli dobbiamo fare. Per me è un santo!”.
Infatti, che cos’è la morte di un religioso fedele? È la morte di un fedele discepolo che ha cercato nel Signore, tutta la vita, la sapienza, l’ha preferita a tutte le cose visibili e nel Signore l’ha trovata. È la morte di uno che ha seguito Cristo fin da giovane e che lo ha accompagnato tutti i giorni, nella buona e nella cattiva fortuna, nella salute e nella malattia, nel sacrificio e nella gioia, in una vera alleanza sponsale, fin sulla strada del Calvario e che con lui infine ha pronunziato le parole: “Tutto è compiuto” (Gv 19,30). La sua morte serena, confortata dai sacramenti, accompagnata da uno dei suoi confratelli che gli suggeriva fino all’ultimo i nomi benedetti di Gesù e di Maria, il suo volto sereno nella morte, l’abito santo che veste ancora, sono per noi tutti segni di speranza: che Cristo che ha seguito in vita lo accoglie misericordioso e pieno di amore, per sempre. P. Luigi è un uomo che ha davvero seguito Gesù sulla croce. Pochi lo sanno, ma fin da giovane, per tutta la vita, soffrì di un fastidioso e continuo mal di testa, che gli impediva di godere di qualsiasi momento di riposo e di tregua, e che spiega il suo volto apparentemente severo. Questo serio malanno di tutta una vita mai gli impedì di compiere il suo dovere di comunità e di ministero. Negli ultimi anni di ritiro dalla scuola – cosa per lui molto pesante – e ultimamente di gravi sofferenze, tanto più nell’ultimo mese e mezzo di degenza, ha dato segno di una straordinaria pazienza. In tante visite all’ospedale mai ho sentito sulle sue labbra una parola di lagnanza o di impazienza. Per la verità, un lamento gli sfuggì tre giorni prima di morire, ma credo sia stata una confidenza eccezionale a chi gli stava accanto. Si capiva facilmente che gli spasimi dovevano superare il limite della sopportazione.
Alcune delle persone più giovani hanno conosciuto P. Luigi già anziano e sofferente e forse non hanno potuto apprezzarlo convenientemente. Ma P. Candiago ha seguito a lungo Gesù nella vita religiosa e nel presbiterato, come educatore.
Entrò nel seminario minore dell’Istituto a dodici anni, si impegnò definitivamente con il Signore e con la Congregazione per mezzo dei voti perpetui nel 1934, gli furono imposte le mani per il presbiterato nel 1937. Era religioso nel nostro Istituto da più di sessant’anni (aveva festeggiato il suo giubileo di diamante l’anno precedente alla sua morte) e sacerdote da 55. Ha esercitato il ministero dell’educazione della gioventù per più di mezzo secolo, insegnando matematica nelle scuole medie del nostro Istituto. Ha dedicato una parte importante della sua vita al ministero della riconciliazione e alla direzione spirituale. Ha educato generazioni intere a pregare e a cantare le lodi del Signore negli oratori.
Chi scrive l’ha conosciuto per la prima volta nel 1952, suo professore di algebra e geometria, nel pieno vigore delle forze, pieno di entusiasmo e con una personalità marcante. È stato uno tra le migliaia di fanciulli e di giovani che ha educato. Una delle cose che ho sempre ammirato in lui è stato un aspetto tipico della pedagogia Cavanis, in lui particolarmente sviluppato: l’attenzione dedicata a ciascuno degli allievi, il ricordo esatto del nome, del volto, delle caratteristiche e della famiglia di ciascuno di essi, a distanza di decine di anni. Ciò non proveniva solo da una memoria eccezionale: era, come in tutti i buoni educatori, frutto di lavoro, di quaderni in cui annotava tutti i nomi, con amore e con predilezione per ciascuno. Per lui, come per ogni buon educatore, un ragazzo non era un numero tra tanti; era una persona, un figlio di Dio, un figlio amato come se fosse l’unico. Questo probabilmente spiega perché fosse ricordato e amato – soprattutto dopo gli studi, perché come professore era piuttosto temuto – da tanti. Ma qui vorrei anche mitigare il luogo comune della sua severità: Padre Luigi era un timido, nel senso migliore del termine. Questa caratteristica, che sfuggiva, del suo carattere poté rivelarsi solamente a chi gli fu intimo e divise con lui amarezze, incomprensioni, ricerca di aderenza ai precetti evangelici in tutte le circostanze di vita quotidiana. A Roma, a Venezia, a Solaro, a Misinto, a Chioggia, negli altri luoghi dove è vissuto e ha operato, lo ricordano in tanti con affetto e venerazione; ammirevole la sua preoccupazione di rispondere puntualmente a quanti si rivolgevano a lui con scritti vari per consiglio, per dissipare dubbi e per vincere sconforto. Ultimamente, le forze fisiche non gli permettevano più di tenere viva tanta corrispondenza. Chi si accorse di questa nuova spina dolorosa nel corpo già martoriato, con molto tatto e cautela, si offrì di aiutarlo. Il buon Padre lì per lì se ne rallegrò e accettò. Subito dopo, però, fece capire a modo suo che non era corretto. La sua onestà, la discrezione, il rispetto verso ogni persona ancora una volta balzarono agli occhi di chi non poteva che ringraziare il Signore per avergli donato un tale amico! Un altro dovere egli si era assunto spontaneamente, sulle parole di Cristo Giudice Supremo inappellabile. Qui, gli interessati ricorderanno con gratitudine le tante visite di p. Candiago per ammalati o bisognosi di una buona parola amica o anche semplicemente di cortesia genuina. Ma non so chi abbia potuto sospettare quanto sforzo fisico gli richiedessero questi spostamenti, specialmente negli ultimi tempi. Poi dovette rinunciare anche a questo, con rammarico. Ora ci è stato tolto, e anche se sappiamo nella fede che lo abbiamo invece guadagnato, lo piangiamo e ci manca. Ci manca la sua presenza molto fedele ai momenti di preghiera comunitaria, la sua presenza frequentissima in Chiesa di S. Agnese o nell’oratorio domestico, dove negli ultimi anni ha recitato, tra l’altro, innumerevoli rosari; ci manca il suo esempio di come dobbiamo pregare; mancherà la sua invitante disponibilità per il Sacramento della penitenza; ci manca il suo passo, ultimamente strascicato, nei corridoi della comunità; ci manca il suo sorriso singolarmente dolce e quasi timido nel suo volto severo dalle sopracciglia cespugliose che ci era caro. Mancherà la sua presenza ai parenti, agli amici ex-allievi e della Congregazione Mariana e a tanti altri amici. Rimane vuoto, dolorosamente, il suo posto nel refettorio di comunità. Ma non rimane vuoto un posto nel nostro cuore. La sua memoria vivrà in noi.
Luigi Candiago era nato il 17 ottobre 1912 a Pieve di Soligo (in diocesi di Ceneda, oggi Vittorio Veneto, e provincia di Treviso. Entrò in seminario dodicenne, a Possagno, il 20 settembre 1924. Passò al nostro seminario di Venezia in casa madre il 10 settembre 1927. Nel settembre 1928, assieme a Aldo Servini, sostenne esami liceali a Venezia, presso l’Istituto Foscarini, con successo. Vestì l’abito religioso Cavanis il 20 ottobre 1929 e iniziò così il noviziato (1929-30), con i quattro confratelli Guido Cognolato, Luigi D’Andrea, Antonio Turetta, Alessandro Valeriani, che furono tutti perseveranti fino alla fine; emise la professione temporanea il 10 febbraio 1930; professò i voti religiosi perpetui a Venezia l’11 marzo 1934.
Ricevette la tonsura a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; l’ostiariato e il lettorato il 2 febbraio 1936; l’esorcistato e l’accolitato il sabato sitientes, sempre a Venezia, il 28 marzo 1936; ancora a Venezia, il 19 settembre 1936 ricevette l’ordine maggiore del suddiaconato; fu consacrato diacono il 13 marzo 1937. Superati dunque gli studi letterari e poi teologici nello Studio teologico dell’Istituto a Venezia, fu consacrato prete a Venezia nella basilica della Salute il 4 luglio 1937.
Quanto alle case dell’Istituto in cui visse e operò, questa è la serie ordinata cronologicamente: egli fu a Venezia (1937-43); a Porcari (1941-46; ma si noti che c’è una coincidenza tra le due case dal ’43 al ’46, difficile da spiegare); nel probandato di Possagno (1948-49); a Roma, via Casilina (1949-52; 1955-58; 1961-67, e in quest’ultimo periodo, un sessennio, fu anche procuratore generale, durante il mandato di P. Giuseppe Panizzolo, e rettore nel triennio 1961-64); fu rettore a Venezia (1952-55); fu pro-rettore al Tata Giovanni (1958-61); a Solaro 1967-71); al Canova di Possagno (1971-75; a Venezia infine (1975-92, fino alla morte).
Morì l’11 luglio 1992. Il suo corpo riposa nel cimitero di S. Michele a Venezia.
7.72 P. Marcello Quilici
Nato a S. Pancrazio in Marlia (Lucca) il 23 marzo 1932, ebbe dai genitori (Giovanni e Letizia Quilici, quarto di sei fratelli), veri cristiani, una solida educazione, completata nel collegio Cavanis di Porcari, dove frequentò gli studi ginnasiali. Il 19 ottobre 1947 vestì l’abito Cavanis e entrò nel noviziato dell’Istituto Cavanis a Possagno (1947-48), pronunziò i voti temporanei nel 1948.
Frequentò il liceo classico e gli studi di teologia a Venezia (1948-1956) e qui, come in seguito, sempre si distinse per la docilità e la carità. A Venezia si consacrò definitivamente al Signore e alla Congregazione con i voti perpetui, emessi in Sant’Agnese il 25 ottobre 1953, nella solennità di Cristo Re.
Fu ordinato prete dal Cardinale Patriarca di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli, poi Papa Giovanni XXIII, il 24 giugno 1956.
Unica sua preoccupazione fu seguire la voce di Dio nell’obbedienza, alternando lo studio per laurearsi in Lettere Classiche (1969) e il ministero tra i ragazzi nei seminari e nelle altre case dell’Istituto a Levico (1956-61), Roma (1961-63 e 1967-70, Venezia (1963-65), Capezzano Pianore (1965-66), e nella breve esperienza Cavanis nella città e diocesi di Cesena (1958-59).
Da buon Cavanis formava i ragazzi nella mente e nel cuore con quella paternità, quel buonumore, quella gentilezza che in lui erano dote naturale, resa più alta e significativa dall’esempio dei fondatori: “Agire più da padre che da maestro”.
Quando tutto sembrava avere un corso preordinato egli percepì la definitiva volontà di Dio: essere padre dei più poveri in terra brasiliana. Il Natale 1968 segnò una data particolare per la Congregazione Cavanis: l’apertura missionaria della Congregazione in Brasile. P. Marcello fu tra i primi a rendersi disponibile alla proposta del Superiore Generale, P. Orfeo Mason. Il 15 febbraio 1970 lasciò la sua terra, i suoi parenti, gli amici e si imbarcò, coraggioso e felice, per la “Terra de Santa Cruz”, cioè per il Brasile, per raggiungere i primi che si erano trasportati in quel grande paese. Ancora non conosceva ciò che Dio avrebbe chiesto da lui, ma, come Abramo, partì pieno di fede e di entusiasmo.
L’inculturazione in una terra nuova, tra un popolo nuovo, con una lingua nuova, costa sacrificio e molte rinunce. Il primo campo di lavoro fu nella parrocchia di Ortigueira, in mezzo a una moltitudine di bambini, giovani, adulti assetati di Dio, ma poveri di tutto. Fu un periodo duro, ma fu il battesimo missionario.
L’esperienza che ricavò da questo primo impatto di vita missionaria fu preziosa per il resto della sua attività in terra di Brasile. Toccò con mano che cosa vuol dire per il bambino, il giovane e l’adulto non avere casa, non aver cibo, non aver scuola.
Nel 1972, quando fu nominato parroco di Realeza (pure nel Paraná), impiegò tutte le sue energie nella formazione dei laici, perché capì che solo una comunità unita e impegnata può svolgere un progresso umano, sociale e cristiano di Chiesa. Formò il Consiglio Pastorale, diede vita a sezioni parrocchiali dei diversi movimenti di laici impegnati: Cursillistas, Legione di Maria, Apostolato della Preghiera; organizzò e condusse la Visita domiciliare della Cappellina della Vergine Santa, con la preghiera del Rosario in famiglia.
Iniziò la Pastorale Vocazionale in tutte le comunità delle varie cappelle, i gruppi di chierichetti, l’assistenza ai bambini e ragazzi, la formazione dei Ministri dell’Eucarestia. Iniziò i corsi di formazione per fidanzati in preparazione del matrimonio, incontri con i genitori per la prima Comunione e la Cresima dei figli: fu una primavera di vita spirituale. I frutti non tardarono ad apparire: il Seminario di Castro si riempì di nuovi candidati, sotto la paziente e metodica assistenza del P. Guglielmo Incerti che aveva raggiunto il Brasile nell’anno successivo rispetto a P. Marcello.
Lo stesso zelo, lo stesso entusiasmo, la stessa attività, uniti a una profonda e intensa spiritualità, P. Marcello continuò a svolgerli nella parrocchia di Pérola d’Oeste (Paraná), dove si trasferì nel 1978, poi nella parrocchia di S. Judas Tadeu in Castro dal 1983, nella parrocchia di Vila Cipa in Ponta Grossa dal 1986, e nel 1988 il primo padre Cavanis parroco a Planalto (Paraná). In quest’ultima terminò il suo cammino tra noi, perché il Padre lo chiamò nella sua casa per il riposo eterno.
Prima di parlare del suo addio, bisogna dire del suo “punto debole”: l’amore per i piccoli più poveri, più abbandonati. Fu in particolare negli anni in cui rimase a Ponta Grossa, nella parrocchia di Nossa Senhora di Fátima, in Vila Cipa, come direttore della Casa del “Menino da rua”. Qui si dedicò con amore tutto particolare, possiamo dire con amore di mamma, per dare assistenza, procurare cibo, vestiti, scuola, formazione ai bambini e bambine più poveri di questo quartiere. Anche quando passò nella parrocchia di Planalto, una parte del suo cuore rimase nella “Casa do Menor” di Vila Cipa. E quando poteva, mandava qualche cosa per i “suoi” piccoli. Nella parrocchia di Planalto fu eletto presidente della Commissione Municipale per la Tutela dei Minorenni.
L’amore che dispensò alle diverse comunità della parrocchia di Planalto si manifestò nella notte d’addio, nella veglia ai suoi resti mortali nella notte dal 21 al 22 ottobre: ininterrottamente gruppi di giovani e di adulti affollarono la chiesa per 1’ ultimo saluto. Il suo zelo apostolico si era consumato sulla breccia. Domenica 4 ottobre, la mattina, celebrò la Messa come il solito, poi si mise a letto con grandi dolori al torace. Lo stesso pomeriggio fu ricoverato all’ospedale di Cascavel, nell’Unità di Trattamento Intensivo (rianimazione); fu operato e di nuovo stette nell’UTI; ne uscì senza vita il 21 ottobre 1992.
P. Marcello ha risposto generosamente alla chiamata, si è impegnato nel buon combattimento, dando particolare attenzione ai più piccoli e ai più poveri.
Aveva lasciato scritto nel suo testamento spirituale: “Gesù ci arrischiamo? Voglio tentare di volare sulle ali della Provvidenza”. E la testimonianza del bene fatto nel silenzio gli fu resa dalla gente comune che partecipò commossa ai suoi funerali a Castro, dove è sepolto, dai confratelli e dai sacerdoti che numerosi parteciparono alla preghiera di suffragio, ma anche di ringraziamento.
Al suo nome e al suo ricordo esemplare è dedicata la casa d’accoglienza «Casa da criança e do adolescente P. Marcello Quilici» a Castro, aperta nel 1996.
L’11 settembre 1994 la Camera di Commercio di Lucca, per iniziativa dell’Associazione dei Lucchesi nel Mondo, ha attribuito alla memoria di P. Marcello Quilici un diploma di benemerenza per la sua opera più che ventennale come lucchese all’estero e come missionario.
7.73 P. Francesco Rizzardo
Nato a Fietta del Grappa (Treviso) il 30 settembre 1914, entrò nell’Istituto Cavanis a tredici anni, l’8 settembre 1928, nel probandato di Possagno; passò alla casa-madre di Venezia il 12 settembre 1930, vestì l’abito Cavanis il 30 ottobre 1932, compì la sua esperienza di noviziato nel 1932-33 ed emise i voti temporanei a Venezia il 3 novembre 1933. Compì gli studi liceali e riuscì bene nell’esame di maturità classica, nel liceo Cavanis di Venezia, assieme al P. Federico Grigolo e ad alcuni giovani laici; ed emise la professione perpetua il 24 gennaio 1937.
Dopo essere stato tonsurato il 9 settembre 1938 e aver ricevuto gli ordini minori dell’ostiariato e lettorato il l’8 aprile 1939, sabato santo, nella cappella del seminario patriarcale e dell’esorcistato e accolitato il 3 luglio 1939, nella chiesa di S. Francesco della Vigna a Venezia. Ricevette poi l’ordine maggiore del suddiaconato il 23 settembre 1939 dal vescovo ausiliare mons. Giovanni Jeremich nell’oratorio domestico, e quello del diaconato il 9 marzo 1940 nella chiesa del Redentore alla Giudecca; giunse alla consacrazione presbiterale il 30 giugno 1940 pure nella chiesa del Redentore.
In seguito, si laureò in Lettere all’Università di Padova e iniziò allora, dopo le prime esperienza da chierico, il suo cammino di insegnante ed educatore Cavanis per più di 50 anni. Insegnava per lo più nel ginnasio, latino e greco, lingue che amava moltissimo e più spesso nella casa di Venezia, nella quale era diventato un’istituzione. Giunto a un’età piuttosto avanzata, avendo difficoltà nell’aspetto disciplinare dell’insegnamento, chiese di diminuire l’impegno dell’insegnamento e di dedicarsi in altro modo alla scuola e divenne, sempre a Venezia, il segretario della scuole, riconosciuto e stimato per la sua esattezza, puntualità, bontà, cortesia, disponibilità.
Il suo fu un cammino lineare e sereno, per potersi dedicare nella sua amatissima Congregazione a quel ministero della scuola, al quale sapeva doversi donare, da vero Cavanis. Lo caratterizzarono il sorriso accogliente, la speranza gioiosa e l’amore generoso per i giovani, a cui non insegnò solo Lettere in Ginnasio-Liceo, ma ai quali si preoccupò di dare una formazione umana e cristiana; secondo il motto dei Fondatori, non fu solo maestro, ma padre. Accanto a questo impegno, la presenza di P. Francesco nella scuola fu quella di segretario fedele, puntuale, esatto e ordinato, non per pignoleria contabile, ma per quel senso di rispetto per sé e per gli altri, che nel silenzio faceva trovare pronto quanto era necessario al buon andamento della vita scolastica. La forza e la costanza nell’adempiere questi impegni gli venivano dal fervore nascosto, ma continuo, della vita interiore e dall’osservanza fedele delle costituzioni dell’Istituto, che furono sempre la guida sicura del suo agire. Di lui si può veramente dire che fu il servo saggio e fedele al suo Signore, dal quale ottenne grazia e benedizione.
P. Francesco, dopo la formazione iniziale, e dopo alcuni mesi trascorsi a Venezia dopo l’ordinazione presbiterale nel 1940, fu inviato a Porcari, dove trascorse le primizie del suo ministero, dal 1940 al 1943; passò a Venezia e vi rimase fino al 1946; fu poi a Possagno dal 1946 al 1953. In questa casa, nel 1952 fu nominato rettore, della comunità e del collegio; ma una grave difficoltà di governare, attività che probabilmente contrastava con il suo carattere dolce, gli impedì di continuare, e nell’estate 1953 dette le dimissioni, che furono accettate dal preposito con il suo consiglio. Anche le cariche del vicario, dell’economo e le altre cariche furono rinnovate in quell’occasione, dopo solo un anno di esercizio: un piccolo e memorabile terremoto.
In seguito, P. Francesco fu per tre anni a Porcari, dal 1953 al 1955, e poi alle Pianore dal 1955 al 1963; passò poi definitivamente a Venezia, dove rimase fino alla morte.
La commossa testimonianza dei confratelli, degli allievi e degli ex-allievi in occasione della malattia, della morte, avvenuta a Venezia l’8 aprile 1993 e dei funerali confermarono che egli era stato un religioso esemplare, un sacerdote dispensatore generoso dei doni di Dio, un educatore paziente e sempre disponibile. Per questo la sua vita fu straordinaria e la sua memoria è in benedizione tra noi.
I suoi ultimi giorni e la sua morte furono così: si ammalò il 12 febbraio 1993, e avrebbe dovuto lasciare completamente i suoi impegni pastorali e scolastici, e così era stato consigliato dai superiori; tuttavia volle celebrare ancora una volta la messa alle suore canossiane, alle “Romite”, come per commiato, ed essere presente ancora una volta alle due ore di latino e greco in quinta ginnasio: sarebbero state le sue ultime ore; ma la sua salute ne risentiva. Già la firma dell’11 febbraio nel registro di classe denota incertezza; questa è più accentuata nel giorno seguente, e la firma è quasi illeggibile il 13 febbraio. La sera dopo, domenica 14, il P. Rettore saliva in camera di P. Francesco per un saluto, quando improvvisamente questi si sentì male, crollò a terra e fu trasportato d’urgenza all’ospedale civile di Venezia. Dopo breve e debole ripresa, fu trasferito all’ospedale S. Camillo agli Alberoni il lunedì santo 5 aprile, perché si sperava in una pur lunga ma sicura ripresa. Il crollo fu il giovedì santo, l’8 aprile 1993, mentre i confratelli della comunità di Venezia celebravano la cena del Signore nella chiesa della Madonna del Rosario ai Gesuati.
Le sue spoglie mortali attendono il giorno della risurrezione nel cimitero locale di S. Michele, traslate, dopo un conveniente tempo di inumazione, nella cappella funeraria dell’Istituto sita nella chiesa di S. Cristoforo.
7.74 P. Ermenegildo (Gildo) Loris Zanon
Quando celebriamo il funerale di un cristiano fervente o di un buon religioso; oppure, come in questo caso, quando accompagniamo sul monte santo, quasi alle porte del Paradiso e al banchetto celeste, il nostro carissimo fratello P. Ermenegildo Loris Maria Zanon che, morto a sessantanove anni d’età (era nato a Venezia il 24 settembre 1923), ha trascorso cinquantatre anni di vita consacrata al suo Signore (1940-1993; era entrato in probandato a Possagno l’8 dicembre 1936; passato a Venezia il 1939) e 45 anni come presbitero (1948-1993), non dovremmo usare paramenti di color viola, il colore del lutto e della penitenza, ma piuttosto paramenti di color bianco, il colore della risurrezione e della vita. Tanto più quando, come oggi, si tratta di un nostro confratello semplice e buono.
Circa 120 anni fa, quando fece il suo passaggio alla vita eterna, il primo dei compagni dei nostri padri Antonio e Marco Cavanis, e cioè il P. Pietro Spernich, quello che la comunità chiamava affettuosamente fin da giovane el vecio, P. Sebastiano Casara, allora Preposito, strutturò il suo elogio funebre, data la bontà e la semplicità del P. Pietro, a partire dalla frase biblica (Gb 2,3) “Vir simplex ac timens Deum”. I ragazzi e ragazze del biennio potranno facilmente tradurre ai colleghi delle medie: “Un uomo semplice e pieno di timor di Dio”. Mi veniva in mente questo episodio ieri, mentre pregavo vicino al corpo del nostro confratello P. Gildo, anche se qui si tratta di una diversa semplicità. Realmente il nostro P. Gildo era “un uomo semplice e mite e pieno di timor di Dio”.
Un uomo semplice. Lo abbiamo conosciuto tutti: voi ragazzi lo avete visto per anni vicino a voi, nei cortili e nei corridoi, non tanto nell’attività formale di insegnamento e di educazione, che non poteva svolgere, quanto nel suo proposito di essere sempre presente nell’ambiente educativo. Noi religiosi gli siamo vissuti insieme per tutta una vita. Anche voi amici e amiche possagnesi lo avete conosciuto a fondo e eravate abituati a vedere passare per il paese la sua figura smilza, un po’ distratta, sempre sorridente.
Lo abbiamo conosciuto tutti come uomo del tutto semplice per natura. E, siccome il Signore ha detto che il regno di Dio appartiene ai semplici e ai piccoli (cf. Mt 18,4), non ho dubbio che P. Gildo stia ora totalmente nel Regno di Dio. Anzi, se mi permettete, vi dirò con tanto affetto e tenerezza che mi pare di vederlo sulle nubi del cielo a insegnare agli angioletti a fare degli aeroplanini di carta, come ha fatto per tutta la vita con tutti i bambini e ragazzi, anche con me, parecchio tempo fa. Oggi il Signore ha strappato “il velo che copriva la faccia” di questo nostro fratello e ha asciugato le lacrime dal suo volto e ha fatto scomparire la sua umiliazione, poiché il Signore gli ha parlato (cf. Is 25, 7-9) e lo ha portato alla piena maturità di Cristo (Ef. 4, 13) e lo ha innalzato nella gloria, compiendo quel rovesciamento paradossale annunciato nel proclama delle beatitudini.
Un uomo mite. Qualcuno potrebbe avere la tentazione di fermarsi qui, di ridurre la personalità del P. Gildo alla sua semplicità, di liquidare così la sua memoria. A me ciò non sembra sufficiente, né corrispondente a verità. P. Gildo è stato, coscientemente, per formazione e per sforzo costante, cioè per virtù, non per la natura, un uomo mite e buono, un confratello eccellente, un Cavanis tutto di un pezzo.
Conosco da quarant’anni il nostro confratello che ci lascia e non mi ricordo di aver mai sentito dalla sua bocca una parola cattiva, neppure una parola amara, anche quando eventualmente ne avrebbe avuto buon motivo. Era mite, distinto, gentile e affabile, si potrebbe dire, “un vero veneziano in cui non c’è inganno”. Era disposto al servizio, anche agli uffici più semplici e umili; già malato e anziano, bisognava trattenerlo per esempio dallo spazzare i cortili e dal compiere tanti altri lavori di appoggio all’attività didattica e educativa.
Malato egli stesso, godeva nell’assistere i confratelli malati cui accudiva con affetto e premura, anche se non sempre con la necessaria competenza; sebbene desiderasse svolgere attività più consone alla sua condizione di prete, era contento di occuparsi della liturgia e del servizi della sacrestia e dell’altare e lo faceva con amore. In queste immagini di bontà, di mitezza, di misericordia, di purezza di cuore, di spirito di pace, ravviso lo stile autentico delle beatitudini, del manifesto programmatico di Gesù Cristo.
P. Gildo è stato (ed è) un Cavanis tutto di un pezzo. Dopo le prime esperienze giovanili nella scuola e quelle della maturità come aiuto nella Casa del S. Cuore, per l’aggravarsi della sua malattia, non ha potuto più svolgere le attività fondamentali del Cavanis nella scuola, nel confessionale, nella direzione spirituale; ma non ha rinunciato per nulla all’essere Cavanis. Infatti, ha voluto dedicare tutta la sua vita a voi giovani e ragazzi con la sua presenza assidua vicino a voi nei cortili e nello spazio scolastico, con il suo affetto, con il suo incoraggiamento, con il suo lavoro di appoggio, con la sua preghiera insistente, con la sua intenzione di fornirvi mezzi ricreativi, quando magari faceva sorridere i più grandi, ma riusciva a incantare i più piccoli, che scoprivano in lui un adulto capace di farsi piccolo come loro.
Un uomo pieno di timor di Dio. Fin da giovane P. Gildo ha offerto a Dio la sua vita ed è stato coerente fino all’ultimo giorno. È stato un religioso povero e obbediente, celibe per il Signore, sobrio e mortificato, interamente dedito alla vita religiosa e alla sua comunità. È stato un uomo di preghiera, fedele all’“Opera del Signore”, cioè alla liturgia, all’ufficio e ai sacramenti.
Sia la sua memoria di benedizione per l’Istituto, per voi tutti allievi e professori dell’Istituto Cavanis del Canova di Possagno e di tutte le nostre opere, per noi suoi confratelli, per la carissima famiglia, qui rappresentata dalla sorella, dal fratello, dai nipoti, per gli amici di Possagno, per tutta la Chiesa di Dio.
“Ecco il nostro Dio, in lui abbiamo sperato perché ci salvasse… rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza” (Is 25, 9).
P. Gildo era nato a Venezia il 24 settembre 1923; era stato allievo convittore (e poi naturalmente ex-allievo) del collegio Canova, fin dalla prima elementare, prima di entrare nel probandato di Possagno. Passò più tardi a Venezia per gli studi teologici. Aveva vestito l’abito dell’Istituto a Possagno il 22 ottobre 1939, aveva trascorso con entusiasmo religioso l’anno di noviziato il 1939-40, aveva emesso la prima professione il 23 ottobre 1940 e quella perpetua il 17 ottobre 1944 nel seminario minore di S. Alessio.
Ricevette la tonsura ecclesiastica a Venezia (e così tutti i passi successivi verso l’altare) il 18 dicembre 1943; gli furono dati i primi due ordini minori, dell’ostiariato e del lettorato il 6 dicembre 1947 e il giorno successivo, il 7 dicembre, gli altri due ordini minori, esorcistato e accolitato. Aveva poi ricevuto il suddiaconato, il 14 dicembre 1947 nella basilica di S. Marco, il diaconato il 13 marzo 1948, nella chiesa del Redentore alla Giudecca, per le mani del vescovo ausiliare monsignor Giovanni Jeremich; e infine l’ordinazione presbiterale il 6 giugno 1948 in S. Marco, per l’imposizione delle mani di monsignor Giovanni Battista Piasentini, vescovo di Anagni e confratello Cavanis.
Cronologicamente, P. Gildo era vissuto e si era impegnato come Cavanis nelle seguenti case, con molti cambiamenti, e con qualche contraddizione, dovuta probabilmente al fatto che a volte la sua assegnazione veniva poi cambiata all’ultimo momento: probandato di Possagno (1948-49); Porcari (1949-53; Canova di Possagno (1953-55); Tata Giovanni (1955-58); Casa del S. Cuore (1958-1964); Canova (1961-62); Levico (1964-65); S. Alessio (1965-67); Canova (1968-72; Chioggia (1972-79); Venezia (1979-90); Canova (1990-1993).
7.75 Luis Enrique Navarro Durán (Lucho)
Nato a Yati (Bolívar-Colombia) il 13 luglio 1958, chiamato da sentimento di vocazione realizzò gli studi filosofici e teologici a Medellín presso la Pontificia Universidad Bolivariana e più tardi partì come volontario per l’Ecuador, dove svolse la sua opera di appoggio pastorale nell’arcidiocesi di Guayaquil e poi nel Vicariato Apostolico di Esmeraldas. Alcune fonti, come il Necrologio di Congregazione, dicono che lo fece come volontario laico; altre che si trattò di un anno di esperienza missionaria prima dell’ordinazione come prete diocesano. Più probabilmente, si trattava della ricerca di una sistemazione in un istituto religioso, fuori della Colombia, come fanno da decenni e anche oggi tanti giovani colombiani.
Fu comunque a Esmeraldas che Lucho entrò in contatto con i primi nostri religiosi presenti in questo paese. Dopo conveniente postulato, effettuò il noviziato a Possagno (1986-87 con inizio e vestizione dell’abito il 12 marzo 1986), professò (marzo 1987) e proseguì i suoi studi a Roma raggiungendo la licenza in pastorale della gioventù. Professò i voti perpetui a Venezia (1990), ricevette il diaconato a Esmeraldas (1991) da monsignor Enrico Bartolucci, Vicario apostolico di Esmeraldas, per la quale occasione ritornò nella regione di origine Ecuador-Colombia, dopo aver terminato gli studi a Roma, il 18 giugno 1991; e ricevette l’ordinazione presbiterale a Quito (1991).
Aveva ricevuto la Licenza in Pastorale Giovanile e Catechesi presso l’Università Salesiana a Roma il 21 marzo 1991, con tesi sul tema “La comunità educante e l’educatore cristiano”.
Nel breve tempo trascorso come presbitero tra di noi, a Roma per gli studi superiori, poi a Quito e a Valle Hermoso, fu amato e stimato per il suo entusiasmo, la sua creatività, il suo amore per i Fondatori e per il carisma dell’Istituto. Fu il primo nostro religioso colombiano e a entrare nella Regione Ecuador.
Assalito da varie malattie, che minarono il suo organismo già privo delle difese, morì a Quito a trentacinque anni tra il cordoglio dei confratelli, il 27 maggio 1994. Le sue spoglie mortali riposarono in un primo tempo nel cimitero “El Batán” di Quito; furono in seguito trasferite il primo maggio 1998 nella cappella mortuaria annessa alla chiesa della risurrezione nel Centro di Spiritualità Oasis Cavanis, Reina de la Paz di Valle Hermoso, in Ecuador, in attesa della risurrezione.
7.76 P. Giuseppe Fogarollo
Nacque a Carpanedo, una frazione di Albignasego in provincia e diocesi di Padova l’8 settembre 1917 e considerò sempre particolare privilegio essere nato il giorno della memoria della Natività di Maria; come pure ebbe e istillò negli altri una speciale devozione a S. Giuseppe, di cui portava il nome. Entrò ancora ragazzo, il 16 luglio 1931, nel nostro seminario minore di Possagno, dove compì gli studi inferiori, completati poi con gli studi superiori e teologici fino al sacerdozio, a Venezia. Dopo gli studi ginnasiali, vestì l’abito della congregazione il 21 (o forse il 20) ottobre 1934 e compì l’anno di noviziato nel 1934-35. Emise la prima professione il 23 ottobre 1935, e quella perpetua il 30 ottobre 1938 (o meglio il primo novembre 1938, come dice il diario dello Studentato); nella Chiesa dei Gesuati, perché la chiesa di S. Agnese era in fase di radicale restauro in vista della celebrazione del centenario dell’erezione canonica dell’Istituto.
Ricevette la prima tonsura clericale il sabato santo 8 aprile 1938, nella cappella del seminario patriarcale. All’inizio del gennaio 1941, il chierico Fogarollo fu inviato a Possagno nel Collegio Canova per aiutare, e sostituire i prefetti di disciplina, che gradualmente stavano essendo richiamati alle armi, data l’entrata in guerra dell’Italia. Ricevette poi il suddiaconato, con il P. Franchin, il 6 luglio 1941 dal patriarca Adeodato Piazza; il sacro diaconato, assieme a P. Enrico Franchin, nella basilica di S. Marco il 20 dicembre 1941, dallo stesso patriarca. Fu ordinato prete pure dal cardinal Adeodato Giovanni Piazza il 28 giugno 1942 a Venezia.
Già nel primo biennio di sacerdozio (1942-44), come assistente nel seminario minore di Possagno, vivacizzò l’ambiente con il canto gregoriano e con le rappresentazioni teatrali, che organizzava accuratamente per i giovani seminaristi; qualità che rimasero caratteristiche per tutta la sua vita divisa tra l’attività dell’insegnamento delle materie letterarie alle scuole medie inferiori (si era laureato in Lettere a Padova) e quella di animazione nelle varie associazioni: Congregazione Mariana per cinque anni a Venezia, Azione cattolica a Porcari e a Possagno. Negli otto anni che passò a Roma (1950-58) dove per un triennio (1955-58) fu anche rettore, istituì il gruppo studentesco di Azione cattolica, con allievi e simpatizzanti dell’Istituto, assistendo contemporaneamente il già costituito gruppo di Cooperatori, sempre attivi per aiuto alla casa di Roma. Per tredici anni insegnò al Marianum Cavanis a Capezzano Pianore (1967-79), dove ebbe modo anche di svolgere l’attività di giardiniere, cosa che poi continuò con vera passione, secondo le forze, nell’ultimo decennio a Possagno (1985-95).
Nonostante evidenti difficoltà motorie che si erano accentuate, teneva in ordine il giardino dietro al collegio, mentre era puntuale e diligente nella sua attività di sacrista, che impegna alla conservazione degli arredi sacri e alla preparazione delle celebrazioni liturgiche. Ma la dote caratteristica di P. Fogarollo come educatore era la giovialità con cui sapeva accostarsi a tutti in serenità, rendendo facile anche la vita impegnativa delle associazioni, oltre all’insegnamento scolastico, per il modo con cui presentava i programmi scolastici e i doveri assunti con l’aggregazione alle varie attività presenti nei nostri collegi, quando c’erano i convittori. In un mondo così fatto, l’educando si trova “travolto” senza avvedersene: tutto diventa facile e spontaneo, quasi naturale, ma sotto c’è il “motore” del docente che sa stimolare e trascinare, sempre presente e attento a far superare le varie difficoltà. Una vita, dunque, senza scosse, si svolge con spontaneità e costanza. Una vita tutta spesa nell’educazione, lo stile caratteristico dei Venerabili padri Antonio e Marco Cavanis, che volevano la presenza continua tra i giovani con “amorevole sopraveglianza”.
La gioviale e sorridente spontaneità di cui si parlava P. Giuseppe era senza dubbio una virtù che lo rendeva caro e simpatico, ma presentava anche aspetti negativi: le gite scolastiche e didattiche organizzate da lui brillavano per l’improvvisazione e per i risultati insoddisfacenti: si trovavano spesso musei chiusi, campi di calcio occupati da altri, luoghi per la refezione inesistenti.
La sua vita fu divisa così, quanto a residenza e a incarichi:
Amava moltissimo la musica (da ragazzo aveva una voce bellissima) e i fiori. La sua fu, all’apparenza, una vita senza eventi straordinari, ma vissuta nella serenità e nella gioia, che sapeva trasfondere negli alunni. Negli ultimi anni ebbe gravi disturbi fisici, sopportati con molta tranquillità di spirito, abbandonandosi nelle mani di Maria, di cui era devotissimo, e di S. Giuseppe, suo particolare patrono.
Morì nell’ospedale di Castelfranco il 13 agosto 1995. Il suo corpo è sepolto a Possagno, nella cappella del cimitero riservata agli ecclesiastici e ai religiosi Cavanis.
7.77 P. Aldo Servini
Aldo Servini nacque a Bertipaglia (provincia e diocesi di Padova) il 12 settembre 1911, entrò ancora giovane nel nostro seminario minore di Possagno, il 22 agosto 1923, dove frequentò le scuole medie inferiori e poi passò a Venezia dove compi gli studi medi superiori; nel settembre 1928, sostiene esami liceali (o più probabilmente di ammissione al liceo) a Venezia, presso l’Istituto Foscarini, assieme a P. Livio Donati, ambedue con successo; in seguito frequentò con profitto il corso di teologia sino al sacerdozio a Venezia.
Vestì l’abito religioso dell’Istituto il 28 ottobre 1928 a Venezia, dove compì il noviziato nel 1928-29. Assieme a P. Livio Donati, emise i voti temporanei a Venezia il 31 ottobre 1929; quelli perpetui li emise invece a Possagno il 1° novembre (o il 31 ottobre) 1932, davanti alla scolaresca, anche a fini vocazionali a quanto si capisce, con lo stesso confratello. Aveva sostenuto mesi prima, a Venezia presso il Liceo Marco Polo, assieme a P. Livio Donati, gli esami di maturità.
Ricevette la tonsura a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934.
Da chierico, a Venezia, come si usava a quel tempo, insegnava alle elementari: nel 1934-35 in IV elementare Aldo insegnava Italiano, e Antonio Turetta aritmetica. P. Aldo in questa didascalia ricorda: “Io ero per gli alunni il padre ‘a righe’ e Turetta ‘il padre a quadretti’. Linguaggio più sintetico di così…!”. Queste definizioni sintetiche da parte dei bambini delle elementari e anche a volte dei loro genitori continuarono in uso fino agli anni ’60 del secolo scorso, quando chi scrive era seminarista teologo.
Aldo ricevette l’ostiariato e il lettorato il 21 dicembre 1934, l’esorcistato e l’accolitato il 7 aprile 1935.
Ebbe l’ordine del suddiaconato a Venezia, nella chiesa del SS.mo Redentore il 30 giugno 1935, il diaconato il 22 dicembre 1935 dal vescovo ausiliare monsignor Giovanni Jeremich, nella basilica della Salute; e fu ordinato prete, sempre a Venezia, nella stessa basilica, il 5 luglio 1936. Stette in comunità di Venezia nel primo anno dopo l’ordinazione.
Aldo insegnò in seguito scienze nell’Istituto Tecnico a Possagno (1937-1939). Nel 1939 fu richiamato a Venezia per poter frequentare il corso di laurea in Scienze Naturali a Padova. Dopo aver ottenuto brillantemente la laurea in scienze naturali all’università di Padova il 19 novembre 1943, con una tesi di ricerca sulle alghe della laguna di Venezia, corredata da un prezioso erbario (attualmente conservata nel Museo Civico di Scienze Naturali di Venezia), insegnò con passione e competenza questa materia prima nelle scuole medie (sembra dal 1943 al 1950, almeno) poi nei licei della Congregazione, durante 21 anni a Venezia 1939-46; 1949-63), qualche anno a Capezzano Pianore (Lucca; 1963-70)). Il 3 giugno 1959 conseguì a Roma l’abilitazione per l’insegnamento delle scienze nei licei, materia che del resto insegnava già da parecchi anni. Negli anni ’50 P. Aldo era anche responsabile (direttore, ma non prefetto delle scuole) dell’organizzazione e disciplina della scuole elementari; era lui per esempio che chiamava i bambini, i cui genitori o altri accompagnatori erano pronti per riceverli e portarli a casa alla fine della scuola; i bambini, quando chiamati, scendevano e venivano consegnati ai “tutori”. Bambini delle elementari non accompagnati rimanevano ad attendere a volte per ore. Nell’album di foto di P. Aldo Servini, lo si vede con il microfono in mano, presiedere all’uscita delle elementari, mentre i genitori attendono al di là di una corda tesa da un lato all’altro dell’androne, e i bambini attesi e chiamati scendono dalle scale che erano quelle di servizio del palazzo da Mosto ed escono dalla porta secondaria, attuale n° civico 899, raggiungendo i loro famigliari.
Negli stessi anni, P. Aldo fu anche incaricato diocesano di Venezia per la scuola, partecipando a convegni sul tema anche fuori Venezia.
Fu curatore dei musei di storia naturale nelle nostre scuole e fu un appassionato collezionista di cose naturali, un buon tassonomista, tra l’altro si distinse come tassidermista o impagliatore e preparatore e conservatore esperto, il migliore dei nostri.
Aveva anche la capacità di coinvolgere parecchi dei suoi studenti, che avevano passione per la natura o in cui egli la suscitava, invitandoli al pomeriggio a collaborare nella conduzione, pulizia, sistemazione delle collezioni scientifiche.
IL CROCEFISSO E IL CINGHIALE DI P. ALDO SERVINI
La rivista Caritas, il periodico dell’Istituto Cavanis, una volta incorse in un grave errore redazionale, che tutti trovarono divertente, salvo naturalmente P. Aldo! Questi era insegnante di scienze nei licei e, come si diceva, era un grande raccoglitore, preparatore, tassidermista. In quell’occasione, aveva impagliato un bellissimo cinghiale maremmano per il museo scientifico del liceo di Capezzano Pianore (Lucca) e poco tempo prima, ancora a Venezia, aveva restaurato e ridipinto un grande crocifisso ligneo del settecento, che si trovava fino all’anno scorso sull’altare della sacristia di S. Agnese a Venezia; e ora (2020) è sospeso al centro della navata principale della chiesa di S. Agnese.
Il redattore del Charitas volle dare risalto ai due eventi, ma scambiò per distrazione le due didascalie; sicché, sotto la foto del crocefisso era scritto “Un bellissimo cinghiale impagliato da P. Servini”; e sotto la foto del cinghiale, naturalmente, c’era scritto. “P. Servini ha curato il restauro di questo crocifisso antico”. Si rise abbastanza.
La vita di P. Aldo conobbe una svolta notevole quando i superiori nel 1969 lo incaricarono di passare nella casa di Roma, dove trascorse gli ultimi vent’anni della sua vita occupandosi, come postulatore della causa di beatificazione dei nostri fondatori, della relativa lunga e preziosa ricerca storica e archivistica. I primi anni li passò al Tata Giovanni (1969-74), gli altri poi, dal 1974 e fino alla morte (1996), a Torpignattara.
A fianco all’attività d’insegnante, esercitò la sua attività d’animatore come assistente di Azione Cattolica, degli Scouts, del movimento Oasis e degli ex-allievi dell’Istituto. Ha pubblicato un libretto di devozione per gli allievi «Pregare». Per il capitolo generale del 1969-1970, ha redatto con P. Giuseppe Leonardi, il volume “Spirito e finalità”, un’antologia degli scritti dei fondatori, letti, selezionati e trascritti direttamente sui documenti originali, conservati a quel tempo nella Congregazione romana per il Culto dei Santi, a quel tempo chiamata ancora Sacra Congregazione dei Riti.
Ha partecipato attivamente al Capitolo generale straordinario speciale-CGSS, dando un importante contributo soprattutto come esperto dei fondatori e della storia della Congregazione. In questa occasione partecipò alle commissioni I sulla vita consacrata; e in quella speciale per la redazione delle costituzioni e Direttorio.
Dal 1° ottobre 1970 ricoprì la carica di postulatore della Congregazione, in luogo del P. Vincenzo Saveri. Con amore, pazienza, meticolosità e intelligenza, ha costruito l’opera monumentale della Positio per conoscere più approfonditamente i padri fondatori ed ha inoltre pubblicato l’opera monumentale in otto volumi dell‘Epistolario, una indispensabile collezione quasi completa delle lettere, del diario e degli altri documenti manoscritti dei fondatori, conservati oggi in originale nell’archivio storico della Congregazione a Venezia, e in fotocopia in altre case dell’Istituto.
P. Giuseppe Moni, procuratore generale e segretario generale della Congregazione, nel dicembre 2014 diceva che il segretario della Congregazione per il Culto dei Santi gli aveva parlato con enorme stima di P. Servini, e gli ha detto che ancora oggi tale Positio viene considerata un modello del suo genere e fa molto onore al nostro Istituto.
P. Aldo vide coronare i suoi sforzi con la promulgazione del decreto della santa Sede che proclamava l’eroicità delle virtù dei venerabili padri fondatori (1985).
Ha sistemato e organizzato con criteri scientifici l’archivio storico della Congregazione (AICV) nel quale ha passato anni a fare attività di ricerca sui fondatori e in particolare e sulla Congregazione in generale. Era diventato la “memoria in persona” della Congregazione. Ha inoltre pubblicato dei libri di testo degni di nota per la scuola superiore, nel campo delle scienze naturali, di matematica e di chimica.
Nel 1993 era stato nominato dal preposito presidente onorario del Comitato esecutivo per l’anno Cavanis.
Colpito da una grave malattia, confortato dai sacramenti e dall’assistenza dei confratelli, morì il 4 febbraio del 1996 a Roma. Il suo corpo fu trasferito ed è seppellito a Possagno, nella cappella riservata al clero locale e ai religiosi Cavanis nel cimitero comunale.
7.78 P. Riccardo Janeselli
Tre volte al giorno alle 8:00, alle 14 e poi alle 19, P. Riccardo Janeselli, già vecchio, saliva con pazienza le interminabili scale di 105 gradini che portavano all’osservatorio meteorologico situato all’ultimo piano dell’Istituto Cavanis di Venezia, per fare le osservazioni meteo, controllare gli strumenti e mantenere l’ordine delle registrazioni. Molto tempo era trascorso dall’estate del 1919, quando P. Augusto Tormene, a quel tempo preposito generale, dopo aver celebrato la messa nella chiesa parrocchiale di Bosentino (Trento), domandò al chierichetto Riccardo, di undici anni, se voleva diventare padre Cavanis! Riccardo rispose il suo “sì”. Era stato felicemente impressionato dalla prima messa solenne celebrata pochi giorni prima a Bosentino dai neo-sacerdoti Cavanis P. Aurelio Andreatta, P. Mario Janeselli e P. Luigi Janeselli. La grande guerra era finita da pochi mesi. Il Trentino era adesso unito all’Italia, il che semplificava le cose. Riccardo non era solo in questa nuova avventura: lui e insieme i suoi nuovi compagni, Angelo Sighel, Gioacchino Sighel e Antonio Cristelli arrivarono a Possagno il 18 novembre 1919.
Riccardo era nato a Bosentino il 23 (o 24) novembre 1907. Entrò dodicenne come aspirante nel piccolo seminario annesso al collegio Canova di Possagno, nel dicembre 1919, quasi subito dopo la vittoria italiana nella grande guerra, e il passaggio del Trentino dall’Austria all’Italia, cui del resto aveva sempre appartenuto culturalmente e linguisticamente. Studiò con i suoi compagni alle scuole medie e al ginnasio del Collegio Canova, poi vestì l’abito Cavanis l’8 dicembre 1923 e da questa data visse l’esperienza del noviziato fino all’8 dicembre 1924, data in cui emise i voti temporanei. Frequentò il liceo e il corso di teologia a Venezia. La sua professione perpetua fu celebrata a Venezia, “nell’Oratorio dei Grandi” il 9 giugno 1929. Il 4 aprile 1930, assieme a due confratelli (Marco Cipolat e Carlo Donati), ricevette la tonsura in Patriarchio, dal Patriarca La Fontaine; i primi due ordini minori (ostiariato e lettorato) il 5 aprile 1930, sabato sitientes, nella sala dei banchetti, dallo stesso patriarca; i secondi due ordini minori (esorcistato e accolitato) nella basilica della Salute, dallo stesso presule, il 13 luglio 1930; il suddiaconato il 28 febbraio 1931 nella basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari; il diaconato il 21 marzo 1931 nella basilica di S. Marco.
Fu poi ordinato prete, assieme al P. Angelo Sighel, nella chiesa dei carmelitani scalzi a Venezia, per le mani del vescovo ausiliare monsignor Giovanni Jeremich il 28 giugno 1931.
Da seminarista, aveva dato occasione di preoccupazioni la sua situazione di salute, essendo egli predisposto alla tisi. Una serie di visite e di cure aveva risolto felicemente il problema. Aveva anche subito un’operazione chirurgica al naso. I superiori, preoccupati per la sua personalità e capacità di relazione, lo aveva fatto attendere qualche tempo, rispetto ai suoi compagni, prima di ordinarlo diacono e prete.
Nel 1935, P. Riccardo si laureò all’università di Padova in matematica con tesi in astronomia e l’anno successivo si laureò pure in fisica con una tesi sulle aurore boreali, che erano e rimasero una delle sue passioni. Era così doppiamente laureato. Gli esami d’abilitazione all’insegnamento di matematica e fisica furono svolti in due momenti diversi, a Roma (1940).
P. Riccardo insegnava già al ginnasio, ma dopo aver conseguito l’abilitazione, cominciò a insegnare al liceo quasi sempre a Venezia (1931-38 e 1943-1994), solo nel 1938-1943 a Possagno. A Venezia, nel 1945 e forse pochi anni seguenti, fu brevemente assistente o maestro dei chierici. Prediligeva la matematica e la fisica, che insegnò dal 1927 sino al 1968. Aveva uno stile d’insegnamento un po’ speciale, che provocava scherzi e battute di spirito tra gli allievi. I suoi ex-allievi raccontano questi episodi e aneddoti ancora oggi, sempre con simpatia.
Oltre all’insegnamento, P. Riccardo si dedicò alla ricerca. In primis il suo interesse s’indirizzò verso l’astronomia, ma a partire dagli anni ’50, si dedicò alla meteorologia con una serie considerevole di pubblicazioni scientifiche: 44 in tutto. Nel 1958, P. Riccardo si occupò in modo innovativo del gradiente del campo d’elettricità atmosferica a Venezia e gli venne l’idea di fondare un laboratorio meteorologico che venne a sostituire e a continuare quello del seminario patriarcale chiuso da qualche anno, ma che già aveva avuto per direttore e responsabile un padre Cavanis, soprattutto il P. Francesco Saverio Zanon durante tutta la sua esistenza. Con l’approvazione di P. Federico Grigolo, che era a quel tempo rettore della casa madre, e con l’appoggio di P. Giosué Gazzola, economo, uno dei grandi solai dell’ala sud delle scuole, al di sopra delle elementari, venne adibita a laboratorio e osservatorio, con una terrazza annessa, a 21 metri al di sopra del livello del mare.
Da quel momento, si poterono vedere dal lato della strada e dei canali le caratteristiche pale girevoli degli anemometri che servivano a identificare velocità e direzione di provenienza del vento, l’imbuto del pluviometro, che serve a studiare la piovosità, le antenne delle diverse strumentazioni Oltre a questi, l’osservatorio meteorologico ha un barometro a mercurio e barografo per lo studio della pressione, uno psicrometro per registrare l’umidità dell’aria e della tensione del vapore, un termoigrografo per la registrazione dell’umidità relativa e della temperatura, con quattro termometri, uno strumento di misura della radioattività dell’aria.
Tutti i giorni P. Riccardo registrava i dati e tutti i mesi li organizzava in tabelle. Alla fine dell’anno, i dati erano organizzati, interpretati, illustrati con conveniente rappresentazione grafica e presentati all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti. Sono poi pubblicati annualmente negli annali da questo prestigioso istituto.
Anche in questo periodo di tecnologia avanzata nel quale i satelliti scrutano l’atmosfera in modo globale e dettagliata di modo tale che dalla televisione possiamo vedere le formazioni di nuvole in movimento, in scala locale e planetaria, la formazione dei fronti e le proiezioni informatizzate, il lavoro umile e paziente delle stazioni meteorologiche hanno ancora una funzione precisa e utile e anzi, disposte in rete, costituiscono la base di quelle informazioni meteo e delle proiezioni per il futuro.
È una rete che copre con i settori tutto il pianeta e che permette di accumulare dati attraverso i secoli e di metterli a paragone per comprendere meglio l’atmosfera e la sua relazione con la terra. Tra le scoperte più interessanti di P. Riccardo, possiamo sottolineare le seguenti: l’osservazione che la temperatura media a Venezia è stranamente costante durante gli anni, attorno ai 13,6°, che la piovosità vi è bassa, attorno agli 850 millimetri di pioggia per anno. Ancora: attorno alla città ci deve essere una cellula stazionaria di alta pressione, la pressione vi è più alta di ciò che è previsto di solito, con una media che si attesta ai 1016 invece di 1013 millibar.
Alla fine degli anni ‘80 e agli inizi del ‘90 del secolo scorso, abbiamo avuto dei periodi di pressione davvero alta, situazione legata forse al buco nell’ozono sull’Antartide, prodotto dall’inquinamento atmosferico. I venti di Venezia si concentrano nel 2° quadrante, con una predominanza di vento di “bora” del Nord-est durante i mesi invernali e del vento di “scirocco” del Sud-est nei mesi primaverili ed estivi, come si può vedere dagli schemi puntuali che riassumono i risultati statistici nelle pubblicazioni del nostro P. Riccardo.
Nei suoi ultimi anni, già raggiunti gli ottantadue anni, P. Riccardo stava continuando anche delle ricerche approfondite in campo matematico sulla teoria dei numeri, in particolare sulle frazioni continue.
Dal chierichetto di Bosentino, il Signore ha tratto un educatore e un ricercatore della Congregazione delle Scuole di Carità. Per P. Riccardo, studiare venti e nuvole significava contemplare e illustrare la gloria del Creatore che cavalca i venti e che cammina sulle nuvole del cielo (Sal 104,3; Dn 7,13), che lancia fulmini (Sal 19,15) e si fa sentire con un tuono (Sal 30).
Ciò vuol dire anche portare a compimento la costituzione n. 51 della nostra Congregazione che dice tra l’altro: “I congregati sacerdoti sono consacrati testimoni e portatori della Parola di Dio anche in ogni forma di ricerca e di trasmissione della cultura“. Ciò affinché nelle nostre scuole non ci si limiti a trasmettere solo ciò che c’è nei libri scritti da altri, ma anche ciò che viene dalla nostra ricerca personale della realtà. Perché i nostri ragazzi delle scuole possano vederci come appassionati e competenti estimatori delle scienze e delle lettere e acquisiscano essi stessi una passione profonda. Affinché le nostre case religiose siano dei centri di cultura in tutto il mondo.
P. Riccardo se n’è andato in silenzio com’è venuto, il 25 agosto 1994, festa di S. Giuseppe Calasanzio, portato via da un’estate troppo calda e da pochi giorni di febbre. Riposa nel cimitero di S. Michele di Venezia, nell’attesa della risurrezione.
7.79 P. Siro Marchet
Siro nacque a Castelcucco, in diocesi e provincia di Treviso. Alunno esterno del Collegio Canova, è entrato nel 1949 nel nostro seminario minore di Possagno, dove compì gli studi medi inferiori. Vestì in seguito l’abito sacro dei Cavanis nella casa del S. Cuore il 23 ottobre 1949, compì l’anno di noviziato in quella casa nel 1949-59 e professò i voti temporanei il 24 ottobre 1950, in casa del S. Cuore. Compiuti gli studi superiori a Possagno, passò a quelli teologici completati fino al sacerdozio a Venezia. La sua professione perpetua avvenne a Venezia il 25 ottobre 1953, nella solennità di Cristo Re. Fu ordinato sacerdote il 22 giugno 1958 nella basilica della Madonna della Salute, dal cardinal Patriarca Angelo Giuseppe Roncalli.
Diplomato come maestro, ha insegnato ai bambini delle elementari a Venezia (1959-61; 1964-65), a Chioggia (1961-64), forse a Levico e a Possagno (1968-96). Amava molto la musica e per molti anni ha insegnato educazione musicale nella scuola media a Possagno, dove ha trascorso gli ultimi trent’anni. La sua fu, all’apparenza, una vita senza momenti straordinari, ma vissuta nella serenità e nella gioia; una vita umile, semplice, laboriosa. Disponibile per ogni servizio, si è prodigato nell’azione pastorale a favore delle parrocchie della Pedemontana.
La malattia incurabile gli è rivelata all’improvviso a tre mesi della sua morte. Ha affrontato con vera forza d’animo gli atroci dolori accettando con cristiana rassegnazione di essere associato a Cristo nella croce e, abbandonandosi nelle mani di Maria, di cui era devotissimo, ha offerto la sua vita per le vocazioni sacerdotali e religiose. Morì nell’ospedale di Castelfranco, circondato dai confratelli, il 26 novembre 1996
Il suo corpo è sepolto, a richiesta della famiglia, a Castelcucco, nella cappella del cimitero.
7.80 P. Narciso Bastianon
Nato ad Asolo, diocesi di Treviso, il primo marzo 1923, entrò ancora ragazzo nel Probandato di Possagno, dove compì gli studi inferiori, completati fino al sacerdozio a Venezia. Ha emesso la prima professione religiosa nel 1942 e quella perpetua il 1° novembre 1946 a Venezia.
Ricevette i primi due ordini minori, dell’ostiariato e lettorato, il 21 febbraio 1948 e quelli dell’esorcistato e accolitato il 13 marzo 1948. Gli fu conferito il suddiaconato nella basilica della Salute, sempre a Venezia, il 27 giugno del 1948 e il diaconato nella basilica patriarcale di S. Marco il 19 dicembre 1948. Ricevette poi l’ordinazione presbiterale, il 26 Giugno 1949, assieme a P. Giovanni De Biasio, a Venezia, dal patriarca monsignor Carlo Agostini.
Ha vissuto i primi anni di sacerdozio, come segretario, accanto al Vescovo Giovanni Battista Piasentini, Cavanis, prima ad Anagni poi a Chioggia, proprio nella fase del passaggio.
È stato per molti anni maestro delle elementari ed educatore di schiere numerose di fanciulli. Il 1955 è stata per lui una data che mutò completamente la sua vita; nel Capitolo generale ordinario di quell’anno (12-27 luglio 1955), il 24° capitolo generale ordinario, fu eletto Economo Generale della Congregazione, carica che ricoprì fino al 1989, quando fu sostituito nella stessa dal P. Pietro Luigi Pennacchi. Fu dunque economo generale per ben 34 anni, segno di grande fiducia a stima.
Si tratta di una carica e di un’attività apparentemente arida, ma tanto preziosa e comunque necessaria per la vita della Congregazione. A tale occupazione si era largamente dedicato, per necessità ma anche per amore, P. Marco Cavanis!
Si è prodigato con impegno e competenza nella riorganizzazione della nostra amministrazione, urgente anche per le mutate circostanze dei tempi e delle leggi in materia. Per ben trentaquattro anni disimpegnò con fedeltà e responsabilità l’ufficio di Economo Generale, con una regolarità meticolosa nella registrazione della contabilità, nell’osservanza esemplare della povertà e nel rispetto delle persone.
P. Narciso passò la sua vita di religioso e prete Cavanis nella seguenti case dell’Istituto: nel seminario minore di Sant’Alessio (Lucca) dal 1949, appena consacrato presbitero, al 1954. In buona parte, durantxe questi anni in realtà era stato incaricato di essere segretario del vescovo Cavanis P. Giovanni Battista Piasentini, ad Anagni (Frosinone), sostituendo P. Riccardo Zardinoni. Continuava tuttavia nella lista di S. Alessio. Seguì poi il vescovo a Chioggia (Venezia), quando questi vi venne trasferito; e quindi P. Narciso risulta nelle liste della comunità di questa città veneta dal 1952al 1955, quando lasciò l’incarico di segretario del vescovo a P. Franco Degan. Fu poi a Venezia, dopo la sua elezione a economo generale nel 1955; e vi rimase, come si diceva, per 34 anni, fino al 1989. Fu poi a Porcari (1989-94) e in seguito, a riposo, a Possagno nella comunità del Canova, dal 1994 al 1997, dino alla morte, avvenuta in quell’anno.
La sua vita fu laboriosa, semplice e umile e, nonostante le tensioni e preoccupazioni che gli provenivano dal suo ufficio, P. Narciso ha saputo mantenere la serenità dello spirito, la disponibilità costante al servizio e il distacco del cuore dalle cose materiali grazie anche al suo radicamento in Dio e alla fedeltà nella preghiera. Dimostrò sempre una grande bontà e gentilezza con tutti. Anche dopo aver lasciato l’incarico, ha continuato a collaborare con il nuovo Economo e a seguire i lavori di riforma nelle nostre case fino a che le forze fisiche gli hanno permesso. Il suo fisico sempre gracile e ormai affaticato dal lavoro è andato deperendo sempre più, anche in seguito ad una serie di complicazioni, fino a rendere necessario il ricovero in ospedale. P. Narciso morì nell’ospedale di Crespano, il 25 aprile 1997. Il suo corpo riposa nel cimitero di Casella d’Asolo (TV), su richiesta della famiglia.
7.81 P. Luigi Toninato
Luigi nacque a Noventa di Piave (Venezia) il 29 luglio 1925 in una famiglia patriarcale, dove la povertà materiale era vissuta con fierezza e dignità morale. L’amore reciproco e il lavoro quotidiano, uniti alla semplicità e alla naturalezza di vita, furono la culla in cui sbocciò e si alimentò la vocazione al sacerdozio e alla vita religiosa. Con queste radici egli mantenne tenaci e virili legami. Entrato in seminario a Possagno, visse gli anni della formazione del noviziato in momenti storici difficili e tribolati a causa del periodo bellico. Tra l’altro, data la corporatura forte e grande, che si manifestava già nella prima adolescenza, era considerato più grande di quello che dicevano i dati dell’anagrafe e, quando per l’anagrafe era ancora solo un ragazzino in probandato a Possagno, i tedeschi volevano inviarlo al lavoro coatto in Germania. E per la stessa corporatura, che bisognava alimentare, in quel tempo di carestia aveva sempre una fame cronica.
Il 7 ottobre 1944 emise la professione religiosa temporanea, alla quale seguì la consacrazione perpetua il 6 gennaio 1948 a Venezia. Frattanto, procedevano gli studi, coronati dal diploma di abilitazione magistrale (1947) per prepararsi alla missione di maestro ed educatore, e gli studi teologici.
Gli fu impartita la tonsura clericale nella cripta di S. Marco il 17 dicembre 1949, i primi due ordini minori il 4 marzo 1950; i secondi due ordini minori, assieme a P. Soldera, il 26 marzo 1950; gli fu conferito il suddiaconato il 23 settembre 1950, in forma privata, dal Patriarca e il diaconato il 10 marzo 1951 nella cripta della basilica di S. Marco. La consacrazione presbiterale avvenne il primo luglio 1951, per l’imposizione delle mani del patriarca monsignor Carlo Agostini, nella basilica della Salute a Venezia.
Fu un periodo ordinato ed insieme esuberante di cordialità, di fraternità, di complicità nel senso positivo del termine, nei rapporti con i chierici confratelli.
La sua vita religiosa vide vari trasferimenti da una casa all’altra e anche cambiamenti di linea pastorale, cui corrispose sempre il suo atto di obbedienza: probando a Possagno fino all’estate 1944, passò alla Casa del S. Cuore per il noviziato nel 1944-45, con il primo numeroso gruppo di novizi “in Villa”; dopo la professione temporanea compì i suoi studi a Venezia dal 1945 al 1951; ordinato prete nel 1951, compì la prima esperienza ministeriale come formatore a S. Alessio (Lucca) nel 1951-53 (doveva rimanerci anche nel 1954 ma la casa venne chiusa); fu destinato a Borca di Cadore per l’anno 1953-54, ma probabilmente “l’obbedienza” venne cambiata e rimase a Porcari nel periodo 1953-55; fu per lungo tempo a Chioggia, dal 1955 al 1964; in seguito passò a Venezia nella casa-madre, dal 1964 al 1970; a Possagno Canova nell’anno 1971-72 e poi di nuovo a Venezia (1972-85); dal 1985 al 1992 a Capezzano Pianore; e infine al Collegio Canova di Possagno (1992-1997).
Particolarmente interessante il periodo trascorso a Chioggia, dove seppe guadagnarsi l’unanime simpatia dei poveri a motivo della sua bonomia, prestanza fisica, laboriosità e promozione dello sport. Ne è prova l’appellativo popolare di “Cavicchi”, ancora oggi vivo nella memoria dei clodiensi. A Venezia fu per molti anni attento e convinto organizzatore della Domus Cavanis, come pensionato universitario e poi come casa di accoglienza per turisti. Alle Pianore (1967-svolse il compito di economo diligente e concreto. Pervenuto negli ultimi anni (1992-1997) a Possagno, spese le restanti energie a servizio della comunità, arricchendo con la sua naturale cordialità i servizi quotidiani, umili ma preziosi, senza trascurare l’impegno apostolico, specie nel ministero della confessione.
In quella casa di Possagno si manifestò improvviso il male che minò la robusta costituzione e che egli affrontò con semplicità e fiducia in Dio. La morte lo colse l’11 giugno 1997 nell’ospedale di Castelfranco Veneto.
Dopo i funerali, celebrati a Possagno, per esplicita richiesta dei parenti la salma è stata tumulata nel cimitero di Noventa di Piave (Venezia).
7.82 Fratel Ettore Perale
Nato a Villanova di Camposampiero (diocesi e provincia di Padova), il 29 giugno 1921, e vissuto a Mirano (Venezia), Ettore proveniva da una famiglia numerosa (sette fratelli e tre sorelle), d’altri tempi. Una famiglia unita, forte come una catena. In questo contesto è la forza assorbita da Ettore e la dirittura morale nella quale essa si esprimeva.
Capo famiglia a sua volta, si adoperò verso la sposa e i figli completamente, senza risparmio, confessando egli stesso a volte le paure e i dubbi di non aver fatto il sufficiente per essa.
Il suo insegnamento fu discretissimo, lieve e quasi impalpabile ma costante, rammentava ai figli: “La sera non addormentatevi, senza aver usato quel filo invisibile di comunicazione e di contatto con Dio”.
Poi il dolore, che distrugge e annulla: la morte della cara sposa Rina. La strada, che sembrava sbarrata senza via d’uscita, improvvisamente si apriva in una forma differente, con un carisma e una grazia diversi. Egli aveva comunicato in famiglia la sua ricerca, il suo desiderio di rispondere a quello che intimamente sentiva. Un giorno confidò ai figli, Paolo e Gianni, ormai adulti e autonomi: “Quando per la prima volta salivo la strada del bosco che porta alla casa Sacro Cuore, era come se un canto festoso di uccellini mi incoraggiasse a proseguire, perché la strada era quella giusta”.
Entrò allora nella Congregazione dei Padri Cavanis nel luglio del 1984; nella casa del S. Cuore visse un intenso e breve periodo di postulato, dato che era già ben conosciuto e stimato in comunità, vestì l’abito e entrò in noviziato il l’8 settembre 1985, poi i due anni canonici di noviziato, ed emise là il 7 settembre 1986 i voti per i tre anni di professione temporanea. Circa cinque anni dopo la sua entrata, nel 1989, emise i voti di professione perpetua, e continuò come fratello coadiutore nella Casa del Sacro Cuore. Fu chiamato, per l’età piuttosto avanzata in cui era entrato in Istituto per il periodo di postulato (a sessantatré anni), “un Cavanis dell’ultima ora”. Non per questo fu meno amato. Era un uomo di poche parole, di silenzio e di preghiera, ma anche di lavoro indefesso e generoso, pieno di delicatezza, di rispetto e affetto per i confratelli, sentimenti da tutti ricambiati cordialmente.
Nell’ottobre del 1991 fu trasferito nella casa di Asiago; dopo qualche mese purtroppo fu colpito da ictus e da conseguente emiplegia. Iniziò così la sua vera missione: essere sale della terra, nella sofferenza e nella preghiera. “Se occorrono buoni operai nella vigna, è anche necessario che nel terreno vi sia sale abbondante”. Dal letto della sua preziosa e silente sofferenza, accolta con serenità e con fede profonda, impartirà per ben quattro anni la sua lezione di vita: “Pregare per quelli che non lo fanno mai, per i derelitti, per i disperati, per quelli che fanno del male, per tutti coloro che piangono … e sono tanti”. Nella lunga malattia fu accompagnato con affetto dalla comunità del Collegio di Possagno, e molto particolarmente, come infermiere e come fratello, da don Giusto Larvete, fratello e diacono.
Al suono festoso delle campane di domenica 25 giugno 1995 raggiunge il premio promesso ai servi fedeli. Fu sepolto tra il generale affetto nel cimitero di Possagno, nella cappella riservata agli ecclesiastici e ai religiosi Cavanis.
7.83 Fratello e diacono don Aldo Menghi: un martire della missione
Il 16 luglio 1995, primo giorno del XXXI capitolo generale della Congregazione, e festa della Santa Vergine del Carmelo, alla quale i Cavanis sono particolarmente devoti, è stato per noi un giorno di lutto, ma anche di fierezza. Uno dei nostri è stato assassinato in missione: il diacono don Aldo Menghi.
Aldo era nato a Roma il 28 dicembre 1944, a via Merulana, tra S. Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore: “Romano de Roma”. Aveva conosciuto la Congregazione nel nostro Istituto Tata Giovanni alla Piramide, a Roma, dove, da orfano che era rimasto, aveva svolto parte dei suoi studi.
Entrò al seminario minore a Possagno, Treviso, il 7 gennaio 1957, e decise di essere un fratello laico. Vestì l’abito dell’Istituto nell’autunno 1960 e visse esperienza del noviziato nella casa del S. Cuore (1960-62). Emise la prima professione a Possagno il 2 ottobre 1962 e la perpetua a Roma il 20 novembre 1966. Ha vissuto diversi anni a Venezia, in casa madre, dal 1962 al 1968 e di nuovo dal 1971 al 1974, sia per completare i suoi studi che per perfezionare la sua formazione religiosa. Nel 1966-67 era vissuto e aveva operato a Roma-Via Casilina; dal 1968 al 1971 al Canov;, ma questi anni non ci danno dei dati esatti e sicuri sulla sua assegnazone a case.
Il 19 marzo 1975 ricevette dal preposito generale P. Orfeo Mason i ministeri istituiti dell’accolitato e del lettorato, a Venezia.
In seguito frequentò dei corsi d’infermiere professionista presso l’ospedale civile ai santi Giovanni e Paolo. Nel frattempo prestava i suoi servigi umilmente in comunità, sia nelle diverse funzioni di appoggio alla scuola e alla comunità religiosa sia come sacrestano.
Nel 1974, accettò di diventare missionario. Dopo aver ricevuto una preparazione adeguata nel C.E.I.A.L (Conferenza dei Vescovi Italiani per l’America Latina ) di Verona, partì per il Brasile (24 marzo 1975). Prima di partire, oltre agli ministeri di cui si parlava, ricevette il crocefisso dei missionari dalle mani di Papa Paolo VI a S. Pietro. Era molto fiero di questa celebrazione e conservava la foto dell’incontro con il papa tra le sue cose più care.
In Brasile visse principalmente a Realeza (1975-82), nello stato del Paraná, vicino alla frontiera con l’Argentina: una piccola cittadina in mezzo al verde, una parrocchia con molte cappelle, all’inizio tra le foreste d’araucaria e di radure ottenute da poco abbattendo e bruciando alberi; poi tra i campi di soia e di grano. Nella parrocchia del Cristo Re, fratel Aldo fu un aiuto prezioso: come infermiere aveva un ambulatorio per i poveri; lavorava con i giovani; aiutava a mandare avanti la chiesa parrocchiale; durante il tempo libero piantava degli alberi sulle strade assolate fuori città. Un anno lo passò anche a Pérola d’Oeste (1982-83).
Dopo otto anni di attività in Brasile, fratel Aldo fu trasferito in Ecuador, alla fine del 1983, come secondo membro della comunità Cavanis. Lì, l’Istituto aveva un programma di espansione nella regione delle Ande, a partire da Esmeraldas. Al momento dell’arrivo di Fra Aldo c’era lì solo P. Mario Merotto. Esmeraldas era una città di circa 100.000 abitanti, situata sulla costa settentrionale dell’Ecuador, affacciata sull’oceano Pacifico.
Mi trovavo a Esmeraldas per caso il giorno del suo arrivo: ero arrivato dal Brasile, qualche settimana prima, per un mese di conferenze e corsi da tenere nelle scuole cattoliche e nelle università di questa città. Lo rivedo ancora pieno d’entusiasmo e di buona volontà, con il suo accento semi romano e veneziano, con il suo portoghese che cominciava a mescolarsi a parole spagnole, la barba da missionario e la fronte sempre sudata.
Aldo cominciò il suo lavoro apostolico e di servizio più umile, in un mese umido e molto caldo in questa cittadina della costa del Pacifico alle frontiere del mondo, dove il caldo è il pane quotidiano. Lavorò a Esmeraldas fino agli ultimi giorni, svolgendo varie mansioni, tutte fondamentali. Per un po’ di tempo fu direttore e membro unico dello staff di una casa di esercizi spirituali; aiutò nel nostro seminario minore; fu sacrestano e catechista in parrocchia; fu anche economo della comunità, tra mille difficoltà per la sopravvivenza della comunità e delle opere. Fu eletto Comisionado di tutti gli scout cattolici della provincia di Esmeraldas, una carica di rilievo nell’organizzazione.
Il suo lavoro principale per cui fu una figura fondamentale, fu quello con i poveri. Organizzò lì un ambulatorio e una farmacia per i poveri, con la collaborazione delle nostre case italiane, mediante il sistema di adozione a distanza. Guidava la sua jeep per las lomas, cioè i quartieri poveri della parrocchia sulle colline, con il bagagliaio riempito di banane chieste in regalo al porto e altro cibo da distribuire ai poveri e particolarmente ai bambini. Andava a visitare con grande coraggio apostolico le case nei centri più difficili, consolando gli afflitti, curando i malati, sfamando gli affamati. In breve aiutava tutti. Verso la fine, aveva aperto un “ristorante popolare gratuito” (un comedor popular), dove dozzine di bambini e di altri poveri potevano mangiare.
Aveva chiesto da un po’ di diventare diacono permanente, aveva quindi seguito i corsi di teologia previsti e richiesti, nell’università cattolica locale, e aveva ricevuto l’imposizione delle mani il 9 aprile 1994 dall’ordinario di questo vicariato apostolico, monsignor Enrico Bortolucci. Era molto contento e indossava con fierezza la stola nelle celebrazioni liturgiche, mentre continuava il suo servizio sempre con più entusiasmo. A buon diritto adesso si poteva chiamare diacono ed esercitare la “diaconia”, cioè il servizio in senso stretto.
Don Aldo è stato visto vivo per l’ultima volta dai nostri verso le 22 del 16 luglio 1995, quando si chiuse la riunione del nuovo consiglio pastorale della nostra parrocchia Vergine di Fatima a Las Palmas, un quartiere di Esmeraldas. Dei nostri parteciparono P. Rodrigo Pacheco, Cavanis ecuadoriano, parroco, don Aldo e P. Mario Merotto, rettore della casa, ma residente a Valle Hermoso, presente su invito. Dopo la riunione, Aldo come al solito prese la jeep, che restava parcheggiata tutta la giornata davanti la casa per i giovani e i poveri, per portarla nel cortile della chiesa per la notte, prima di andare a dormire in seminario dove aveva la sua stanza. Invece i due padri andarono a letto in canonica.
Furono risvegliati qualche tempo dopo dai parrocchiani in lacrime che annunciavano la morte dell‘ hermanito e che dissero che era stato trovato morto all’uscita della città sulla strada verso Quito. Dopo un momento d’incredulità, constatata l’assenza di Don Aldo e della macchina da casa, i padri Mario e Rodrigo andarono all’altro capo della città. Trovarono una massa di gente e di macchine della polizia al lato della strada, nella discarica della città, un ambiente sconfortante, di giorno sempre pieno di avvoltoi. Don Aldo era al posto di guida della jeep, riverso con la testa e le spalle fuori del finestrino, morto, ma ancora tiepido. Si presumeva che l’avessero ucciso verso le 23 del 16 luglio. Gli avevano sparato almeno due colpi in testa.
Si escludeva la rapina perché non erano stati rubati né portafogli, né orologio, né la macchina. Non si trattava neanche di omicidio politico perché Don Aldo non era impegnato politicamente, anche perché la situazione era tranquilla in Ecuador.
Si credeva fosse stato sequestrato mentre si preparava a portare la jeep nel cortile della chiesa per la notte. Una donna della parrocchia o che lo conosceva dichiarò di averlo visto poco dopo le 22:00, mentre attraversava correndo ad alta velocità la strada principale d’Esmeraldas, dirigendosi verso l’uscita della città mentre un uomo gli puntava una pistola alle tempia.
Si presume che gli tesero un agguato nella jeep o lì vicino e che l’avevano costretto a montare a bordo e a uscire dalla città, l’avrebbero ucciso poco dopo, in un angolo più tranquillo e oscuro vicino alla discarica fuori della città. Voglio sottolineare che l’hanno ucciso “fuori città” (cf. Mt 21,39), come il Signore e che come lui, in un modo o nell’altro, l’hanno “gettato” (Sl 118, 22; Mt 21,42; At 4,11), associandolo così alla sua morte.
Il suo lavoro lo aveva messo in contatto con i giovani di ambienti della mala locale, specialmente adolescenti delle bande (las pandillas) che infestano il quartiere. Potrebbe aver urtato la suscettibilità di malfattori interessati al traffico di droga, dato che era una persona impegnata contro il male e che non aveva un carattere diplomatico. Aveva sicuramente dei nemici in quegli ambienti. Era stato rapinato almeno due volte e ferito al braccio con un coltello in quell’occasione.
Non sappiamo ancora il motivo preciso e le circostanze precise del suo decesso. Non le conosceremo mai. La polizia ha fatto le sue indagini. Sia l’episcopato ecuadoriano che la conferenza dei religiosi di quel paese, sia ancora l’ambasciata italiana presso il governo ecuadoriano hanno cercato di fare chiarezza sui fatti; si cercava un giovane sospettato di aver attirato Don Aldo in una trappola e di averlo ucciso.
Noi sappiamo tuttavia che è stato ucciso brutalmente dopo una riunione pastorale e mentre portava a termine da vero Cavanis, con amore e con passione una missione che durava da circa dodici anni, in un ambiente scomodo e violento, in quartieri poveri e sotto un clima equatoriale pesante e insalubre, di certo un difficile lavoro pastorale in favore di persone spesso ai margini della società perché povere, e tra queste, ammalati, vecchi, adolescenti, bambini.
Sapeva in quali pericoli poteva incorrere con quel suo lavoro pastorale e ne aveva paura. Me l’aveva anche detto qualche volta. Nel mese di marzo precedente, durante una mia visita a Esmeraldas, come superiore generale, gli avevo chiesto se era stanco d’Esmeraldas e gli avevo proposto di essere sostituito, nonostante la scarsezza di personale. Rispose che era suo desiderio rimanere. Davvero la sua fu una vita e una morte da missionario da prendere a esempio!
L’omicidio di don Aldo ha provocato un moto d’indignazione e dolore fra il popolo e il clero locale d’Esmeraldas, che ebbe un risvolto nella conferenza dei vescovi e in quella dei religiosi dell‘Ecuador. La folla che visitò a mo’ di processione le spoglie mortali nella chiesa di Las Palmas fu calcolata in circa 20.000 persone. Ai funerali parteciparono trentuno preti, con il vicario generale, in sede vacante, P. Giovanni Bressani. Tra scene di commozione furono date testimonianze sulla vita e l’attività pastorale e d’assistenza generosa di Don Aldo. Un professore che rappresentava l’associazione degli educatori cattolici della città lo definì ufficialmente un martire. L’agenzia di stampa Ansa riportò la notizia sui principali quotidiani italiani.
In Congregazione abbiamo ricevuto una dozzina e più di telegrammi e lettere di partecipazione al cordoglio e di condoglianze da vescovi, superiori generali, preti e amici.
Fece anche molto piacere, un anno dopo circa, che il comune di Esmeraldas desse il nome di “Hermano Aldo Menghi” a una delle vie di Esmeraldas, “in memoria dell’eminente missionario”, l’8 luglio 1996.
La più grande consolazione ci venne comunque nel saperlo nelle mani del Signore. Anche se siamo fieri della vita e della morte del nostro fratello, la notizia della sua morte ci è arrivata in maniera tragica ed è stata un duro colpo per noi. L’abbiamo accettato e lo abbiamo affidato con amore nelle mani del Signore, abbiamo perdonato l’assassino o gli assassini come nostro Signore Gesù ci insegna.
“In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto non muore, resta solo, se muore al contrario fa nascere tanti frutti. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua in questo mondo la conserverà eternamente…. Adesso la mia anima è turbata; cosa dire? Padre salvami da quest’ora? Ma è per questo che sono venuto incontro a quest’ora! Padre glorifica il tuo nome» (Gv 12, 24-27).
7.84 P. Antonio Turetta
Antonio nacque a Carbonara, diocesi di Padova, il 21 ottobre 1913. Seguendo l’esempio del fratello maggiore Cesare, con chiara vocazione al nostro Istituto, fece i suoi studi medi a Possagno, dove fu accolto il 21 agosto 1923 e poi a Venezia dal 10 settembre 1927. Qui vestì l’abito religioso Cavanis il 20 ottobre 1929 e iniziò così il noviziato (1929-30), con i quattro confratelli Guido Cognolato, Luigi D’Andrea, Luigi Candiago, Alessandro Valeriani, che furono tutti perseveranti fino alla fine; emise la professione temporanea il 10 febbraio 1930 e la perpetua l’11 novembre 1934.
Ricevette la tonsura a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; l’ostiariato e il lettorato il 2 febbraio 1936; l’esorcistato e l’accolitato il sabato sitientes, sempre a Venezia, il 28 marzo 1936; ancora a Venezia, il 19 settembre 1936 ricevette l’ordine maggiore del suddiaconato; fu consacrato diacono il 13 marzo 1937. Superati dunque gli studi letterari e poi teologici nello Studio teologico dell’Istituto a Venezia, fu consacrato prete a Venezia nella basilica della Salute dal cardinal Adeodato Giovanni Piazza il 4 luglio 1937.
Conseguì le lauree in Lettere e in Storia e Filosofia. Questa seconda laurea la conseguì nell’Università di Palermo: aveva cominciato il corso a Padova, ma essendo stato trasferito alla casa di S. Stefano di Camastra (provincia di Messina e diocesi di Patti), sostenne vari esami nell’università del capoluogo della Sicilia e vi ritornò, anche dopo che l’Istituto aveva chiusa la casa siciliana, per difendervi la tesi. La Casa era stata chiusa nel 1941 perché la città si era mostrata poco adatta, e soprattutto perché le promesse di restaurare e ampliare l’edificio offerto all’opera e di offrire periodicamente i mezzi economici per mantenerla non erano state mantenute. Negli anni Sessanta il consiglio comunale di S. Stefano al completo (formato in gran parte da ex-allievi) venne a Venezia a chiedere la riapertura e se ogni anno per l’onomastico di P. Antonio qualcuno di là telefonava o scriveva per gli auguri, vuol dire che il ricordo era rimasto vivo.
Svolse la sua attività d’insegnante nelle varie Case della Congregazione, iniziando appunto a S. Stefano di Camastra (nel periodo 1938-40), in Sicilia, dove lasciò un ricordo vivissimo dell’Istituto.
Nel 1943-43 P. Antonio fu a Venezia come insegnante, avendo conseguito la laurea in lettere e fu anche assistente di Azione Cattolica nel nostro Istituto. Avendo poi aggiunto la seconda laurea, questa in filosofia (la comunicò al fratello Cesare scherzosamente come “seconda dichiarazione patente dell’ignoranza latente”), fu trasferito dal 1943 al ‘46 a Porcari, poi dal 1946 al 1949 a Possagno come insegnante in liceo ed economo; e ancora a Venezia dal 1949 al 1953 e dal 1954 al 1957. Con gli stessi incarichi fu per un anno anche nell’Istituto Dolomites a Borca di Cadore (1953-54), dove l’Istituto era stato chiamato dal Vescovo di Belluno monsignor Girolamo Bordignon. Da qui tornò a Venezia, come si è detto, poi al Canova (1958-61 e 1965-67) e a Capezzano Pianore (1961-63), sempre con i due incarichi d’insegnante e di economo. Aveva intuizione per i lavori di ristrutturazione e di adattamento degli ambienti, in conseguenza degli sviluppi dell’attività convittuale.
Dal 1968 al 1970 fu in Casa del Sacro Cuore come Rettore e poté nuovamente sviluppare la sua attività di lavoratore sia disponendo la definitiva sistemazione della strada di accesso alla Casa, sia facendo in essa quegli adattamenti che lo sviluppo dell’opera richiedeva. In particolare ristrutturò il ripido scalone di accesso alla chiesa, dividendolo in due rampe simmetriche a tenaglia. Ritornò poi per qualche anno al Liceo di Capezzano Pianore (1971-94), fin che le forze gli consentirono di insegnare.
Privilegiò sempre l’impegno scolastico, cui attese con entusiasmo e con una discreta competenza. Insegnò lungamente Storia e Filosofia nei licei, coinvolgendo gli alunni e stimolandoli, con mille mezzi industriosi, allo studio. Aveva tuttavia, soprattutto nel campo della Filosofia, una visione integralista: riportava tutto a S. Tommaso, e mostrava chiaramente agli studenti di disprezzare tutti gli altri sistemi filosofici, in un modo che a ragazzi – anche molto cristiani – che pensavano liberamente, il suo insegnamento risultava molto pesante.
Ebbe a più riprese l’incarico di economo. In questo campo, come del resto in tutto il suo operato, dimostrò capacità e tenacia, teso sempre a quello che a lui sembrava il meglio in ogni cosa; al tempo stesso, mostrò anche la sua ostinazione e una visione tutta personale dell’adempimento delle leggi edilizie ed economiche. Non nascondea la strana idea che dato che lo stato italiano (qualche tempo prima: nel 1866!) aveva spogliato la chiesa e la congregazione dei loro beni, si poteva liberamente rubarle le tasse, le imposte, i contributi.
Per parecchi anni fu anche membro di commissione esaminatrice in scuole statali in varie parti d’Italia; e se veniva accettato lui “privatista” in scuole “statali” è segno che la sua cultura era apprezzata.
Si oppose duramente al preposito generale P. Orfeo Mason e al Capitolo generale straordinario speciale, negli anni 1969-70 e successivi, in tutto quello che riguardava la riforma della Congregazione e le costituzioni secondo le disposizioni del Concilio e della Santa Sede. Di tale attitudine e pratica si trovano cenni frequenti e dettagliati, tra l’altro, nel diario 1970-1990 della casa di Capezzano Pianore, conservato nell’AICV.
Venne anche la fase finale della sua vita. Negli ultimi anni fu colpito proprio sulla sua spiccata intelligenza, con frequenti e lunghe amnesie, che però gli permettevano di rivivere nella fantasia i periodi della sua vita nell’attività con i giovani. Nei brevi momenti di lucidità si rendeva conto, soffriva, ringraziava per l’assistenza che riceveva. Tornò a Possagno (1994-95), dove fu assistito con amorevolezza da confratelli e dal personale (la carissima signora Luigina Dagli Agnoli, di Possagno a via Zoppona, fu per lui e per altri religiosi Cavanis degenti a Possagno una seconda mamma con “attenzioni” a tutto campo fino alla fine). Qualche giorno di degenza all’ospedale di Castelfranco Veneto e spirò la mattina del 5 agosto 1995. Attende la risurrezione nella cappella del cimitero di Possagno.
Non va dimenticato un momento particolarmente doloroso della sua vita: il 25 aprile 1957 moriva, per complicazioni di un intervento operatorio a Venezia, il fratello maggiore Padre Cesare ancora giovane, a soli quarantotto anni; ad Antonio incombette l’impegno di comunicare il dramma agli anziani genitori.
7.85 P. Franco Degan
Nasce a Venezia il 7 febbraio 1930 e respirò aria “Cavanis” fin dalla sua più tenera infanzia, data la presenza in Istituto del padre dott. Attilio in qualità di confratello e Prefetto della Congregazione Mariana di Venezia. Frequentò la scuola media in Istituto e dopo due anni di scuola media superiore entrò in Noviziato a Possagno a Col Draga, vestendo l’abito Cavanis il 21 novembre 1946 e vivendo l’esperienza del noviziato nell’anno 1946-47. Emise la prima professione il 29 ottobre 1947 e proseguì gli studi conseguendo nel 1951 l’abilitazione magistrale che valorizzava subito nelle scuole elementari dell’Istituto in Venezia, al tempo stesso attendendo alla sua preparazione teologica. Si consacrò al Signore e alla Congregazione con la professione perpetua all’incirca nel 1951 o 1952.
Nel suo cammino verso l’altare, ricevette i primi due ordini minori il 21 giugno 1953 e i secondi due il 3 aprile 1954; l’ordine maggiore del suddiaconato il 21 settembre 1954; l’ordine maggiore del diaconato il 5 marzo 1955; e riceve l’ordinazione presbiterale il 4 giugno 1955 per le mani di monsignor Giovanni Battista Piasentini.
Da quel momento P. Franco si mette subito all’opera nel campo del Signore, secondo le disposizioni dell’obbedienza da lui accolta “prompter, hilariter et cum humilitate debita”, a Chioggia quale segretario di monsignor Piasentini, poi a Possagno come animatore vocazionale, catechista e Padre spirituale della comunità. Rivestì vari incarichi: Rettore del Seminario Minore e poi della Casa del S. Cuore a Possagno, Rettore del Tata Giovanni a Roma e infine Direttore del Convitto Cavanis di Asiago.
Lo troviamo, in ordine cronologico, a Chioggia, come segretario del vescovo G.B. Piasentini (1955-61); in probandato di Possagno (1961-67), come rettore dal 1964; in casa del S. Cuore a Possagno (1968-73), come rettore dal 1970; ancora come rettore al Tata Giovanni, a Roma, ma con l’incarico di chiudere la presenza Cavanis in questa opera benefica; al collegio Canova a Possagno (1974-82); direttore del convitto di Asiago (Vicenza, 1982-84); ancora al Canova a Possagno 1984-1990); e infine a Venezia dal 1990 al 1998.
Emerse in ogni settore della sua attività, con amore, pazienza, speranza e gioia nel servizio, il tutto “condito” da una soda pietà ed ardente zelo. Il Signore però gli riservava un’esperienza più seria, quella della sofferenza fisica per la malattia del cancro, da lui accolta e vissuta per dieci lunghi anni di lotta contro il male, con coraggio e serenità encomiabili, riuscendo a conservare sempre quel suo umorismo caratterizzante i suoi rapporti fraterni e sociali.
Serenamente, com’è vissuto, si spense nell’ospedale di Castelfranco la notte di venerdì 15 gennaio 1998. Riposa nel cimitero di Possagno.
7.86 P. Ugo Del Debbio
Nacque a Bagni di Lucca il 12 agosto 1924. Ancora tenero fanciullo, conobbe i Cavanis, a contatto con i Padri del Collegio di Porcari. Il 18 ottobre del 1937 entrò nel Probandato di Possagno, dove compì parte degli studi superiori che completò a Venezia dopo l’anno di noviziato. È professo perpetuo nel 1946. Ricevette il suddiaconato a Venezia il 22 giugno 1947 e il diaconato il 20 dicembre 1947. Fu poi consacrato sacerdote il 6 giugno 1948, assieme ai suoi coetanei Ermenegildo Zanon, Pietro Mayer, Francesco Dal Favero e Giuseppe Maretto.
Svolse il suo apostolato fra i ragazzi e i giovani mediante l’insegnamento, la predicazione, l’Azione Cattolica. Ricoprì in Congregazione ruoli ed incarichi di responsabilità, assunti ed espletati con dignità, competenza e prestigio. Come ogni Cavanis diede il meglio di sé nell’educazione cristiana dei ragazzi e dei giovani nella scuola, privilegiando la funzione di Padre più che di Maestro.
Dopo l’ordinazioni presbiterale, lo troviamo per un breve periodo nel seminario minore trentino, da poco passato a Levico, negli anni 1948-1950; a Venezia per una prima volta nell’anno scolastico 1950-51; a Porcari nel 1951-52; a Possagno, collegio Canova, negli anni 1953-58; poi di nuovo a Porcari dal 1958 al 1962; a Venezia negli anni 1962-82, anni che corrispondono largamente al periodo del suo lavoro in commissioni regole, e ai lunghi anni trascorsi come consigliere generale (2° cons. 1967-73 e 3° cons. 1973-79) e come segretario generale (1967-1985; e più tardi dal 1989 al 1996).
Dal 1962 al 1968 fu anche professore di Diritto canonico per i seminaristi studenti di teologia del nostro Studio teologico a Venezia.
Passò un periodo a Sappada, che gli fu molto gradito, come direttore della casa e preside del liceo locale dal 1982 al 1987; vi fu anche molto stimato e amato. A Sappada ebbe però un grave incidente, che concluse la sua presenza nella borgata dolomitica. Mentre attraversava il corso del Piave su un ponticello di legno (Il fiume Piave a Sappada è ancora un torrente, vicino alle sorgenti), il padre si appoggiò alla spalletta o parapetto in legno del ponte; la leggera struttura non resse al peso (rilevante) del P. Ugo, che cadde da una certa altezza sul greto sassoso del torrente, fratturandosi gravemente il bacino. Si ricuperò lentamente, ma rimase abbastanza azzoppato.
Fu poi a Porcari per un solo anno (1988-89) e infine a Venezia, di nuovo come segretario generale, dal 1989 al 1996 durante la prepositura Leonardi. Vi svolse un lavoro assolutamente prezioso. Il suo lavoro fu utilissimo infatti sia come perfetto segretario generale, sia come esperto di diritto canonico, presente e attivo in tutte le commissioni per le riforme delle costituzioni e norme, nei capitoli e in varie forme e occasioni.
Nel 1996, ormai stanco e malato, chiese ed ottenne di ritirarsi in famiglia, non lontano da Porcari, a Fabbriche di Casabasciana, a casa della sorella.
Ci lasciò una testimonianza di lunga sofferenza fisica accettata e vissuta con serenità. Il Signore lo chiamò alla perenne liturgia del cielo a un mese di distanza dalla celebrazione del cinquantesimo anniversario di Sacerdozio. Ricoverato all’ospedale di Lucca per l’aggravarsi del male, morì nella prima mattinata del 6 luglio 1998. Le sue esequie, partecipate da tanti sacerdoti e seguite con cordoglio e fede dalla sua gente, sono state celebrate alla presenza del Vicario Generale di Lucca monsignor Primo Chicchi. La sua salma riposa nel cimitero di Casabasciana (Lu) accanto ai familiari.
7.87 P. Livio Donati
Nacque il 4 ottobre 1910 a Calceranica (Oggi Calceranica al Lago), diocesi di Trento, che alla sua nascita si trovava in territorio austro-ungarico. Nella sua infanzia, durante la Grande Guerra (1915-1918) con la sua famiglia e con molti abitanti del Trentino (allora Tirolo italiano sotto dominazione austriaca) conobbe un triste e sofferto esilio in paesi lontani, in Moravia o Boemia, perché le vallate alpine prossime alla linea del fronte austro-italiano, come la sua Valsugana, rimanessero vuote e disponibili alle manovre militari. Entrò qualche anno dopo la fine della grande guerra, il 10 settembre 1924, in Istituto a Possagno. Nel settembre 1928, assieme a Aldo Servini, sostenne esami liceali a Venezia, presso l’Istituto Foscarini, con successo. Vestì l’abito religioso dell’Istituto il 28 ottobre 1928 a Venezia, dove compì il noviziato nel 1928-29. Assieme a P. Aldo Servini, emise i voti temporanei a Venezia il 31 ottobre 1929. Emise i voti perpetui il 31 ottobre 1932. Fin da questi anni, assimilò la spiritualità e il carisma Cavanis, seguendo fedelmente l’esempio dei Fondatori della Congregazione e del confratello e concittadino il Venerabile P. Basilio Martinelli.
Ricevette la tonsura a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; Livio poi ebbe gli ordini minori dell’ostiariato e del lettorato il 21 dicembre 1934, l’esorcistato e l’accolitato il 7 aprile 1935; il suddiaconato a Venezia, nella chiesa del SS.mo Redentore il 30 giugno 1935; il diaconato il 22 dicembre 1935 dal vescovo ausiliare monsignor Giovanni Jeremich, nella basilica della Salute; e fu ordinato prete, sempre a Venezia, nella stessa basilica, il 5 luglio 1936.
Laureato in Lettere alla facoltà di Ca’ Foscari, a Venezia l’11 novembre 1941, ha insegnato materie umanistiche nelle scuole medie delle nostre case di Venezia, Porcari e Possagno dove fu anche direttore della Casa degli Esercizi Spirituali. Ottimo docente, sapeva far appassionare gli alunni soprattutto della Storia e anche di più della Geografia, aprendo loro, in quel povero mondo del dopoguerra, orizzonti sconfinati. In seguito, dal 1954, ha fondato e diretto il Centro di Formazione Professionale Maria Immacolata di Chioggia. Nel 1968 come capo del primo gruppo di tre missionari, è partito per il Brasile, dove ha iniziato, costruito e accompagnato l’Opera Cavanis donando con amore gli ultimi trent’anni di vita ed essendone molto amato.
Sacerdote e religioso Cavanis benedetto da Dio, uomo di fede e di pratica ragione; educatore convinto, sempre “giovane insoddisfatto” davanti alle sfide e tragedie del mondo; fondatore e capo di molte case Cavanis, gregario disposto e leale; tenace “trentino-montanaro”, come lui si definiva e si pentiva, quando questo faceva soffrire gli altri. Poeta realista, viaggiatore sulle ali della geografia, delle arti, della letteratura e delle scienze, e, soprattutto, con le mani e i piedi, cuore e anima immersi nel lavoro; soldato coraggioso, intrepido e docile, critico acuto di ogni autoritarismo; persona semplice e umile, povero in tutto, sognatore e uomo realizzato nella bontà e nel servizio ai più sofferenti. Fu anche autore di libri di testo per le materie letterarie. Ha portato lungo la sua vita, in Italia e Brasile, il carisma di Antonio e Marco Cavanis e lo ha manifestato in opere che perdurano e che guardano al futuro come fossero i suoi occhi azzurri sempre pieni di speranza.
Visse e operò, nell’ordine, nelle seguenti case dell’Istituto: al Canova di Possagno, dal 1936, appena ordinato prete, al 1939; a Porcari (1939-43); al Canova di nuovo (1943-44); a Venezia (1944-49); direttore della casa del S. Cuore (1949-51); ancora a Venezia (1951-53); a Chioggia, come “fondatore” e rettore (1953-61); a Solaro, con continuità del lavoro svolto a Chioggia (1961-67). Durante questo sessennio fu anche consigliere generale, 4°, durante il mandato di P. Giuseppe Panizzolo. Lo troviamo poi: nel 1967-68 a Roma, per prepararsi all’impresa della fondazione in Brasile; dal 1968, ma praticamente dall’inizio del 1969 al 1972 come rettore a Castro, Paraná, Brasile essendo anche (1969-71) responsabile dell’opera Cavanis in Brasile, pur senza il titolo di superiore regionale o delegato; a Realeza (1972-74); a Castro (1975-82); a Realeza una seconda e più importante volta (1982-85); a Belo Horizonte, per quasi un anno (1985-86); infine di nuovo a Castro, in una serena, operosa e gioiosa vecchiaia (1986-1998).
Morì a Castro, Paraná – Brasile. il 1° luglio 1998. La sua salma riposa nel Signore in Castro. In suo onore, il popolo di quella città pubblicò un libretto di memorie interessanti, dove numerosi abitanti castrensi esaltano, in brevi scritti per lo più di carattere popolaresco, pieni di cuore, la sua gioia di vivere, il suo desiderio di annunciare la misericordia di Dio e del Signore Gesù con la sua vita e le sue opere buone. “Forza gente!”, il titolo del libro, era la frase che il caro P. Livio ripeteva spesso e che era diventato un po’ come il suo motto. Un vero padre Cavanis “senza frode”, in Italia e in Brasile.
8. Biografie dei religiosi Cavanis defunti nel secolo XXI
8.1 Fra Luigi Gant
Nacque ad Aviano (ora provincia di Pordenone) l’8 ottobre 1910. Entrò in Congregazione poco più che ragazzo, accompagnato dal compaesano P. Agostino Zamattio. A diciassette anni fu ammesso al Noviziato come fratello coadiutore, e rivestì l’abito religioso il 25 marzo 1927. Gli si riconoscono profondo spirito di pietà, laboriosità indefessa e molteplice, osservanza esemplare, congiunti ad una vivacità giovanile e alla fermezza tipica di ogni buon friulano. Il 2 luglio 1929 al termine del noviziato, emise in Venezia la prima professione; il 16 luglio 1932, nella festa della Madonna del Carmine, si consacrò definitivamente al Signore con la professione perpetua e si dichiarò “figlio devoto della Congregazione”.
Per 70 anni (1929-1999) passando per quasi tutte le Case della Congregazione, ha dato il meglio di se stesso nei molteplici servizi espressi con diligenza ed impegno, in qualità di sacrestano, di maestro del corso Calzolai al nostro Centro di Formazione Professionale di Chioggia, di ortolano, giardiniere, cuoco e fornaio.
In ordine cronologico, visse e agì nelle seguenti case della congregazione: Venezia (1931-34); Porcari (1934-43); Venezia (1943-46); Roma Casilina, come uno della comunità di fondazione (1946-51); Porcari (1951-53); Chioggia (1953-61, e probabilmente altri due o tre anni); Roma Casilina (1964-70); Canova di Possagno (1972-73); Venezia (1973-74); Casa del S. Cuore a Possagno (1974-79); Chioggia (1979-85); Porcari (1985-1990); Capezzano Pianore (1990-2000).
Era caratterizzato da una certa autonomia, da un carattere forte, molto riservato, umile; ma con un carattere che doveva essere compreso e con una personalità che doveva essere apprezzata: “…va compreso nel momento e nell’ora opportuna e allora fa la volontà del Superiore.”, scriveva di lui P. Vincenzo Saveri, suo compaesano, in una lettera al generale datata 27 luglio 1943 e citata sopra integralmente; tratta della comunità intera di Venezia in quel periodo.
Tutto ciò era “condito” da soda pietà personale e particolare devozione alla Madonna del Rosario. Trascorre gli ultimi anni a Capezzano Pianore dedito alla preghiera e al lavoro nell’orto.
Ricoverato all’ospedale di Viareggio per disturbi vari, fortemente debilitato, passò a miglior vita, munito dei conforti della fede e dei sacramenti ricevuti in piena coscienza, il 18 aprile 2000, nel martedì santo. Celebrate le esequie nella chiesa parrocchiale di Capezzano attende la risurrezione dei giusti nel cimitero locale.
8.2 P. Riccardo Zardinoni
Nacque a Chicago negli Stati Uniti d’America da Fausto e Genny Cesari, immigrati italiani, il 24 novembre 1918. Cresciuto ed educato in una famiglia italiana e cristiana “tenne condotta morale e religiosa irreprensibile, dando prova di esser chiamato allo stato religioso” (dichiarazione giurata di don A. Ghilardi, parroco di S. Maria Foris portam, Lucca). A vent’anni entra in Congregazione il 2 (o il 1°) agosto 1938, veste l’abito religioso il 23 ottobre 1938 e, compiuto l’anno di noviziato a Venezia nel 1938-39, emette la prima professione il 27 ottobre 1939; è professo perpetuo il 13 gennaio del 1943, pronunciando i voti davanti ai seminaristi minori e maggiori, nella chiesetta del Probandato di Possagno.
Tonsurato il 28 giugno 1942 nella chiesa della Salute a Venezia, assieme a P. Panizzolo e a due che poi lasceranno l’Istituto, ricevette gli ordini minori dell’ostiariato e del lettorato il 18 dicembre 1943, a Venezia; ebbe l’ordine del suddiaconato con P. Panizzolo il 21 maggio 1944 nella basilica della Salute, il diaconato il 17 marzo 1945 e fu consacrato prete a Venezia il 10 giugno 1945.
La dimensione sacerdotale di P. Riccardo è chiarissima fin dalla sua ordinazione, espressa sul retro del santino della prima messa con due frasi latine: – “Gratia Dei sum id quod sum” (By the grace of God I am what I am”; 1Cor 15,10) and: ”Qui non ardet non incendit” ( St. Augustin, In Ps. 34, Enarratio, 1°.).. Quel suo sentire umano, arricchito dai doni dello Spirito Santo è divenuto il carisma eccezionale della sua predicazione e del suo apostolato. Per ben dodici anni fu Rettore della Casa del S. Cuore di Possagno, dove predicò e diresse centinaia di corsi e ritiri ai giovani studenti di istituti e collegi. Grande animatore della spiritualità nelle Case della Congregazione, nelle parrocchie, nei conventi, dappertutto arrivava con la sua parola di gioia e speranza.
Il 20 ottobre 1958 iniziò il suo viaggio in transatlantico verso il Brasile perché il nostro P. Riccardo era stato incaricato dal Preposito, P. Gioachino Tomasi, di riconoscere il paese di Santa Cruz, cioè il Brasile, rispondendo a un invito del primo vescovo di Ponta Grossa (Paraná), Mons. Antonio Mazzarotto. P. Zardinoni visitò Ponta Grossa e altre diocesi, sia nel Paraná sia nel Rio Grande do Sul e ritornò in Italia il 24 dicembre dello stesso anno, presentando una preziosa relazione. Si vedano più sotto delle notizie più dettagliate di questo viaggio e almeno alcuni excerpta profetici del diario di viaggio. Noto già da qui che è importante sottolineare l’apertura alla missione e all’espansione della Congregazione che fu propria al preposito generale P. Gioachino Tomasi – e del P. Riccardo – che raramente è ricordata, piuttosto ingiustamente.
Fin da giovane impegnato nel campo delle vocazioni, P. Zardinoni profondamente sentiva questo impegno per la Congregazione e per la Chiesa, e lo portava avanti con entusiasmo e sicurezza. Molte sono le persone accompagnate da lui nella scelta della vita consacrata e sostenute con la chiarezza sua usuale nel lungo cammino di preparazione. Ridiede vita all’Associazione Ex-allievi, curando in particolare la sezione di Possagno, cui dedicò tutte le sue energie degli ultimi dieci anni di vita.
Colpito da infarto si spegne, confortato dai sacramenti, nella mattina del 12 dicembre 1999 mentre si apprestava a celebrare la Santa Messa. Le esequie furono celebrate nel Tempio Canoviano con grande partecipazione di confratelli, religiosi/e, e amici. Riposa, in attesa della risurrezione, nella cappella del cimitero di Possagno.
8.3 P. Giulio Avi
Nasce a Vigo di Piné (Trento) il 5 settembre 1933, giovanissimo entra in seminario dei Padri prima a Levico e poi a Possagno; veste l’abito Cavanis il 15 ottobre 1950, anno santo; è novizio nel 1950-51, ed emette i primi voti temporanei il 2 ottobre 1951. Si lega per sempre alla Congregazione con la professione perpetua il 24 ottobre 1954.
Riceve la tonsura clericale il 4 giugno 1955 in sant’Agnese; il suddiaconato il 28 luglio 1957; riceve l’ordinazione diaconale l’8 gennaio 1959 e quella presbiterale per l’imposizione delle mani del cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, Patriarca di Venezia, il 22 giugno 1958, nella basilica della Salute a Venezia.
Conseguì la laurea in Scienze Naturali all’Università di Padova, preparando e difendendo una tesi di biologia, sui capelli umani, tra cui un raro capello della mummia di Ramses II! Per questa tesi e come parte dell’aspetto metodologico della stessa, inventò e costruì un apparecchio che serviva per misurare gli assi della sezione di un capello (carattere molto importante per classificarlo). L’apparecchio fu molto lodato dal relatore della tesi e durante la discussione della stessa, da parte della commissione.
Fu subito dopo introdotto all’insegnamento nelle varie scuole dell’Istituto. Gli ex-allievi ricordano la passione con cui conduceva la lezione, con trasporto umano, quasi poetico.
P. Giulio visse e si impegnò pastoralmente in successione cronologica nelle seguenti case: Porcari (1958-61); Venezia (61-64); Solaro (1964-65); Levico (1965-66); Solaro (1966-67); Capezzano Pianore (1967-70); Venezia (1970-75); Possagno-Canova (1975-83); Capezzano Pianore (1983-87); Porcari (1987-91); Chioggia (1991-92); Venezia (1993.2000).
Nel 1993 è Direttore dell’Osservatorio Meteorologico dell’Istituto a Venezia, che con lui diventa un’istituzione per tutta la città lagunare della quale conosceva tutte le costanti e le variabili meteorologiche. Dotò la sede di una strumentazione elettronica e informatica per l’archiviazione e documentazione dei dati climatici. Era convinto che l’indagine razionale del mondo fisico introducesse l’uomo nell’incommensurabile mistero di Dio. Era, questo, uno strano supporto alla sua fede, che per il resto era spontanea, quasi infantile e alla sua devozione ingenua quasi primitiva. Quante corone consumate per il Rosario e i Cento Requiem! Quale strano rapporto con il mondo dei defunti e perfino con il cranio umano che teneva sul suo tavolo e che una volta mi imprestò per un certo tempo!
Ricoverato all’ospedale civile per malore a fine settembre, si spense il 3 novembre 2000, a soli 67 anni. La salma ricomposta per il rito funebre nella Chiesa di S. Agnese, proseguì poi per il cimitero di Baselga di Piné, suo paese natale, a richiesta della famiglia.
8.4 P. Cleimar Pedro Fassini
Nacque l’8 dicembre 1971 a Pérola d’Oeste nel Paraná, Brasile. Sentendosi chiamato al sacerdozio, entrò nel seminario diocesano di União da Vitória (Paraná) e frequentò la scuola media e la scuola superiore. Quando la sua famiglia si trasferì a Piraì do Sul sempre in Paraná, passò al seminario diocesano di Ponta Grossa dove terminò il corso superiore. Là frequentò la filosofia e iniziò la teologia nell’Istituto “Mater Ecclesiae” (IFITEME), dove erano numerosi gli insegnanti Cavanis.
Nel 1998 chiese di entrare nella nostra Congregazione, fece il postulantato nel nostro Istituto teologico di Belo Horizonte (Minas Gerais) e nell’anno seguente il noviziato in Ponta Grossa. Emise la professione temporanea il 30 gennaio dei 2000: quindi ritornò a Belo Horizonte per frequentare il 2o anno di Teologia presso l’I.S.T.A. (Istituto San Tommaso d’Aquino). II 26 dicembre dei 2000 i medici constatarono la presenza di 4 ulcere allo stomaco. Operato il giorno seguente all’Ospedale Vicentino di Ponta Grossa, il medico diagnosticò un tumore maligno già in stato avanzato e con metastasi nel pancreas e nell’intestino.
Cominciò cosi il calvario di Cleimar. Sapendo che il suo grande sogno, per il quale tanto aveva lottato, era sempre stato quello di essere sacerdote, accettando la domanda di Don João Braz de Aviz, vescovo di Ponta Grossa e l’ammissione dei Superiori della Congregazione, la Santa Sede autorizzò la sua ordinazione presbiterale, anche se Cleimar non aveva terminato gli studi di Teologia. II 15 marzo 2001 fece la professione perpetua nel seminario Santa Cruz di Castro; il 17 marzo fu ordinato diacono nel Seminário “Antonio e Marco Cavanis” di Ponta Grossa; il 24 marzo 2001 ricevette 1’ordinazione presbiterale nella Chiesa di São José di Piraì do Sul e il giorno seguente vi celebro la prima Messa. Passò quindi a risiedere a Ponta Grossa nel seminario Cavanis e poté esercitare il suo ministero con i seminaristi e nelle parrocchie vicine. Intanto il male si aggravò e il 31 maggio fu ricoverato nell’Ospedale Vicentino dove alle ore 0.15 del 16 luglio 2001, nella festa della Madonna del Carmine, il Padre dei Cielo lo ricevette di ritorno a casa. Fu sepolto nel cimitero di Castro-Paraná, in Brasile. Fu il primo dei religiosi Cavanis brasiliani a raggiungere la casa del Padre.
8.5 P. Danilo Baccin
Danilo nacque ad Asolo, frazione di Pagnano (Treviso) il 30 novembre 1933. Entrato giovanissimo nel nostro seminario di Possagno, ammesso al Noviziato con la vestizione religiosa il 23 ottobre 1949, professòper la prima volta, con i voti temporanei, il 24 ottobre 1950. Compiuti brillantemente gli studi liceali emette la professione perpetua a Venezia, dove era presente per gli studi teologici, il 27 febbraio 1955. Ricevette la tonsura ecclesiastica il 3 aprile 1954, i primi ordini minori il 4 giugno 1955, il suddiaconato il 17 giugno 1956, il diaconato il 23 maggio 1957. Ricevette l’ordinazione presbiterale il 24 ottobre 1957 per le mani del Card. Angelo Giuseppe Roncalli.
Conseguito il diploma di maturità artistica, profuse con giovanile entusiasmo nel mondo della Scuola le sue doti di spirito nel cuore di tanti giovani, che riscoprono in lui il “ricercatore” nelle cose piccole del nostro quotidiano, ma anche nelle grandi che toccano le ragioni stesse della nostra vita. P. Danilo cercava qualche cosa di più completo per la comprensione della storia umana, qualche cosa di più bello nel bello delle opere artistiche che vedeva e rivedeva più volte; aveva, infatti, scelto come particolare campo di insegnamento quello artistico del disegno e della storia dell’arte. Ligio al dovere ha lavorato per quarant’anni nelle varie scuole dell’Istituto (Possagno, Solaro, Asiago), privilegiando il liceo scientifico di Roma ove ha svolse la funzione di Preside del Liceo scientifico per circa diciott’anni.
Troviamo P. Danilo successivamente nelle seguenti case: Capezzano Pianore dal 1958 al 1961; Solaro, nella prima comunità (1961-65); un anno a Levico (1966-67); al collegio Canova di Possagno (1968-1982); a Roma dal 1982 al 1999: poi brevemente a Venezia (1999-01), perché economo provinciale. La morte improvvisa venne a interrompere la sua permanenza a Venezia.
Ricoprì vari incarichi di Congregazione, consigliere generale (1989-1995) e consigliere provinciale (1999-01) con qualifica di economo provinciale. Fu anche presidente della commissione per la riforma completa della casa del S. Cuore, dal 1991.
E venne tristemente e all’improvviso la sua fine in questo mondo. Colpito da infarto fulminante, cadde a terra all’ingresso dell’Istituto Cavanis di Via Casilina la sera del 17 novembre 2001, mentre rientrava in Istituto assieme al P. Pietro Luigi Pennacchi, ritornando da un incontro del C.N.E.C, la commissione di economi generali di istituti religiosi. Prontamente soccorso e condotto all’ospedale “Giuseppina Tannini” delle suore Camilline a Torpignattara, vi giunse già morto, lasciando triste tutta la comunità Cavanis, i docenti, gli studenti e le famiglie, nonostante la nostra speranza nella risurrezione.
Dopo le solenni e partecipatissime esequie romane, celebrate nella chiesa parrocchiale dei SS. Marcellino e Pietro la salma è stata traslocata nel cimitero di Possagno (TV).
8.6 Fra Roberto Feller
Fra Roberto Feller è nato a Besenello (Trento) in Val d’Adige il 24 novembre 1918. Giovane ventenne è entrato in Congregazione a Venezia il 13 dicembre 1938. Vestì l’abito religioso il 15 luglio 1939; emise la prima professione il 16 luglio 1941, assieme a fra’ Giusto Larvete. Ha emesso la professione perpetua a Possagno il 7 ottobre 1944, festa della Madonna del Rosario.
Molti anni dopo, in seguito alla sua sensibilità liturgica e alle nuove regole post-conciliari, con una conveniente preparazione il 19 marzo 1975 ricevette il Ministero di accolito e il 17 maggio 1976 quello di Lettore.
Ha vissuto la sua vita religiosa Cavanis nelle comunità di Venezia, Capezzano Pianore (LU) e Possagno (Collegio Canova e Casa del Sacro Cuore). In ordine cronologico. Fu, dopo la fase di formazione, nel seminario minore di S. Alessio (Lucca) (1944-46, e forse qualche anno in più, di cui manca registro); a Venezia (1949-55); a Possagno Canova (1955-62); di nuovo a Venezia (1962-70); alla casa del S. Cuore (1970-74); a Venezia ancora una volte (1974-82); a Porcari (1984-90) e infine di nuovo in casa del S. Cuore a Porcari, dove fu eletto 2° consigliere delle comunità, casa raro, forse unico, tra i fratelli laici (1991-2000).
Ha sempre svolto le mansioni più umili nelle nostre case, in silenzio, senza applausi dagli altri, ma con umiltà e fedeltà. Un servizio particolare che lo ha reso zelante in tutte le nostre case era l’incarico di sacrista che sempre gli veniva affidato.
Fra Roberto è stato straordinario nella vita religiosa ordinaria. Ha vissuto in forma disarmante quello che la piccola Teresina di Gesù ha lasciato scritto: “è solo l’abbandono in Dio che mi guida, non ho proprio altra bussola”. Si è sempre sforzato di imitare le virtù eroiche dei nostri venerabili Padri Fondatori e aveva una ammirazione tutta particolare per il Servo di Dio P. Basilio. La sua pietà mariana era nota a tutti. Preparava e ricordava tutte le feste della Madonna e provava grande gioia spirituale nel visitare qualche santuario mariano.
Ha vissuto in comunità l’inno della carità e, con animo sempre sereno, dispensava un sorriso a tutti. Fedele alle Costituzioni, alla preghiera e alla mensa comune, sceglieva l’ultimo posto a tavola e aveva piacere di servire i fratelli. Aveva una memoria straordinaria per ricordare i compleanni e gli onomastici dei confratelli assieme alle belle tradizioni di Congregazione che diventavano occasioni per far festa. Qualche volta si scherzava benignamente e con simpatia, sempre, sul suo forte legame appunto con la tradizione, sia in oratorio che in refettorio, che non ammetteva facilmente cambiamenti o innovazioni. Uno scherzo che si ripeteva frequentemente ed era diventato quasi un proverbio era quello riferito ad una etichetta trovata una volta a tavola, incollata su una bottiglia di vino: “VINO VERO PER LE FESTE”. Probabilmente era scritto invece, o almeno il fratello aveva voluto scrivere “Vino nero per le feste”, ma tutti ridevano fingendo di sostenere che nei giorni feriali il vino che si beveva nel quartino a tavola era falso; e che solo nelle feste era vero.
A parte gli scherzi, tutta la sua vita è stata lavoro e preghiera, un inno di lode a di amore al Signore. Morì a Possagno il 7 ottobre 2002. Riposa nel cimitero di Possagno.
8.7 P. Giuseppe Simioni
Giuseppe Simioni, nato a Ormelle (Treviso) l’11 ottobre 1919 da genitori profondamente cristiani che hanno dato alla Chiesa alcuni figli come sacerdoti e religiosi. Passò da Possagno a Venezia per continuare i suoi studi e la sua formazione religiosa il 21 luglio 1936. Vestì l’abito dell’Istituto domenica 11 ottobre 1936 a Venezia in Sant’Agnese, alla presenza della scolaresca. Con lui c’erano due compagni, provenienti dal probandato di Possagno, che però ben presto lasciarono l’abito e l’Istituto. Dopo compiuto il noviziato (1936-3), emise la sua professione religiosa temporanea nella nostra Congregazione, che egli da sempre ha amato come una madre, il 14 ottobre 1937. Emise i voti perpetui il primo novembre 1940. Con fedeltà e gioia si è dedicato all’educazione della gioventù fin da quando era studente.
Il professo Giuseppe ricevette la prima tonsura ecclesiastica il 20 dicembre 1941 nella basilica di S, Marco, dal cardinal patriarca Giovanni Adeodato Piazza; i primi due ordini minori il 28 giugno 1942; i secondi, esorcistato e accolitato, il 10 aprile 1943 nella basilica del Redentore a Venezia, da monsignor Giovanni Jeremich, vescovo ausiliare. Ricevette poi gli ordini maggiori: il suddiaconato il 3 giugno 1943 nella solennità dell’Ascensione del Signore, dal patriarca Adeodato Piazza, nella basilica della Madonna della Salute; il sacro diaconato il 18 dicembre 1943, nelle sacre tempora; e fu ordinato prete il 21 maggio 1944.
Si distinse tra i confratelli per la sua pietà, l’amore paterno e la dedizione ai giovani e alle famiglie, la serietà e la competenza nell’insegnamento, la semplicità umile e discreta con cui costruiva la vita fraterna in comunità.
La sua vita religiosa si è svolta successivamente come neo-ordinato e come formatore nel probandato di Possagno (1944-48); poi a Possagno nel collegio Canova (1948-51); a Venezia dal 1951 al 1967; a Possagno nel collegio Canova (1968-70); a Venezia di nuovo (1970-71), a Levico come maestro dei novizi, brevemente, ad hoc (1972-73); fu per un paio d’anni rettore al collegio Canova, con qualche difficoltà, perché non era il suo genere (1973-75); un anno nel probandato di Possagno (1975-77), fino alla chiusura di questa casa; poi, all’inizio del 1978, partì da Genova in nave per il Brasile. Qui, nella Terra di Santa Cruz, operò sempre nel Paraná, prima a Realeza dal 1978 al 1982; fu a Castro (1982-88); poi lungamente nella piccola e isolata parrocchia di Planalto dal 1989 al 1996; di nuovo a Realeza dal 1996 al 2001; forse ritornò brevemente in Italia nel 2001 e vi rimase brevemente, ma nn se ne trova traccia; poi comunque, arrivato, per causa di una grave malattia, alla fine del suo cammino di esodo, volle ritornare e morire in missione, in Brasile, offrendo la sua vita per le vocazioni e la perseveranza vocazionale dei confratelli.
Ha servito la Chiesa e la Congregazione senza mai lamentarsi e in piena conformità alla volontà del Signore nel lavoro quotidiano di educatore Cavanis nella scuola, come professore di lettere; ma anche come formatore di probandi, Maestro dei Novizi, Rettore di comunità, Consigliere generale (1967-73), durante il 2° mandato di P. Orfeo Mason, missionario in Brasile, povero con i poveri.
Era un maestro credibile di vita spirituale, direttore spirituale dei chierici a Venezia per lunghi anni, orientatore di coscienze illuminato e obbediente allo Spirito Santo. Aveva una spiritualità fondata sulla Parola di Dio, su maestri di spiritualità sicuri, fortemente liturgica e ecclesiale. Godeva di una particolare simpatia, che trasmetteva agli altri, per la piccola via di S. Teresa del Bambin Gesù. Attraverso la direzione spirituale era veramente un formatore. Celebrava la santa eucaristia “che pareva un angelo”.
Lavorò per qualche tempio nell’archivio storico della Congregazione a Venezia (AICV), tra l’altro organizzando e riordinando il fondo Casara, che porta ancora qua e là la sua fine calligrafia.
Fu spesso membro di commissioni sulla Vita religiosa nei capitoli generali, in particolare, nel Capitolo generale straordinario speciale del 1969-70 fu membro di quest’ultima commissione e di quella speciale (V commissione) su “Fisionomia e Funzione della Congregazione, e nella commissione per la preparazione dello schema delle nuove costituzioni e norme.
Con profonda umiltà scriveva: “Ringrazio il Signore per vedere chiaro, ora, tutto il mio vuoto, tutto il mio niente. Ringrazio il Signore che si degna di far passare per il mio cuore e le mie labbra quello che può dare ad altri tanta forza. Metto nelle mani del Signore il mio povero spirito. Lo faccio di cuore e con gioia. Per me chiedo solo perdono e misericordia”. P. Simioni in Brasile visse gli ultimi suoi tempi a Castro e morì nell’ospedale Bom Jesus di Ponta Grossa nel Paraná (Brasile) il 4 marzo 2003 all’età di 83 anni. I funerali si sono svolti il giorno successivo nella parrocchia di São Judas Tadeu a Castro ed è sepolto nella tomba comunitaria dell’Istituto Cavanis nel cimitero comunale di Castro, Paraná.
Riposa in pace, P. Giuseppe, in Castro, dove in abbondanza hai seminato il Vangelo del servizio a esempio di Gesù e della Madonna che tanto hai amato.
8.8 P. Federico Grigolo
Nacque a Prozzolo, frazione di Camponogara (Padova) il 7 giugno 1915. Entrò come aspirante nel probandato di Possagno il primo settembre 1926. Dopo alcuni anni di formazione preliminare, passò alla casa-madre di Venezia il 12 settembre 1931. Fece la sua vestizione religiosa a Venezia il 30 ottobre 1932, visse l’esperienza del noviziato nell’anno scolastico 1932-33 ed emise la prima professione religiosa triennale nella Congregazione delle Scuole di Carità il 16 ottobre 1934. Compì gli studi liceali e riuscì bene nell’esame di maturità classica, nel liceo Cavanis di Venezia, assieme al P. Francesco Rizzardo e ad alcuni giovani laici; emise i voti perpetui 24 ottobre 1937; aveva ricevuto la tonsura ecclesiastica il 4 luglio 1937 nella basilica della Salute, dal patriarca Adeodato Piazza; ricevette l’ostiariato e il lettorato il 9 settembre 1938; l’esorcistato e l’accolitato, nella cappella del seminario patriarcale, nel sabato santo 8 aprile 1939; ricevette poi l’ordine maggiore del suddiaconato il 23 settembre 1939 dal vescovo ausiliare (Giovanni Jeremich) nell’oratorio domestico, e quello del diaconato il 9 marzo 1940 nella chiesa del Redentore alla Giudecca; giunse finalmente all’ordinazione presbiterale il 30 giugno 1940, nella basilica della Salute.
Laureato in Lettere e Filosofia presso l’Università di Padova nel 1944 ha insegnato per oltre cinquanta anni (58 per l’esattezza) Latino e Greco nei nostri licei di Venezia e Possagno (TV), dove esercitò il suo ministero sacerdotale per trenta-tre anni tutti spesi nell’insegnamento e nel servizio pastorale, donando la Parola e il perdono del Padre ai fedeli del Tempio Canoviano.
Svolse a Venezia la sua formazione come seminarista teologo, era però stato scelto per andare, ancora chierico, a S. Stefano di Camastra, in appoggio al primo gruppetto di religiosi. Per qualche motivo, fu però sostituito da P. Antonio Turetta. Completò quindi fino all’ordinazione presbiterale la sua formazione a Venezia.
Da prete, lo troviamo a Possagno nel 1940-41; non sappiamo dove si trovasse nel 1941-42; fu poi a Possagno, come insegnante di lettere, dal 1943 al 1946, durante il duro tempo di guerra, conoscendo anche la breve ma impressionante esperienza di prigionia; lo troviamo a Porcari, sempre come professore di lettere, dal 1946 a 1949; a Venezia con lo stesso impegno dal 1949 al 1953, essendo per un anno vicario della comunità (1951-52) e per un anno prefetto delle scuole (1952-53). Passò quindi a Possagno dal 1953 al 1955; e poi ritornò a Venezia, nel gioco dell’alternanza tra P. Antonio Cristelli e P. Federico, che erano i due migliori professori di Latino e Greco in quegli anni nei licei Cavanis. P. Cristelli aveva finito il suo mandato sessennale di preposito generale e ora ritornava a Possagno, quindi P. Grigolo si spostava di nuovo a Venezia, appunto come professore di Greco e Latino, e a Venezia fu rettore dal 1955 al 1961, e nello stesso tempo fu primo consigliere e vicario generale durante il mandato del P. Gioachino Tomasi come preposito (1955-61). Ritornò poi a Possagno dal 1961 fino alla morte, che lo colse nel 2003.
Da vero Cavanis, educatore e insegnante amò la scuola, donando tutto di sé per educare generazioni di giovani ad ottenere le più belle conquiste della vita con un serio impegno e costante sacrificio. Ultimamente aveva accettato di trasmettere la sua esperienza di educatore Cavanis ai professori laici del Collegio Canova, scrivendo così il suo testamento spirituale, lasciando loro in eredità un grande entusiasmo per la missione educativa e una vera passione per la scuola. Fedelissimo nell’osservanza delle Regole dell’Istituto e fedele servitore della Chiesa ha chiuso la sua vita terrena il giorno dell’ottava di Pasqua, il 27 aprile 2003, realizzando la parola delle Scritture: “Coloro che insegnano a molti la giustizia, brilleranno come stelle del cielo”.
In occasione del cinquantesimo anno di Sacerdozio, P. Federico ebbe a dire: “Gli studenti dicono che sono un maestro severo ed esigente e ho dato tutta la mia passione. Ma ho cercato di vivere quanto dice la nostra regola di essere prima Padri e poi maestri”. E come un padre fa con i propri figli ha cercato di trasmettere, attraverso il carisma Cavanis, i valori più alti del cristiano, della persona umana e della società.
È vero che aveva la tendenza a essere severo ed esigente, sia nella scuola sia nella comunità, qui soprattutto quando fu rettore, come per esempio a Venezia dal 1955 al 1961.
Nella scuola era celebre, oltre che per l’ottima qualità e serietà del suo insegnamento, ancor più nel greco che nel latino, anche per quello che chiamavamo “lo sguardo di sfinge”: soprattutto durante i compiti in classe, riusciva a guardare tutta la classe in modo ampio, in modo tale che ciascuno di noi aveva l’impressione di essere controllato personalmente e di non poter sgarrare. Era del resto molto giusto e corretto, nella correzione dei compiti e nella valutazione del lavoro. In comunità, con l’età avanzata poi divenne sempre più amabile, disponibile, servizievole. Lo ricordo a Possagno nei suoi ultimi anni quando, già in età molto avanzata, finché poté, serviva a tavola i confratelli, come se fosse l’ultimo arrivato. Fin quando gli fu fisicamente possibile, a Possagno svolgeva anche l’attività pastorale domenicale, celebrando l’eucaristia nella “Cappella degli Alpini” sul monte Tomba, alle ultime pendici orientali del massiccio del Monte Grappa, e sopra il corso del Piave.
I suoi funerali furono celebrati il 30 aprile nel Tempio di Possagno, e le sue spoglie giacciono nel cimitero locale assieme a quelle dei confratelli che lo hanno preceduto e seguito.
8.9 P. Guerrino Molon
Nato a Conselve (Padova) il 30 gennaio 1916 da una famiglia profondamente cristiana che ha dato alla Chiesa due figli sacerdoti: P. Guerrino e un prete diocesano di Padova. Entrò nel probandato di Possagno il 27 agosto 1925: passò poi a Venezia nel settembre 1931, dove vestì l’abito dell’Istituto il 15 ottobre 1933 e compì il suo noviziato nell’anno scolastico 1933-1934. Emise la prima professione religiosa temporanea nella Congregazione delle Scuole di Carità il 16 ottobre 1934, e quelli perpetui il 16 (o 21?) ottobre 1937. Svolse i suoi studi teologici a Venezia dal 1938 al 1941. Fu tonsurato il 9 settembre 1938, ricevette i primi due ordini minori dell’ostiariato e del lettorato l’8 aprile 1939, di sabato santo, nella cappella del seminario patriarcale di Venezia, e i secondi due ordini dell’esorcistato e accolitato nella chiesa di S. Francesco della Vigna a Venezia il 3 luglio 1939. Ricevette l’ordine maggiore del suddiaconato il 30 giugno 1940 alla chiesa del Redentore, alla Giudecca; l’ordine del diaconato il 21 dicembre 1940. Fu poi consacrato prete il 29 marzo 1941 a Venezia, assieme al P. Andrea Galbussera, nella chiesa del Redentore, da monsignor Giovanni Jeremich, vescovo ausiliare. Furono ordinati in anticipo per due motivi: primo per le circostanze belliche, a evitare che fossero richiamati sotto le armi; e “secondo, per riscaldare l’ambiente e suscitare qualche vocazione al nostro Istituto”. Si cominciava a notare il forte calo nel numero dei seminaristi; e si sperava quello che accadde, e cioè il forte aumento dopo la guerra.
Si laureò in lettere e in lingue presso l’Università di Padova. Lo troviamo come formatore nel probandato di Possagno nel 1941-42, appena ordinato, al collegio Canova di Possagno nell’anno 1942-43; nel probandato di Vicopelago dal 1943 al 1946; a Venezia dal 1946 al 1949; ancora formatore al probandato di Levico dal 1949 al 1955, come pro-rettore; a Roma Casilina nel 1955-56; nel collegio di Possagno dal 1957 al 1961; a Porcari dal 1961 al 1963; poi ancora nel probandato di Vicopelago, riaperto per qualche anno, come pro-rettore, dal 1965 al 1967; dal 1967 al 1970 fu rettore della casa di Chioggia, in fine, come ultima residenza e ultimo impegno in Italia, dal 1970 al 1972, fu pro-rettore della casa di Solaro, fino alla sua chiusura nel settembre 1972.
Partì allora come missionario per il Brasile arrivando in quel grande paese il 19 dicembre 1972. In Brasile lavorò come vice-parroco a Ortigueira nei primi anni (1973-82); a Realeza nel piccolo seminario locale (dal 1982 ad almeno il 1987, ma probabilmente fino al 1987), poi come formatore e famoso insegnante di Latino e di altre Lettere nel liceo del seminario minore di Castro (1991-2003).
Il necrologio di Congregazione lo presenta così: “Religioso e sacerdote fedele all’amore del Signore che lo aveva scelto per la vita sacerdotale e religiosa ancora molto piccolo, in giovanissima età. Fedele alla vocazione ricevuta come un dono e una sorpresa, fedele di una fedeltà semplice e forte allo stesso tempo. Fedele alla Congregazione che ha amato come si ama una famiglia, con un sentimento trasparente di appartenenza totale. Fedele al carisma dell’educazione proprio della Congregazione e a tutti gli impegni inerenti. Fedele alla Regola, che osservava di tutto cuore, con sincerità e obbedienza, perché espressione della Volontà del Signore. Fedele alla celebrazione devota e quotidiana dell’Eucaristia, all’amicizia con Gesù, alla visita al Santissimo Sacramento, fedele alla filiale devozione mariana propria della Congregazione e alla cura della Chiesa. Fedele alla celebrazione quotidiana della Liturgia delle ore superando la stanchezza e la fatica per mezzo di una buona organizzazione del suo tempo: il tempo migliore doveva essere sempre del Signore e sentiva come suo dovere di pregare per il popolo e per tutta la Chiesa. Con tutti i confratelli con cui ha lavorato, è stato collaboratore fedele e preciso nel servizio al popolo di Dio, nel lavoro manuale, nell’insegnamento ai seminaristi (anche l’insegnamento del Latino ai seminaristi a Castro), nella dedizione incondizionata al buon esempio e alla regolarità. Beati i puri di cuore perché vedranno Dio. P. Guerrino è arrivato ora a vedere il Signore, cercato e amato con purezza di cuore in questa vita terrena.”
Molto di più si potrebbe dire della sua limpidezza, della sua profonda pietà, della confessione frequente, della messa e del breviario celebrati con straordinaria cura e puntualità, del suo amore alla Congregazione e ai giovani, specialmente ai seminaristi.
In Brasile, passati alcuni anni, aveva preso la decisione, per principio e come scelta personale di testimonianza, di portare sempre la tonaca e la fascia, contro l’abitudine locale invalsa dopo il concilio Vaticano II.
A suo proposito, ecco un piccolo aneddoto: quando si domandava di lui: “Dov’è P. Guerrino?” oppure: “Cosa fa o come sta P. Guerrino?”, si udiva con qualche giustificato stupore la risposta dei più vecchi: “P. Guerrino fa le particole”. Questa frase merita una spiegazione. Probabilmente nel Probandato di Levico o di Vicopelago, dove si era prodigato lungamente come pro-rettore o direttore, era stato il primo padre Cavanis ad acquistare una di quelle macchine elettriche per fare, appunto, le ostie e le particole per la messa. Le produceva lui stesso con gioia e con fierezza. Da questo provenne questa frase, quasi un proverbio.
È ritornato alla casa del Padre morendo a Ponta Grossa (Paraná–Brasile) il 1° novembre 2003, nella solennità di tutti i santi. Fu tumulato nella tomba comunitaria dei Cavanis nel cimitero di Castro.
Così lo ricorda P. Diego Spadotto, che tanti anni aveva passato al suo fianco in Brasile e in particolare a Ortigueira: “Ricevo oggi, 2 novembre, “Commemorazione di tutti i fedeli defunti”, la notizia della morte del P. Guerrino Molon. Caro P. Guerrino il Signore ti ha fatto ritornare alla sua Casa proprio in questo giorno, e penso che ti abbia accolto con questo invito evangelico: vieni servo buono e fedele, entra nella gioia del Padre tuo! Parole che ben si adattano a te e a tutti quelli che chiamiamo “fedeli” defunti! Sono parole belle e semplici che ritrattano in forma chiara la tua vita cristiana, religiosa e sacerdotale: servo buono e fedele nella quotidianità di una vita normale e umile. Sei stato fedele all’amore del Signore che ti aveva scelto per la vita sacerdotale e religiosa ancora molto piccolo, in giovanissima età. Quando sei entrato in seminario, lo dicevi con un sorriso soddisfatto e ingenuo, “ero realmente un bambino”. Fedele alla vocazione ricevuta come un dono e una sorpresa, fedele di una fedeltà semplice e forte allo stesso tempo. Fedele alla Congregazione che hai amato come si ama una famiglia con un sentimento trasparente di appartenenza totale. Fedele al carisma dell’educazione proprio della Congregazione e a tutti gli impegni inerenti. Fedele alla Regola, come dicevi tu, che osservavi di tutto cuore, con sincerità e obbedienza, perché espressione della Volontà del Signore. Abbiamo vissuto insieme tanti anni. Abbiamo fatto comunità, durante i cinque anni passati nella parrocchia San Sebastiano di Ortigueira, condividendo, con entusiasmo giovanile, la missione di evangelizzare, di costruire una comunità cristiana, di incarnare il nostro essere Cavanis nell’educazione della gioventù. Ricordo con che amore seguivi i passi sofferti delle numerosissime comunità dell’ “interior” della parrocchia, perché io per dovere, dovevo assentarmi ogni settimana dalla parrocchia per l’insegnamento che avevo nell’Istituto di Filosofia e Teologia inter-diocesano e inter-congregazionale di Ponta Grossa. Tu hai fatto, con dedizione e umiltà, “formazione cristiana del popolo di Dio”. La parrocchia all’epoca aveva tre mila chilometri quadrati di estensione e cinquantasette mila abitanti. Ricordo le tue innumerevoli ore passate in confessionale nella chiesa parrocchiale e nelle cappelle, e la precisione con cui portavi avanti tutta la documentazione e la registrazione della vita della giovane parrocchia di Ortigueira. Sia tu che io non avevamo nessuna precedente esperienza parrocchiale. Ricordo la tua vita esemplare come religioso e sacerdote, nella nostra bella comunità di preghiera e di impegno missionario con le Suore della Divina Volontà. Ti chiamavamo il “nonno”. Lo eri veramente con il tuo modo di fare, con il tuo lavoro in casa, con il tuo consiglio, con le tue esigenze di puntualità, con i tuoi brontolamenti, con le tue attenzioni fraterne, per me, per le Suore, Elisa, Ezia, Fioria, Domitilla, Caterina, Dina, Erotides… per tutta la buona gente di Ortigueira. Poi l’obbedienza ci ha separati di comunità, pur rimanendo sempre insieme in Brasile. Anche se in servizi differenti ho continuato a portare con me il tuo esempio di fedeltà. Fedele alla celebrazione devota e quotidiana dell’Eucaristia, all’amicizia con Gesù, alla visita al Santissimo Sacramento e alla cura della Chiesa, la nuova parrocchiale di Ortigueira. In questi ultimi anni, fino a quando hai potuto, hai celebrato l’Eucaristia e quel gruppetto di persone che partecipavano ogni giorno si edificavano con la devozione e la serenità con cui celebravi. Fedele alla celebrazione quotidiana della Liturgia delle ore superando la stanchezza e la fatica per mezzo di una buona organizzazione del tuo tempo: il tempo migliore doveva essere sempre del Signore e del tuo dovere di pregare per il popolo e per tutta la Chiesa. Con tutti i confratelli con cui hai lavorato sei sempre stato collaboratore fedele e preciso nel servizio al popolo di Dio, nel lavoro manuale, nell’insegnamento ai seminaristi, nella dedizione incondizionata al buon esempio e alla regolarità.
Negli ultimi tuoi sette, otto anni, siamo stati insieme in una forma particolare e più intensa, fin dal giorno in cui con molta semplicità e umiltà mi hai chiesto se potevo essere tuo confessore e celebrare con te il sacramento della Riconciliazione, il più spesso possibile. Sei sempre stato fedele a questa celebrazione che volevi e cercavi con frequenza, moltissime volte “obbligandomi” a combinare qualche viaggio fuori programma a Castro perché non volevi che passasse un mese dall’ultima confessione fatta. In queste celebrazioni ho avuto esperienza di quant’è vera la Parola del Signore: Ti ringrazio, Padre, perché ai rivelato queste cose ai semplici…Semplice e filiale la tua grande devozione alla Madonna, semplice e fiduciosa la tua vita di religioso veramente povero, casto e obbediente. La tua cameretta povera e spoglia, l’hai voluta come ti avevano insegnato i tuoi formatori, quando sei entrato in Congregazione, come l’avevano voluta i nostri Santi Fondatori che della povertà hanno fatto il baluardo e la difesa della Congregazione. E così raccontandomi queste cose, mi richiamavi, con discrezione, alle mie responsabilità in relazione a tutta la provincia.
Quando sei ritornato in Brasile, dopo una breve visita in Italia, alcuni anni fa, ricordo che insieme abbiamo commentato quanto segue: il vero titolo di cittadinanza per un missionario non è il certificato di nascita in un determinato paese ma il certificato di morte in quel paese dove ha dato testimonianza con una vita donata e immolata per il popolo e per la Chiesa. Avevi deciso di non ritornare più in Italia. Ora, caro P. Guerrino, hai anche questo certificato, hai dato la vita per la Chiesa del Brasile. Sei in buona compagnia, sei anche tu cittadino brasiliano insieme ad altri confratelli che hanno dato, come te, la loro vita per i bambini e i giovani brasiliani: P. Giuseppe Pagnacco, P. Marcello Quilici, P. Livio Donati, P. Giuseppe Simioni. Voi cinque, cari confratelli, il vostro esempio di vita religiosa Cavanis, il vostro sacerdozio costituite un riferimento sicuro per la giovane provincia “Antonio e Marco Cavanis” del Brasile per tutto ciò che riguarda la spiritualità, il carisma e la missione della Congregazione.
Caro P. Guerrino, oggi, giorno della “Commemorazione di tutti i fedeli defunti”, concelebrando l’Eucaristia con i confratelli della comunità ma anche con te e per te, che tanto hai onorato il Sacerdozio di Cristo, dopo la lettura del Vangelo delle beatitudini, mi sono chiesto quale delle beatitudini più si adattasse a te e alla tua vita. Per quello che ti ho conosciuto e per quello che ho da te imparato, non ho avuto la minima esitazione nella scelta: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”. Caro P. Guerrino, credo veramente che ora sei arrivato a vedere il Signore, cercato e amato con purezza di cuore in questa vita terrena..”
8.10 P. Alessandro Valeriani
P. Alessandro Valeriani nacque a Zurigo, in Svizzera, il 4 dicembre 1909, da genitori italiani emigranti, provenienti da Sernaglia della Battaglia (TV), dove vivevano ancora un fratello e i nipoti. Era entrato nell’Istituto Cavanis a diciannove anni, arrivando a Possagno il 16 luglio 1927 sulla sbarra della bicicletta del fratello. A Venezia vestì l’abito religioso Cavanis il 20 ottobre 1929 e iniziò così il noviziato (1929-30), con i quattro confratelli Guido Cognolato, Luigi D’Andrea, Luigi Candiago, Antonio Turetta, che furono tutti perseveranti fino alla fine; emise la professione temporanea il 10 febbraio 1930 e professò i voti religiosi perpetui a Venezia l’11 marzo 1934,
Ricevette la tonsura a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; l’ostiariato e il lettorato il 2 febbraio 1936; l’esorcistato e l’accolitato il sabato sitientes, sempre a Venezia, il 28 marzo 1936; ancora a Venezia, il 19 settembre 1936 ricevette l’ordine maggiore del suddiaconato; fu consacrato diacono in S. Marco il 13 marzo 1937. Nello stesso anno, superati gli studi letterari e poi teologici nello Studio teologico dell’Istituto a Venezia, fu consacrato prete a Venezia, nella basilica della Salute, il 4 luglio 1937 per l’imposizione delle mani del Patriarca Card. Adeodato Piazza.
Laureatosi in lettere all’Università di Pisa, esercitò per tutta la vita con passione ed efficacia l’apostolato tipico dell’Istituto, l’educazione dei giovani nella scuola, come professore di lettere nelle scuole medie inferiori e superiori dell’Istituto Cavanis a Roma (1957-62), Venezia (1941-46, 1955-57 e infine 1974-2004 ), soprattutto e ripetutamente a Porcari (1940-41, 1953-55, 1962-64, 1967-72) e Capezzano Pianore (1972-4) e ancora a Possagno-Canova (1964-67), come pure fu formatore nei seminario minore di Possagno (1937-40 e 1946-49). Mingherlino e di bassa statura, debole di salute, avendo sofferto tra l’altro di paralisi infantile, aveva però un carattere forte e deciso, sia nella sua vita personale, sia nel campo dell’educazione. Devotissimo alla Madonna, metteva però il centro della sua fede e della sua devozione nel Signore Gesù, che adorava nella santissima Eucaristia in lunghi periodi di preghiera. Esatto e puntuale nell’osservanza delle Costituzioni e delle pratiche di pietà comunitarie, era come un orologio svizzero (e d’altra parte era nato a Zurigo!) e serviva di esempio a tutti noi di comunità.
Appassionato dei libri e di cultura, fu nominato responsabile della biblioteca dell’Istituto Cavanis di Venezia, e del suo Archivio Storico. Si fece apprezzare anche dall’Associazione delle Biblioteche italiane. Quando si ritirò dall’insegnamento, divise le sue giornate, fino all’ultimo, tra la preghiera e la cura della biblioteca. Approdò ovviamente tardi all’informatica; ma, per amore dei libri, imparò a operare il computer quando aveva già un’ottantina d’anni e passò a schedare, con un programma specifico, i libri della biblioteca dell’Istituto Cavanis, riuscendo a compierne la schedatura di più di due terzi, ossia circa 40.000 opere; e di moltissimi anche la rilegatura. Per dire del suo carattere e del suo interesse per la cultura, basta ricordare un episodio: il 5 febbraio 2003, in un pomeriggio particolarmente freddo e nebbioso, mentre sulla portantina usciva dalla porta dell’Istituto e si avviava al motoscafo per essere ricoverato all’Ospedale civile per problemi al cuore e ai bronchi, raccomandava ancora ai confratelli di avere particolare cura delle “cinquecentine” conservate nella biblioteca e di affrettarne il restauro. Fu la sua ultima frase pronunciata nell’Istituto.
La malattia si aggravò dopo pochi giorni, proprio quando lo aspettavamo di ritorno a casa, soprattutto per la stagione molto fredda e umida, ma anche per l’età molto avanzata, che è “ipsa morbus”. Il 13 febbraio 2004 P. Alessandro si spense serenamente nell’Ospedale Civile, tra le braccia del suo rettore, pregando, fino a dieci minuti prima della morte, ancora una volta, il suo Signore, per il quale e con il quale era vissuto.
In una lettera che P. Alessandro scrisse al Preposito il 16 febbraio 2001 diceva testualmente “….di qui la mia profonda riconoscenza ai nostri Santi Fondatori, all’Istituto, ai Confratelli, di cui alcuni sono morti, tutti tramiti di quella Divina
Provvidenza che non finirò mai di benedire, lodare e ringraziare meglio assieme ai nostri Santi del Paradiso…”. P. Alessandro è andato ad aggiungersi alla schiera di quei Padri Cavanis che “ …hanno insegnato a molti la giustizia“ e che brillano “come stelle per sempre!” Forte e costante servitore del suo Signore e della gioventù che l’Istituto gli affidava, ebbe sempre una visione chiara della meta finale e del porto sicuro al quale si dirigeva.
Le esequie ebbero luogo nella Chiesa di S. Agnese il giorno 16 febbraio 2004 e il suo corpo è stato tumulato nel cimitero di S. Michele in Venezia, nella cappella mortuaria dell’Istituto nella chiesa di S. Cristoforo, a S. Michele.
8.11 P. Angelo Zaniolo
Angelo nacque il 16 agosto 1928 a Onara, in diocesi e provincia di Padova; ricevette in famiglia una buona educazione cristiana e manifestò ben presto i germi di una vocazione alla vita religiosa e sacerdotale. A tredici anni, nell’estate 1941, più esattamente l’8 agosto, entrò nel nostro seminario minore di Possagno (TV). Vestì l’abito Cavanis il 21 novembre 1946, compì l’anno del noviziato in Casa del Sacro Cuore nel 1946-47 ed emise la professione religiosa temporanea il 29 ottobre 1947. Frequentò a Possagno il liceo, poi a Venezia nella Casa Madre della Congregazione il corso di Teologia. Vi emise i voti perpetui il 28 ottobre 1951.
Ricevette la prima tonsura ecclesiastica nella cripta di S. Marco a Venezia, dal Patriarca Carlo Agostini il 23 dicembre 1950; il 29 giugno 1952 l’ostiariato e il lettorato a Venezia, nell’antica ex-cattedrale di San Pietro di Castello, dato che la data corrispondeva alla solennità del santo apostolo; il 21 giugno 1953 ricevette gli ordini minori dell’Esorcistato e Accolitato nella basilica della Salute. Nella basilica di S. Marco ricevette invece gli ordini maggiori: il 19 dicembre 1953 il suddiaconato; il 3 aprile 1954 il diaconato; e il 27 giugno 1954 il presbiterato dalle mani del cardinal patriarca Angelo Giuseppe Roncalli.
Conseguita la laurea in Lettere e Filosofia, si dedicò totalmente all’educazione della gioventù nel ministero della scuola in diversi istituti ricoprendo anche la carica di rettore nelle nostre comunità di Chioggia (1964-67) e Porcari, dal 1967 al 1973.
In dettaglio, Angelo Zaniolo aveva senza dubbio passato a Venezia gli anni dei suoi studi teologici, verosimilmente dal 1950 al 1954; era appartenuto alla comunità del collegio Canova dal 1954 (1953?) al 1958; a quella di Venezia dal 1958 al 1961; era stato vicario nel seminario minore di Fietta del Grappa un solo anno, il 1961-62; era stato assegnato a Roma al Tata Giovanni nel 1962-63; alla comunità di Venezia nel 1963-64. In seguito era stato nominato rettore della comunità di Chioggia dal 1964 al 1967, poi rettore di Porcari dal 1967 al 1973.
Quando la Congregazione si aprì agli impegni missionari, si offrì generosamente per continuare nell’America Latina il suo apostolato di sacerdote ed educatore. La sua domanda fu accolta dai superiori nel 1974, ed egli, assieme a Fra Aldo Menghi, iniziò a prepararsi partecipando a un lungo corso C.E.I.A.L. di preparazione missionaria per l’America Latin, con materie teologiche, liturgiche, linguistiche, socio-culturali presso il Seminario per l’America Latina di Verona, dal 16 ottobre al 21 dicembre 1973. I due, P. Zaniolo e fratel Aldo Menghi, furono gli unici Cavanis che si prepararono alla missione in Brasile (o in altri paesi) con un corso regolare. Pochi altri si prepararono per loro conto. Partì per il Brasile in nave, con la motonave Cristoforo Colombo, il 16 febbraio 1974 da Genova.
Nei primi mesi del 1974 cominciò a far parte della Delegazione Cavanis del Brasile. Ricoprì varie volte la carica di parroco nel Paraná, a Pérola d’Oeste (1974-1982; essendo lì primo parroco Cavanis di questa parrocchia, avendo come compagno in un primo periodo l’autore di questo libro), a Realeza e a Ponta Grossa (1983-86): sempre attivo nella formazione delle comunità cristiane e nella preparazione e amministrazione dei sacramenti; per primo gettò le basi per l’apertura di una casa di accoglienza ed educazione dei minori in Ponta Grossa-PR, nella parrocchia di Nossa Senhora de Fatima a Villa Cipa; opera che poi fu sviluppata formalmente da P. Marcello Quilici e in seguito da altri religiosi Cavanis. Nel 1986-87 lo troviamo brevemente a Belo Horizonte. Nel periodo 1991-92 è a Castro.
Nel 1992 si rese disponibile per aiutare i confratelli della Regione Ecuador-Colombia, partì il 13 ottobre 1992 e venne assegnato alla scuola Borja-Cavanis di Quito, dove per alcuni anni (1996-99) fu di grande aiuto come educatore e responsabile diligente e intelligente di quel grande istituto scolastico. Diminuita la salute a causa di gravi problemi cardiaci, non ebbe giovamento da una operazione chirurgica e passò gli ultimi sei anni della sua vita (1999-2005) cieco e infermo, assistito amorevolmente dai confratelli e da infermiere professioniste.
Morì a Quito il 4 luglio 2005. La sua salma fu trasportata a Valle Hermoso e tumulata nella tomba di Congregazione a fianco della chiesa della Risurrezione nell’Oasis Cavanis Reina de la Paz.
8.12 P. Rito Luigi Cosmo
Nato a S. Lucia di Budoia, comune di Budoia (Pordenone) il 23 agosto 1925, Rito iniziò la sua formazione seminaristica nel Probandato di Possagno nel 1937. I superiori del seminario minore trovarono strano il suo nome di Rito (Rita al maschile) e lo chiamarono Luigi, che forse suo secondo nome; ricuperò il suo nome di battesimo più tardi, col cambiare del clima ecclesiale e religioso.
Compì il suo anno di Noviziato a Costasavina di Pergine (TN) per causa degli eventi bellici, nel 1943-44; l’anno seguente emise a Possagno la professione temporanea, il 7 ottobre 1944. La comunità di Venezia lo accolse per il corso di teologia in preparazione alla professione perpetua e all’ordinazione presbiterale. Il 6 gennaio 1948 emise la professione perpetua nella chiesa di S. Agnese a Venezia.
Si trovava come chierico aiutante a Porcari nel 1949-50, e ricevette allora a Lucca la prima tonsura ecclesiastica il 3 gennaio 1950; i primi due ordini minori, ostiariato e lettorato, li ricevette invece a Venezia l’8 aprile 1950; gli fu conferito il suddiaconato il 23 settembre 1950, in forma privata, dal Patriarca, il diaconato il 10 marzo 1951 in cripta di S. Marco dal patriarca Carlo Agostini; e finalmente il 1° luglio 1951 fu consacrato prete nella Basilica della Salute dal patriarca monsignor Carlo Agostini.
Conseguì la laurea in Lettere e Filosofia all’Università di Padova nel 1967 e nel 1973 l’abilitazione all’insegnamento di materie letterarie nella Scuola Media.
Fu instancabile nel dedicarsi ai ragazzi, con delicatezza e amore li educò nelle scienze umane e nella maturazione della fede; dotato di una sciolta e briosa vena poetica ebbe simpatia e amicizia da molte persone. Fu attivo in diverse comunità: a Levico (Trento; 1951-53 e 1965-67), Roma, all’Istituto Tata Giovanni, (1964-65); Asiago (1991-1994), a Possagno (1994-1996), Porcari (1996-03); ma soprattutto a Chioggia (1953-62, 1970-1990 e ancora nel 2004-06), dove fu uno dei fondatori del Centro Professionale e qui collaborò a formare una schiera di artigiani “per quattro generazioni” si disse; come pure a Solaro, casa che era la logica conseguenza e quasi una filiale di quella di Chioggia (1967-70 e 1967-70). Appesantito dall’età e dalla poca salute, passeggiava fra i ragazzi con il Rosario in mano e ripeteva: “Ora posso solo pregare per voi”. La morte lo colse serenamente a Chioggia in comunità, presenti i confratelli, il 26 marzo 2006.
II funerale fu celebrato nel Duomo di Chioggia, presenti confratelli, molti sacerdoti diocesani, autorità e tanti ex-allievi e allievi. La salma fu tumulata a S. Lucia di Budoia nella tomba di famiglia, a richiesta di questa.
8.13 P. Attilio Collotto
Nato a Susegana (provincia di Treviso, diocesi di Vittorio Veneto) il 2 luglio 1928, entrò a dieci anni nel seminario Cavanis di Possagno (Treviso); dotato di buona intelligenza e di viva memoria superò le difficoltà degli studi medi e ginnasiali nel probandato di Possagno (1938-1944), compì con successo l’anno del noviziato nel 1944-45, alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1946 emise i voti religiosi temporanei e il 30 ottobre 1949, nella solennità del Cristo Re, a Venezia i voti perpetui. Ricevette la tonsura ecclesiastica il 17 dicembre 1949, nella cripta della basilica di s. Marco; i primi due ordini minori nella cripta di S. Marco, dal Patriarca Carlo Agostini il 23 dicembre 1950; i secondi due ordini minori il primo luglio 1951; il suddiaconato dallo stesso nella cripta della basilica di S. Marco il 23 dicembre 1951; il diaconato, dallo stesso patriarca, il 29 marzo 1952; e ricevette l’ordinazione presbiterale il 7 giugno 1952, assieme al P. Giuseppe Pagnacco, con il quale aveva percorso tutto il cursus di studi e di preparazione, nella chiesa di Santa Agnese a Venezia dalle mani del confratello monsignor Giovanni Battista Piasentini.
Laureatosi brillantemente in lettere, immesso nell’attività pastorale, e più tardi avendo conseguito l’abilitazione per l’insegnamento delle lettere nei licei a Padova il 7 novembre 1961, fu educatore stimato e amato nelle comunità di Venezia, Porcari, Capezzano Pianore e in particolare a Possagno dove divenne tre volte rettore e per molti anni preside.
In dettaglio, lo troviamo a Venezia dal 1954 al 1961, a Porcari dal 1961 al 1963, ancora a Venezia dal 1964 almeno fino al 1967; infine a Possagno da rettore e preside, dove rimase fino alla morte, essendovi molto conosciuto e amato.
Nel complesso, fu preside e insegnante per oltre cinquant’anni, a Venezia, Porcari e per 35 anni al Collegio Canova di Possagno, testimone di coerenza e dedizione come Padre Cavanis per generazioni di giovani ed insegnanti, stimato per le straordinarie doti di umanità e cultura.
Lavorò con slancio per il Regno di Dio anche fuori dalla scuola: fu per esempio saggio consigliere per l’Istituto delle Figlie del Santo Nome di Dio; in proposito si ricorda anche la sua pubblicazione, Suore Cavanis. Un granello di Senape nel 1995. Fu collaboratore attivo nelle parrocchie, in particolare a Possagno, e in gruppi culturali e civili.
Le sue doti lo resero prezioso collaboratore nel Consiglio Generale, nei Capitoli Generali e nelle nostre Commissioni. Ricordiamo in questo campo particolarmente la sua attiva e vivace partecipazione nella commissione di nove membri per la riforma delle costituzioni del 1962-1965; e nella commissione IV “Governo e Amministrazione” del Capitolo generale straordinario speciale del 1969-70. Dal suo cuore e dalla sua penna inoltre venne in buona parte, nel seno dell’apposita commissione, il testo del “Progetto Educativo Cavanis- P.E.C.” (edizione 1990) in cui si fondono i valori educativi della tradizione con le esigenze di quel tempo.
Lascia uno splendido esempio di dedizione alla chiesa, alla Congregazione e ai giovani, accolti secondo il carisma trasmessoci dei Venerabili Padri Fondatori.
Ha mantenuto la serenità di spirito e 1’abbandono a Dio anche nel repentino abbandono della cattedra. Confortato dai Sacramenti e dalla presenza dei confratelli, ex-alunni e amici, dopo lunga sofferenza vissuta con dignità e nel conforto della fede, ha concluso la vita terrena il 12 settembre 2006, alle ore 5,40, a Possagno, dove riposa nella cappella del cimitero locale. I funerali si erano tenuti il giovedì 14 settembre, nel tempio canoviano.
Vale la pena di completare questa biografia, senza mescolare i due testi, con le parole brillanti di un foglietto pubblicato a ricordo del P. Attilio, nel quindicesimo anniversario della morte, il 12 settembre 2021, dagli amici, religiosi e laici, soprattutto laici, del collegio Canova Cavanis. Il foglietto comprende una bellissima fotografia del P. Attilio con in mano uno splendido cespo di chiodini.
Attilio Collotto era nato a Colfosco di Susegana il 2 luglio 1928: i suoi genitori erano mezzadri dei conti di Collalto. A soli 10 anni era già a Possagno dove frequentò nel Collegio Canova la quinta elementare. Ordinato sacerdote nel giugno del 1952, nella Chiesa di S. Agnese a Venezia, fu insegnante di storia dell’arte e religione a Venezia e, successivamente, a Levico (Trento), Porcari e Capezzano Pianore (Lucca). Arrivò a Possagno nel 1970, inserendosi nella locale comunità dei Padri Cavanis che dirigevano il Collegio Canova, facendo il Preside del Liceo Calasanzio, insegnandovi Religione, Italiano e Storia dell’Arte. Fu per tre mandati anche Rettore della comunità dei Padri. Estroverso, sempre pronto alla battuta, non disdegnava di frequentare il paese e la sua gente, collaborando nel frattempo con la parrocchia. Si può dire che padre Attilio ha fatto un tratto significativo della storia del Collegio Canova e ancora adesso i suoi ex allievi lo ricordano con grande commozione. Nel 2004 venne colpito da una malattia che lo costrinse a lasciare l’insegnamento. Spirò a Possagno, alle ore 5.40 de 12 settembre 2006, la vigilia del nuovo anno scolastico.
Nel quindicesimo della morte (12 settembre 2021)
PER LUI, QUELLI DELLA MATURITÀ VALEVANO PIÙ DEI CHIODINI
Diceva di chiamarsi Attilio Collotto, di venire dalla sinistra Piave, di essersi fatto prete per non fare per tutta la vita il fittavolo dei Conti di Collalto e qualche altra stramberia del genere.
Conosceva la Commedia di Dante come pochi.
Gli piaceva la buona tavola, che condivideva spesso con gli amici per le case e le malghe del paese (di Possagno). Gli piaceva il vino.
Purché fosse buono
Gli piaceva l’arte italiana del Quattrocento e del Cinquecento. Non sopportava le correnti cubiste e informali del Novecento, secolo che per lui aveva dato alla letteratura italiana qualche discreto poeta e poco altro…
Dopo San Rocco, con le prime piogge agostane, cominciava la stagione dei funghi che a Possagno continua fino a novembre inoltrato: la sua specialità erano i chiodini, che “rincurava” nei posti che sapeva solo lui, fosse anche sotto le cassie (=acacie) di Selmo Gustinét o nel praticello davanti al Liceo Cavanis.
Era frequente che entrasse in classe, a lezione, magari a metà mattinata, ancora con la veste talare e le scarpe sporche di terra e di bosco, e con una terrina dal cespo luminoso di chiodini, ai quali intesseva le lodi “come Petrarca faceva quando vedeva Laura”. Solo che (sono parole sue) “Petrarca non ha mai consumato io invece questi qui me li preparo, me li cucino e me li mangio tutti!”
Voleva bene ai chiodini e, in generale, ai frutti del bosco e dei campi come lo si vuole alle cose buone che sanno di casa e di amici. La sua passione terragna lo faceva emozionare davanti a un tiglio fiorito o a un faggio rosso d’autunno E non c’era sagra del paese a cui non partecipasse, sia come celebrante nelle chiesette dei colmelli (=frazioni del paese) sia come partecipante alla mensa abbondante di sapori e di canti e di festa e di risate gorgoglianti.
Aveva le mani di un boscaiolo, le braccia di un manovale.
Aveva l’orizzonte di un gabbiano veneziano e la testa di un poeta siciliano del Duecento.
Quando arrivava il solstizio d’estate, le lezioni terminavano e quelli di terza liceo (si diceva così allora l’ultimo anno del Classico) si preparavano alla Maturità: allora, solo allora, diceva di preferire i suoi ragazzi ai chiodini.
8.14 P. Aldino Antônio da Rosa
Nacque a Lajeado, nel Rio Grande do Sul, in terra gaúcha, nel 1954. Nel giugno 1974, quando P. Angelo Zaniolo (e con lui c’era anche chi scrive, ambedue da poco arrivati in Brasile), prese possesso della parrocchia di Pérola d’Oeste, Aldino era un giovane di una delle comunità – di Lageado appunto – dell’interno di questa parrocchia. Ricordo di averlo visto per la prima volta seduto con un libro in mano, all’ombra sotto la cappella (montata su palafitte, su un declivio) di questa comunità, nella prima visita di P. Angelo e mia a questa “linea” e ci corse incontro festoso. Conobbe così i padri Cavanis, e, sentendo la vocazione religiosa, dopo qualche mese chiese di entrare ed entrò, a 21 anni, nel seminario minore Santa Cruz di Castro – Paraná. Era arretrato negli studi, e compì a Castro la quinta elementare nel 1976, la scuola media e gli altri studi. Entrò in noviziato nel 1983 a Ponta Grossa, avendo come maestro P. Diego Spadotto, ed emise i primi voti nel gennaio 1984. Pur non avendo una grande formazione al momento di entrare in seminario e nella sua prima gioventù, aveva una bella capacità di parlare, particolarmente ai bambini, ai giovani e al popolo.
In seguito, rimanendo nello stesso seminario Cavanis di Ponta Grossa, nell’ala dello studentato, frequentò il corso di filosofia (tre anni, 1984-87) nell’Istituto Filosofico e Teologico Mater Ecclesiae della Diocesi di Ponta Grossa, che era inter-diocesano e inter-congregazionale, e insegnavano vari padri Cavanis. Nel frattempo (1980) l’Istituto Cavanis aveva aperto il suo seminario maggiore, per i teologi, in Belo Horizonte, nello Stato di Minas Gerais, e Aldino frequentò presso l’ISTA (Istituto S. Tommaso d’Aquino) il primo anno di teologia.
Aldino era afro-americano, di un colore veramente nero-ebano. Ne sentiva un grande complesso e una profonda sofferenza, anche perché in Brasile, con tutto ciò che si dice – falsamente – della mancanza di razzismo in Brasile, in realtà la situazione è ben differente. Riceveva tale sua condizione con sofferenza, nonostante in congregazione e nei nostri seminari fosse trattato con stima e affetto.
Anche per questo, i superiori pensarono di valorizzare questa sua caratteristica, e di inviarlo come missionario a Esmeraldas in Ecuador, dove una buona parte della popolazione è di neri, come è comune lungo la costa pacifica dei paesi andini. In realtà, per vari motivi e imprevisti, non appartenne mai alla casa di Esmeraldas. Purtroppo, e in modo alquanto strano, il complesso della sua negritudine lo portava a disprezzare gli altri neri o afro-americani, e a evitare il contatto con loro.
In Ecuador, dovette prima di tutto completare il suo corso di teologia (1987-89) a Quito. Celebrò lì la sua professione perpetua nel 1987, ricevette il diaconato a Esmeraldas nella chiesa parrocchiale di N.S. di Fátima a Las Palmas da monsignor Enrico Bartolucci, Vicario Apostolico di Esmeraldas il primo ottobre 1988; e, il primo luglio 1989, fu ordinato prete a Planalto, nel Paraná, paese dove nel frattempo la sua famiglia si era trasferita da Pérola d’Oeste, città vicina. Poco dopo l’ordinazione, ritornò nella regione Andina (1989-90), con l’incarico più tardi di collaborare con il P. João Cunha, direttore del seminario teologico Cavanis a Bogotá. Aveva tuttavia scarsissimo senso di adattamento ai costumi, alla lingua, alla cultura del paese ospite e, iscrittosi a un corso per formatori organizzato dalla conferenza dei religiosi, non lo frequentò, pur uscendo ogni giorno dal seminario per recarsi al centro. Dopo meno di un anno, dovette lasciare il paese, allontanatone dalla polizia, perché si era messo imprudentemente e senza comprensione della politica, contro la FARDC, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia. Ritornato in Brasile, fu a Realeza (1991-94), a Celso Ramos, a Ortigueira, a Castro, a Ponta Grossa come parroco della parrocchia Nossa Senhora de Fátima a Vila Cipa (2001- forse 2003?) e Pérola D’Oeste (2004-2006), fino alla morte avvenuta prematuramente.
Il 19 dicembre 2006, tornando da una celebrazione eucaristica, perse il controllo del veicolo e si rovesciò in una curva, tra Planalto e Pérola D’Oeste, subendo una grave lesione della colonna vertebrale. Dopo essere stato sottoposto a un’operazione chirurgica di emergenza che sembrava aver raggiunto buoni risultati, la situazione post-operatoria peggiorò e, sottoposto a una febbre altissima morì nelle prime ore del 30 dicembre de 2006, nell’ospedale di Francisco Beltrão, città nel sud-ovest del Paraná, a 52 anni. A quel tempo era parroco nella parrocchia del Sagrado Coração di Pérola D’Oeste. Il suo funerale fu celebrato solennemente in questa parrocchia, e la celebrazione fu presieduta dallo stesso vescovo che lo aveva consacrato prete, Dom Agostinho José Sartori, con a presenza di molti confratelli Cavanis e diocesani e una moltitudine di fedeli. Il suo corpo fu sepolto nel cimitero di São Valério in Planalto, dove sono sepolti anche i suoi genitori e altri della sua famiglia. A Pérola do Oeste, nella scuola (statale, credo) Padre Reus, c’è un busto di P. Aldino, il che dice quanto sia ricordato in questa città, dove aveva passato gli ultimi anni della sua vita (2004-2006).
8.15 P. Amedeo Morandi
Nato a S. Giorgio delle Pertiche (Padova) il 7 febbraio 1929; entrò preadolescente in seminario minore a Possagno; vestì l’abito religioso il 21 novembre 1946, compì l’anno del noviziato a Coldraga a Possagno nel 1946-47 ed emise a Possagno la prima professione religiosa il 29 ottobre 1947, seguita da quella perpetua il 29 aprile 1951 a Venezia. Ricevette gli ordini minori e maggiori dal cardinal patriarca Angelo Giuseppe Roncalli, divenuto poi papa Giovanni XXIII e proclamato santo, Lo stesso patriarca gli impartì il suddiaconato il 17 dicembre 1955, l’ordine sacro nel grado del diaconato il 17 marzo 1956; lo consacrò anche sacerdote a Venezia nella Basilica della Salute il 17 Giugno 1956.
Si dedicò con slancio all’apostolato secondo il nostro carisma nelle scuole elementari e medie, e dimostrò la sua bontà e la sua obbedienza anche perché venne trasferito un’infinità di volte da una casa all’altra. Fu membro delle comunità del probandato di Possagno (1956-58), di Venezia (1958-59, 1961-62, 1968-71, 1979-85, 1987-91), Fietta del Grappa (1962-65), Levico (1965-67), Porcari (1985-87; 2001-07); in questa casa fu rettore negli ultimi sei anni della casa, associata ormai a quella di Capezzano e ad alcune parrocchie; e ancora Roma Casilina (1971-79) e Possagno in Casa Sacro Cuore (1992-94).
Nell’ultimo periodo di vita, secondo l’obbedienza ricevuta, fu attivo, amato e stimato nella diocesi di Lucca in alcune parrocchie, in modo particolare in quella di San Gennaro, frazione di Capannori. Tutti rimasero impressionati per le circostanze della sua morte, e quanti lo amarono si dissero: “Che cosa incredibile andarsene in un modo tanto imprevedibile!”. Era andato a comprare il giornale. Scendendo dalla macchina, forse non aveva fissato il freno a mano, comunque il veicolo, in quella via in discesa, si mise in moto, ed egli fu investito e schiacciato dal suo stesso veicolo.
Concluse il suo cammino terreno nell’ospedale di Lucca il 2 novembre 2007, lasciando nel dolore confratelli, parenti, gli ultimi suoi parrocchiani e tanti amici. Nel suo testamento spirituale scrisse: “Ho preferito soffrire che far soffrire. Ho amato la mia Congregazione e i Padri, a uno ad uno, e mi raccomando alle loro preghiere”. Dovunque visse ha saputo essere amico con i ragazzi, i docenti e con tanti adulti. La liturgia funebre nella sua parrocchia è stata presieduta dell’Arcivescovo di Lucca; si è tenuta una seconda liturgia a Campodarsego (Padova), presenti il Provinciale e diversi confratelli; qui ora riposa in pace nella tomba di famiglia secondo il desiderio suo e dei parenti .
8.16 P. Diego Beggiao
Diego Beggiao nacque a Olmo di Bagnoli di Sopra (Padova) il 20 agosto 1932; entra in Istituto nel probandato di Possagno il 22 giugno 1942; veste l’abito dell’Istituto il 17 ottobre 1948 e compie l’anno canonico di Noviziato nel 1948-1949 a Possagno in casa del S. Cuore; emette la Prima Professione il 24 ottobre 1949 a Possagno. Emise la professione perpetua il 25 ottobre 1953, in Sant’Agnese, davanti alla scolaresca e ai confratelli, nella solennità di Cristo Re. Ricevette la tonsura clericale il 3 aprile 1954; l’ostiariato e il lettorato nella nostra chiesa di Sant’Agnese il 4 giugno 1955; il suddiaconato il 20 dicembre 1957; il diaconato dal vescovo ausiliare di Venezia monsignor Giuseppe Olivotti nella basilica di S. Marco il primo marzo 1958. Finalmente ebbe la grazia dell’ordinazione presbiterale il 22 giugno 1958 a Venezia nella Basilica della Salute, per l’imposizione delle mani e la preghiera del futuro santo papa Giovanni XXIII.
Dopo un primo incarico come assistente spirituale nell’Istituto Tata Giovanni a Roma, (1958-61), fu per quattro anni (1961-65; proprio gli anni del Concilio, con esperienze enormi!) segretario di monsignor Giovanni Battista Piasentini, confratello e vescovo di Chioggia. Svolse con dedizione e intelligenza il suo ufficio, apprezzando – da buon testimone – le virtù e il fervente zelo pastorale del confratello vescovo.
In seguito, come membro della comunità di Roma (1967-1990; e molto più tardi, 2001-02 e 2004-2008), ebbe modo di completare i suoi studi presso gli atenei pontifici: conseguì il diploma di archivista e poi il dottorato in Teologia, con specializzazione in Storia della Chiesa alla Pontificia Università Lateranense (con tesi pubblicata) e il Diploma in Paleografia e Diplomatica alla prestigiosa Scuola Archivistica Vaticana.
Mise a frutto i titoli e la scienza conseguita in diversi e numerosi incarichi: 1966 – 1988 Archivista del Vicariato di Roma; 1973 – 1979 Procuratore generale della Congregazione a Roma. In seguito, sembra che la Congregazione si fosse dimenticata delle sua capacità specifiche e fu inviato nel periodo 1988 – 1994 come Direttore della Casa di Asiago (Vicenza); nel decennio 1985 – 1995 fu anche membro dell’Ufficio Economico della Congregazione e, in alcuni di quegli anni, Direttore dei Lavori del nuovo edificio scolastico e per la comunità a Roma Casilina (1985-1988); il 23 luglio 1994 fu nominato dal preposito responsabile dell’archivio storico Cavanis-AICV e storiografo della Congregazione; come tale, tra l’altro, organizzò, in buona parte produsse, come editor e come primo autore, il libro su P. Sebastiano Casara di cui si parla più sotto.
Nel 1993 – 1994 fu responsabile, per l’Italia, dell’anno Cavanis. In seguito fu nominato postulatore generale della Causa di Beatificazione dei Venerabili Servi di Dio i PP. A. e M. Cavanis, e ancora Direttore di Lavori, di ristrutturazione edilizia questa volta, per l’amata Casa del Sacro Cuore (2005-06, pur appartenendo formalmente alla casa di Roma).
Sul finire degli anni Settanta incontrò nel movimento per il rinnovamento nello spirito una spiritualità che ha sempre esercitato su di lui una lunga e viva simpatia. Fu una persona che si è sempre “coltivato”, nello studio, nell’aggiornamento, nello scrivere (basterebbe osservare la sua elegante grafia!), nel confronto, nella preghiera, con desiderio, frutto, curiositas. È stato un uomo di cultura e dai molteplici interessi, dalla S. Scrittura all’investigazione storica, dall’arte alla gestione economica, dalla spiritualità all’attualità. Tra i suoi studi, e numerosi altri contributi si ricorda qui il titolo della tesi di Laurea pubblicata: “La Visita pastorale di Clemente VIII: aspetti di Riforma post-tridentina a Roma”(1978); e, in collaborazione e come organizzatore, – a 100 anni dalla sua morte – “P. Sebastiano Casara – secondo fondatore dell’Istituto Cavanis 1811–1898”(1998).
P. Diego è stato anche un uomo che ci teneva a coltivare profonde, calde e sincere amicizie, senza misteri; sia con confratelli sia con laici. Seppure schivo, ed esternamente apparisse addirittura timido, era capace di relazione e di ascolto, di sostenere dibattito con argomenti ed intelligenza, con brio e guizzi dello spirito: amava conversare, giocare, intrattenersi, scherzare, ironizzare acutamente, con piglio ed arguzia. Con rispetto e senza mai travalicare. Insomma: si stava bene con lui, e il tempo davvero volava. Il suo stato di salute fisica, lui che fu sempre attento e moderato, fu segnato dalla data infausta del 1994: infarto acuto al miocardio e quattro by-pass. E poi, solo qualche anno fa, la sua salute psichica, con un segnale cupo di disorientamento che lo ha ancora di più provato e prostrato. Da lì è iniziata la salita del suo personale “calvario”, fino all’alba del 15 ottobre 2008.
Il funerale si è tenuto nel Tempio di Possagno il 17 ottobre 2008. Il suo corpo riposa nel cimitero locale, nella cappella del clero.
8.17 P. Fiorino Francesco Basso
Figlio di Antonio e di Angela Perisello, Fiorino Francesco Basso nasce nel comune di Paderno del Grappa (TV), frazione di Fietta del Grappa il 25 maggio 1921. Battezzato dopo quattro giorni, e cresimato poi nel 1928. Conosceva bene l’Istituto Cavanis, non solo per la vicinanza tra il suo paese e Possagno, ma perché aveva frequentato presso il Collegio Canova le scuole medie, come alunno esterno.
Per la sua partecipazione alla Resistenza negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, dopo il suo ritorno dal servizio militare al fronte, si veda il capitolo sulla Resistenza. È dunque dopo la guerra che il giovane Fiorino prende una decisione ferma ed entra in Congregazione. Veste l’abito della Congregazione il giorno dell’Assunta del 1946 a Possagno. E l’amore alla Vergine lo sosterrà in tutta la sua vita. Veste l’abito religioso, con una quindicina di compagni, il 21 novembre 1946, compie l’anno del Noviziato dal 1946 al 1947, a Possagno-Coldraga. La sua prima professione la emette il giorno 29 ottobre 1947, e quella Perpetua, esattamente tre anni dopo, il 29 ottobre 1950 a Venezia. Riceve la tonsura ecclesiastica il 27 giugno 1948 alla Salute; nell’anno scolastico 1949-50 era stato inviato come chierico aiutante al probandato di S. Alessio in Toscana, e per questo ricevette a Lucca, in cattedrale, il 3 gennaio 1950 i primi due ordini minori; i secondi due ordini minori in forma privata dal Patriarca il 23 settembre 1950; il suddiaconato il 23 dicembre 1950 a Venezia, nella basilica di S. Marco, dal patriarca Carlo Agostini; il diaconato il 10 marzo 1951 a Venezia, nella cripta della basilica di S. Marco dal patriarca Carlo Agostini. Finalmente diventa prete il 1° luglio del 1951 a Venezia, per l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria di S. Mons. Carlo Agostini, Patriarca di Venezia. Poi inizia il suo ministero a servizio della Congregazione, con diversi e numerosi incarichi che lo porteranno e lo riporteranno da Possagno a Roma, a Porcari.
Infatti ha svolto la sua vocazione Cavanis nella forma seguente:
1951–1954 Possagno, Probandato, assistente dei religiosi professi studenti del Liceo;
1954 –1961 Possagno, Collegio Canova, insegnante di Lettere nella Scuola Media;
1961 – 1969 Roma, Rettore all’Istituto Tata Giovanni;
1967 – 1969 Porcari (LU), insegnante di Lettere;
1969 – 1976 Roma, Via Casilina, insegnante di Lettere;
1976 – 1979 Porcari, Rettore e Preside della Scuola Media;
1979 – 1991 Roma, Via Casilina, insegnante e poi anche Vice-parroco a S. Marcellino.
Dal 1991 ha vissuto la sua vocazione Cavanis facendo campo-base sempre a Possagno, nel Collegio Canova, ma in diverse direzioni, su quel benedetto territorio della Pedemontana del Grappa, di cui godeva e gioiva e soffriva, in piena sintonia, sempre. Svolgendo specialmente un’attività ancora d’insegnamento, ma anche interpretando il nuovo ruolo dell’ascolto e dell’animazione/direzione spirituale, possiamo dire come “uno sportello o centro permanente”, per i giovani e il mondo della scuola in genere.
Bisogna ricordare ancora il suo amore per la natura, per i boschi, la sua difesa degli alberi, che non voleva mai che si tagliassero: un suo appello costante scherzoso era: “Tagliatemi le orecchie, ma non tagliatemi gli alberi!”; la sua attività di apicultore appassionato e competente; quella di meteorologo a Possagno; e ancora la sua breve esperienza come direttore della scuola professionale a Possagno, nella casa “Forcellini”, di fronte al Canova, dall’altra parte dello stradone, a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Era stimato e amato in comunità per il suo buon umore, la sua serenità e umiltà, il suo humour dialettale, il solido buon senso.
La morte lo ha colto, certamente non impreparato, anzi, sabato scorso 2 maggio 2009 a Possagno, nel giorno della data piú cara all’Istituto e il suo funerale si è tenuto con grande afflusso di amici nel Tempio canoviano il 4 maggio 2009. Il suo corpo riposa nel cimitero locale, tra i confratelli, nella speranza della risurrezione.
8.18 P. Norberto Artemio Rech
Nacque a Francisco Beltrão, Paraná, Brasile, il 6 giugno 1958, da Vitalino Rech e Ana da Fonseca Rech; aveva ben 20 fratelli. Ricevette il sacramento del battesimo il 19 giugno 1958 e la Prima Comunione il 2 giugno 1968. II primo marzo 1975 entrò nel Seminario Santa Cruz a Castro dove terminò il corso di studi elementare e medio. Cominciò il noviziato nel Seminario di Ponta Grossa nel 1982 ed emise la prima professione il 13 febbraio 1983. Dal 1983 al 1988, studiò filosofia e teologia all’Istituto di Filosofia e Teologia “Mater Ecclesiae – IFITEME” a Ponta Grossa. Professò i voti perpetui il 16 marzo 1986 a Castro, Paraná. Fu ordinato diacono il 14 luglio 1986 a Curitiba, Paraná e ricevette l’ordinazione sacerdotale il 10 dicembre 1988 nella stessa città.
Nel 1989 fu vice-rettore del Seminário Nossa Senhora Aparecida a Realeza, Paraná. Dal 1990 al 1991 fu parroco della Paróquia Nossa Senhora de Fátima (Vila Cipa) a Ponta Grossa. Dal 1992 al 1993 fu vicario nella Paróquia São Sebastião di Ortigueira, Paraná. Nel 1994 risiedette all’Istituto Teológico Cavanis e fu vicario nella Paróquia Imaculada Conceição a Belo Horizonte, Minas Gerais. Dal 1995 al 1997 fu parroco nella Paróquia Sagrado Coração de Jesus a Pérola do Oeste, Paraná. Dal 1998 al 2000 fu parroco nella Paróquia Santa Maria, Mãe de Misericórdia nella città di Belo Horizonte. Fu vicario nella Paróquia Santa Luzia nella città di Novo Progresso, Pará, dal 2001 al 2003, facendo così parte della prima comunità Cavanis nello stato del Pará e nell’Amazzonia. Nel 2004 assunse l’incarico di vicario nella Paróquia de São Sebastião a Ortigueira-Paraná.
Mori improvvisamente nel pomeriggio del 5 ottobre 2009, a appena cinquantun’anni, vittima di un incidente stradale lungo la rodovia do café (strada del caffè) che collega Ponta Grossa e Ortigueira, dopo aver partecipato alla festa di compleanno di sua madre a Curitiba, dove la stessa risiedeva.
P. Norberto Artemio Rech, nella sua missione di religioso e sacerdote, si caratterizzò per la sua umiltà, il suo amore ai poveri e sofferenti e per la sua allegria nel vivere a servizio del Regno. Siccome era molto semplice, era conosciuto come il “Padre ‘que tipo’!”; “que tipo” era un’esperessione non molto comune, che Norberto usava spesso parlando con le persone amiche. Le persone che, commosse, hanno accompagnato la sua salma alla tomba dei Padri Cavanis nel cimitero di Castro per la tumulazione, sono state testimonianza del suo servizio reso ai fratelli.
Dopo l’ispezione del medico legale, il corpo di P. Norberto è stato portato presso la Parrocchia São Sebastião di Ortigueira, dove P. Norberto svolgeva il suo ministero. Molta gente si è radunata in chiesa, dal momento in cui è giunta la notizia della sua morte e fino alle 2 del mattino del giorno successivo. La Messa fu celebrata il giorno successivo alle ore 9 nella Chiesa matrice, con la chiesa gremita e gente anche sul selciato e i cortili circostanti. Don Sérgio Braschi, Vescovo di Ponta Grossa, è giunto subito dopo la Messa. A Castro è stata celebrata poi un’altra Messa, alle 4 del pomeriggio, presieduta da mons. Sergio Braschi, che, al termine della cerimonia, ha personalmente accompagnato il feretro fino al cimitero e al sepolcro comunitario dei nostri religiosi.
La dinamica dell’incidente non è ancora del tutto chiara. Nel corso di un sorpasso, il suo veicolo si era scontrato frontalmente con un altro procedente in senso contrario, causando la morte istantanea del padre.
8.19 P. Armando Manente
Armando nacque a Chirignago (Venezia) il 5 marzo 1924. Entrò dodicenne nell’Istituto Cavanis a Possagno nel 1936. Dopo la vestizione e l’anno di noviziato, compiuto a Col Draga nella Casa del S. Cuore, pronunciò il suo primo fondamentale “Eccomi!” al Signore, consacrandosi con i voti temporanei di castità, povertà, obbedienza, il giorno della Madonna Assunta, il 15 agosto 1943. Emise poi i voti perpetui a Venezia, il primo novembre 1946. Ricevette la tonsura il 27 giugno 1948 nella basilica della Madonna della Salute. Ricevette i primi due ordini minori, dell’ostiariato e lettorato, l’8 aprile 1950 e poi quelli dell’esorcistato e accolitato. Gli fu conferito il suddiaconato il 23 settembre 1950, in forma privata, dal Patriarca, e il diaconato 10 marzo 1951. Fu consacrato prete, a Venezia, il 1° luglio 1951, nella basilica della Madonna della Salute, per le mani del Patriarca Carlo Agostini.
Ottenuti i titoli di abilitazione Magistrale e il Diploma in Educazione física, esercitò il suo ministero di educatore e di insegnante alle elementari e poi come professore di educazione fisica per molti anni: al Canova come primo incarico (1951-52), poi a Borca di Cadore (1952-53), al Tata Giovanni dall’inizio, cioè dal 1953 al 1955, a Capezzano Pianore (1955-61 e più tardi nel periodo 1973-1998), a Roma-Torpignattara (dal 1961 al 1964 e poi dal 1979 al 1994, poi a Venezia (1968-70) e ancora al Canova (1970-73 e dal 1964 al 1968); svolse spesso anche il compito di Economo.
P. Manente è sempre stato “alla scuola dei Fondatori”, traducendo nella vita il cosiddetto clima della casetta, cioè l’umile e poverissimo primo cenacolo veneziano che vide nascere e svilupparsi il seme fecondo della vita comunitaria, all’insegna della gioia del Vangelo e del servizio ai più piccoli. Dotato di non comuni doni di natura e di grazia, che lo rendevano amabile, semplice, gioviale, sensibile, amico di tutti, profondo conoscitore dell’animo umano, è stato educatore raffinato di tante generazioni.
Ebbe a lungo a soffrire per le condizioni di salute; nel 1982, infatti, veniva improvvisamente colpito a Roma da malattia cerebrale che lo rendeva quasi del tutto inabile, avendone minato le normali facoltà. Nel settembre 1996 fu trasferito definitivamente al Collegio Canova di Possagno, nella nostra casa di riposo per gli anziani, in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute. La morte lo colse, confortato dai Sacramenti e dall’amorosa cura dei confratelli, la sera di domenica 24 gennaio 2010. Le esequie furono celebrate il 27 gennaio seguente nel Tempio canoviano di Possagno, gremito di studenti, parenti e amici, oltre che dalla gente di Possagno.
Era un religioso umile, dotato di grande semplicità d’animo, cordiale e scherzoso, come anche di spiccata capacità educativa e fine intuito pedagogico. La salma riposa nel cimitero di Chirignago, accanto ai familiari defunti.
8.20 P. Angelo Guariento
Nato a Venezia il 18 maggio 1915, nella calle Pompea, dove continuò a vivere la sua famiglia e poi, ultima, sua sorella Cesarina, nello stesso rione che fu dei nostri Padri Fondatori, a un centinaio di metri dall’edificio delle Scuole e dalla casetta in cui sorse la nostra Congregazione, Angelo Guariento apprese fin da giovane, dalla sua famiglia prima e poi dai suoi educatori dell’Istituto Cavanis, l’amore al Signore e una grande devozione alla Vergine Santa; sentì ben presto il richiamo per il servizio e ministero della Scuola e l’educazione della gioventù.
Entrato in Congregazione nel seminario minore il 7 luglio 1930, seguì l’iter normale della sua formazione. Vestì l’abito della Congregazione domenica 25 ottobre 1931, festa di Cristo re, a Venezia in S. Agnese, assieme a Luigi Sighel e a un collega di nome Egidio Faggian. Compì il noviziato, a Venezia, nell’anno scolastico 1931-32, alla fine del quale, più esattamente il 29 (o 25) ottobre 1932, emise i voti religiosi temporanei, a Venezia, nell’oratorio di comunità, assieme al collega Luigi Sighel; e a due fratelli laici, che ben presto però lasciarono la Congregazione. Emise i voti perpetui il 16 luglio 1936, nella festa della Madonna del Carmine, a Possagno, nella chiesetta del collegio.
Il 19 settembre 1936 ricevette a Venezia la tonsura; ricevette gli ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 4 luglio 1937 nella basilica della Salute a Venezia; e il 3 luglio 1938 ebbe i due secondi ordini minori, dell’esorcistato e accolitato; il suddiaconato lo ricevette il 17 dicembre 1938 a S. Marco, più tardi degli altri due della sua annata, Vittorio Cristelli e Luigi Sighel, perché era infermo nella data prevista e dovette aspettare la data successiva. Ricevette poi il diaconato il sabato santo 8 aprile 1939 nella cappella del seminario patriarcale, dal patriarca; e l’ordinazione presbiterale nella basilica della Salute il 2 luglio 1939.
Si dedicò alla scuola costantemente, prima nel ciclo delle elementari, com’era di uso a quel tempo, poi nel ginnasio e nella scuola media e per più di cinquant’anni; a volte negli Istituti di formazione, a volte nelle scuole: a Fietta del Grappa, come secondo incarico (1941-42), di Venezia (1942-43 e poi, per una trentina d’anni della sua età avanzata, dal 1972 al 2010, cioè fino alla morte), a Possagno, Collegio Canova (1939-1940, suo primo incarico, e poi ancora nel 1946-49) e fu per alcuni anni rettore del probandato in quel paese (1949-53); fu rettore della casa di Roma negli anni in cui si stava affermando la nostra presenza a Torpignattara (1953-55); poi lo troviamo a Porcari (1943-46 e poi nel 1955-61), poi a Solaro (1964-70) e, come membro di quella comunità che non aveva avuto successo ed era stata chiusa dal governo generale della Congregazione, di associò – ma brevemente e senza cattiveria – al gruppo di fronda che si oppose come al capitolo generale straordinazio speciale e alla riforma della Congregazione e delle Costituzioni. In queste varie case fu maestro e padre dei ragazzi e giovani cui era caro per la sua competenza e didattica, ma ancor più per la sua giovialità e ottimismo; e fu ricordato e ricercato da molti ex-allievi che gli erano molto affezionati.
Seppe curare lo spirito di pietà e la formazione del cuore in particolare con i ragazzi del nostro seminario minore di Possagno e con i giovani della Congregazione Mariana di Venezia cui dedicò molti anni da padre anziano. A questa associazione era così legato che, anche nell’età più avanzata, da un lato chiedeva con insistenza ai superiori di essere sostituito nell’incarico da un padre più giovane, ma quando la sua richiesta era esaudita ed era nominato un nuovo assistente, lui continuava ad occuparsi della sua “Mariana”, e il nuovo assistente doveva in pratica ritirarsi. E le cose rimanevano come prima.
Avendo celebrato i settantacinque anni di vita religiosa e i settant’anni di sacerdozio, si addormentò nel Signore il 23 giugno 2010 a Venezia, a novantacinque anni. I funerali furono celebrati nella chiesa di Santa Maria del Rosario e la salma tumulata nel cimitero dell’isola di San Michele il giorno 26 giugno 2010.
8.21 P. Giuseppe Maretto
Nacque a Santa Lucia di Piave (TV), diocesi di Vittorio Veneto, il 16 marzo 1922. All’età di 18 anni con la vestizione religiosa iniziò l’anno di noviziato (1940-41), e il 12 ottobre 1941, emise la professione religiosa temporanea a Venezia, Casa Madre dell’Istituto e il 1° ottobre 1944 emise la professione perpetua nella chiesa della casa del S. Cuore.
Ricevette gli ordini minori dell’ostiariato e accolitato il 22 giugno 1946 e quelli dell’esorcistato e dell’accolitato il 7 dicembre 1947; il suddiaconato nella basilica di S. Marco a Venezia il 14 dicembre 1947, il diaconato il 13 marzo 1948, nella chiesa del Redentore alla Giudecca, per le mani del vescovo ausiliare monsignor Giovanni Jeremich. Finalmente fu ordinato prete il 6 giugno 1948, sempre a Venezia, nella nostra Chiesa di S. Agnese, per l’imposizione delle mani del confratello Mons. Giovanni Battista Piasentini, allora vescovo di Anagni.
Si dedicò, dopo l’ordinazioni presbiterale, alla formazione nel probandato di Possagno (1948-52) e poi lungamente come formatore a Levico (1953-58), una casa e un’attività che ricordava sempre con grande affetto; fu maestro dei novizi dal 1958 al 1964, nel noviziato annesso alla Casa del S. Cuore. In questo importante ufficio dette veramente il meglio di sé e produsse una svolta, anche se ancora prima del concilio Vaticano II. Introdusse un clima di maggiore apertura, responsabilità personale e libertà di spirito e, anche se si continuava a usare come lettura e commento base il “Gutierrez”, ossia una serie antica di libretti con episodi e aneddoti edificanti, eravamo lontano dal clima severo e ultra-chiuso proprio della fase precedente, in cui era maestro P. Alessandro Vianello, come pure quasi sempre in fasi più antiche della formazione dei novizi dell’Istituto.
Si dedicò poi all’insegnamento anche fuori delle case di formazione, con competenza e amore, nelle scuole elementari di Venezia (1964-70 e nell’anno 1972-73).
Un’altra fase della sua lunga vita fu la sua attività nella parrocchia di Corsico (1970-72 e poi 1973-1991), fin quasi dall’inizio di quella casa.
Lo fece per lunghi anni e con grande zelo: sempre in mezzo alla gente, specialmente tra i ragazzi, da prete innamorato del Vangelo e della propria vocazione, a servizio sia delle vocazioni di speciale consacrazione come di quelle dei comuni battezzati.
Ricordato come “il buon samaritano dei P. P. Cavanis”, sia a Corsico che nella parrocchia dei SS. Marcellino e Pietro a Roma (1991-1994), donava il suo tempo a tutti, in particolare a chiunque si trovasse in difficoltà, con il consiglio, un indirizzo di lavoro, con la preghiera e l’incoraggiamento, e riusciva a far partecipare alle varie attività e alla vita della parrocchia anche le persone meno credenti.
Con entusiasmo e serena energia si dedicò all’educazione e formazione dei bambini e giovani, curò l’animazione liturgica, fu assiduo e paziente nella visita agli ammalati: sempre testimone del Vangelo, anche nel sollecitare e guidare la carità e l’aiuto ai poveri della parrocchia.
Trasferito, nel 2000, nella casa di riposo per i religiosi Cavanis anziani a Possagno (2000-2010), si rese utile, con brevi catechesi e guida della preghiera, tra gli scolari più piccoli dell’Istituto Cavanis Canova. Provato nella salute, si preparò nel silenzio e con fede all’incontro finale con il Signore, che venne improvvisamente a Possagno la mattina di martedì 7 settembre 2010. Le esequie furono celebrate il 10 settembre 2010 nel Tempio Canoviano. La sua salma. in attesa della risurrezione, riposa nel locale cimitero di Possagno.
8.22 P. Emilio Gianola
Emilio Gianola, figlio di Dino e di Teresa Brussato, nacque a Venezia l’l1 febbraio 1937. Aveva tredici fratelli, (nove maschi, di cui quattro preti e religiosi, un Cavanis e tre Canossiani, e quattro femmine). La famiglia era profondamente cristiana, amica dell’Istituto Cavanis e dei padri Carmelitani Scalzi, come pure dei padri Canossiani della parrocchia di S. Giobbe a Cannaregio e del loro famoso patronato.
Emilio frequentò le scuole elementari e medie nell’Istituto Cavanis. Sentendosi chiamato alla vita di religioso educatore, chiese di entrare nell’Istituto. Ricevette l’abito religioso dei Cavanis il 4 ottobre 1953; visse l’esperienza del noviziato (1953-54) nella casa del S. Cuore a Possagno, avendo come maestro P. Alessandro Vianello. Emise la prima professione il 5 ottobre 1954, la professione perpetua il 22 agosto 1958, festa del Cuore Immacolato di Maria, assieme ai confratelli Silvano Mason e Fabio Sandri, nella chiesetta del Probandato di Possagno, davanti al preposito generale P. Antonio Cristelli.
Da seminarista maggiore, Emilio venne insignito della prima tonsura ecclesiastica il 22 giugno 1958, i primi due ordini minori, dell’ostiariasto e del lettorato; i secondi due ordini minori dell’esorcistato e accolitato il 14 marzo 1959; il suddiaconato il 16 ottobre 1960; il sacro diaconato il 18 marzo 1961 nella basilica di S. Marco, dal card. Patriarca Urbani; e, il primo giugno 1961, fu ordinato prete a Venezia, per l’imposizione delle mani del vescovo ausiliare monsignor Giuseppe Olivotti.
Il suo primo incarico dopo l’ordinazione presbiterale fu al probandato di Possagno (1961-62). Conseguita, poi, la Laurea in Lettere antiche all’università di Padova, esercitò il suo ministero sacerdotale di educatore e insegnante di materie letterarie e specialmente di latino e greco (o più genericamente di Lettere, secondo il ciclo delle scuole in cui si impegnava) nelle nostre scuole di Solaro (1967-69), Chioggia (1970-74), di Capezzano Pianore (1974-76), di Possagno-Canova (1976-85); ad Asiago, fu rettore dal 1984 al 1988, ritornò a Venezia (1988-95 e 2000-2007). Solo dopo il 2007 ritornò a Possagno, ma per essere curato e assistito.
Apprezzato maestro di numerose generazioni di giovani e stimato insegnante di materie umanistiche, sapeva instaurare un rapporto di intenso dialogo e forte senso educativo con gli allievi, e con tutte le persone in genere. Nella scuola, che svolgeva con grande passione e grinta, aveva delle forme originali e molta fantasia che, essendo differenti e personali, erano approvate da molti ma non da tutti.
Oltre che nella scuola, P. Emilio curò l’educazione e formazione della gioventù, con entusiasmo e grande senso di amicizia, nelle attività dei campi-scuola e tra gli ex-allievi. Anche la sua passione per lo sport e particolarmente per il calcio lo aiutavano nel contatto con i giovani e con i laici in genere.
Incaricato per molti anni dell’ufficio di redattore della nostra rivista trimestrale Charitas, ne fece per molti anni uno strumento a servizio della comunione e della conoscenza, con intelligenza e inventiva, anche con l’aiuto del fratello Redento, laico, ma vicino all’Istituto Cavanis), che arricchiva per anni la rivista con i suoi disegni e la diagrammazione originale.
A Possagno nel Collegio Canova da tre anni, si preparava a celebrare con gratitudine a Dio il suo 50° di ordinazione presbiterale, per il giugno del 2011, ma un improvviso debilitarsi del suo stato fisico-cerebrale non glielo permise, pur trovandosi egli non in troppo tarda età. Il cuore di padre Emilio aveva mostrato alcuni scompensi durante le attività didattiche. Da un paio di mesi era ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Montebelluna per problemi cardiocircolatori, dopo essere stato per un breve periodo anche in quello di Castelfranco. Colpito da infarto, è entrato in coma farmacologico dal quale non si è più risvegliato fino all’ultimo bollettino medico. La morte, lo colse il 3 novembre 2010 nell’ospedale di Montebelluna (Treviso), dopo un difficile periodo di gravi sofferenze, in cui fu sempre seguito e accompagnato con tanto amore sia dai confratelli che dagli stessi familiari, e poté ricevere anche il conforto dei Sacramenti. Era stato seguito particolarmente dal suo rettore, P. Giuseppe Francescon che, come in tanti altri casi, si dedicava e si dedica ancora con amore ai suoi anziani e ammalati.
Nel suo testamento ha lasciato scritto: “Prego tutti coloro, che mi hanno conosciuto e che mi hanno voluto bene, di continuare ad amarmi e di pregare sempre per me la bontà misericordiosa di Dio, che è sempre stato il mio unico tutto”.
I funerali si svolsero nel Tempio Canoviano di Possagno il 5 novembre 2010. Da qui la salma venne trasportata a Venezia nella nostra Chiesa di S. Agnese per la veglia funebre; e all’indomani, sabato 6 novembre, fu celebrata la solenne S. Messa esequiale nella Chiesa parrocchiale dei Gesuati, presieduta da uno dei suoi fratelli, il religioso canossiano P. Piero, con numerosi concelebranti, tra cui gli altri fratelli sacerdoti e religiosi della famiglia Gianola. La salma fu tumulata nel Cimitero di S. Michele in Isola a Venezia.
8.23 P. Raffaele Pozzobon
Raffaele Pozzobon, di origine veneta, nacque a Brugherio (Milano) l’11 ottobre 1930. La sua famiglia di origine diede alla Chiesa altri due consacrati: un fratello maggiore, padre Cavanis, il P. Valentino e una sorella suora. Dodicenne entrò in Istituto, nel probandato di Possagno, nel 1942. Qui fu ammesso, poi, al Noviziato che compi nell’anno 1947-1948 in casa del S. Cuore. Emise i voti temporanei il 20 ottobre 1948. Si consacrò definitivamente al Signore nella nostra Congregazione con la professione perpetua il 26 ottobre 1952. Completò la sua formazione intellettuale che lo avrebbe portato a svolgere a pieno titolo il ministero della scuola e dell’educazione della gioventù, laureandosi in Lettere all’università di Padova nel 1968. Ricevette a Venezia, dove stava seguendo il corso di studi teologici, i primi due ordini minori il 21 giugno 1953, i secondi due il 3 aprile 1954; il suddiaconato il 21 novembre 1954; il diaconato il 5 marzo 1955. Ricevette quindi l’ordinazione presbiterale il 4 giugno 1955, a Venezia, nella nostra chiesa di Sant’Agnese, per l’imposizione delle mani del nostro confratello, monsignor Giovanni Battista Piasentini, allora vescovo di Chioggia, colui che, anni prima, con forte determinazione, volle costruita, sul Col Draga di Possagno, la stupenda Casa del Sacro Cuore per gli esercizi spirituali.
Questo fatto diventerà come una profezia sul ministero di P. Raffaele, perché fu proprio quella casa di spiritualità – la seconda del genere nel Triveneto – che lo vedrà, per 27 anni (dal 1956 al 1958, e poi dal 1973 al 1994, essendo rettore della casa dal 1985 al 1961), animatore instancabile, conoscitore ed educatore delle anime, sulle vie dello Spirito Santo, dando vita a una stagione fecondissima di grande spiritualità e vitalità ecclesiale, per tutti i territori limitrofi, a partire dalle nostre stesse Comunità.
Instancabile lavoratore per il Regno di Dio e per la salvezza delle anime, ha speso e profuso le sue migliori qualità ed energie in quella Casa, perché quel luogo diventasse nido di accoglienza per incontrare il Signore Gesù. nella potenza del suo Spirito e nell’annuncio della Misericordia.
Uomo dotato di grandissima umanità, di straordinaria capacità di relazione e di empatia, profondo conoscitore delle dinamiche dello Spirito, apostolo della misericordia e della bontà del Signore, aveva una speciale capacità di catechizzare e di istruire, con paziente sapienza; sapeva infondere sempre una parola di consolazione e di speranza per ogni situazione e condizione di vita.
Chi scrive trova che un certo esclusivismo del P. Raffaele e di qualche altro confratello, che portò a trasformare la casa del S. Cuore in casa di una spiritualità troppo legata a un solo movimento, quello del Rinnovamento nello Spirito, a volte con leggere ombre di fanatismo, danneggiò a lunga scadenza la casa e la stessa Congregazione. La spiritualità del nostro a volte, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e proprio dalla casa del S. Cuore, sembrò diventare quasi la spiritualità propria e insostituibile della Congregazione Cavanis. P. Raffaele testimoniò la sua consacrazione anche in altre comunità: a Chioggia (dal 1958 al 1961 e poi dal 1965 al 1967), Istituto Tata Giovanni a Roma (1961-62), probandato di Levico (1962-64), Porcari (1964-65), Capezzano (1967-72), Venezia (1972-73) e Corsico (dal 1994 al 2008).
Già minato da un’insidiosa e subdola malattia da molti anni, e assai provato il suo stato di salute, fu trasferito nella Comunità di Possagno (Casa del Collegio Canova, 2008) dove fu seguito con amorevoli cure; qui il Signore lo chiamò a ricevere il premio delle sue fatiche e sofferenze il 22 Febbraio 2011. II 24 furono celebrate, nel Tempio canoviano. le solenni esequie, con grande e commossa partecipazione. La sua salma riposa nella Cappella dei Padri nel Cimitero di Possagno.
8.24 Il fratello e diacono don Giusto Larvete
Giusto Larvete, figlio di Giusto Larvete e di Angela Frezza, nasce a Vidor, in provincia e diocesi di Treviso il 22 aprile 1923. Entra nell’Istituto Cavanis il 13 settembre 1934, nel probandato di Possagno. E qui inizia il suo cammino vocazionale, sulle orme dei nostri venerabili Fondatori Cavanis. Le tappe principali furono: la vestizione religiosa avvenuta il 23 aprile 1939, l’anno del Noviziato dal 1939 al 1941 a Venezia/Casa Madre dell’Istituto; la prima professione il giorno della Festa della Madonna del Carmine, il 16 luglio 1941 a Possagno, assieme a fra Roberto Feller; emise la professione perpetua il primo ottobre 1944 nella Casa del S. Cuore. Si trovava in questi anni nel probandato di Possagno, dal 1942 al 1943, poi nel seminario minore di Costasavina, durante la guerra, quindi con interruzioni, dal 1943 al ’47.
Egli testimoniò la sua vita religiosa in diverse case della Congregazione, in Italia: a Venezia, a Roma (in occasione dell’apertura della Casa di Via Casilina nel 1946), a Porcari, in Casa del Sacro Cuore a Possagno, a Roma ancora, a Capezzano Pianore, in Casa Sacro Cuore una seconda volta, a Sappada, a Mestre e, dal 1992, a Possagno/Collegio Canova.
In ordine cronologico, fratel Giusto fu a Roma (1947-51 e nel 1962-64); a Porcari (1951-53 e 1964-67); in casa del S. Cuore (1958-61 e 1983-86); a Venezia (1967-69); a Sappada /1987-90); a Mestre (1991-92); e infine al collegio Canova di Possagno (1992-2012).
Attese a svariati e diversi servizi, come Fratello.
I suoi grandi amori furono: l’Istituto e le sue tradizioni, la Madonna, di cui era devotissimo, la Preghiera, la Liturgia e il decoro della Chiesa, la quotidiana mortificazione, il lavoro umile e nascosto, la pratica della virtù della gioia cristiana, lo zelo per le vocazioni, l’aver abbracciato la spiritualità del movimento del Rinnovamento nello Spirito, con qualche esagerazione devozionistica. Tutto ciò è tanto vero che egli maturò, in accordo con i suoi Superiori, una via ancora più intensa di perfezione, quando, il 27 maggio 1976, ricevette a Capezzano Pianore dal preposito generale il Ministero di Lettore e poi dallo stesso quello di Accolito il 19 maggio 1977.
Il momento più grande per la sua vita fu tuttavia il giorno in cui, dopo la conveniente e lunga preparazione specifica, fu promosso al sacro Ordine del Diaconato, che ricevette, con traboccante gioia, all’età di settantadue anni, il 24 settembre 1995, nella Cattedrale di Udine per le mani del compianto vescovo diocesano monsignor Alfredo Battisti. Per lui, mettere il camice e la stola era il momento più bello della giornata e della vita.
Cercò di esercitare il ministero diaconale sempre nel migliore dei modi, con aggiornamento pastorale continuo e testimonianza personale, sentita con grande impegno e coerenza, specialmente con il servizio di vera diaconia verso i confratelli ammalati. La virtù che meglio esercitò, e che ricorderemo, fu la giovialità; egli la espresse con i colori del buon umore, del servizio senza pretese, del canto liturgico, della disponibilità all’aiuto fraterno, dell’attitudine a trovare sempre il lato bello e positivo della vita, in ogni circostanza. La morte lo colse, in comunità, il 28 febbraio 2012, carico di anni e di tanti meriti. Le esequie furono celebrate nel Tempio canoviano di Possagno il giovedì primo marzo 2012. Riposa nel locale cimitero.
8.25 P. Giovanni De Biasio
Giovanni De Biasio era figlio di Giuseppe e di Freschi Dosolina, è nato a S. Quirino, nell’attuale provincia di Pordenone il 28 settembre 1925. È entrato nel seminario minore o probandato dei Padri Cavanis a Possagno (Treviso) nel 1936.
Ha vissuto l’esperienza del Noviziato in Venezia dall’ottobre 1941 all’ottobre 1942 ed ha emesso la professione temporanea dei voti religiosi il 16 ottobre 1942, e quella perpetua il 1° novembre 1946.
Ricevette i primi due ordini minori, dell’ostiariato e lettorato, il 21 febbraio 1948 e quelli dell’esorcistato e accolitato il 13 marzo 1948. Gli fu conferito il suddiaconato nella basilica della Salute, sempre a Venezia, il 27 giugno del 1948 e il diaconato nella basilica patriarcale di S. Marco il 19 dicembre 1948. Ricevette poi l’ordinazione presbiterale il 26 giugno 1949, a Venezia, dal patriarca mons. Carlo Agostini, assieme al P. Narciso Bastianon.
Ha frequentato i Corsi Accademici presso l’Università degli Studi di Pisa dall’anno 1950 all’anno 1956, conseguendo la Laurea (Dottorato) in Lingue e Letterature Straniere il 14 novembre 1956, con corso quadriennale per la lingua Inglese.
Ha conseguito il Diploma di Abilitazione per l’insegnamento della lingua Inglese nelle Scuole di ogni ordine e grado della Repubblica Italiana, superando l’esame indetto con D. M. 15/12/1961, a Firenze nel mese di ottobre 1962.
Legge, scrive e parla le seguenti lingue: Italiano, Inglese, Francese, Portoghese e Spagnolo.
ATTIVITÁ SVOLTE E MINISTERO SACERDOTALE
1956-1959 Insegnamento delle lingue presso la Scuola Media del “Collegio Cavanis”
di Porcari.
1959-1961 Insegnamento di Inglese presso il Liceo Scientifico Cavanis di Capezzano
Pianore-LU
1961-1967 Preside della Scuola e insegnante di lingue della scuola media del
“Collegio Cavanis” di Porcari.
1967-1979 Insegnante di lingue presso il Collegio Cavanis di Possagno-Tv e dal 1967
al 1970 preside della scuola media.
1961-1979 Consigliere e Vicario Generale della Congregazione.
Parte per il Brasile (novembre 1979)
1979-1985 Vicario Provinciale della Provincia del Brasile, Economo Provinciale e
Insegnante di Storia della Chiesa nell’Istituto Mater Ecclesiae della Diocesi
di Ponta Grossa-PR e allo Studium Theologicum dei Claretiani a
Curitiba-PR.
1985-1995 Economo provinciale e Formatore nel Seminario Cavanis di Teologia a
Belo Horizonte-MG.
1995-2001 Vicario generale della Congregazione (risiede a Roma).
1995-1997 Maestro degli studenti a Roma.
1997-1999 Rettore dell’Istituto Cavanis di Roma.
2001-2007 Segretario generale.
2003-2011 Postulatore generale.
27 Aprile 2012 Muore piamente all’ospedale delle Figlie di san Camillo a Roma. Il funerale si è celebrato il 30 aprile successivo nella chiesa parrocchiale di S. Quirino (Pordenone), paese natale di P. Giovanni, ed è stato concelebrato da mons. Ovidio Poletto, vescovo emerito di Pordenone, e dal P. preposito generale Alvise Bellinato.
Nel quarto anniversario della morte, P. Pietro Fietta, preposito generale, così scriveva di P. Giovanni De Biasio: “Il suo ricordo è scritto nella nostra mente e nel nostro cuore e non si cancellerà perché la memoria dei giusti dura in eterno. Il suo esempio di vita, la sua laboriosità, il suo amore ai Fondatori, a P, Basilio, al carisma Cavanis, alla scuola, all’educazione dei giovani, alle missioni, alla formazione dei nuovi religiosi ci sprona ad impegnarci sempre più nella missione che il Signore ci ha affidato. P. Giovanni contini a benedirci e a ottenerci dal Buon Dio grazie e benedizioni”.
8.26 P. Sergio Vio
Nasce a Reggello (FI) il 14 Settembre 1930; ancora adolescente, su indicazione di un sacerdote diocesano, entra nel Probandato di Possagno. Vestì l’abito dell’Istituto il 17 ottobre 1948, era a Possagno in casa del S. Cuore l’anno del noviziato ed emise la sua prima professione religiosa il 24 ottobre 1949, e la professione religiosa perpetua il 26 ottobre 1952, quindi riceve il diaconato, poi viene ordinato sacerdote, a Venezia, il 24 giugno 1956, in un gruppo di sette relgiosi Cavanis.
Religioso semplice, buono e fedele, profonde le sue straordinarie doti di Padre ed Educatore nelle case di formazione e nella ricerca vocazionale di ragazzi e giovani. In particolare, esercita la sua dedizione pastorale a Chioggia (1956-57), a Roma (1958-62), a Levico (1962-64), in Casa del S. Cuore (1965-67 e 1979-90, ma con puntate e Fietta del Grappa tra il 1980 e 1982). È al Canova di Possagno nel 1968-70; a Porcari (1987-88); di nuovo a Porcari (1990-92); di nuovo in Casa del S. Cuore (1992-1996). Da notare, che operando negli anni da fino ’80 agli anni ’90 nell’equipe vocazionale, si muoveva come base tra la Casa del S. Cuore e quella di Fietta.
Dal 1996 la sua vita cambia, e, con qualche difficoltà e qualche dubbio iniziale dato che non considerava sua carisma la vita parrocchiale, passa a vivere già ad un’età un po’ avanzata a Pozzuoli, nella cara Comunità parrocchiale S. Ártema Martire a Pozzuoli (Napoli), dove diviene, in maniera superlativa, il grande amico di tutti i ragazzi e delle loro famiglie. «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio (Sap 3, 1). Coloro che insegnano a molti la giustizia brilleranno come stelle per sempre» (Dan 12, 3). P. Sergio, con generosità e capacità di grande levatura e competenza, con il cuore di padre – juventutis vere parens – “Tutto per i Giovani”, si distingue, ovunque, per uno straordinario amore ai piccoli, facendosi piccolo egli stesso, per portarne a Gesú il Maggior numero. Dagli anni Ottanta, mentre conosce e fa esperienza di quella corrente di Grazia che si chiama Rinnovamento nello Spirito Santo, egli diventa tra i primi promotori e sostenitori di quello speciale metodo educativo, a forte caratterizzazione ludico- religiosa, che, nella storia del nostro Istituto in Italia, passa sotto il nome di “camposcuola”. Egli ne diventa l’animatore instancabile per un trentennio circa, capace di coagulare ingenti forze educative, (l’ultimo di questi campiscuola lo vede ancora protagonista entusiasta nel 2011, all’età di ben 81 anni!). Tuttavia il suo nome resterà legato indelebilmente, alla Comunità di Pozzuoli – dove i PP. Cavanis vennero chiamati nel 1996 dal vescovo Ex-Allievo monsignor Silvio Padoin. Lì, con cuore, intelligenza e amore assoluti, testimonia il primato di Dio, stando, in mille modi, con i piccoli, per entrare poi con loro nel Regno dei Cieli. Uomo di orazione e di azione, già provato da vari malanni, fu colpito dalla morte, sereno e abbandonato nelle mani del suo Signore. Muore a Pozzuoli, il 3 settembre 2012. Le esequie ebbero luogo prima a Pozzuoli, e ivi furono presiedute dal Vescovo diocesano, il giorno 5; quindi, all’indomani, in seguito al trasporto delle sue spoglie mortali, si celebrarono le esequie anche a Possagno nel Tempio canoviano.
P. Sergio riposa nel cimitero di Possagno, nella cappella del clero e dei religiosi Cavanis.
8.27 P. Enrico Franchin
Enrico Franchin nasce a Carpenedo di Albignasego (Padova) il 7 agosto 1915, da Giovanni e Giulia Grifalconi. Il 22 settembre 1925 entrò nel Probandato di Possagno; passò più tardi alla casa-madre di Venezia il 12 settembre 1931 dove continuò la sua formazione e i suoi studi. Ivi vestì l’abito dell’Istituto il 15 ottobre 1933, visse l’esperienza del noviziato nel 1933-34 ed emise la prima professione religiosa triennale nella Congregazione delle Scuole di Carità il 16 ottobre 1934, e celebrò la sua professione perpetua tre anni dopo, il 24 ottobre 1937.
Ricevette la prima tonsura clericale il sabato santo 8 aprile 1938, nella cappella del seminario patriarcale; i primi due ordini minori, dell’ostiariato e del lettorato il 1° luglio 1940, e i due ultimi ordini minori, dell’esorcistato e accolitato, il 21 dicembre 1940; il suddiaconato il 6 luglio 1941 dal patriarca Adeodato Piazza; il sacro diaconato, assieme a P. Giuseppe Fogarollo, nella basilica di S. Marco il 20 dicembre 1941, dal patriarca Adeodato Piazza. E fu ordinato prete, nella Basilica della Madonna della Salute a Venezia dallo stesso patriarca, il 28 giugno 1942. Completa il suo curriculum di studi laureandosi a Padova in Lettere e Filosofia.
Troviamo P. Enrico giovane prete a Porcari (1941-42), poi a Possagno-Canova (1944-46), a Venezia nel 1946-47, di nuovo a Possagno al Canova negli ammi 1947-49; a Porcari dal 1949 al 1953; al Canova dal 1953 al 1958; poi definitivamente a Porcari dal 1958 al 2007, quando per raggiunti limiti dìetà si ritirà a Possagno-.
Porcari (Lucca) fu dunque la Comunità e il paese dove più a lungo – per quasi complessivi 60 anni – P. Enrico profuse e testimoniò la ricchezza straordinaria del suo ministero educativo e sacerdotale. II 21 settembre 2007 il Consiglio comunale di Porcari riconosceva e insigniva il nostro Confratello della Cittadinanza onoraria, per le mani del sindaco, alla presenza di tanti amici, confratelli, ex-allievi, venuti appositamente per assistere al riconoscimento; a tutt’oggi (2022) è l’unica persona che sia stato insignita di questo onore a Porcari. P. Enrico ha sempre insegnato Lettere e Religione nella Scuola Media e nel Liceo scientifico degli Istituti in cui risiedeva. Ha inoltre ricoperto per parecchi anni la carica di vice rettore e consigliere, in particolare nella Comunità del Collegio di Porcari. Assai apprezzato, da alunni ed ex allievi, sia come professore, sia come confessore e guida spirituale al servizio quotidiano della Parrocchia e del paese di Porcari, presso la Chiesa di Maria SS.ma Immacolata, annessa all’Istituto Cavanis, fu amato e stimato dai confratelli per la fedeltà alla vita comune, lo stile di vita, semplice e povero, e il suo spirito di orazione. Nella brochure appositamente preparata per il Conferimento della Cittadinanza onoraria, cosi si scriveva di lui nel 2007: «La sua umile e pronta disponibilità, la sua semplicità coinvolgente, la sua capacità del rapporto intimo con le persone, la sua intuizione di psicologo nel comprendere e condividere le loro difficolta e le loro mancanze, la sua capacità nel far sentire come liberatorio il Perdono di Dio, nell’infondere conforto e speranza, per tomare con serenità alle proprie case e alle proprie occupazioni hanno fatto di P. Franchin, per molti, un punto di riferimento, costante e sicuro per tanti decenni».
Al momento di morire, P. Enrico era il confratello più anziano di tutta la nostra Congregazione Cavanis; aveva compiuto, in agosto, 97 anni di età; e in giugno aveva coronato il suo settantesimo anniversario di ordinazione presbiterale. Accudito con tanto amore nella sua lunga infermità (dal 2007 al 2012) dalla comunità di Possagno, nella casa di riposo per i religiosi anziani, la morte lo colse, in comunità, a Possagno, l’11 Novembre 2012. Le esequie furono celebrate nel Tempio canoviano di Possagno il 14 Novembre 2012. Riposa nel locale cimitero.
8.28 P. Giuseppe Colombara
Giuseppe Colombara nasce a Sovizzo (Vicenza), il 25 marzo 1922. Ricevuti i Sacramenti del Battesimo e della Cresima, entra in Congregazione il 12 settembre 1933, nel probandato di Possagno. Passa a Venezia il 12 settembre 1939 e ivi compie la sua vestizione religiosa il 20 ottobre 1939 e inizia l’anno canonico del Noviziato dal 1939 al 1940. Emette la prima professione il 23 ottobre 1940, e quella perpetua il 6 febbraio 1944, sempre in Casa Madre a Venezia.
Sempre a Venezia, ricevette la tonsura il 18 dicembre 1943, i primi due ordini minori, dell’ostiariato e lettorato, il 22 giugno 1946 e quelli dell’esorcistato e accolitato il 22 marzo 1947. Gli fu conferito il suddiaconato il 21 dicembre 1946, nella basilica marciana, dal patriarca Adeodato Piazza; il diaconato, pure nella basilica patriarcale di S. Marco. il 22 marzo 1947. Ricevette poi l’ordinazione presbiterale il 22 Giugno 1947, a Venezia, nella basilica del Redentore, per le mani del vescovo ausiliare monsignor Giovanni Jeremich.
Consegue, poi, la laurea in Lingua e l’abilitazione magistrale in Letteratura Inglese. Religioso, sacerdote, educatore di tanti giovani, ha accolto con serenità e pazienza le conseguenze del terribile incidente occorsogli a Porcari, come si narrava più sopra, durante la proiezione di una pellicola di film, più di 50 anni addietro, e che gli lasciò, in seguito alle ustioni, permanenti menomazioni fisiche. In quell’occasione, fu soprattutto P. Giovanni De Biaso che lo assistì nella malattia e nell’invalidità, veramente come un fratello e un amico.
Insegnante preparato ed esigente, di animo buono e sensibile, è stato un vero padre che ha saputo educare generazioni di ragazzi e giovani, nelle Comunità Cavanis di Borca di Cadore (1948-50); al Canova (1950-53); a Porcari dal 1953 al 1961); a Capezzano Pianore dal 1961 al 1965, almeno); di nuovo al Canova di Possagno dal 1967 al 1982, ma la sua appartenenza al collegio lo portava a essere membro e per certo tempo responsabile della filiale del Collegio Canova a Asiago.VI (1969-84), all’inizio per periodi di vacanze dei ragazzi, poi in modo più consistente. Fu a Roma-Casilina dal 1984 al 1988; poi di nuovo ad Asiago (1988-91); a Capezzano danel 1991-92; a Venezia (1992-94, almeno); in Casa del S. Cuore nel 1997-98; poi a Venezia dal 1998 al febbraio 20013, e, alla fine, per pochi mesi ancora a Possagno-Canova, fino alla morte nel maggio dello stesso anno.
Ha amato tantissimo la Congregazione, il carisma, i fondatori, tanto da diventarne un profondo conoscitore. Fu uno dei pochi confratelli a leggere un paio di volte tutti gli otto volumi dell’epistolario: lo si vedeva in camera, soprattutto dopo aver lasciato la scuola per raggiunti limiti di età, passare lunghe ore con uno dei volumi di questa preziosa opera, che teneva appoggiata su un leggio, mentre leggeva, meditava, annotava, riportava in certi suoi prontuari conservati nel suo archivio personale in AICV, le frasi che più lo avevano colpito. Fu lui a svolgere in buona parte, su richiesta del preposito, gli indici del volume VIII e gli indici di tutta l’opera, un lavoro tanto interminabile quanto prezioso.
Di alta statura e dirittura morale e spirituale, incuteva una certa soggezione, mitigata dal lieve ma chiaro trasparire della profonda bontà del cuore, e questo specialmente negli ultimi anni, a Venezia; anni segnati dal pensionamento dalla scuola, ma non dal ministero, e da sofferenza. Si seppe distinguere per l’alta concezione della missione educativa e professorale; e ancor più per la grande e profonda coscienza del ministero presbiterale “posto nelle sue mani”. Ovunque l’obbedienza lo chiamasse non si è mai tirato indietro; anzi faceva di ognuna di queste “chiamate” una occasione di ascetica conformazione a Cristo. Quanti l’hanno conosciuto ed amato confermano che sotto una certa rigidità del portamento e dello stile, egli sapeva essere arguto, raffinato, e perfino ironico. Come nel caso del suo testamento, laddove a proposito della sepoltura, cosi si esprimeva: “Per tutto quanto riguarda la mia sepoltura decidano i Superiori della mia Congregazione (ecc.), … possibilmente nel luogo più vicino al Paradiso”. Negli ultimi mesi della sua vita fu accolto dalla comunità di Possagno; accudito con tanto amore, la morte lo colse il 14 maggio 2013. Le esequie furono celebrate nel Tempio canoviano di Possagno il 17 maggio 2013. Riposa nel cimitero dell’amato suo paese natale di Sovizzo, per desiderio es presso formalmente della famiglia.
8.29 P. Giovanni Carlo Tittoto
Giancarlo Tittoto, figlio di Guido e Gilda De Zen, nasce nella bellissima cittadina di Asolo (Treviso) il 28 luglio 1934; entra in Congregazione, a Possagno, l’11 febbraio 1954. Vestì l’abito dei Cavanis nell’ottobre 1956 e visse l’esperienza del noviziato faciendo questa esperienza assieme a Fernando Fietta e Luciano Moser, nell’anno 1956-57, in Casa del S. Cuore, avendo come maestro P. Alessandro Valeriani. Emise la sua prima professione religiosa temporanea il 3 ottobre 1957 sempre a Possagno. La sua formazione continua a Venezia, dove fa la sua professione perpetua il 29 ottobre 1961;
riceve poi l’ordine del suddiaconato il 21 giugno 1964, il diaconato il 19 dicembre 1964 e, per l’imposizione delle mani del card. Giovanni Urbani, Patriarca di Venezia, riceve l’ordinazione presbiterale nella basilica della Madonna della Salute il 4 luglio 1965. Consegue poi la Licenza in Teologia con Diploma in Pastorale, nella Pontificia Università Lateranense a Roma.
Dopo l’ordinazione presbiterale, ricevuta assieme al P. Fernando Fietta, lo troviamo in Italia in casa del S. Cuore come assistente dal 1965 al 1967; all’Istituto Tata Giovanni dal 1967 al 1974, cioè fino alla fine della presenza Cavanis in quell’orfanotrofio, come assistente e per i suoi studi al Laterano.
Dopo il grande balzo che la Congregazione decise di fare arrivando in Brasile (29.12.1968) sull’entusiastica spinta del Concilio Vaticano II, il 27 settembre 1975 P. Giancarlo arriva come missionario in Brasile. Era partito il 14 settembre in nave, da Genova, come si faceva ancora a quei tempi, essendo la nave molto più economica dell’aereo. Aveva aspettato lungamente il visto per poter intraprendere il viaggio per il Brasile.
In Brasile esercita il suo Ministero in maniera semplice e umile, esercitando così due virtù molto care ai Venerabili PP. Fondatori. Con molto zelo e tanto amore ai piccoli e ai poveri lavora nelle seguenti città, parrocchie e attività: a Realeza (Paraná) nel 1974-75; a Pérola do Oeste, parrocchia vicina a Realeza, nel 1977-78, sempre come vicario parrocchiale; a Castro in seminario come assistente dal 1979 al 1982; dal 1982 al 1988 (e forse fino al 1991, ma mancano dati esatti) come vicario parrocchiale ad Ortigueira (Paraná); dal 1991 al 1994 di nuovo a Pérola d’Oeste; dal 1998 al 2000, dopo un triennio per il quale non disponiamo di dati, in Amazzonia, nello stato del Pará a Novo Progreso, come vicario parrocchiale in una parrocchia doppiamente missionaria: nel 1999 a São Mateus do Sul nel Paraná; dopo un’altra scarsità di dati relativa agli anni 2001-2007, è a Belo Horizonte (Minas Gerais) dal 2008 al 2010 e nel seminario e parrocchia di Uberlândia (Minas Gerais, nel Triângulo Mineiro) dal 2010 al 2013, anno della sua morte. Negli anni di cui non disponiamo di dati, risulta che sia stato anche a Maringà (Paraná), in parrocchia, e a Celso Ramos (Santa Catarina), sempre in parrocchia vicario parrocchiale. In questa parrocchia fu parroco nel 2001, e forse vicario dal 2000 e nel 2002-2003. Fu parroco nell’ultimo anno della presenza Cavanis a Mossunguê (Curitiba, Paraná) nel 2004. A Uberlândia comunque “termina la sua missione”.
Sempre si dimostra molto amabile, affettuoso, amico e compagno di tutti. Dovunque passa, lascia la sua profonda traccia di uomo semplice, allegro, accogliente e preoccupato solo del bene del suo prossimo, esaltando l’importanza del buon dialogo e delle buone relazioni con tutti. P. Giancarlo è un grande amico, e amico di tutti coloro che incontra; per lui l’amicizia è molto importante. Nonostante una certa timidezza, ha facilità di intrattenere buone relazioni di amicizia con tutti; sa ascoltare, avvicinare le persone con discrezione, in particolare i poveri e gli ultimi, condividendo con loro gioie e sofferenze. Di intensa e curata vita interiore, egli, di fronte all’Obbedienza che i Superiori di volta in volta gli assegnano, è sempre molto generoso e disponibile ad andare. E cosi è stata la sua vita missionaria Cavanis. La malattia e la conseguente infermità, protrattasi per due mesi nell’Ospedale di Uberlândia (Minas Gerais, Brasile), lo portano all’incontro col suo Signore il 13 settembre 2013. La Santa Messa esequiale è stata celebrata a Uberlândia, con la presenza di due Vescovi, molti confratelli e numerosi presbiteri del clero diocesano; la salma è stata poi portata a Castro (Paraná) e qui sepolta nella tomba dei Padri Cavanis. In Italia una S. Messa di suffragio, concelebrata da diversi Confratelli e alla presenza di Famigliari e amici, ha avuto luogo a Crespignaga (Treviso), dove abitava la sia famiglia, domenica sera 22 settembre 2013.
Su e per il caro P. Giancarlo Tittoto, P. Marino Scarparo scriveva così, in una sua commemorazione scritta e inviata ai confratelli a fine settembre 2013: “Ti ho conosciuto nella tua prima giovinezza, quando ti vedevo intento ai duri studi superiori, che ti avrebbero, non senza difficoltà, avviato verso la realizzazione del tuo cammino vocazionale. Gesù ti ha voluto suo servo umile e fedele nell’esercizio del ministero sacerdotale e tu ti sei sentito ispirato a donare tutta la tua vita per l’evangelizzazione delle genti brasiliane, là dove da poco tempo fiorivano le Missioni Cavanis. Il tuo cuore, innamorato di Cristo, ti ha permesso di entrare nella mentalità di tante persone con la tua semplicità e con la tua testimonianza. Ricordo commosso le tue indimenticabili esperienze di zelante apostolo, trascorse tra la povera gente, come tu stesso mi narravi, quando venivi a Chioggia. Ecco, avverto in te una stupenda presenza di Dio, che oggi ti chiama nella sua eterna dimora: “Vieni, servo buono e fedele!” La pace sia con te!”
8.30 P. Mario Zendron
P. Mario Zendron nasce a Lisignago (in Val di Cembra, destra dell’Avisio, provincia e arcidiocesi di Trento) il 15 febbraio 1930; entrato nell’Istituto il 30 ottobre 1942, vestì l’abito dell’Istituto il 17 ottobre 1948, compì a Possagno in casa del S. Cuore l’anno del noviziato (1948-49) ed emette la sua prima professione religiosa il 24 ottobre 1949, poi quella perpetua il 26 ottobre 1952. Ricevette il suddiaconato il 17 dicembre 1955, quindi il diaconato il 17 marzo 1956. Fu ordinato prete il 24 giugno 1956, a Venezia, nella Basilica della Salute, per le mani del Patriarca il card. Giovanni Roncalli, futuro papa San Giovanni XXIII. Schivo ma risoluto, egli è un educatore rigoroso, metodico e imparziale, con speciali competenze nelle discipline matematico-scientifiche. Si era laureato in scienze naturali a Padova.
Le Comunità e le Scuole di Venezia (1956-62; 1976-1979; 1985-87), di Porcari (1962-70), di Capezzano Pianore (1970-76; 1979-83; 1991-2000), di Possagno-Canova (1983-85) e di Sappada (1987-1990) lo vedono profondere, con amore, cura e passione, le migliori sue doti e capacità, con caparbietà, tenacia e competenze straordinarie. Si dedica anche allo studio delle Fonti Cavanis. Si conserva una serie di preziosi opuscoletti tematici che egli volle dedicare alla vita e alle Opere dei Fondatori (vedi M. Zendron in bibliografia),
Il 2 novembre 1996 all’Istituto delle Pianore, gli si presenta una terribile prova: un violento ictus cerebrale, con devastanti conseguenze sul piano fisico, motorio-funzionale, paralisi quasi completa. Dal 2000 passa alla casa di riposo e di cura per i religiosi infermi e anziani annesso al Collegio Canova di Possagno, dove rimane fino alla morte. Sono quasi diciassette anni di paralisi che progressivamente lo costringono all’infermità totale. Venerdì sera 11 ottobre 2013, mentre la nostra amata Congregazione fa memoria del venerabile fondatore P. Marco, il caro confratello entra in agonia, e muore il giorno seguente, 12 ottobre.
Semplicità, amore all’Istituto, passione e rigore per lo studio, devozione alla “Cara Madre Maria”, insieme a tanto sacrificio, sopportato con amorosa pazienza restano per sempre scolpiti nell’albo d’oro della nostra Congregazione. Le esequie furono celebrate nel Tempio canoviano di Possagno il 14 ottobre 2013. Riposa ora nel cimitero del paese natale, “Lisignac”, nella tomba di famiglia, per desiderio della famiglia.
Montanaro e con ottimo allenamento sportivo, da Possagno paese andava spesso a celebrare la S. Messa domenicale alla cappella della Madonna dell’ossario-memoriale del Grappa, superando circa 1500 m di dislivello, e ci andava a piedi per i sentieri e le scorciatoie più rapide, e, terminata la celebrazione tornava in collegio a Possagno, sempre a piedi, per pranzo! Anche nel periodo passato a Sappada, si dedicò molto alle escursioni in montagna, sia di carattere sportivo e di relax, sia di carattere naturalistico. Tra l’altro, in queste escursioni dei dintorni delle varie case in cui si trovò, raccoglieva campioni per i musei delle varie scuole dell’Istituto.
8.31 P. Luigi Scuttari
Luigi Scuttari nacque a Mestre (importante settore urbano non insulare, conurbazione del comune di Venezia) il 6 aprile 1969 ma cresce a Sottomarina (frazione o più esattamente quartiere della città di Chioggia, in provincia di Venezia). Frequenta il Centro di Formazione Professionale di Chioggia, fondato e condotto dall’Istituto Cavanis. Nel 1988, assieme al fratello Luca, entra in Congregazione, (a Fietta), dove visse un breve periodo di postulandato. Espletato il Noviziato negli anni 1988-89 in Casa Sacro Cuore, e dopo aver emesso la professione temporanea il 15 ottobre 1989, si consacra definitivamente al Signore con la professione perpetua il 7 dicembre 1993, nella Chiesa dell’Istituto di Chioggia.
A Roma, nel seminario Cavanis e presso la Pontificia Università Lateranense, frequenta il corso propedeutico e i quattro anni di teologia. Viene instituito nel ministero del lettorato il 29 marzo 1992 e nell’accolitato il 4 aprile 1993. È consacrato diacono l’8 dicembre 1994. Il 17 giugno 1995 riceve l’ordinazione presbiterale, nella Basilica di San Marco a Venezia, per l’imposizione delle mani del Patriarca, il cardinal Marco Cè, buon amico ed estimatore dell’Istituto Cavanis.
Di profonda umanità, si dedica generosamente all’educazione dei ragazzi e dei giovani, dapprima con base nella casa di Torpignattara a Roma (1995-97) nell’animazione dei Campiscuola vocazionali, poi, dall’1 ottobre 1997, nell’oratorio della parrocchia di S. Antonio a Corsico (Milano), come vicario parrocchiale (1997-2000), sostituendo il P. Loris Fregona.
Era un giovane di carattere vivace, di acuta intelligenza, gioioso, amante della chitarra e della musica, di cui si serviva nell’attività pastorale tra i giovani. Di notevole capacità nella meccanica, nell’informatica, era di quel tipo di persone che riescono a far funzionare e a operare qualsiasi tipo di apparecchio o macchina senza bisogno di leggere il manuale; un esperto nel campo delle tecnologie e dell’innovazione. Aveva frequentato, tra l’altro, i corsi e ricevuto il titolo di Impiantista civile – Riparatore Radio-Tv – Elettromeccanico.
Il 9 ottobre 2000, probabilmente su proposta del preposito, P. Pietro Fietta, offre per scritto la sua disponibilità alla vita missionaria, riceve il crocifisso di missionario dal Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, in quel Duomo e viene inviato dalla Congregazione a iniziare una nuova fondazione Cavanis in Romania, a Paşcani (Diocesi di Iaşi); ne viene quasi subito nominato Delegato (il 28 settembre 2001, per il periodo 2001-2004, incarico poi rinnovato) e rimane tale per sette anni; impara correntemente il rumeno e rimane a Paşcani ancora circa altri due anni quando venne sostituito in quella carica dal P. Antônio Elcio Aleixo.
Dopo quasi dieci anni di presenza in Romania vide finalmente costruito il Centro Giovanile “San Giuseppe”. Aveva avuto modo di far conoscere il Carisma della Congregazione anche in quel paese.
In seguito, rientrato in Italia, dopo una breve permanenza in Congo a Kinshasa (poco meno di due mesi, tra ottobre e novembre 2009), gli venne diagnosticata una grave e rara malattia cardio-vascolare. Sono gli anni della prova, accettata con serenità e fede. Sostenuto dai suoi cari, dall’Istituto, e da tante persone buone, affrontò la salita del suo “calvario”. Da tempo era iscritto all’AIDO (Associazione Italiana Donatori Organi), come altri confratelli, e aveva quindi offerto non solo la sua vita, ma anche i suoi organi per il bene di persone non conosciute. Nonostante tante cure e attenzioni, viene colto da morte improvvisa la sera di domenica 20 ottobre 2013, a soli 44 anni, lasciando sgomenti la famiglia, i tantissimi amici, l’Istituto; quell’istituto che egli aveva l’abitudine di chiamare non “la Congregazione” ma “la mia Congregazione”, come ricorderà suo fratello Luca nel messaggio dato il giorno del commiato nel funerale. Religioso di azione e di preghiera, lasciò una bella testimonianza di amore all’Istituto e alla Madonna. Le esequie furono celebrate nel Tempio canoviano di Possagno il 25 ottobre 2013. Riposa nel locale cimitero, assieme ai confratelli defunti.
8.32 P. Lino Carlin
Lino Carlin nacque a Susà di Pergine (Trento) il 21 novembre 1932. Entrato nel probandato, vestì l’abito Cavanis il 23 ottobre 1949 nella Casa del S. Cuore, visse lì il suo anno di esperienza del noviziato, emise la professione religiosa il 24 ottobre 1950, e la professione perpetua il 17 gennaio 1954.
Fu tonsurato il 3 aprile 1954, ricevette i primi ordini minori dell’ostiariato e del lettorato il 4 giugno 1955 ed è stato ordinato sacerdote il 23 maggio 1957 dal Patriarca Giovanni Urbani nella chiesa di Sant’Agnese.
Religioso, sacerdote, educatore di tanti giovani, ha profuso le sue doti di padre ed educatore, alternandosi regolarmente nelle case di Possagno (1958-61; 1973-82; 1985-2014) e di Capezzano Pianore (1961-73; 1982-85). Di carattere forte e preciso soprattutto nel servizio di economo, è stato per molti anni assistente ed insegnante di Educazione Fisica. Educatore rigoroso, metodico ed esigente, nascondeva un animo sensibile e generoso.
Ero uomo molto umile, accettava tutti i compiti a lui assegnati, anche quello di semplice portinaio.
Il giorno 22 febbraio 2014 nel Collegio Canova di Possagno è tornato alla casa del Padre. I funerali si sono svolti a Possagno nel Tempio Canoviano con grande partecipazione di religiosi Cavanis, allievi ed ex allievi, amici e molti abitanti di Possagno. È stato tumulato nel cimitero di Possagno.
8.33 P. Artemio Bandiera
Artemio nasce a Piombino Dese (Padova) il 2 giugno 1929. Entra giovanissimo in Congregazione, attraverso la mediazione di Don Luigi Vardanega parroco di Torreselle che, essendo nativo di Possagno, conosceva bene i Cavanis. Dopo la formazione iniziale nel probandato di Possagno, vestì l’abito Cavanis, assieme a una quindicina di compagni, il 19 ottobre 1946 e visse l’esperienza del noviziato a Col Draga, presso il Noviziato della Casa del S. Cuore nel 1946-47. Emise i primi voti il 29 ottobre 1947, e la professione perpetua in Sant’Agnese il 29 ottobre 1950.
Ricevette la prima tonsura ecclesiastica nella cripta di S. Marco a Venezia, dal Patriarca Carlo Agostini il 23 dicembre 1950; i primi due ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 29 giugno 1952 e i secondi due, esorcistato e accolitato, il 21 giugno 1953. Fu consacrato diacono il 3 aprile 1954 e fu ordinato prete il 27 giugno 1954, a Venezia per le mani del Card. Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Papa San Giovanni XXIII. Completa poi la sua preparazione al ministero della scuola con la laurea in Lettere e successiva abilitazione. Religioso semplice, buono e gioioso, profonde le sue doti di padre ed educatore – anche di capacità di esercitare la direzione di opere – nella Scuola (anche statale) e nelle Case di Formazione con intensa testimonianza di vita e di preghiera. Esercita la sua dedizione educativa e pastorale successivamente in Probandato di Possagno (1954-61; forse con un’interruzione nel 1959, quando pare sia stato brevemente a Porcari, forse per una supplenza); poi ancora in Probandato nel periodo 1963-67; a Levico, come rettore nel seminario minore, dal 1970 al 1975, e poi, non più come rettore, dal 1975 al 1986; fu rettore a Porcari (1985-94); direttore del seminario (liceale) di Fietta (1994-97); a Roma, come vice-maestro di novizi dal 1999 al 2002; fu rettore della casa del S. Cuore nel 2003-04 e poi 2007-11; a Porcari dal 2004 al 2007. Dal 2011 è nel Canova di Possagno, nella casa di riposo, fino alla morte, avvenuta nel 2014.
Particolarmente apprezzato e generoso fu il suo stile di accompagnamento nell’ambito delicato della formazione iniziale dei futuri Cavanis. Fortissimo il suo Amore all’Eucaristia, lunghe le sue ore di Adorazione. Oltre che per i nostri Venerabili Padri Fondatori, nutriva una devozione tutta particolare per il caro P. Basilio Martinelli, di cui aveva scritto una bella biografia. La vita di P. Artemio è stata lunga e operosa. Bontà e fedeltà lo hanno sempre accompagnato ogni giorno durante i 67 anni di vita religiosa Cavanis, 64 anni di insegnamento e 60 anni di vita sacerdotale: «Il Signore e la Madonna mi hanno sempre voluto tanto bene» – amava ripetere, e attribuiva a P. Basilio la grazia di essere sopravvissuto ai due difficili interventi chirurgici al cuore che aveva subito. Era molto devoto del Sacro Cuore di Gesù e praticava sempre i Primi venerdì del Mese; aveva anche manifestato il desiderio di morire in un Primo venerdì del Mese e il Signore lo ha esaudito. Era il 7 novembre 2014. Le esequie, presiedute dal Rev.mo P. Pietro Fietta, Preposito generale, hanno avuto luogo a Possagno nel Tempio Canoviano il 10 novembre 2014. Riposa nel cimitero di Possagno, assieme ai confratelli ivi inumati.
8.34 P. Angelo Moretti
Angelo Moretti nasce a Capannori (Lucca), borgata non lontana da Porcari, il 16 febbraio 1934, in una famiglia profondamente cristiana. Entra da ragazzo nel Seminario Cavanis di S. Alessio (Lucca) il 19 ottobre 1946, veste l’abito dell’Istituto il 15 ottobre 1950, vive l’esperienza forte del noviziato nel 1950-51 ed emette la prima professione religiosa il 2 ottobre 1951 in Casa Sacro Cuore a Possagno; poi, dopo compiuti gli studi liceali a Possagno, collegio Canova, e aver professato i voti perpetui il 27 febbraio 1955, compie gli studi teologici completi a Roma alla Pontificia Università Lateranense dal 15 ottobre 1955, assieme a colleghi chierici Augusto Taddei e Feliciano Ferrari, conseguendo la licenza, e a seguito dell’equipollenza, l’abilitazione alla docenza in Lettere nelle scuole medie inferiori. Ricevette, a Roma, gli ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 28 luglio 1957, dell’esorcistato e dell’accolitato il 19 ottobre 1957, il suddiaconato il 28 luglio 1957 e il diaconato il 21 dicembre 1957, a Venezia. Viene ordinato prete a Roma il 25 aprile 1958 dal vescovo possagnese e ex-allievo dell’Istituto, Vicegerente della diocesi di Roma, monsignor Ettore Cunial, nella Parrocchia dei Santi Marcellino e Pietro ad duas lauros, sulla Via Casilina, che allora, come si sa, non era ancora stata affidata all’Istituto..
Dopo la lunga esperienza degli studi teologici a Roma e l’ordinazione presbiterale, esercitò con passione e generosa dedizione il ministero di educatore prima all’Istituto Tata Giovanni a Roma Ostiense (1958-61), poi insegnando Lettere nelle nostre scuole di Porcari (1961-63), Possagno-Collegio Canova (1964-76), casa di cui fu più tardi rettore dal 1970 al 1973 e ancora come religioso semplice dal 1973 al 1976; a Capezzano Pianore dal 1977 al 1982 dove, dal 1979, fu nominato rettore (1979-82), dopo la tragica morte in montagna di P. Giosuè Gazzola, accaduta il 10 settembre 1979; poi nella scuola media di Venezia (1982-88). Passò un primo periodo nella casa del S. Cuore dal 1988 al 1992; poi fu formatore a Fietta del Grappa dal 1994 al 2002; per un anno (2002-03) fu rettore provvisorio a Roma, per risolvere un’emergenza; vi svolse anche l’incarico di maestro dei novizi.
Fu chiamato a ricoprire cariche di responsabilità locale come Rettore del Collegio Canova di Possagno, del Liceo di Capezzano Pianore, di Villa Buon Pastore di Fietta del Grappa e della Casa Sacro Cuore di Possagno. Ha servito la Congregazione come consigliere generale dal 1973 al 1985 e come primo consigliere e pertanto Vicario generale dal 1985 al 1989, nel secondo mandato Incerti, e poi di nuovo, ancora come primo consigliere e vicario generale, durante il mandato Leonardi (1989-95), con una presenza e attività veramente preziose. Fu ancora, brevemente, 4° consigliere provinciale d’Italia nel 2002-2003, incarico che fu interrotto quando partì per la Romania.
Religioso umile e semplice, ma di una profonda spiritualità e serenità interiore, ha profuso le sue doti di educatore anche come Maestro dei Novizi a Possagno e Maestro degli studenti Religiosi a Roma.
Dal 10 novembre 2003 al due dicembre 2009, nonostante l’età avanzata, ormai sulla settantina, accettò di vivere l’esperienza del missionario a Paşcani (Romania) adattandosi ai disagi tipici degli inizi di una nuova missione e sostenendo la comunità con la sua testimonianza religiosa. Nell’età avanzata (2011-2015) si è dedicato al ministero degli esercizi spirituali e ad accompagnare gruppi di preghiera nella Casa del Sacro Cuore di cui, già prima, era statto membro dal 1988 al 2003 e rettore dal 1994 al 2003.
Aveva grande rispetto e quasi venerazione per i Superiori. P. Angelo nutriva un amore speciale a Maria, e al Sacro Cuore di Gesù,
La sua giornata terrena si è conclusa proprio in Casa Sacro Cuore il 23 marzo 2015 e le esequie, presiedute da P. Pietro Fietta, Preposito generale, sono state celebrate il giorno dell’Annunciazione del Signore, a Possagno, nel Tempio canoviano. Riposa nel cimitero di Possagno.
8.35 P. Primo Zoppas
Nacque a Susegana (Treviso) il 28 marzo 1927, entra in Congregazione a Possagno nel 1939 e, dopo aver compiuto l’anno del Noviziato, emette la prima professione il 29 ottobre 1946 e quella perpetua il 29 ottobre 1950.
Gli fu impartita la prima tonsura ecclesiastica il 26 marzo 1950; i primi due ordini minori, l’ostiariato e l’accolitato, il 1° luglio 1951; i secondi due ordini minori dell’esorcistato e dell’accolitato, il 29 marzo 1952. Ricevette il suddiaconato il 29 giugno 1952, il diaconato a Chioggia, per le mani del confratello monsignor Giovanni Battista Piasentini, il 25 gennaio 1953 e l’ordinazione presbiterale a Venezia il 21 luglio 1953 per l’imposizione delle mani del Patriarca di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi divenuto S. Giovanni XXIII. Conseguita l’Abilitazione Magistrale, frequenta l’ISEF a Roma (Istituto Superiore di Educazione Fisica) e ottiene il Diploma per l’insegnamento dell’Educazione Fisica.
Religioso, sacerdote, educatore di tanti giovani, ha profuso le sue doti di padre ed educatore come insegnante di educazione fisica nelle case di Venezia (1958-67; 1970-79; 1982-90), Possagno- Canova (1953-58; 1968-69), Roma, Capezzano Pianore (1979-82). Di carattere forte, è sempre stato in mezzo ai giovani educandoli particolarmente allo sport, è stato per molti anni assistente ed insegnante di educazione fisica. Era molto amato dai ragazzi e giovani perché, anche se severo come insegnante di ginnastica, era sempre disposto a farli giocare a calcio e in altri tipi di sport, a organizzare coppe e campionati, e anche per il suo tipo spontaneo di personalità. Spesso affiancherà alla docenza anche il ruolo di segretario della scuola nonché di assistente alla disciplina.
L’ultima lunga fase della sua vita attiva, dal 1990 al 2008, la passò a Sappada, come responsabile (unico religioso) della casa, che all’epoca aveva come attività principale di mantenere e dirigere moralmente un liceo della vallata, sito a Cima Sappada e l’essere casa di ferie, particolarmente casa per l’attuazione di settimane bianche nella stagione invernale. P. Primo, lui stesso, del resto amava moltissimo sciare e camminare in montagna, si sentiva al suo posto nell’ambiente alpino e in seno alla natura. Direttore della Casa Soggiorno Cavanis, vicePreside, Segretario e Docente nel locale Liceo Linguistico Giovanni Paolo I, collabora, al contempo, nel Ministero sacerdotale sia in Parrocchia che presso il Santuario Regina Pacis; per un periodo è anche Vicario parrocchiale della vicina Forni Avoltri, in Friuli.
Trascorse gli ultimi anni di vita (2008-2016) nella nostra casa di riposo per religiosi anziani a Possagno, assistito con amore nella sua malattia e nella sua estrema età.
In seguito a una caduta che gli fu fatale per aver battuto malamente la testa contro lo stipite di una porta, giunse all’ospedale di Castelfranco TV in situazione disperata, ma non resistette e morì alle prime ore del 1° maggio 2016, a 89 anni. I funerali si sono svolti a Possagno, nel Tempio Canoviano, martedì 3 maggio e fu presieduto da P. Irani Luiz Tonet, vicario generale. Fu tumulato nel cimitero di Possagno.
Di P. Primo, si racconta un episodio forse un po’ leggendario. Desiderava che gli fosse affidata la responsabilità di superiore di una casa, possibilmente, come rettore di una casa granda, come diceva lui in veneto. Una volta alcuni confratelli più o meno coetanei, del tipo scanzonato, ancora negli anni ’50, riuscirono a carpire una delle buste arancioni con l’intestatura della curia generalizia, buste con le quali tra l’altro si inviavano le “obbedienze”, cioè gli ordini di trasferimento o di assunzione di cariche e responsabilità; scrissero pure in carta intestata e inviarono nel mese di agosto una lettera falsa a P. Primo, nella quale risultava che era nominato rettore appunto di una “casa granda”, non so se Venezia o Possagno-Canova. P. Primo, uomo semplice, non subodorò l’inganno, e rimase felice che il suo desiderio fosse finalmente esaudito; anzi invitò un gruppo di amici – proprio quelli che gli avevano giocato questo scherzo veramente di pessimo gusto – a mangiare una pizza insieme. Alla fine della festa gli “amici” gli rivelarono ridendo che si trattava di uno scherzo, e Primo ci rimase molto male e ne rimase un po’ complessato. Forse anche da questo, se la storia è vera, e si racconta come tale, in comunità era un po’ burbero.
Anche per questo fu molto grato al preposito che, molto più tardi, lo rese direttore – e responsabile anche del Liceo, finché durò – della casa di Sappada, anche se era una casa piccola, e anche se lui era l’unico religioso della casa. Ma era pur sempre un incarico di direttore, il primo nella sua vita.
8.36 P. Rocco Tomei
Rocco Tomei nasce a Vagli di Sopra (in Garfagnana, provincia di Lucca) l’8 febbraio 1933 ed entra nel Seminario di S. Alessio il 19 luglio 1942. Da qui le classiche tappe della formazione iniziale che lo porteranno prima alla vestizione (15 ottobre 1950), alla professione temporanea il 2 ottobre 1951 e alla professione perpetua il 24 ottobre 1954.
Ricevette la tonsura il 4 giugno 1955 in Sant’Agnese; i primi due ordini minori, ossia ostiariato e lettorato, i secondi due ordini minori, ossia esorcistato e accolitato, a Venezia il 20 dicembre 1957; il suddiaconato il 22 giugno 1958; il diaconato a Venezia nella basilica della Salute, dal nuovo patriarca, Giovanni Urbani, l’8 gennaio 1959 e poi, ugualmente a Venezia, il presbiterato il 14 Marzo 1959, nel sabato sitientes, nella basilica di S. Marco, dal card. Patriarca Giovanni Urbani, assieme al confratello Feliciano Ferrari.
Da giovane, come seminarista e poi giovane prete, era scanzonato, allegro, divertente, un amico di tutti. Era molto interessato allo sport (Juventino); stranamente aveva anche la passione della caccia, che esercitava qualche volta, nelle brevi vacanze; attività che dette qualche problema per la presenza di armi, sia pure da caccia, nella casa religiosa.
Già da seminarista passò qualche anno nella casa di Chioggia. Questa bella città della laguna veneta sarà poi la sua città di adozione, il luogo del suo lungo ministero, che con grandi risultati pastorali e meriti condusse per quaratasette anni; lì dove l’Istituto Cavanis aveva aperto, nel 1954, il Centro di Formazione Professionale Maria Immacolata.
Formatore della quasi totalità degli artigiani della zona, ricopre per molto tempo la carica di Rettore della casa di Chioggia: per ben ventidue anni (1991-2013); dal 1989 al 1995 è anche Consigliere generale. Un sacerdote non convenzionale, un educatore rigido ma amatissimo, specialmente dagli ex-allievi; un uomo che ha saputo avvicinare alla religione anche persone non praticanti. Insegnava meccanica, ma con i ragazzi stringeva rapporti di amicizia e di affetto che andavano ben oltre le ore di lezione e gli anni di scuola. Era usuale incontrarlo in tuta da meccanico, sempre al lavoro, anche di muratore, pittore, elettricista, per la buona manutenzione della casa e della scuola; sempre con la battuta pronta. Profondo il suo amore alla Madonna, ai venerabili fondatori e all’Istituto. Aveva anche una spiccata memoria e devozione a riguardo del venerabile P. Basilio Martinelli e di P. Carlo Donati, suo formatore nel seminario minore, che egli stimava un santo.
Durante l’estate 1991 il preposito di allora aveva pensato di cambiare un po’ la situazione della casa di Chioggia e aveva anche bisogno di un buon rettore della casa di Roma. Aveva già mandato a P. Rocco la lettera di “obbedienza” di trasferirsi a Roma con questo incarico. Purtroppo l’incidente stradale e poi la morte di P. Giuseppe Cortelezzi, allora prezioso rettore a Chioggia, che accadde il 3 settembre 1991, costrinse il preposito a ritornare sulla sua decisione e a incaricare P. Rocco di rimanere a Chioggia e di assumere la direzione della casa come rettore. Vi rimase così fino al 2013, per quasi altri ventidue anni, e, pur vivendo poi in Toscana negli ultimi anni, rimase ascritto alla casa di Chioggia fino alla morte.
P. Rocco ebbe anche altre cariche oltre a quella di membro e poi rettore della casa di Chioggia: fu quarto consigliere generale dal 1989 al 1995, nel mandato Leonardi; fu nominato 4° consigliere provinciale, in sostituzione di P. Danilo Baccin, morto il 17 novembre 2001, e fu eletto 3° consigliere nel governo provinciale successivo (2002-2005). Fu ancora, come si diceva, rettore nominato della casa di Roma; e nel 2005-06 rettore delle due case riunite di Venezia e Chioggia, pur essendo residente a Chioggia. Fu anche, assieme a P. Bruno Consani, scrutatore del Capitolo generale straordinario speciale, contribuendo i due giovani padri, con la loro attività svolta con tono spigliato e scanzonato, anche se perfettamente fedele, un clima più sereno e gradevole in quelle importanti assise.
Quanto alla sua presenza e attività nelle case. P. Rocco fu a Chioggia per un anno (1965-57) da chierico, legandosi di affetto a quella casa; dopo l’ordinazione presbiterale fu a Chioggia dal 1959 al 1962; a Venezia dal 1962 al 1964; ancora a Chioggia dal 1964 al 1970; a Venezia dal 1970 al 1972; al collegio Canova di Possagno nell’anno scolastico 1973-74; fu formatore, come assistente, al probandato di Possagno dal 1974 al 1977; poi passò a Chioggia dall’autunno 1977 al 2013 (formalmente, fino alla morte, nel 2016). Era rimasto a Chioggia dunque buona parte della sua vita.
Il 16 ottobre 1994 P. Rocco ricevette, a titolo personale e per l’Istituto Cavanis, un premio dell’Associazione Artigiani di Chioggia, come segno di gratitudine per la formazione di più di 100 artigiani nei 40 anni di vita del Centro di Formazione Maria Immacolata. La notizia è stata riportata anche sul Gazzettino del 17 ottobre 1994.
Pure nel 1994 P. Rocco compì, con P. Giuseppe Leonardi e con amici del Centro Professionale Cavanis di Chioggia, un viaggio in Slovenia e Croazia, in tempo e situazione di guerra, per portare un camion di aiuti alimentari e medici ai necessitati, visitando campi di profughi e il vescovo di Zara nell’aprile 1994.
A Chioggia, P. Rocco non si occupava solo del suo ministero principale dell’educazione nella scuola professionale; aiutava pastoralmente nelle parrocchie, partecipava alla vita della città, essendone molto conosciuto e amato; fu anche cappellano volontario (non propriamente cappellano militare) in alcune caserme, particolarmente di paracadutisti e di missilisti, site non lontano dalla sede della sua casa religiosa.
Questa attività, pur preziosa dal punto di vista pastorale, contribuì ad aumentare una sua posizione politica notevolmente nostalgica del ventennio.
Nel 2013 chiede e ottiene di ritirarsi nella sua Toscana, debilitato dalla malattia, per vivere l’ultimo periodo accanto ai suoi, più esattamente nella casa della sorella, che lo assistette nella vecchiaia e nella malattia. Uomo di profonda umanità, cultura e spiritualità, così scrive nel suo Testamento: «Se al Signore piacerà riportarmi alla sua casa con una morte particolarmente tribolata e dolorosa, Gli chiedo di donarmi le forze di saper sopportare il mio Calvario con animo sereno e di accogliere i poveri meriti della mia piccola passione, per portare sugli altari quelle sante creature che sono Antonio e Marco Cavanis, ai quali io dono continuamente la mia gratitudine per avermi creato una culla dalla quale sono uscito come Sacerdote e come Religioso, le uniche realtà della mia vita di cui sono orgoglioso».
P. Rocco morì a Vagli di sopra il 31 ottobre 2016. Le esequie sono state celebrate il 2 novembre 2016 nel suo paese; e quivi riposa in attesa della beata risurrezione.
8.37 P. Bruno Lorenzon
Bruno nacque a Roncade (provincia e diocesi di Treviso) il 21 novembre 1929, entrò ancora pre-adolescente nel probandato di Possagno il 4 luglio 1942, vestì l’abito della Congregazione il 19 ottobre 1947, visse l’esperienza del noviziato nel 1947-48, avendo come maestro dei novizi P. Alessandro Vianello, e come compagni un folto gruppo di 15 novizi, uno dei più numerosi, se non il maggiore, della storia dell’Istituto in Italia, emise la professione religiosa temporanea il 20 ottobre 1948, e quella perpetua a Venezia il 28 ottobre 1951.
Ricevette la prima tonsura il 22 dicembre 1951 nella cripta della basilica di san Marco; i primi due ordini minori il 21 giugno 1953 nella basilica della Salute; i secondi due ordini minori il 3 aprile 1954 nella basilica di San Marco; il suddiaconato 21 settembre dello stesso anno; il diaconato il 21 settembre 1954 (ma c’è anche un’indicazione molto più probabile di 26 marzo 1955, nella cappella principale del patriarchio; e fu ordinato prete il 6 aprile 1955, a Venezia in S. Agnese, per le mani e la preghiera consacratoria del vescovo confratello monsignor. Giovanni Battista Piasentini. Con lui furono ordinati preti anche i padri, Franco Degan, Natale Sossai, Raffaele Pozzobon, Mauro Verger, Francesco Giusti.
Religioso, sacerdote, educatore, buon conoscitore della vita e delle opere dei padri fondatori e della Parola di Dio e amante dell’arte. Aveva nelle sue parole, omelie, discorsi informali, momenti di dialogo con altri, uno stile e un contenuto di carattere profetico molto profondo e caratteristico.
La sua vicenda personale, talora segnata da incomprensioni e il suo percorso di vita ci forniscono una personalità quanto mai poliedrica: uomo di studio, affascinato dalla continua ricerca del Bello e del Vero, che poi ha saputo trasmettere anche mettendo mano all’arte pittorica, come diremo. Amore alla Congregazione, spirito profetico manifestato nella predicazione, e competenze diverse che ha messo a disposizione, quando, su incarico dei Superiori, ha intrapreso ricerche storiografiche sulle Fonti dell’Istituto Cavanis; esemplare lo studio storico sulle origini dell’Istituto femminile delle Scuole di Carità, del 2003.
Dotato di buona cultura, buono e sensibile, ha vissuto parecchi anni da solo (1991-2003; 2004-2016), di sua iniziativa non approvata, ma neanche formalmente impedita dai superiori, fuori delle case della Congregazione; tuttavia rimaneva aggregato alla Famiglia religiosa di Corsico.
Prima, era stato membro delle Comunità Cavanis di Venezia, Chioggia, Roma, Asiago e nella missione dell’Ecuador, come formatore ad Esmeraldas, nel piccolo postulandato. Nelle nostre scuole insegnava disegno, con competenza, con serietà e con buona capacità di mantenere l’ordine e la disciplina in classe, e al tempo stesso di mantenere nei ragazzi e nei giovani l’interesse per la materia e, nei casi migliori, di trasmetterne la passione.
Più in dettaglio, lo troviamo, già prima dell’ordinazione presbiterale, a Venezia durante gli studi teologici, come parzialmente insegnante di disegno alle scuole medie, soprattutto come assistente del P. Giovanni D’Ambrosi che insegnava appunto disegno ma che, per l’età avanzata, aveva difficoltà a controllare la disciplina della classe.
Continuò poi a educare ragazzi e giovani nella scuola per buona parte della sua vita, insegnando disegno ornato, disegno tecnico, educazione artistica, insegnamento della religione cattolica, storia dell’arte, in varie case e nei vari tipi di scuola.
Dopo l’ordinazione presbiterale rimase per qualche mese a Venezia; poi dal 1956 al 1958 lo troviamo una prima volta a Roma-Casilina; dal settembre 1958 al 1965 a Chioggia; dal 1965 al 1971 a Venezia, ma da altra fonte appare come insegnante di arte presso l’Istituto d’Arte a Milano; ancora a Venezia dal 1971 al 1980; da 1980 al 1982 è vice-parroco a Corsico; dall’autunno del 1982 al 1985 è Roma-Casilina, poi per tre mesi nel 1985 in Casa al S. Cuore, preparandosi per la sua vita missionaria; di passaggio a Roma prepara la prima pietra di fondazione del nuovo edificio delle scuole e della comunità della casa di Roma, gettata in cemento, che si può ammirare alla sinistra del pilastro della porta d’entrata dell’edificio e che rappresenta la stemma Cavanis. Dalla fine del 1985 al 1989 è missionario a Esmeraldas in Ecuador, sulla costa dell’oceano Pacifico, occupandosi principalmente del nostro primo piccolo seminario in Ecuador, che era in quella città, come responsabile della formazione dei primi aspiranti e postulanti equadoriani e colombiani di quella regione; dal 1987 al 1990 fu anche economo regionale della Regione Andina.
Ritorna poi in Italia e nel 1989-90 è assistente al convitto Cavanis di Asiago: vive poi a Roma dal 1990 al 1992, inizialmente come maestro dei chierici (ma dà le dimissioni l’8 gennaio 1991) poi brevemente nella parrocchia dei SS. Marcellino e Pietro, affidata ai Cavanis da due anni; nell’agosto di quell’anno lasciò Roma e passa a Segrate (Milano), dedicandosi all’arte e anche aiutando, nei fine settimana, la parrocchia dei Cavanis a Corsico. Il 20 luglio 2003 è nominato rettore della casa di Roma, ma dopo i primi tempi, il 29 luglio 2004 presenta le dimissioni e firma una rinuncia. Come conseguenza, il 13 agosto 2004 fu assegnato alla casa di Corsico, ma non abita in quella casa religiosa, bensì a Segrate.
Vari inviti dei successivi superiori generali a rientrare in comunità non ottennero successo, il che, almeno durante il mandato Leonardi, creò qualche problema e attrito con l’arcidiocesi di Milano, che non era favorevole alla sua situazione considerata anomala e anzi non ammetteva clerici vagiin quell’arcidiocesi, ma noi Cavanis ci si era convinti che questa attitudine dipendeva non da cattiva volontà ma dal desiderio di occupare il suo tempo (e avere lo spazio fisico e spirituale necessario) per essere un pittore; e si portava pazienza, mantenendo affettuosamente il contatto con lui e visitandolo con qualche frequenza.
Ci riuscì nell’autunno 2016 l’attuale superiore Delegato P. Pierluigi Pennacchi negli ultimi mesi di vita di Bruno, e lo ricondusse a Corsico, nell’ambiente della comunità e della parrocchia. Ammalato, vi morì piamente e serenamente pochi mesi dopo, il 29 gennaio 2017. I funerali si svolsero a Corsico, nella Parrocchia S. Antonio di Padova martedì 31 gennaio 2017 alle 9. Fu tumulato nel cimitero di Possagno (TV) nella cappella dei Sacerdoti, lo stesso giorno in serata.
Vale la pena di tentare un cenno sulla sua vita di artista e sulla sua opera, pur senza averne la competenza e senza disporre di tutti i dati. La cosa meriterebbe però di essere studiata da una persona competente, un critico d’arte.
Una prima fase fu quella della sua giovinezza (1948-1958), in seminario maggiore e da giovane prete; dipingeva quadri, pannelli, murales di carattere agiografico-figurativo, volta a volta a olio su tela, a tempera su parete, a mordente su compensato, rispondendo più che al suo estro personale, che tendeva al non-figurativo, a richieste pratiche della comunità. Di questa fase rimangono come esempio i due gradevoli pannelli gemelli in compensato (146×56 cm) con le immagini monocrome dei fondatori, Antonio e Marco Cavanis, conservati attualmente nella cappella di comunità di Venezia. Tali figure sono però copia di originali del pittore e scultore Umberto Mastrojanni.
Verso la fine degli anni Cinquanta, P. Bruno fu incaricato dal rettore della comunità di Venezia, all’epoca P. Federico Grigolo, su probabile richiesta del padre sagrista, che era P. Giorgio Dal Pos, di produrre un grande quadro da altare rappresentante S. Giuseppe (sposo). Tale quadro doveva avere una dimensione di circa 150×60; non era una vera pala da altare, ma un quadro più modesto, con bella e antica cornice dorata, che veniva issato temporaneamente, incassandolo in due sostegni metallici, sull’altare maggiore di S. Agnese, dietro e sopra il tabernacolo, in occasione delle feste e delle relative novene e/o ottave. Un quadro che aveva la stessa funzione è quello di S. Giuseppe Calasanzio, ottocentesco, a olio su tela (130×70 cm), che si trova attualmente con una bella cornice, ma molto malridotto e bisognoso di restauro, nel corridoio del reparto della comunità religiosa di Venezia, antico noviziato.
P. Bruno, pur mantenendo lo stile (quasi) figurativo – come è tradizionale anche oggi nell’arte sacra –, eseguì un quadro di S. Giuseppe (olio su tavola) che fece discutere molto la comunità e anche gli allievi. Ricordo che il santo, non molto riconoscibile e senza aureola, aveva una grande tunica verde, più larga che alta, che soprattutto non “cadeva” come una tunica ma sembrava sospesa nello spazio. La tavola non piacque, fu utilizzata quell’anno, ma non ricordo di averla più vista issare sull’altare maggiore. Del resto poco dopo, con la riforma liturgica del 1965, molte cose cambiarono e mutò anche la disposizione dell’altar maggiore (1967).
Una fase gradevole ma a mio parere più decorativa che pittorica dell’arte di Bruno Lorenzon fu quella dei “vieri”, fase corrispondente ai sette anni trascorsi a Chioggia (1958-65). P. Bruno era rimasto impressionato dalla presenza nella laguna, proprio davanti all’Istituto Cavanis con la sua scuola professionale, di innumerevoli “vieri”, cioè dei cesti chiusi, a quel tempo fatti di vimini, che servivano per l’allevamento e la selezione dei granchi, Questi, al momento di perdere e ricambiare il duro carapace durante le fasi di crescita del crostaceo, diventavano in quei “vieri” le pregiatissime e molto care “molecche”, cioè granchi teneri e commestibili. I vieri, con le corde che li sostenevano e i relativi pali di appoggio, colpirono la fantasia di Bruno, che dipinse molti quadri e pannelli, in genere in materiale povero (tempera? su compensato) con varianti su questo tema. Alcuni di questi pannelli policromi con “vieri” erano appesi in portineria e nelle salette delle visite della scuola di Venezia.
Seguì negli anni ’70 una fase astratta, di tipo sostanzialmente geometrico, rappresentanti oggetti che sembrano (ma probabilmente non sono) porte, finestre, ed altre forme poligonali, a colore prevalente bianco: una delle tinte preferite da Bruno. Due quadri di questa fase, firmati ma non datati (62×80 cm) sono appesi nella maggiore delle salette da visite attigue alla portineria dell’Istituto di Venezia.
Non manca nel 1974 una fase figurativa e paesaggistica, olio su tela, con panorami veneziani piuttosto interessanti e gradevoli. Alcuni sono appesi (di recente) per le pareti della casa madre.
Il lungo periodo in cui Bruno visse a Sesto San Giovanni e/o a Segrate (1993-2016) corrisponde a quella che possiamo chiamare la sua fase pittorica arabo-islamica, figurativa e calligrafica insieme, a mio giudizio molto ripetitiva e poco ispirata, rappresentante case di stile medio-orientale con sovrapposte scritte del Corano in arabo. In questa fase produceva oltre a quadri, piuttosto piccoli, a olio su tela o acrilico su legno, anche opere di collage con frammenti di giornali di paesi arabofoni incollati e parzialmente dipinti. Ne fa fede, per esempio, il dépliant di advertising di una sua mostra personale a Roncade (Treviso) del 1998.
Consultando internet alla voce “Bruno Lorenzon Pittore” si trovano alcune citazioni. Che dimostrano la sua presenza sul mercato di quadri (fiere, mostre personali, aste), ma in modo piuttosto ridotto. Non si trova per esempio un suo curriculum o una biografia in questi siti.
Il sito “Arcadia di aste”, presenta un’opera del Lorenzon, che descrive così (2015): Descrizione. 290, Bruno Lorenzon. Testimonianza n°1. 1972, olio su tela cm 70×60. Firma in basso a destra, titolo, firma e anno al retro, base d’asta: offerta libera, stima 500/1.000 €”. È un quadro non figurativo.
Il sito “Ars value.com” ha una pagina dedicata a Bruno Lorenzon, ma dichiara che non ci sono opere di questo pittore nelle vendite on line, aste, gallerie, atelier, archivio, fiere, e inoltre che la biografia di Bruno Lorenzon non è al momento disponibile.
Il sito “Artprice” scrive su di lui soltanto: “Aggiornamento 01/02/2017: Bruno LORENZON (XX) è un artista nato/a nel secolo XX. La prima aggiudicazione registrata sul sito è un/a pittura del 2010 da Meeting Art, e la più recente un/a pittura del 2012. La quotazione e gli indici dell’artista stabiliti da Artprice.com si basano su 2 aggiudicazioni. In particolare: pittura.” E dichiara non esserci al momento opere di Bruno Lorenzon in Casa d’Asta.
Il sito “Wuz dei libri” ha una pagina aperta per la biografia di Bruno Lorenzon, ma questa pagina è completamente vuota. Viceversa, in altre pagine dell’internet si parla di un Bruno Lorenzon scrittore, ma non si tratta del nostro Bruno, ma di un altro omonimo, pure nato a Roncade (TV), più giovane, morto recentemente, scrittore di cose venete; probabilmente un parente di P. Bruno.
Si dedicò anche a scrivere importanti opere sulla storia della Congregazione e particolarmente del suo ramo femminile (B. Lorenzon, 2003).
8.38 P. Antonio Armini
Tonino nasce a Roma, a Torpignattara, il 6 aprile 1938. Entra in Istituto già giovane adulto, nel 1964, dopo aver frequentato la scuola al Cavanis di Roma, ed essersi poi laureato in Lingue moderne, conducendo i suoi studi universitari prima a Roma, all’università degli studi, poi alla Sorbona di Parigi. Nel 1965, a Possagno, emette la prima professione; e nel 1969, a Roma, la professione perpetua.
Viene ordinato presbitero il 4 aprile 1970, nella chiesa parrocchiale dei SS. Marcellino e Pietro a Roma da mons. Ettore Cunial, Vicegerente di Roma. In quell’anno ottiene la licenza in teologia alla Pontificia Università Lateranense; conseguita l’abilitazione per l’insegnamento, insegna lingua inglese e lettere per alcuni anni a Roma nell’Istituto Cavanis. E, contemporaneamente, si mette a disposizione per la formazione iniziale: prima come vice-Maestro e poi come Maestro degli Studenti. Dal 1979 al 1985 e poi dal 1995 al 2001 è Consigliere e Procuratore Generale. Nel 1989 diventa primo Parroco Cavanis della Parrocchia dei SS. Marcellino e Pietro in Roma nel quartiere di Torpignattara. È anche rettore a Roma e a Venezia.
Nel 1992 è stato di diritto Padre Sinodale, come parroco, del Sinodo Romano di quell’anno. Nel 2002 viene eletto Superiore provinciale della Provincia italiana (istituita nel 1996). Terminato il triennio, accetta l’obbedienza di partire per le Filippine e ivi diventa Maestro dei Novizi. Nel 2011 deve rientrare in Italia, per l’insorgere di una malattia degenerativa (Morbo di Alzheimer), che lo porterà lentamente alla morte. P. Armini è stato un autentico povero in spirito: ha scelto di vivere povero, mettendo a servizio degli altri i doni che Dio gli aveva dato, per arricchire con la scienza e l’amore di Cristo i giovani. Dotato di naturale buon umore e di profonda umanità, e ricco della gioia cristiana, in lui la sua personalità e il suo temperamento profondamente gradevole si sono fusi armonicamente con la vocazione.
Confortato dai sacramenti, la morte lo ha colto nell’ospedale di Castelfranco Veneto il 13 giugno 2017, giorno onomastico. Le esequie, presiedute dal Rev.mo P. Pietro Fietta, Preposito Generale, sono state celebrate nella chiesetta del Collegio, a Possagno, il 15 giugno 2017. Riposa nel locale cimitero, in attesa della beata risurrezione.
8.39 P. Natale Sossai
Natale Sossai nacque a Ponte della Priula in provincia di Treviso il primo ottobre 1930, ed entrò in Istituto a 11 anni il 22 luglio 1941. Vestì l’abito della Congregazione il 19 ottobre 1947, dopo gli anni trascorsi in Probandato; compì l’anno di noviziato a Possagno in casa del S. Cuore, nel noviziato annesso, assieme a un folto gruppo di novizi (ben 15, di cui due candidati a fratelli laici; di tutti questi otto perseverarono), avendo come maestro P. Alessandro Vianello; Natale emise la professione religiosa temporanea il 20 ottobre 1948 e la professione perpetua a Venezia il 28 ottobre 1951.
Svolse i suoi studi teologici a Venezia, nello Studium della Congregazione. Ricevette a Venezia i primi due ordini minori il 21 giugno 1953, poco dopo aver ricevuto la sacra tonsura, i secondi due ordini minori il 3 aprile 1954. Ebbe accesso agli ordini maggiori ricevendo, sempre a Venezia, il suddiaconato il 21 novembre 1954, nella solennità della Madonna della Salute, il diaconato il 3 maggio 1955 ed è stato ordinato prete il 4 giugno 1955, ricevendo questi ordini maggiori, assieme ai confratelli i PP. Franco Degan, Bruno Lorenzon, Raffaele Pozzobon, Mauro Verger e Francesco Giusti a Venezia, nella nostra chiesa di Sant’Agnese, per l’imposizione delle mani del nostro confratello, monsignor Giovanni Battista Piasentini, allora vescovo di Chioggia.
Religioso semplice, buono e riservato, ha profuso le sue doti di padre ed educatore in varie comunità Cavanis, più volte come responsabile di Comunità. Nel 1976 conseguì la laurea in lettere all’Università degli Studi di Padova.
P. Natale ha sempre educato e insegnato materie letterarie nelle scuole dell’Istituto in Italia finché ha avuto la forza di farlo. In particolare, dopo l’ordinazione presbiterale (giugno 1955) lo troviamo a Possagno (Treviso) nella comunità del Collegio Canova (1955-58); nella brevissima esperienza della Congregazione nella scuola professionale di Cesena (provincia di Forlì-Cesena; 1958-59); fu formatore e rettore della casa-probandato di Fietta del Grappa (1961-64); lo troviamo a Possagno-Canova negli anni 1965-67; poi ugualmente formatore e rettore del Probandato di Possagno (1967-73); fu poi incaricato di portarsi a Roma, nella casa di Torpignattara, come rettore, negli anni 1973-79; è a Possagno-Canova negli anni 1979-1998, come rettore di questa casa e scuola dal 1991 al 1997.
Fu il Primo Provinciale d’Italia, con sede nella casa madre di Venezia, essendo stato eletto tale per il primo triennio (1996-1999) nel 1° capitolo provinciale d’Italia (Possagno, 27-30 dicembre 1996): fu rieletto alla carica per il secondo triennio della provincia (1999-2002) nel 2° capitolo provinciale d’Italia (Possagno, 27-30 dicembre 1999). In questa carica fu sempre attento alla formazione dei giovani alla ricerca della loro vocazione. La carica di provinciale dopo di lui fu sostenuta, brevemente, dal P. Antonio Armini di felice memoria; e P. Natale passò allora alla parrocchia di Massafra, nella provincia di Taranto. Vi rimase da quest’anno al 2014, e ne fu rettore dal 2007 al 2011 e pro-rettore dal 2011 al 2014, quando, per motivi di salute, dovette ritirarsi a Possagno, dove rimase, nella casa di riposo e di cura dell’Istituto, fino alla morte.
Provato dalla grave malattia, accolta con fede e serenità che edificarono tutti, e combattuta con tutti i mezzi della medicina, è stato accudito amorevolmente dal P. Rettore P. Giuseppe Francescon, della comunità religiosa del Collegio Cavanis Canova di Possagno, dai confratelli e dai volontari delle Parrocchie di Possagno e Cavaso. Ricoverato lungamente all’ospedale di Castelfranco, quando intese, e gli fu detto dai superiori, che non c’erano ulteriori possibilità di cura, chiese e ricevette i sacramenti degli infermi e chiese anche di poter morire nella sua comunità, così che fu trasportato a Possagno. Come ricordava il P. Preposito nel su elogio funebre, nonostante i segni mai ostentai della sua sofferenza, P. Natale ebbe fino alla fine parole di ringraziamento per tutte le persone che lo avevano assistito in ospedale e poi in comunità, di giorno e di notte; e, con profonda umiltà, ripeteva che lui non aveva fatto niente, aveva fatto tutto il Signore. Ripeteva che offriva le sue sofferenze per la Congregazione, per le vocazioni e per le missioni Cavanis.
Sorella morte lo raggiunse il 4 ottobre 2018. Deceduto P. Natale nella mattinata della festa di San Francesco, veniva naturale al P. Preposito, come disse nel suo discorso, applicare a P. Natale quanto avevo recitato nelle Lodi: Natale poverello, rivestito di grazia, ascende lieto in gloria nel regno dei beati. Esce umile e nudo dalla scena del mondo ed entra ricco in cielo festeggiato dagli Angeli. La personalità di P. Natale – diceva il P. Preposito – è stata caratterizzata da molte virtù umane e cristiane: bontà d’animo e disponibilità verso tutti, lealtà e trasparenza, senso di responsabilità e abnegazione, grande umanità e generosità nel più cordiale servizio al prossimo; umiltà e spirito di distacco dai beni terreni. Ha rappresentato per decenni un punto di riferimento per insegnanti e tanti giovani ai quali è stato sempre vicino, come consigliere, educatore e direttore spirituale. P. Natale non esibiva mai sapienza o intelligenza anche se era un uomo d’intelligenza viva e di forte capacità intuitiva: non si imponeva mai sugli altri con la forza delle sue conoscenze o del suo ruolo. A volte, anzi, era forse anche troppo schivo e dimesso. Aveva il cuore del piccolo e del semplice secondo il Vangelo, era tra quei piccoli ai quali il Padre rivela la vera sapienza, quella insegnata e vissuta da Gesù. I funerali si svolsero a Possagno nel Tempio Canoviano il 6 ottobre, con la presidenza del preposito generale p. Pietro Fietta, di una decina di confratelli e dei parroci di Cavaso e Possagno; il tempio era completamente pieno di popolo, oltre a rappresentanze degli studenti. P. Natale fu poi sepolto nella cappella funebre del clero e dei Cavanis del cimitero di Possagno.
8. 40. P. Silvano Mason
Silvano nacque a Torreselle, frazione di Piombino Dese, in provincia di Padova, ma in diocesi di Treviso, paese sito lungo la via Castellana (Venezia-Castelfranco), il 26 aprile 1936, da Giovanni Mason e da Rita Mason: anche la mamma aveva casualmente lo stesso cognome del marito, cognome molto diffuso nell’area. Era l’ultimo di sei fratelli (erano quattro fratelli e due sorelle). Il suo nome completo, di battesimo e a livello civile, era Silvano Liberale Mason.
Come suo fratello maggiore P. Orfeo, ricordava con piacere la grande casa paterna, Appartenevano a una grande famiglia di stampo patriarcale di agricoltori, che abitavano in una casa colonica grande e lunga, con vari nuclei familiari, divisi in “Masoni grandi” e “Masoni cei”, cioè “Mason grandi e Mason piccoli”; si trattava di un soprannome, non di un riferimento alle dimensioni fisiche.
Ricordava anche con piacere e, con l’età, molto spesso, il fatto che la sua casa e i campi della sua famiglia si trovavano nella fascia delle risorgive, dove l’acqua delle precipitazioni cadute sul Monte Grappa e in genere sulle Prealpi riaffiorava in pianura, con grandi fontanili di buonissima acqua, la stessa che poi in città si comprava in bottiglia come acqua minerale di varie marche, anche famose.
Battezzato il 27 aprile 1936 e cresimato il 19 novembre 1944, Silvano aveva frequentato le scuole elementari nel paese natio, e ricordava come durante gli ultimi anni della guerra, andando e tornando da scuola si gettava, con i compagni, nei fossi a lato dello stradone, quando erano sorvolati dai bombardieri americani o inglesi che bombardavano ed eventualmente mitragliavano le strade della pianura veneta e particolarmente la ferrovia a fianco della strada.
Verso la fine della quinta elementare, suo fratello Orfeo, che era seminarista a Possagno, aveva invitato Silvano, che manifestava segni di vocazione sacerdotale e religiosa, ad andare con lui in seminario minore o Probandato di Possagno, sia pure un po’ in anticipo, perché il 21 novembre 1946 Orfeo sarebbe entrato in noviziato in casa del S. Cuore a Col Draga; così i due fratelli sarebbero rimasti insieme almeno alcuni mesi, e Silvano si sarebbe abituato meglio all’ambiente del Probandato. Entrò così in Istituto il 27 aprile 1946.
Completata la quinta elementare, frequentate le medie e il ginnasio a Possagno, frequentando la scuola nel Collegio Canova, Silvano vestì l’abito dell’Istituto e iniziò il noviziato, avendo come P. Maestro P. Alessandro Vianello, il 19 ottobre 1952, rimanendo quindi novizio in Casa del S. Cuore a Possagno fino al 20 ottobre 1953, quando emise la professione temporanea e passò a frequentare il liceo classico, ancora a Possagno, poi a Venezia per gli studi teologici. Il suo fu l’ultimo anno prima che iniziasse la pratica dell’anno di propedeutica obbligatoria prima della teologia. In teologia era della stessa leva o classe dei padri Fabio Sandri ed Emilio Gianola e con loro ricevette tutti gli ordini maggiori e minori. Silvano emise la professione perpetua il 22 agosto 1958 a Possagno.
A Venezia, durante gli studi teologici, venne insignito della prima tonsura ecclesiastica il 22 giugno 1958 dal Patriarca Angelo Giuseppe Roncalli (che quattro mesi più tardi sarebbe stato eletto vescovo di Roma e quindi Papa); i primi due ordini minori, dell’ostiariato e del lettorato il 14 marzo 1959; i secondi due ordini minori dell’esorcistato e accolitato il 21 giugno dello stesso anno; il suddiaconato il 16 ottobre 1960; il sacro diaconato il 18 marzo 1961 nella basilica di S. Marco, dal card. Patriarca Urbani; e, il primo giugno 1961, venne ordinato prete a Venezia, per l’imposizione delle mani del vescovo ausiliare Mons. Giuseppe Olivotti.
Da ricordare un dettaglio divertente sulla celebrazione della tonsura: i tre confratelli Silvano Mason, Fabio Sandri ed Emilio Gianola, per presentarsi alla celebrazione, che probabilmente ebbe luogo nella Basilica della Salute, si erano tagliati i capelli, come usava da noi, molto bassi, quasi a zero; e fu una pessima idea, perché il patriarca Roncalli, che secondo la “moda” liturgica antica nella celebrazione pontificale portava i guanti color porpora, non riuscendo ad afferrare bene i capelli da tagliare, con la forbice tagliò invece la punta delle dita dei suoi guanti. Alla fine disse amabilmente ai tre giovani leviti Cavanis: “Dite ai vostri superiori che non vi facciano tagliare i capelli così corti! Io ci ho rimesso i guanti!”. I tre giovani Cavanis avevano ricevuto la tonsura durante la celebrazione delle ordinazioni minori e maggiori della diocesi di Venezia, che si tenevano allora tutte assieme, per tutti i gradi e sia per i seminaristi diocesani che per i religiosi, salvo eccezioni. Furono queste le ultime ordinazioni impartite dal patriarca Roncalli a Venezia.
Nei primi anni di vita presbiterale e pastorale, padre Silvano, come ricordava spesso (e anzi me lo ricordò anche le due ultime sere in cui lo visitai in ospedale, prima che morisse), fu sballottato da una casa all’altra, rimanendo pochissimo, in genere un anno soltanto in ciascuna, con il pessimo risultato che non riusciva a dare esami e tanto meno a frequentare l’università, anche se si era iscritto. Fu così a Possagno nel Collegio Canova dal 1961 al 1963 come assistente di disciplina del collegio; il 1963-64 a Roma-Casilina, dove cominciò a insegnare lettere nelle medie, ma P. Luigi Candiago che era il rettore lì a Roma per l’ultimo anno, gli faceva fare spesso, a nome suo e con la sua firma, anche le lezioni di scienze in prima media. Il 1964-65 lo passò di nuovo a Possagno come insegnante di lettere alle medie, il 1965-66 a Roma all’Istituto Tata Giovanni come assistente; il 1966-67 a Capezzano Pianore, pure come assistente; chiese infine di essere avvicinato a Padova, per poter dare almeno qualche esame nel corso di Lettere moderne, e fu ascoltato e trasferito a Possagno, nel Collegio Canova, dove funse da insegnante di religione e materie letterarie, ancora alle medie, e da assistente dal 1967 al 1979.
Da Possagno riuscì a raggiungere con qualche regolarità, tanto quanto permesso dal notevole numero di ore scolastiche, l’Università di Padova, il Bo’, e grazie anche ai corsi estivi della Mendola, poté dare tutti gli esami che gli mancavano e compilare e poi difendere la tesi.
Arrivò in questo modo a ottenere la laurea in Lettere moderne, nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova nel 1969, avendo come relatore il prof. Sergio Bettini. Tema della tesi di Laurea, in Storia dell’Arte Medioevale, era: “Basilica di S. Maria Maggiore – Lomello”. Ricevette 100/110.
Più tardi, nel 1976, ricevette l’abilitazione per l’insegnamento delle materie letterarie nelle scuole medie, e nel 1982 quella per l’insegnamento delle “Materie letterarie in ogni ordine e grado”; il 4 aprile 1985 ottenne specificamente l’abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie, Latino e Greco negli Istituti di Istruzione Secondaria di 2° grado”. Ne ebbe molta soddisfazione. Passò allora a insegnare principalmente greco e latino, con grande passione, appunto nella scuola superiore, in genere nel ginnasio classico. Lo fece a Venezia dal 1979 al 1984, nel caso come insegnante di religione, italiano, latino e greco in ginnasio, a Sappada, dove dal 1984 al 1986 fu direttore della casa e preside, oltre che insegnante, del Liceo “Giovanni Paolo 1°”; in seguito a Venezia dove fu insegnante nel 1986-87 e 1987-88 (Religione, latino, greco, geografia e storia), poi dal 1987 al 1990 a Mestre, dove l’Istituto aveva la scuola media “Santa Caterina da Siena” e il liceo scientifico “Istituto Cavanis”; P. Silvano oltre ad essere insegnante (Religione, Storia, Geografia, fu nominato preside di ambedue le scuole; a Chioggia visse dal 1990 al 1999 e vi fu direttore del Centro Professionale dal 1990 al 1992 e poi insegnante di cultura generale e di religione dal 1992 al 1999. Nel 1999 passò a Venezia dove insegnò ancora religione, latino e greco nelle scuole superiori, fino poi a ritirarsi dall’insegnamento. Visse nella casa madre fino alla morte. Nell’ultima fase della sua vita si dedicò finché poté alla vita pastorale, sia celebrando la santa messa e seguendo spiritualmente comunità di religiose, sia esercitando il ministero della riconciliazione ossia il sacramento della confessione in modo ordinario per molti anni nella basilica cattedrale di S. Marco a Venezia, dove era molto apprezzato e richiesto dai penitenti e dal clero della basilica.
Bisogna dire una parola speciale sul suo modo di essere insegnante, e insegnante ed educatore Cavanis. Silvano forse non era un grande a livello di preparazione culturale; ma insegnava con passione, con amore, e otteneva dai ragazzi e, più tardi, dalle ragazze delle scuole Cavanis molto affetto e un forte legame. Era esigente con loro, e tuttavia ne era apprezzato. Ne è una prova “documentaria”, tra l’altro, un manifesto (una specie di “papiro”) che esponeva in camera sua, attaccato alla porta, e che mostrava a tutti con fierezza; papiro scherzoso che gli era stato regalato dai suoi allievi di una delle annate (1971-72) di ragazzi cui aveva insegnato le lingue classiche, e che dice così:
Dopo lunghe sofferenze causate dalle immani fatiche della spiegazione del greco e del latino, improvvisamente spirava il
Prof. Dott. Cav. P. SILVANO
di anni 87
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Ne danno l’annuncio, esultanti, gli alunni di IV ginnasio.
NON FIORI MA OPERE DA BERE
Possagno, 5 maggio 1972.
(Seguono una trentina di firme).
In comunità, era un uomo di carattere riservato e non sempre facile, soprattutto per i superiori. Eppure, se ne sente la mancanza.
P. Silvano da giovane godeva di ottima salute, e di una non comune propensione per lo sport, amava le grandi camminate in montagna. Era proverbiale la sua velocità nelle salite più ripide, dove batteva tutti i confratelli coetanei. Dal paese di Possagno (che, fino all’apertura della casa di Sappada nel 1962, era la sede naturale e abituale delle vacanze dei seminaristi maggiori Cavanis), riusciva a raggiungere per esempio il monte Castel Cesil, un po’ più sotto del Monte Palon, in un’ora! Ricordava con gioia, fino a pochi giorni prima della morte, già in ospedale, il tempo trascorso come direttore, preside e professore del Liceo “Giovanni Paolo I”, nella casa di Sappada, sulle Dolomiti orientali, presso le sorgenti del Piave, quando in inverno poteva praticare largamente lo sport dello sci (discesa). In campo sportivo, o almeno di tifo, era fortemente e da sempre juventino, ossia tifoso della squadra Juventus di Torino; e leggeva soprattutto le pagine sportive dei giornali e, quando poteva, il Tuttosport. Ci stupiva il fatto che saltasse tutte le pagine dei giornali e si limitasse a leggere appunto quelle sportive.
Nell’età avanzata tuttavia, la sua salute si era gradualmente danneggiata, in parte anche per la sua incuria, soprattutto per il fumo.
P. Silvano ricordava e commentava spesso, quando eravamo insieme o a tavola, i suoi viaggi per visitare il fratello P. Orfeo, in Ecuador, a Quito prima, sulle Ande, e a Valle Hermoso, sulla pianura prossima al piede del versante occidentale della cordigliera, più tardi.
L’ultima volta che P. Silvano aveva potuto visitare la famiglia e vedere i suoi, era stato nell’autunno 2018, quando era mancato suo fratello Ferruccio, e aiutato dai PP. Pierluigi Pennacchi e Giuseppe Leonardi si era potuto recare a Torreselle per partecipare al funerale.
Il giorno 6 febbraio 2019 P. Silvano, che vi era entrato qualche giorno prima per problemi soprattutto di cuore, ma anche per una serie di altri seri disturbi, è deceduto alle ore 1, nell’ospedale di Civile di Venezia, reparto di cardiologia, ed è tornato alla casa del Padre. Vi era stato ricoverato il 31 gennaio, data la situazione assolutamente precaria di salute; aveva proposto il ricovero e provveduto a questo fine il medico di base dr. Pieralvise Mazzi, che per tanti anni e con grande dedizione, incluse molte visite domiciliari, lo aveva curato, come quasi tutti i confratelli. P. Silvano morì 5 anni dopo (meno 4 giorni) rispetto al fratello P. Orfeo, che era deceduto il 10 febbraio 2014. Di tutti i fratelli e sorelle, rimaneva in vita solo la sorella Ofelia, sebbene parecchio più anziana.
I funerali si svolsero a Venezia, sabato 9 febbraio 2019 alle ore 11,00 nella chiesa di S. Agnese, dell’Istituto Cavanis, con la partecipazione di una quindicina di preti, diocesani (incluso il parroco dei Gesuati-S. Trovaso-Carmini) e religiosi, tra cui alcuni dei nostri, dalle case vicine e da Roma, due diaconi, e una quantità di fedeli, tra cui un notevole numero di parenti, cioè nipoti e pronipoti, e poi professori delle nostre scuole (Venezia, Possagno e Chioggia), ex-allievi, amici, parrocchiani e così via. La chiesa era praticamente piena.
Fu tumulato il giorno stesso, 9 febbraio nel cimitero di Venezia, nel campo riservato ai preti e ai religiosi.
8.41 P. Mario Merotto
Lo avevo visto l’ultima volta il 13 maggio 2017 andandolo a visitare a Santa Cruz de la Sierra, la grande città ai piedi delle Ande in Bolivia, dove risiedeva come missionario da 18 anni. Stavo ritornando da Sucre, la capitale costituzionale della Bolivia, dove avevo ricevuto un’onorificenza dal governo, l’“Escudo de Armas de la ciudad de Sucre, Bolivia “.
P. Mario era invecchiato naturalmente, non lo vedevo da molto; ma, al momento di lasciarci, mi disse che aveva giurato di vivere fino a 120 anni. E invece, l’11 febbraio 2019 alle 8 di mattino ci ha lasciato, dopo una lunga vecchiaia e una breve malattia finale, all’ospedale di quella città boliviana, assistito dai confratelli, a 91 anni. Di questi, ne avena passati 72 da religioso, 65 da prete, 60 da missionario.
Mario era nato a Sernaglia della Battaglia, in provincia di Treviso e in diocesi di Vittorio Veneto, il 5 novembre 1927 e aveva sempre raccontato che era stato miracolato dalla Madonna fin dalla sua infanzia. All’età di 13 anni entrò nel Seminario minore dei Cavanis di Possagno (TV); dopo la vestizione religiosa (1945) emise la prima professione religiosa il 29 ottobre 1946 e più tardi la professione perpetua, a Venezia, il 30 ottobre 1949. Con i voti, era entrato a far parte della Congregazione delle Scuole di Carità, l’Istituto Cavanis.
Ero alunno delle medie nell’Istituto Cavanis a Venezia, negli anni in cui egli era chierico e riceveva via via gli ordini minori e poi maggiori; lo ricordo tra l’altro quando partecipava in cortile, a fianco dell’antica chiesa di S. Agnese, nelle nostre ricreazioni: contro le regole del tempo, che prescrivevano compostezza e l’abito religioso sempre completo, partecipava alle partire di pallone, scarmigliato e inciampando a volte nel complicato abito che portavano a quel tempo i Cavanis; in autunno, ricordo che riempivamo per scherzo di foglie secche di platano il suo berretto da prete, che teneva, invece che in testa, tra le mani dietro la schiena. Noi ridevamo, qualche padre più anziano e serioso, un po’ meno. Lui rideva, con la sua aria scanzonata e ci era simpatico.
Nel frattempo, P. Mario riceveva, sempre a Venezia, la tonsura il 26 marzo 1950, i primi due ordini minori il 1° luglio 1951, i secondi ordini minori il 29 marzo 1952, il suddiaconato il 29 giugno 1952; ebbe il diaconato a Chioggia, per le mani del confratello mons. Giovanni Battista Piasentini, il 25 gennaio 1953. Ricevette infine l’ordinazione presbiterale il 21 giugno 1953, nella Basilica della Madonna della Salute a Venezia, dal Patriarca, il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, nell’ultima delle celebrazioni degli ordini che questi tenne in Venezia, dato che fu eletto Papa pochi mesi dopo e ora lo veneriamo come San Giovanni XXIII.
P. Mario visse i primi anni di presbiterato nella comunità Cavanis del Centro di Formazione Professionale Maria Immacolata di Chioggia dal 1953 al 1959 e contemporaneamente frequentava come poteva l’Università di Padova dove si laureò in Lettere. Fu poi a Levico (TN) dove funse da direttore del Seminario dal 1959 al 1961. Nei cinque anni successivi fu rettore e insegnante nel Collegio Cavanis di Porcari (LU) (1961-67). Dopo aver passato un anno come responsabile provvisorio della Casa Sacro Cuore di Possagno (TV), partì il 9 dicembre 1968 in nave per il Brasile, assieme al P. Livio Donati, che sarebbe stato il primo responsabile della comunità Cavanis a Castro e il P. Francesco Giusti, arrivandovi alla vigilia di Natale e dando così luogo alla prima apertura missionaria della Congregazione Cavanis fuori dell’Italia.
In quella Terra de Santa Cruz collaborò con la diocesi di Ponta Grossa nel Paraná, città situata a circa 40 minuti di viaggio in macchina da Castro, dove risiedeva (1969-1982). In primo luogo fu responsabile della catechesi diocesana; poi fu facente funzione di parroco e poi parroco prima nella Vila Santa Cruz a Castro (1969-1977) e poi nella parroccchia Sant Maria de Fátima a Vila Cipa quaritere periferico di Ponta Grossa (dal 5 febbraio 1978), sempre nel Paraná. In ambedue i luoghi si occupò della costruzione della chiesa e delle strutture parrocchiali, che mancavano.
Aveva una grande capacità di legarsi alla gente semplice e ad entrare nelle abitudini locali, e anche un grande spirito pastorale. Era provvisto pure di quello che si chiama a volte, per scherzo, in veneto, “el mal de la piera”, e costruiva chiese e opere dovunque andasse, spesso di sua pura iniziativa. Molti benefattori veneti e altri lo aiutavano con i fondi per l’impresa; ma non tutti, nell’ambiente di congregazione e di Chiesa apprezzavano, per la verità, la sua eccessiva indipendenza in queste imprese, del resto preziose. Il problema è che è facile costruire, più difficile poi sostenere la manutenzione, specie quando i successori, non essendo italiani, non avevano a disposizione i benefattori di un paese (almeno a quel tempo) più ricco. D’altra parte molti pensavano – e pensano – che era meglio che fosse il popolo locale a costruire chiesa e opere parrocchiali piano piano, con mezzi locali, piuttosto che far piovere i fabbricati dal cielo o dall’Europa.
Un altro aspetto della questione è che l’uso del denaro di beneficienza e la costruzione di opere ed edifici deve passare attraverso un progetto comune della congregazione, della parte territoriale (regione o provincia) e della diocesi, e non soltanto, come progetto personale, passare per le mani di persone entusiaste e ben “ammanicate”. Tra l’altro, in caso contrario, i membri della congregazione che non dispongono del “carisma” del trovare appoggi ed elemosine, o non possono procurarsene perché provengono da zone povere e vi vivono, o perché sono profeticamente impegnati, si trovano in situazione di netta e ingiusta inferiorità.
Nel dicembre 1982 P. Mario fu inviato ad aprire una nuova parte territoriale Cavanis in Ecuador, dove rimase fino al 2000. Per vari anni fu prima superiore della prima casa e comunità religiosa in Ecuador, ad Esmeraldas (1983-84), poi Superiore regionale della Regione dell’Ecuador che poi passò a chiamarsi Regione Andina (1984-2990 e di nuovo nel 1996-1999). Nei primi anni visse ad Esmeraldas, città portuale piuttosto esotica situata sulle spiagge dell’Oceano Pacifico (1982-86). Costruì la chiesa di Las Palmas e riformò il collegio Nuevo Ecuador a Esmeraldas, dal 27 aprile 1983. Appoggiò i confratelli e particolarmente fratel Aldo Menghi, poi diacono, nell’organizzazione di “ristoranti popolari gratuiti” e di ambulatori per i poveri. Ottenne, assieme al preposito generale dell’epoca, la donazione del Collegio Borja 3 di Quito; fu parroco nel villaggio di Valle Hermoso nella Diocesi di Santo Domingo de los Colorados (1991-94) e, sempre a Valle Hermoso, costruì la Casa di Esercizi spirituali Oasis Cavanis Reina de la Paz. Successivamente costruì anche il seminario Cavanis Virgen de Chiquinquirá a Bogotá, in Colombia. In seguito, passò ad abitare nella casa della comunità Cavanis in seno al Collegio Borja III a Quito (1994-1999).
Nel gennaio 2000 partì, assieme a P. Elcio Aleixo, per aprire la nuova missione Cavanis a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia. All’inizio la comunità Cavanis boliviana era una Delegazione autonoma della Bolivia; solo nel 2002 fu riunita alla Regione Andina. Là P. Mario diede sfogo a tutta la sua immaginazione e carità a servizio dei bambini e dei giovani, e nella costruzione della chiesa, la canonica, il salone e le sale di catechesi e altre opere parrocchiali della Parrocchia Cristo Liberador, la scuola comprensiva Hermanos Cavanis, sei giardini d’infanzia e il Seminario Cavanis. Negli ultimi anni aveva dato inizio anche a una scuola Cavanis a Pentaguazú, una cittadina a circa 40 Km da Santa Cruz de la Sierra.
Ultimamente si era ritirato da molte attività, data l’età molto avanzata, ma continuava in qualche modo attivo e sempre presente, assistito affettuosamente dai confratelli, nella canonica della parrocchia di Cristo Liberador.
Come si diceva sopra, ci ha lasciato dal suo letto in un ospedale di Santa Cruz de la Sierra in Bolivia l’11 febbraio 2019 alle 8 di mattino. Al funerale, celebrato il giorno successivo nella bella chiesa da lui costruita nella parrocchia di Cristo Liberador, parteciparono due vescovi, molti sacerdoti, e una grande folla di popolo e soprattutto un’infinità di bambini. Lo aspetta ancora un viaggio, tra tanti che ne ha fatti: oltre a quello verso il cielo, la sua salma sarà trasferita appena possibile per il paese di Valle Hermoso, in Ecuador, nella pianura che guarda verso l’oceano Pacifico, ai piedi della Ande. Vi è là, a fianco della chiesetta della Resurrezione, nella casa di ritiri Oásis Cavanis “Reina de la Paz”, da lui stesso costruita, la cappellina funeraria dell’Istituto Cavanis, a fianco del piissimo P. Orfeo Mason, del fratello e diacono Aldo Menghi, martire della nostra missione, e ad altri fratelli, in attesa della risurrezione.
8.42 P. Marino Scarparo
Marino Scarparo era nato il 1° marzo 1930 a Conselve, in provincia e diocesi di Padova. Era entrato in Istituto, nel probandato di Possagno, il 15 agosto 1940, solennità della Madonna Assunta in cielo, in tempo di guerra. Della sua vita di seminario minore si è parlato nella sua relazione sia sui ricordi di guerra, sia sui ricordi di seminarista. Da questi testi autobiografici esce anche un quadro luminoso, solare, della sua personalità.
Compì l’esperienza forte di noviziato in casa del S. Cuore nell’anno scolastico 1946-47, a partire da ottobre 1946, con un grande numero di compagni, una quindicina, di cui otto perseveranti in congregazione fino alla morte.
Emise la professione temporanea a Possagno il 29 ottobre 1947 e la professione perpetua il 29 aprile 1951. A Venezia compì il corso teologico nello Studium Cavanis; ricevette la sacra tonsura il 23 dicembre 1950; i primi due ordini minori il 29 giugno 1952; e i secondi ordini minori, dell’esorcistato e accolitato, il 21 giugno 1953.
Ricevette a Venezia, con parecchi suoi colleghi, dal patriarca Angelo Giuseppe Roncalli il suddiaconato il 19 dicembre 1953; il diaconato, dallo stesso, il 3 aprile 1954; e il presbiterato, essendo consacrato prete, il 27 giugno 1954.
Frequentò in seguito, a Padova, in quella storica università degli studi, il corso di Lettere antiche e si laureò. Ricevette più tardi l’abilitazione all’insegnamento delle lettere.
P. Marino ha profuso le sue doti di padre Cavanis, di insegnante, di educatore, di confessore e consigliere spirituale, di formatore, in tante case Cavanis d’Italia: Levico, Roma-Casilina, Capezzano Pianore, Venezia, Solaro e Possagno; ma soprattutto, per moltissimi anni, a Chioggia. Fu sempre apprezzato per il suo carattere sensibile, allegro e semplice. Una sua dote importante è stata quella della semplicità evangelica, secondo quanto detto dal Signore Gesù: “25 “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. 26 Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”.” P. Marino si faceva piccolo con i piccoli, sempre vivace, allegro, disposto a organizzare cose serie ma anche giochi, scherzi, canti. Mostrava serenità e gioia. Lo si vedeva spesso ad aggiustare e lubrificare i calcetti, mantenere pulite e spazzare le sale da gioco, a Chioggia e altrove. Nei campi-scuola, sua specialità, si sentiva risuonare, assieme ai canti religiosi e a quelli di montagna, o ad altri canti popolari, il caratteristico grido di battaglia: “Zighe-zighe-zaghe, zighe-zighe-zaghe”! Cui bambini e ragazzetti rispondevano: “Uè,Uè,Uè!”.
In ordine cronologico, P. Marino, dopo l’ordinazione presbiterale, visse e compì la sua missione di religioso e di sacerdote educatore e insegnante nelle seguenti case:
Nel probandato di Levico nel 1954-55; a Roma, Casilina nel 1955-56; a Capezzano Pianore dal 1956 al 1958; a Venezia dal 1958 al 1963; a Solaro dal 1963 al ’67; poi per ben 46 anni a Chioggia; e infine a Possagno, al Canova, dal 2014 al 2019, nella casa di riposo per i religiosi Cavanis anziani.
In età già abbastanza tarda si appassionò per il computer e per l’informatica: scrisse le sue memorie, un libro di sue poesie, altri documenti (M. Scarparo, 2011); mantenne cordialmente la corrispondenza con confratelli, parenti e amici, mandando lettere e biglietti di auguri con cornicette floreali piene di fantasia.
Ha trascorso serenamente gli ultimi anni della vita nella nostra casa di Possagno assistito dal P. Rettore e dalle Collaboratrici. Trasportato all’ospitale di Castelfranco Veneto, vi morì l’11 ottobre 2019. I funerali furono tenuti nel tempio di Possagno il 15 ottobre seguente e il suo corpo giace nella cappella funeraria del clero e dei religiosi Cavanis nel cimitero di quel paese. Nel suo testamento spirituale troviamo alcune frasi particolarmente significative, che furono citate nell’omelia o piuttosto elogio funebre; molte frasi ne sono riportate in un articolo pubblicato nella rivista Charitas.
8.43 P. Nicola Zecchin
Nicola nacque a Camposampiero (diocesi e provincia di Padova) il 17 dicembre 1926 ed entrò in Istituto, quasi dodicenne, il 3 ottobre 1938. Vestì l’abito Cavanis nel settembre 1944, in piena guerra, e compì il noviziato in Casa del S. Cuore nell’anno scolastico 1944-45. Emise la professione religiosa temporanea l’8 ottobre 1945; i voti perpetui, sul finire degli studi teologici, l’11 ottobre 1948. A Venezia, ricevette la tonsura ecclesiastica il 26 marzo 1950, i primi due ordini minori il 1° luglio 1951, i secondi ordini minori, ossia l’esorcistato e l’accolitato, il 29 marzo 1952; il suddiaconato il 25 giugno dello stesso anno; il diaconato il 25 gennaio 1953. Fu ordinato presbitero nel 1953.
Religioso semplice, buono e riservato, P. Zecchin profuse le sue doti di padre Cavanis e quindi di educatore prima per un triennio a Porcari, appena ordinato prete (1953-1955), poi per decenni soprattutto come formatore: a Possagno nel probandato o seminario minore (1955 -1964, essendovi rettore dal 1957 al 1964) e nel noviziato presso la Casa del Sacro Cuore a Possagno, dove è stato Maestro dei Novizi (1964 al 1968); poi ancora nel seminario minore di Levico dal 1968 al 1972, come maestro dei novizi e anche primo consigliere e vicario. In seguito, passato a Corsico nella parrocchia di S. Antonio dal 1972 al 1979, vi fu rettore dal 1975 al 1979. Si inserì bene nell’ambiente parrocchiale, del quale non aveva esperienza, e si occupò in primo luogo dell’accoglienza dei bisognosi, dei poveri, degli stranieri, e delle visite a anziani e ammalati.
Fu poi tre anni a Roma, in via Casilina, tra l’altro come vice-maestro dei seminaristi maggiori (1985-88). Dopo l’88 ritornò a Corsico e vi rimase per moltissimi anni e fino quasi alla morte. Vi fu rettore dal 1988 al 2000 e poi dal 2003 al 2010; vi continuò poi senza responsabilità di comando (2010-2018), comunque sempre impegnato nella pastorale generale della parrocchia, con particolare interesse, ancora e sempre, in un servizio pastorale sempre attento alle persone in difficoltà. In questa fase, stava divenendo sempre più gravemente sordo, il che rendeva più difficile il suo impegno pastorale. Sopportava l’incomodo fisico e operazionale progressivamente più grave con grande pazienza.
Nel 2018 soffrì il forte dispiacere di lasciare la parrocchia di Corsico, cui si era straordinariamente affezionato, ma dovette passare a vivere gli ultimi anni della sua vita nella casa di riposo dell’Istituto a Possagno-Canova, non essendo più autonomo.
P. Nicola fu consigliere generale (4°) dal 1967 al 1973, nel primo mandato di P. Orfeo Mason. In alcuni capitoli generali partecipò e collaborò in commissioni, in genere della formazione e seminari: così nel capitolo generale ordinario del 1962, e nel capitolo generale straordinario speciale, nel quale fece parte delle commissioni per la formazione e in quello per i fratelli laici.
Il giorno 6 gennaio 2021, ricoverato da qualche tempo nell’ospedale di Castelfranco (TV), di lì è tornato alla casa del Padre dopo essere stato assistito con amore dai confratelli e particolarmente dai responsabili della casa di Possagno-Collegio Canova e casa di riposo Cavanis. I funerali si svolsero a Possagno nella Chiesa-oratorio dei Cavanis (data la situazione di pandemia del Covid-19, che impediva un evento più pubblico e solenne) venerdì 8 gennaio alle ore 10,00. Compianto dai confratelli, che ricordano la sua straordinaria bontà e serenità, fu in seguito tumulato nel cimitero di Possagno, nella cappella riservata al clero e ai religiosi Cavanis.
Tabella: religiosi Cavanis defunti, in ordine alfabetico
data | anno | nome | arch. pers. | morto a | sepolto a |
12.2. | 1961 | Andreatta Don Giovanni | x | Possagno | Possagno |
7.8. | 1962 | Andreatta P. Aurelio | x | Venezia | Venezia |
6.10. | 1870 | Armanini Fr. Luigi | Venezia | (Venezia) | |
13.6. | 2017 | Armini P. Antonio | Possagno | Possagno | |
1.12. | 1866 | Avi Fr. Francesco | Venezia | (Venezia) | |
8.1. | 1863 | Avi Fr. Giovanni | Possagno | Possagno | |
3.11. | 2000 | Avi P. Giulio | Venezia | Baselga di Piné | |
17.11. | 2001 | Baccin P. Danilo | Roma | Possagno | |
7.11. | 2014 | Bandiera P. Artemio | Possagno | Possagno | |
17.9. | 1882 | Barbaro Fr. Giacomo | Venezia | (Venezia) | |
7.2. | 1985 | Barbot Fr. Sebastiano | x | Possagno | Possagno |
3.10. | 1977 | Bartolamedi fra Edoardo | x | Capezzano | Capezzano |
25.4. | 1977 | Bassan Fr. Ausonio | x | Venezia | Venezia |
3.6. | 1905 | Bassi P. Giuseppe | x | Possagno | Possagno |
2.5. | 2009 | Basso P. Fiorino Francesco | Possagno | Possagno | |
25.4. | 1997 | Bastianon P. Narciso | Possagno | Casella d’Asolo | |
9.1. | 1832 | Battesti diac. Angelo | Venezia | (Venezia) | |
15.10. | 2008 | Beggiao P. Diego | Possagno | Possagno | |
5.4. | 1897 | Berlese P. Andrea | Venezia | (Venezia) | |
15.1. | 1972 | Bertelli Fr. Olivo | Possagno | Possagno | |
28.2. | 1907 | Bolech P. Francesco | Venezia | (Venezia) | |
11.4. | 1991 | Bolzonello P. Pellegrino | x | Possagno | Cornuda |
10.1. | 1855 | Bonlini don. Federico | x | Venezia | (Venezia) |
28.1. | 1936 | Borghese P. Giuseppe | x | Venezia | Venezia |
3.10. | 1977 | Bortolamedi Fr. Edoardo | x | Capezzano | Capezzano |
13.1. | 1876 | Brizzi P. Vincenzo | Leandinara | Lendinara | |
28.7. | 1966 | Busellato P. Michele | Possagno | Possagno | |
24.10. | 1912 | Calza P. Enrico | x | Venezia | (Venezia) |
11.7. | 1992 | Candiago P. Luigi | Venezia | Venezia | |
22.2. | 2014 | Carlin P. Lino | Possagno | Possagno | |
9.4. | 1898 | Casara P. Sebastiano | x | Venezia | Venezia |
10.2. | 1910 | Cavaldoro Fr. Giovanni | Venezia | (Venezia) | |
12.3 | 1858 | Cavanis Ven.le P. Antonio | x | Venezia | Venezia |
11.10. | 1853 | Cavanis Ven.le P. Marco | x | Venezia | Venezia |
29.4. | 1877 | Cherubin Fr. Giovanni | Venezia | (Venezia) | |
6.3. | 1905 | Ghezzo P. Giovanni | Venezia | Venezia | |
5.11. | 1905 | Chiereghin P. Giovanni | x | Venezia | Venezia |
8.1. | 1975 | Cipolat P. Marco | Possagno | Possagno | |
4.7. | 1940 | Cognolato Fr. Enrico | Venezia | Venezia | |
5.11. | 1981 | Cognolato P. Guido | Possagno | Possagno | |
12.9. | 2006 | Collotto P. Attilio | Possagno | Possagno | |
14.5. | 2013 | Colombara P. Giuseppe | x | Possagno | Sovizzo |
3.9. | 1991 | Cortelezzi P. Giuseppe | Chioggia | Visome Bl | |
26.3. | 2006 | Cosmo P. Luigi Rito | Chioggia | S. Lucia de Budoia | |
1.6. | 1996 | Cristelli P. Antonio | x | Possagno | Possagno |
6.11. | 1986 | Cristelli P. Vittorio | x | Possagno | Possagno |
30.12. | 1968 | D’Ambrosi P. Giovanni | x | Venezia | Venezia |
17.12. | 1902 | Da Col P. Giuseppe | x | Venezia | Possagno |
30.12. | 2006 | Da Rosa P. Aldino Antônio | Castro | Castro | |
8.7. | 1902 | Dal Castagné Fr. Clemente | Venezia | (Venezia) | |
6.10. | 1966 | Dalla Brida Don Costante | Possagno | Possagno | |
24.12. | 1929 | Dalla Venezia P. Antonio | x | Possagno | Possagno |
8.10. | 1836 | Dall’Agnola Fr. Francesco | Venezia | (Venezia) | |
4.7. | 1940 | D’Andrea P. Luigi | x | Venezia | Venezia |
27.4. | 2012 | De Biasio P. Giovanni | Roma | S.Quirino | |
27.7. | 1918 | De Piante Ch. Nazzareno | Transaghis | Aviano | |
15.1 | 1998 | Degan P. Franco | x | Possagno | Possagno |
6.7. | 1998 | Del Debbio P. Ugo | Casabasciana | Casabasciana | |
4.1. | 1931 | D’Este P. Marco Luigi | Venezia | Venezia | |
12.8. | 1950 | Donati P. Carlo | X? | Porcari | Calceranica |
1.7. | 1988 | Donati P. Livio | Castro | Castro | |
31.10. | 1843 | Ducati Fr. Domenico | Venezia | (Venezia) | |
21.3 | 1967 | Eibenstein P. Antonio | Possagno | Possagno | |
13.3 | 1953 | Faliva Fr. Vincenzo | Porcari | Porcari | |
1.2. | 1908 | Fanton P. Giovanni | Possagno | Possagno | |
16.7. | 2001 | Fassini P. Cleimar Pedro | Castro | Castro | |
19.12. | 1917 | Fedel Fr. Bortolo | Bologna | (Bologna) | |
9.9. | 1945 | Fedel P. Amedeo | x | Venezia | Venezia |
31.1. | 1982 | Fedel P. Valentino | Possagno | Possagno | |
7.10. | 2002 | Feller Fr. Roberto | Possagno | Possagno | |
5.11. | 1989 | Ferrari P. Luigi | Possagno | Possagno | |
13.8. | 1995 | Fogarollo P. Giuseppe | Possagno | Possagno | |
22.5. | 1886 | Fontana P. Antonio | Venezia | (Venezia) | |
21.7. | 1936 | Fornasier Fr. Filippo | Venezia | Venezia | |
11.11. | 2012 | Franchin P. Enrico | Possagno | Possagno | |
21.10. | 1852 | Frigiolini P. Vittorio | x | Venezia | (Venezia) |
21.12. | 1945 | Furian Fr. Angelo | Venezia | Venezia | |
16.12. | 1877 | Fusarini P. Tito | x | Venezia | (Venezia) |
8.4. | 1974 | Galbussera P. Andrea | Venezia | Venezia | |
18.4. | 2000 | Gant Fr. Luigi | Capezzano | Capezzano | |
10.9. | 1979 | Gazzola P. Giosuè | Capezzano | Capezzano | |
6.3. | 1905 | Ghezzo P. Giovanni | Venezia | (Venezia) | |
3.2. | 1834 | Giacomelli Ch. Bartolomeo | Venezia | (Venezia) | |
3.11. | 2010 | Gianola P. Emilio | Venezia | Venezia | |
13.1. | 1841 | Giovannini ch. Giovanni | x | Lendinara | (Lendinara) |
3.5. | 1896 | Gretter P. Narciso | x | Lendinara | Lendinara |
27.4. | 2003 | Grigolo P. Federico | Possagno | Possagno | |
23.6. | 2010 | Guariento P. Angelo | x | Venezia | Venezia |
3.12. | 1961 | Guzzon Fr. Italo | Venezia | Pontecasale PD | |
16.8. | 2010 | Incerti P. Guglielmo | Possagno | Possagno | |
25.10. | 1981 | Janeselli P. Lino | Chioggia | Possagno | |
2.11. | 1975 | Janeselli P. Luigi | Possagno | Possagno | |
26.7. | 1989 | Janeselli P. Mansueto | Venezia | Venezia | |
25.9. | 1972 | Janeselli P. Mario | x | Capezzano | Capezzano |
25.8. | 1994 | Janeselli P. Riccardo | x | Venezia | Venezia |
15.7. | 1904 | Larese P. Giovanni Battista | x | Venezia | (Venezia) |
28.2. | 2012 | Larvete Diac. Giusto | Possagno | Possagno | |
5.5. | 1853 | Leva P. Eugenio | x | Venezia | (Venezia) |
29.1. | 2017 | Lorenzon P. Bruno | Milano | Possagno | |
14.6. | 1894 | Luteri Fr. Francesco | Venezia | (Venezia) | |
11.9. | 1852 | Maderò P. Pietro | Venezia | (Venezia) | |
24.1. | 2010 | Manente P. Armando | Possagno | Chirignago | |
31.8. | 1988 | Marangoni P. Bruno | Possagno | Possagno | |
26.11. | 1996 | Marchet P. Siro | Possagno | Castelcucco | |
13.12. | 1856 | Marchiori P. Giuseppe | x | Venezia | (Venezia) |
7.9. | 2010 | Maretto P. Giuseppe | Possagno | Possagno | |
16.3 | 1962 | Martinelli Ven.le P. Basilio | x | Possagno | Possagno |
10.2. | 2014 | Mason P. Orfeo | Valle Hermoso | Valle Hermoso | |
9.2 | 2019 | Mason P. Silvano | Venezia | Venezia | |
14.8. | 1952 | Menegoz P. Agostino | Genova | Genova | |
16.7. | 1995 | Menghi Diac. Aldo | Esmeraldas | Valle Hermoso | |
11.2 | 2019 | Merotto P. Mario | S. Cruz | ? | |
29.11. | 1877 | Mihator P. Giovanni Francesco | x | Venezia | (Venezia) |
14.8. | 1835 | Minozzi Ch. Francesco | x | Venezia | (Venezia) |
21.2. | 1840 | Minozzi P. Angelo | Padova | ?Padova? | |
7.10. | 1924 | Miotello P. Mario | x | Venezia | Venezia |
1.11. | 2003 | Molon P. Guerrino | Castro | Castro | |
2.11. | 2007 | Morandi P. Amedeo | S. Gennaro | Campodarsego | |
31.7. | 1880 | Morelli P. Nicolò | Lendinara | Lendinara | |
23.3 | 2015 | Moretti P. Angelo | Possagno | Possagno | |
27.5. | 1994 | Navarro P. Luis Enrique Durán (detto P. Lucho) | Quito | Valle Hermoso | |
1.3. | 1988 | Pagnacco P. Giuseppe | Castro | Castro | |
12.10. | 2005 | Panizzolo P.Giuseppe | Roma | Possagno | |
24.5. | 1886 | Paoli P. Giovanni | x | Venezia | (Venezia) |
12.7. | 1987 | Pasqualini P. Pio | Possagno | Possagno | |
25.6. | 1995 | Perale Fr. Ettore | Possagno | Possagno | |
31.8. | 1987 | Piasentini Mons. G. Battista | x | Possagno | Chioggia |
2.1. | 1987 | Pillon P. Angelo | Porcari | Porcari | |
5.9. | 1867 | Piva chierico Domenico Luigi | Possagno | Possagno | |
16.4. | 1865 | Piva P. Domenico | x | Possagno | Possagno |
22.2. | 2011 | Pozzobon P. Raffaele | Possagno | Possagno | |
1.11. | 1975 | Pozzobon P. Valentino | x | Capezzano | Capezzano |
21.10. | 1992 | Quilici P. Marcello | Planalto | Castro | |
6.10. | 2009 | Rech P. Norberto Artemio | Ortigueira | Castro | |
8.4. | 1993 | Rizzardo P. Francesco | x | Venezia | Venezia |
8.9. | 1943 | Rizzardo P. Giovanni | x | Possagno | Possagno |
2.8. | 1870 | Rossi Fr. Pietro | Lendinara | Lendinara | |
17.9. | 1920 | Rossi P. Vincenzo | x | Porcari | Porcari |
31.10. | 1892 | Rovigo P. Giuseppe | x | Venezia | (Venezia) |
27.5. | 1917 | Salvadori Fr. Corrado | Carso | (Carso) | |
30.7. | 1917 | Santacattarina P. Agostino | x | Possagno | Possagno |
12 | 1989 | Santin Fr. Luigi | Venezia | Ponte della Priula | |
6.2. | 1894 | Sapori P. Domenico | x | Lendinara | Lendinara |
3.3 | 1852 | Sartori Fr. Filippo | Lendinara? | (Lendinara)? | |
31.10. | 1980 | Saveri P. Vincenzo | x | Capezzano | Capezzano |
15.11. | 1833 | Scarella Ch. Giuseppe | Vicenza? | (Vicenza)? | |
25.11. | 1849 | Scarella P. Alessandro | x | Venezia | (Venezia) |
11.10 | 2019 | Scarparo P. Marino | x | Possagno | Possagno |
20.10. | 2013 | Scuttari P. Luigi | Possagno | Possagno | |
4.2. | 1996 | Servini P. Aldo | Roma | Possagno | |
4.4. | 1903 | Sighel Fr. Pietro | Miola di Piné | Miola di Piné | |
29.12. | 1991 | Sighel P. Angelo | Possagno | Possagno | |
9.12. | 1974 | Sighel P. Gioachino | Possagno | Possagno | |
16.11. | 1971 | Sighel P. Luigi | Possagno | Possagno | |
19.2. | 1922 | Simeoni P. Carlo | Venezia | Venezia | |
4.3 | 2003 | Simioni P. Giuseppe | Ponta Grossa | Castro | |
7.9. | 1973 | Sottopietra P. Federico | Possagno | Possagno | |
2.1. | 1896 | Spalmach P. Giovanni Maria | Lendinara | (Lendinara) | |
4.10 | 2018 | Sossai P. Natale | Possagno | Possagno | |
? | ? | Spellanzon Giuseppe (ex-congregato Cavanis) | x | — | — |
29.5. | 1872 | Spernich P. Pietro | x | Lendinara | Lendinara |
18.11. | 1839 | Spessa Ch. Antonio | x | Venezia | (Venezia) |
9.8. | 1970 | Taddei P. Augusto | Possagno | Possagno | |
27.6. | 1940 | Tamanini P. Giovanni | Possagno | Possagno | |
13.9. | 2013 | Tittoto P. Giovanni Carlo | Uberlândia | Castro | |
2.11. | 2000 | Tomasi P. Gioachino | Possagno | Possagno | |
31.10. | 2016 | Tomei P. Rocco | Vagli di Sopra | Vagli di Sopra | |
11.6. | 1997 | Toninato P. Luigi | Possagno | Novenda di Piave | |
20.12. | 1921 | Tormene P. Augusto | x | Venezia | Venezia |
24.2. | 1872 | Traiber P. Giovanni Battista | x | Venezia | (Venezia) |
10.10. | 1917 | Trevisan Asp. Carletto | Possagno | Possagno | |
28.12. | 1977 | Trevisan P. Angelo | Levico | Ciano del Montello | |
5.8. | 1995 | Turetta P. Antonio | Possagno | Possagno | |
23.4. | 1957 | Turetta P. Cesare | Venezia | Venezia | |
13.2. | 2004 | Valeriani P. Alessandro | x | Venezia | Venezia |
6.5. | 1983 | Vanin Fr. Giorgio | Capezzano | Capezzano | |
15.11. | 1935 | Vedovato Fr. Giuseppe | Venezia | Venezia | |
24.1. | 1971 | Vianello P. Alessandro | x | Venezia | Venezia |
1.3. | 1979 | Vianello P. Ferruccio | Possagno | Possagno | |
3.9. | 2012 | Vio P. Sergio | Pozzuoli | Possagno | |
15.6. | 1847 | Voltolini P. Matteo | x | Grigno | Grigno |
20.10. | 1988 | Zacchello Fr. Guerrino | Possagno | Possagno | |
2.5. | 1941 | Zamattio P. Agostino | x | Venezia | Venezia |
4.7. | 2005 | Zaniolo P. Angelo | Quito | Valle Hermoso | |
7.5. | 1922 | Zanon P. Arturo | Possagno | Possagno | |
17.9. | 1993 | Zanon P. Ermenegildo Loris | Possagno | Possagno | |
29.12. | 1954 | Zanon P. Francesco Saverio | x | Venezia | Venezia |
12.12. | 1999 | Zardinoni P. Riccardo | Possagno | Possagno | |
6.1 | 2021 | Zecchin Nicola | Possagno | Possagno | |
12.10. | 2013 | Zendron P. Mario | Possagno | Lisignago TN) | |
1.5. | 2016 | Zoppas P. Primo | Possagno | Possagno |
Tabella: religiosi Cavanis defunti in ordine di anno di morte
data | anno | nome |
9.1. | 1832 | Battesti P. Angelo |
15.11. | 1833 | Scarella Ch. Giuseppe |
3.2. | 1834 | Giacomelli Ch. Bartolomeo |
14.8. | 1835 | Minozzi Ch. Francesco |
8.10. | 1836 | Dall’Agnola Fr. Francesco |
18.11. | 1839 | Spessa Ch. Antonio |
21.2. | 1840 | Minozzi P. Angelo |
13.1. | 1841 | Giovannini Ch. Giovanni |
31.10. | 1843 | Ducati Fr. Domenico |
15.6. | 1847 | Voltolini P. Matteo |
25.11. | 1849 | Scarella P. Alessandro |
3.3 | 1852 | Sartori Fr. Filippo |
11.9. | 1852 | Maderò P. Pietro |
21.10. | 1852 | Frigiolini P. Vittorio |
5.5. | 1853 | Leva P. Eugenio |
11.10. | 1853 | Ven.le P. Marco Cavanis |
10.1. | 1855 | Bonlini P. Federico |
13.12. | 1856 | Marchiori P. Giuseppe |
12 | 1858 | Ven.le P. Antonio Cavanis |
8.1. | 1863 | Avi Fr. Giovanni |
16.4. | 1865 | Piva P. Domenico |
1.12. | 1866 | Avi Fr. Francesco |
5.9. | 1867 | Piva Ch. Domenico Luigi |
2.8. | 1870 | Rossi Fr. Pietro |
6.10. | 1870 | Armanini Fr. Luigi |
24.2. | 1872 | Traiber P. Giovanni Battista |
29.5. | 1872 | Spernich P. Pietro |
13.1. | 1876 | Brizzi P. Vincenzo |
29.4. | 1877 | Cherubin Fr. Giovanni |
29.11. | 1877 | Mihator P. Giovanni Francesco |
16.12. | 1877 | Fusarini P. Tito |
31.7. | 1880 | Morelli P. Nicolò |
17.9. | 1882 | Barbaro Fr. Giacomo |
22.5. | 1886 | Fontana P. Antonio |
24.5. | 1886 | Paoli P. Giovanni |
31.10. | 1892 | Rovigo P. Giuseppe |
6.2. | 1894 | Sapori P. Domenico |
14.6. | 1894 | Luteri Fr. Francesco |
2.1. | 1896 | Spalmach P. Giovanni Maria |
3.5. | 1896 | Gretter P. Emanuele Narciso |
5.4. | 1897 | Berlese P. Andrea |
9.4. | 1898 | Casara P. Sebastiano |
8.7. | 1902 | Dal Castagné Fr. Clemente |
17.12. | 1902 | Da Col P. Giuseppe |
4.4. | 1903 | Sighel Fr. Pietro |
15.7. | 1904 | Larese P. Giovanni Battista |
6.3. | 1905 | Ghezzo P. Giovanni |
3.6. | 1905 | Bassi P. Giuseppe |
5.11. | 1905 | Chiereghin P. Giovanni |
28.2. | 1907 | Bolech P. Francesco |
1.2. | 1908 | Fanton P. Giovanni |
10.2. | 1910 | Cavaldoro Fr. Giovanni |
24.10. | 1912 | Calza P. Enrico |
27.5. | 1917 | Salvadori Fr. Corrado |
30.7. | 1917 | Santacattarina P. Agostino |
10.10. | 1917 | Trevisan Asp. Carletto |
19.12. | 1917 | Fedel Fr. Bortolo |
27.7. | 1918 | De Piante nov. Nazzareno |
17.9. | 1920 | Rossi P. Vincenzo |
20.12. | 1921 | Tormene P. Augusto |
19.2. | 1922 | Simeoni P. Carlo |
7.5. | 1922 | Zanon P. Arturo |
7.10. | 1924 | Miotello P. Mario |
24.12. | 1929 | Dalla Venezia P. Antonio |
4.1. | 1931 | D’Este P. Marco Luigi |
15.11. | 1935 | Vedovato Fr. Giuseppe |
28.1. | 1936 | Borghese P. Giuseppe |
21.7. | 1936 | Fornasier Fr. Filippo |
27.6. | 1940 | Tamanini P. Giovanni |
4.7. | 1940 | Cognolato Fr. Enrico |
4.7. | 1940 | D’Andrea P. Luigi |
2.5. | 1941 | Zamattio P. Agostino |
8.9. | 1943 | Rizzardo P. Giovanni |
9.9. | 1945 | Fedel P. Amedeo |
21.12. | 1945 | Furian Fr. Angelo |
12.8. | 1950 | Donati P. Carlo |
14.8. | 1952 | Menegoz P. Agostino |
13.3 | 1953 | Faliva Fr. Vincenzo |
29.12. | 1954 | Zanon P. Francesco Saverio |
23.4. | 1957 | Turetta P. Cesare |
12.2. | 1961 | Andreatta don Giovanni |
3.12. | 1961 | Guzzon Fr. Italo |
16.3 | 1962 | Ven.le P. Basilio Martinelli |
7.8. | 1962 | Andreatta P. Aurelio |
28.7. | 1966 | Busellato P. Michele |
26.10. | 1966 | Dalla Brida Don Costante |
21.3 | 1967 | Eibenstein P. Antonio |
30.12. | 1968 | D’Ambrosi P. Giovanni |
9.8. | 1970 | Taddei P. Augusto |
24.1. | 1971 | Vianello P. Alessandro |
16.11. | 1971 | Sighel P. Luigi |
15.1. | 1972 | Bertelli Fr. Olivo |
25.9. | 1972 | Janeselli P. Mario |
7.9. | 1973 | Sottopietra P. Federico |
8.4. | 1974 | Galbussera P. Andrea |
9.12 | 1974 | Sighel P. Gioachino |
8.1. | 1975 | Cipolat P. Marco |
1.11. | 1975 | Pozzobon P. Valentino |
2.11. | 1975 | Janeselli P. Luigi |
25.4. | 1977 | Bassan Fr. Ausonio |
3.10. | 1977 | Bortolamedi Fr. Edoardo |
28.12. | 1977 | Trevisan P. Angelo |
1.3. | 1979 | Vianello P. Ferruccio |
10.9. | 1979 | Gazzola P. Giosuè |
31.10. | 1980 | Saveri P. Vincenzo |
25.10. | 1981 | Janeselli P. Lino |
5.11. | 1981 | Cognolato P. Guido |
31.1. | 1982 | Fedel P. Valentino |
6.5. | 1983 | Vanin Fr. Giorgio |
7.2. | 1985 | Barbot Fr. Sebastiano |
6.11. | 1986 | Cristelli P. Vittorio |
2.1. | 1987 | Pillon P. Angelo |
12.7. | 1987 | Pasqualini P. Pio |
31.8. | 1987 | Piasentini Mons. G. Battista |
1.3. | 1988 | Pagnacco P. Giuseppe |
1.7. | 1988 | Donati P. Livio |
31.8. | 1988 | Marangoni P. Bruno |
20.10. | 1988 | Zacchello Fr. Guerrino |
12 | 1989 | Santin Fr. Luigi |
26.7. | 1989 | Janeselli P. Mansueto |
5.11. | 1989 | Ferrari P. Luigi |
11.4. | 1991 | Bolzonello P. Pellegrino |
3.9. | 1991 | Cortelezzi P. Giuseppe |
29.12. | 1991 | Sighel P. Angelo |
11.7. | 1992 | Candiago P. Luigi |
21.10. | 1992 | Quilici P. Marcello |
8.4. | 1993 | Rizzardo P. Francesco |
17.9. | 1993 | Zanon P. Ermenegildo Loris |
27.5. | 1994 | Navarro, P. Luis Enrique Duran (detto P. Lucho) |
25.8. | 1994 | Janeselli P. Riccardo |
25.6. | 1995 | Perale Fr. Ettore |
16.7. | 1995 | Menghi Diac. don Aldo |
5.8. | 1995 | Turetta P. Antonio |
13.8. | 1995 | Fogarollo P. Giuseppe |
4.2. | 1996 | Servini P. Aldo |
1.6. | 1996 | Cristelli P. Antonio |
26.11. | 1996 | Marchet P. Siro |
25.4. | 1997 | Bastianon P. Narciso |
11.6. | 1997 | Toninato P. Luigi |
15.1 | 1998 | Degan P. Franco |
1.7 | 1998 | Donati P. Livio |
6.7. | 1998 | Del Debbio P. Ugo |
12.12. | 1999 | Zardinoni P. Riccardo |
18.4. | 2000 | Gant Fr. Luigi |
2.11. | 2000 | Tomasi P. Gioachino |
3.11. | 2000 | Avi P. Giulio |
16.7. | 2001 | Fassini P. Cleimar Pedro |
17.11. | 2001 | Baccin P. Danilo |
7.10. | 2002 | Feller Fr. Roberto |
4.3 | 2003 | Simioni P. Giuseppe |
27.4. | 2003 | Grigolo P. Federico |
1.11. | 2003 | Molon P. Guerrino |
13.2. | 2004 | Valeriani P. Alessandro |
4.7. | 2005 | Zaniolo P. Angelo |
12.10. | 2005 | Panizzolo P. Giuseppe |
26.3. | 2006 | Cosmo P. Luigi Rito |
12.9. | 2006 | Collotto P. Attilio |
30.12. | 2006 | Da Rosa P. Aldino Antônio |
2.11. | 2007 | Morandi P. Amedeo |
15.10. | 2008 | Beggiao P. Diego |
2.5. | 2009 | Basso P. Fiorino Francesco |
6.10. | 2009 | Rech P. Norberto Artêmio |
24.1. | 2010 | Manente P. Armando |
23.6. | 2010 | Guariento P. Angelo |
16.8. | 2010 | Incerti P. Guglielmo |
7.9. | 2010 | Maretto P. Giuseppe |
3.11. | 2010 | Gianola P. Emilio |
22.2. | 2011 | Pozzobon P. Raffaele |
28.2. | 2012 | Larvete Diac. don Giusto |
27.4. | 2012 | De Biasio P. Giovanni |
3.9. | 2012 | Vio P. Sergio |
11.11. | 2012 | Franchin P. Enrico |
14.5. | 2013 | Colombara P. Giuseppe |
13.9. | 2013 | Tittoto P. Giovanni Carlo |
12.10. | 2013 | Zendron P. Mario |
20.10. | 2013 | Scuttari P. Luigi |
10.2. | 2014 | Mason P. Orfeo |
22.2. | 2014 | Carlin P. Lino |
7.11. | 2014 | Bandiera P. Artemio |
23.3 | 2015 | Moretti P. Angelo |
1.5 | 2016 | Zoppas P. Primo |
31.10 | 2016 | Rocco Tomei |
29.1 | 2017 | Lorenzon P. Bruno |
13.6 | 2017 | Armini P. Antonio |
4.10 | 2018 | Natale P. Sossai |
9.2 | 2019 | Silvano P. Mason |
22.2 | 2019 | Mario P. Merotto |
11.10 | 2019 | Marino P. Scarparo |
6.1 | 2021 | Zecchin P. Nicola |
Confratelli dell’Istituto Cavanis morti in Casa Madre di Venezia
Confratelli dell’Istituto Cavanis morti in
Casa Madre di Venezia
E il cui corpo è ancora sepolto nella chiesetta
di S. Cristoforo nel Cimitero di S. Michele a Venezia
(o ancora inumati nel campo adiacente)
A sinistra della croce | A destra della croce | ||
Casara P. Sebastiano | 9.4.1898 | Zamattio P. Agostino | 2.5.1940 |
Tormene P. Augusto | 30.12.1921 | Borghese P. Giuseppe | 28.1.1936 |
Simeoni P. Carlo | 19.2.1922 | Vedovato Fra Giuseppe | 15.11.1935 |
Miotello P. Carlo | 7.10.1924 | Fornasier Fra Filippo | 21.7.1936 |
D’Andrea P. Luigi | 4.7.1940 | Andreatta P. Aurelio | 7.8.1962 |
Cognolato Fra Enrico | 4.7.1940 | Turetta P. Cesare | 23.4.1957 |
Fedel P. Amedeo | 9.9.1945 | D’Ambrosi P. Giovanni | 30.12.1968 |
Furian fra Angelo | 21.12.1945 | Vianello P. Alessandro | 23.1.1971 |
— | Zanon P. Francesco Saverio | 24.12.1954 | |
— | Bassan Fra Ausonio | 25.4.1977 | |
— | Janeselli P. Mansueto | 26.7.1989 | |
— | Rizzardo P. Francesco | 8.4.1993 |
Ancora sono ancora inumati in terra nel campo adiacente per i religiosi (2020):
Candiago P. Luigi | 11.7.1992 |
Janeselli P. Riccardo | 25.8.1994 |
Valeriani P. Alessandro | 13.2.2004 |
Gianola P. Emilio | 3.11.2010 |
Silvano Mason | 9.2.2019 |
Confratelli dell’ Istituto Cavanis morti in Lendinara
e il cui corpo è stato sepolto in quel cimitero,
senza essere trasportati altrove.
Cherico Giovanni Giovannini | |
P. Vincenzo Brizzi | |
P. Niccolò Morelli | |
P. Pietro Spernich | |
Fratel Pietro Rossi | |
P. Domenico Sapori | |
P. Narciso Emanuele Gretter |
***occorre metterli in ordine cronologico o alfabetico e mettere le date di morte, e magari un’annotazione di quelli che P. Giambattista Larese non trovò. (Capitolo di Lendinara, probabilmente 1896.
Confratelli dell’ Istituto Cavanis morti in Collegio Canova
sepolti nella chiesetta del Cimitero di Possagno
Il cimitero di Possagno è quello che di gran lunga conserva le spoglie mortali dei nostri confratelli in maggior numero, senza confronti; e ciò per una serie di motivi. La comunità Cavanis del collegio Canova a Possagno non conservò fin dall’inizio i nostri defunti nell’attuale cappella mortuaria riservata al clero locale e ai religiosi dell’Istituto Cavanis; il verbale di un capitolo definitoriale dice che solo “nel 1921 si erano comprati otto loculi nel sacello per gli ecclesiastici nel cimitero stesso di Possagno, e si propose e approvò che vi fossero deposte, accanto alla salma del P. Santacattarina, quelle “dei nostri Padri: [Domenico] Piva, Da Col, Bassi, Fanton (che ora stanno nella cella) e quella del giovanetto aspirante Carlo Trevisan”. Forse non si era trovato il corpo di fra Giovanni Avi, morto nel 1865 come P. Domenico Piva; il suo nome è nella lista scolpita nella lapide; ma non è compreso nella breve lista compresa nel testo citato sopra. Gli altri in seguito furono sepolti a Possagno; e lì furono portati anche alcuni dei nostri che non erano morti a Possagno, come P. Aldo Servini, morto a Roma, e P. Sergio Vio, morto a Pozzuoli, per fare solo due esempi. In, seguito, dal 1995 circa, la casa di Possagno divenne anche la casa di riposo e, in genere, l’ultima dimora tra i vivi, di molti padri Cavanis anziani e/o ammalati; aumentò quindi il numero dei religiosi Cavanis sepolti a Possagno.
La cappella del cimitero di Posagno di cui si parla doveva essere stata costruita e portata a compimento,poco prima del 30 luglio 1917, perché in questa data morì il padre Cavanis Augusto Santacattarina, che, come dice il necrologio ufficiale di Congregazione, “Fu il primo ad essere sepolto nella nuova cappella per i sacerdoti nel cimitero di Possagno”.
Padre Domenico Piva | + 16.4.1865 | Padre Antonio Turetta | + 5.8.1995 |
Fratel Giovanni Avi | + 8.1.1865 | Padre Giuseppe Fogarollo | + 13.8.1995 |
Padre Giuseppe Da Col | +17.12. 1902 | Padre Aldo Servini | + 4.2.1996 |
Padre Giuseppe Bassi | + 3.6.1905 | Padre Antonio Cristelli | + 1.6.1996 |
Padre Giovanni Fanton | + 1.2.1908 | Padre Franco Degan | + 15.1. 1998 |
Padre Antonio Santacattarina | + 30.7.1917 | Zardinoni P. Riccardo | + 12.12. 1999 |
Padre Arturo Zanon | + 7.5.1922 | Padre Gioachino Tomasi | + 2.11. 2000 |
Padre Antonio Dalla Venezia | + 24.12.1929 | Padre Danilo Baccin
| + 17.11. 2001 |
Padre Giovanni Tamanini | + 27.6.1940 | Fratel Roberto Feller | + 6.10.2000 |
Padre Giovanni Rizzardo | + 8.9.1943 | Padre Federico Grigolo | + 27.4.2003 |
Don Giovanni Andreatta | + 12.2.1961 | Padre Giuseppe Panizzolo | +12.12.2005 |
Ven. Padre Basilio Martinelli (dal 1988: nella chiesa del Collegio) | + 16.3.1962 | Padre Attilio Collotto | +12.9.2006 |
Padre Michele Busellato | + 28.7.1966 | Padre Diego Beggiao | +15.10.2008 |
Don Costantino Dalla Brida | + 26.10.1966 | Padre Fiorino Basso | +2.5.2009 |
Padre Antonio Eibenstein | + 21. 3.1967 | Padre Guglielmo Incerti | +16.8.2010 |
Padre Augusto Taddei | + 9.8.1970 | Padre Giuseppe Maretto | +7.9.2010 |
Padre Luigi Sighel | + 15.11. 1971 | Padre Raffaele Pozzobon | +22.3.2011 |
Fratel Olivo Bertelli | + 15.1. 1972 | Don Giusto Larvete | +28.2.2012 |
Padre Federico Sottopietra | + 7.9.1973 | Padre Sergio Vio | +3.9.2012 |
Padre Gioachino Sighel | + 9.12.1974 | Padre Enrico Franchin | +11.11.2012 |
Padre Marco Cipolat | + 8.1.1975 | Padre Luigi Scuttari | +20.10.2013 |
Padre Luigi Janeselli | + 2.11. 1975 | Padre Lino Carlin | +22.2.2014 |
Padre Ferruccio Vianello | + 1.3.1979 | Padre Artemio Bandiera | +7.11.2014 |
Padre Guido Cognolato | + 5.11. 1981 | Padre Angelo Moretti | +23.3.2015 |
Padre Valentino Fedel | + 31.1. 1982 | Padre Primo Zoppas | +1.5.2016 |
Fratel Sebastiano Barbot | + 7.2.1985 | Padre Bruno Lorenzon | +20.1.2017 |
Padre Vittorio Cristelli | + 6.11. 1986 | Padre Antonio Armini | +13.6.2017 |
Padre Pio Pasqualini | + 12.7.1987 | Padre Lino Janeselli | +25.10.1981 |
Padre Bruno Marangoni | + 31.8.1988 | Padre Marino Scarparo | +11.10.2019 |
Fratel Guerrino Zacchello | + 20.10.1988 | Padre Nicola Zecchin | +6.1.2021 |
Padre Luigi Ferrari | + 5.11.1989 | Da completare*** | |
Padre Angelo Sighel | + 29.12.1991 | ||
Padre Ermenegildo Loris Zanon | + 18.9.1993 | ||
Fratel Ettore Perale | + 25.6.1995 |
Confratelli dell’Istituto Cavanis morti a Porcari
e il cui corpo è ancora sepolto nel cimitero civile di Porcari
P. Vincenzo Rossi | 17.9.1920 |
Fratel Vincenzo Faliva | 13.3.1953 |
P. Angelo Pillon | 2.1.1987 |
Confratelli dell’ Istituto Cavanis morti a Capezzano Pianore
e il cui corpo è ancora sepolto nel cimitero civile di Capezzano Pianore
P. Mario Janeselli | 25.9.1972 |
P. Valentino Pozzobon | 1.11.1975 |
Fratel Edoardo Bartolamedi | 3.10.1977 |
P. Giosuè Gazzola | 10.9.1979 |
P. Vincenzo Saveri | 31.10.1980 |
Fratel Giorgio Vanin | 6.5.1983 |
Fratel Luigi Gant | 18.4.2000 |
Confratelli dell’ Istituto Cavanis morti in Italia
il cui corpo è sepolto in altri cimiteri in Italia
La richiesta di essere sepolti altrove, non assieme ai confratelli, in comunità anche nella morte, a volte è dipesa da situazioni estreme, come nel caso di defunti in guerra o di altre situazioni drammatiche; più spesso è dipeso dalla richiesta della famiglia, che ha la priorità a termini di legge.
Cognome e nome | Data di obito | Luogo della sepoltura |
Fratel Corrado Salvadori | Qualche giorno dopo il 27.5.1917 | Da qualche parte sul Carso, in combattimento, durante la grande guerra. |
Fratel Bortolo Fedel | 19.12.1917 | Nella tomba speciale dei padri Barnabiti nel cimitero di Bologna, essendo egli in esilio in quella città durante la grande guerra. |
Novizio Nazzareno De Piante | 27.7.1918 | Trasaghis (Udine, oggi); militare prigioniero, fuggitivo dagli austriaci, durante la grande guerra. |
P. Carlo Donati | 12.8.1950 | Calceranica (Trento) |
P. Agostino Menegoz Fagaro | 22.1.1953 | Genova |
Fratel Italo Guzzon | 3.12.1961 | Pontecasale di Candiana (Padova) |
P. Angelo Trevisan | 28.12.1977 | Ciano del Montello (Treviso) |
P. Mons. Giovanni Battista Piasentini | 31.8.1987 | Cattedrale di Chioggia (Venezia), con sepolcro monumentale. |
Fratel Luigi Santin | 12.3.1989 | Ponte della Priula, Susegana (Treviso) |
P. Bolzonello P. Pellegrino | 11. 4.1991 | Cornuda (Treviso) |
P. Giuseppe Cortelezzi | 26.8.1991 | Visome (Belluno) |
P. Marchet P. Siro | 26.11.1996 | Castelcucco (Treviso) |
P. Bastianon P. Narciso | 25.4.1997 | Casella D’Asolo (Treviso) |
P. Toninato P. Luigi | 11. 6.1997 | Noventa di Piave (Venezia) |
P. Ugo Del Debbio | 6.7.1998 | Casabasciana (Lucca) |
P. Giulio Avi | 3.11.2000 | Baselga di Piné (Trento) |
P. Luigi Rito P. Cosmo | 26.3.2006 | S. Lucia di Budoia (Pordenone) |
P. Morandi P. Amedeo | 2.11.2007 | Campodarsego (Padova) |
P. Armando P. Manente | 24.1.2010 | Chirignago (Venezia) |
P. Giovanni De Biasio | 27.4.2012 | S. Quirino (Pordenone) |
P. Colombara P. Giuseppe | 14.5.2013 | Sovizzo (Vicenza) |
P. Mario Zendron | 14.10.2013 | Lisignago (Trento) |
P. Rocco Tomei | 31.10.2016 | Vagli di Sopra (Lucca) |
9. Principali amici e collaboratori dei fondatori
9.1 Don Federico Bonlini
Don Federico Bonlini, patrizio veneto, chiamato spesso nella corrispondenza “Nob.” (Anche nella locandina funebre) o “N.H.”, fu per tutta la vita uno dei più generosi collaboratori dei Cavanis, ma non si sentì mai di entrare a far parte della loro congregazione.
Nacque a Venezia nel 1776 da una ricca famiglia patrizia. Il nome della fondamenta Bonlini, via prossima all’Istituto Cavanis trovandosi tra la chiesa di S. Trovaso (cioè dei SS. Gervasio e Protasio) e la chiesa degli Ognissanti e l’”Ospedale” Giustinian, fa riferimento appunto alla nobile famiglia Bonlini. Lì esiste fino ad oggi al numero civico 1113 di Dorsoduro il palazzo di famiglia di don Federico Bonlini: Palazzo Bonlini. Nel 1790 Federico entrò nella scuola dell’abate Antonio Venier, dove fu condiscepolo e presto amico del giovane conte Marco Cavanis. Nell’agosto del 1802, a 26 anni, entrò nella congregazione mariana di S. Agnese, circa tre mesi dopo la sua fondazione, legandosi ancor più di intima amicizia col conte Marco. Più tardi, grazie all’amicizia e ai consigli di Marco, decise di divenire prete. P. Marco tacque sempre di essere stato lui a far decidere l’amico Federico Bonlini per il sacerdozio. E siccome ambedue avevano avuto l’esenzione dagli interstizi (e difatti percorsero tutto il cursus ossia la serie di ordinazioni nei vari ordini minori e maggiori in un solo anno), ne fece oggetto di umile riflessione: «È dunque un segno che da noi attende la Chiesa un particolare conforto nei suoi bisogni. Lungi ogni vana pretesa di privilegi, dobbiamo anzi accostarci alla sacra ordinazione con maggior umiltà, non avendo avuto quel tempo che agli altri è concesso per l’opportuna preparazione».
Sull’origine della sua propria vocazione sacerdotale, don Federico Bonlini, scrive di P. Marco Cavanis: «Egli era nella scuola [dell’abate Venier, come allievo] il più bell’esemplare d’illibati costumi, di feracissimo ingegno ed altre doti […] Quell’anima vigorosa, quel zelo ardente di giovare altrui, fu prevenuta dalla grazia prima ancora che i sacri carismi sacerdotali se le imprimessero. Fra i tanti valga principalmente alla gloria di Dio ed a suo merito, l’acquisto che ei fece ancor secolare d’un indolente, languido, inoperoso, tepido suo condiscepolo e amico – cioè il Bonlini stesso -, che vivea nel secolo senza appartenervi, ma trascurato nel dar pensiero alla scelta del proprio stato. Orsù – gli disse – qual pensiero è il vostro? Voi siete con noi, vi esercitate nelle opere di pietà, appartenete a una congregazione [mariana] che milita sotto gli auspizi della Madre di Dio, fuggiste il mondo, e non siete tutto di Dio? Convien che prendiate uno stato, perchè: vita sine proposito languida et vaga (…) Quest’era la massima, quest’era la pratica che adoprava con tutti que’ giovani specialmente, che vedeva praticar la pietà, ma languidi, irresoluti, non però contenti di quello stato in cui trovavansi di freddezza nell’operare, o troppo timidi nel confidare nella grazia di Dio. Egli era chiamato, direi quasi dall’infanzia, dal Signore, a tener sotto ai piedi quel mondo che tanto piace agli incauti, e superiore così agli umani rispetti» (XVIII, A, 7, 780-781).
Nel 1805 Marco Cavanis decise di farsi prete ad ogni costo; persuase l’amico Bonlini a far altrettanto. Fu però costretto a rinviare la vestizione clericale; il 13-18 gennaio 1806 Bonlini lo precede e veste l’abito ecclesiastico. Il 13 febbraio Marco lascia il suo lavoro e la sua carriera e indossa la talare ecclesiastica anche lui. Domenica 23 febbraio, Marco Cavanis e Bonlini ricevono gli ordini minori dal vescovo Peruzzi; il 1° marzo, sabato, essi sono ordinati suddiaconi dal Peruzzi stesso; il sabato 20 settembre Marco e Bonlini ricevono il diaconato ancora dal Peruzzi. Con P. Marco, don Federico Bonlini fu ordinato sacerdote il 23 dicembre 1806 dallo stesso vescovo.
Don Federico (o Fedrigo) divenne presto collaboratore dei due Servi di Dio, lavorando con instancabile zelo in ogni assistenza alle sacre funzioni ed in vari altri uffici di carità, unito ai fondatori come un fratello. Insegnò per circa 50 anni nelle Scuole di Carità, non solo senza chiedere uno stipendio, ma – a imitazione dei Cavanis – dando spesso del proprio in aiuto delle loro opere, specialmente dell’istituto femminile, nel quale pure prodigò gran parte della sua attività sacerdotale. Su questa via di generosa donazione don Federico Bonlini, si dimostrava davvero imbevuto dello spirito dei due Cavanis.
Don Federico morì il 10 gennaio 1855.
È davvero strano che questo collaboratore di tutta una vita non sia mai entrato come religioso nella congregazione. Ne dà lui stesso un’umile spiegazione. Nell’ottobre 1853, in occasione del felice transito del suo vecchio amico, il P. Marco Cavanis, l’anziano don Federico Bonlini ci dà questa preziosa e commovente testimonianza: «Io vecchio pressoché ottuagenario, non ho potuto, non ho saputo meritarmi per la mia indegnità la grazia divina della vocazione all’istituto, e di congiungermi a quei due sommi padri, dei quali pel corso di più che sessant’anni ho ammirato, ho seguito, benché assai da lungi, i loro esempi, e in qualche minima parte le loro fatiche zoppicando purtroppo, ma per misericordia divina costantemente».
Don Federico Bonlini è citato 100 volte nella Positio dei Fondatori (dalla quale sono tratti e compilati questi cenni su di lui) e 185 volte nelle Memorie e nell’Epistolario dei Fondatori; a volte vi è chiamato padre, a volte (più spesso) don, a volte abate; qualche volta il suo nome è citato con varianti come Ferigo, Fedrigo e Federigo.
Tra l’altro, don Federico Bonlini fece da segretario alla Santa Marchesa Maddalena Canossa durante la permanenza di questa alle Eremite, e sotto la di lei dettatura scrisse molte cose, tra cui le prime bozze delle regole dell’Istituto delle Figlie della Carità o Canossiane.
L’elogio funebre, al funerale, fu tenuto da P. Sebastiano Casara, preposito generale
La locandina mortuaria, che tra l’altro lo definisce “Poco meno che Fondatore” dell’Istituto Cavanis maschile e femminile, è particolarmente significativa e vale la pena riprodurla integralmente:
TRA I CONFORTI DELLA RELIGIONE
SANTAMENTE QUAL VISSE
Moriva verso le 3 pom. del giorno 10 Gennajo 1855
L’UMILE E PIO SACERDOTE
D. FEDERICO NOB. BONLINI
D’anni 78 e mesi 6
DILETTO A DIO E A QUANTI LO CONOSCEVANO
LA CUI MEMORIA È IN BENEDIZIONE
E LO SARÀ ETERNAMENTE
PEI DUE ISTITUTI CAVANIS
AI QUALI PER AMORE E PER BENEFIZJ
FU PADRE E POCO MENO CHE FONDATORE
Gl’Istituti medesimi lagrimando, e pregando Requie all’anima benedetta
Ne danno l’annunzio.
Tip. Andreola
9.2 Il beato Luigi Caburlotto (1817-1897)
Mons. Luigi Caburlotto il Fondatore delle Figlie di S. Giuseppe fu un prete veneziano. Figlio di un gondoliere, fu educato per sei anni nella Scuola dei Venerabili fratelli Padre Anton’Angelo e Padre Marcantonio Cavanis, in seguito nel Seminario patriarcale. Il 24 settembre 1842 il patriarca Jacopo Monico lo ordinò prete, e l’anno successivo lo assegnò quale cooperatore alla parrocchia di S. Giacomo dall’Orio. Qui trascorse sei anni di intenso lavoro pastorale studiando la situazione sociale e morale della popolazione e individuando nell’infanzia e nell’adolescenza abbandonata il settore di più urgente intervento.
Il 15 ottobre 1849 venne nominato parroco di quella stessa parrocchia, divenuta ancora più povera e bisognosa con la guerra e l’assedio del 1848-1849.
Dopo pochi mesi fondò una scuola popolare per le fanciulle più trascurate dalle famiglie, e il 30 aprile 1850 diede inizio all’opera educativa con l’aiuto di due zelanti catechiste, primo germe della Congregazione delle Suore Figlie di S. Giuseppe.
Mentre continuava con amore la cura pastorale della sua parrocchia, seguì l’espansione della nascente famiglia religiosa, aprendo nel 1857 a Venezia una seconda casa nei pressi di S. Sebastiano, dove accolse ragazze povere aiutate dalla pubblica assistenza. Nel 1859 fondò, nella città di Ceneda (Vittorio Veneto – Tv) una scuola gratuita per ragazze esterne, prevalentemente povere, e accanto istituì un collegio con più elevato programma di studi.
Nel 1869 la Congregazione di Carità di Venezia lo chiamò a riordinare l’importante Istituto Manin maschile, di arti e mestieri, che da un biennio si trovava in precarie condizioni disciplinari ed economiche.
Poiché la salute si era alquanto indebolita, il Caburlotto nel 1872 rinunciò alla parrocchia per dedicarsi con più energia alle case di educazione.
Nel difficile clima postunitario ebbe il merito di esercitare una benefica influenza nell’indirizzo educativo di istituzioni pubbliche. Nel 1881 la Congregazione di Carità gli affidò altri due istituti ridotti quasi all’estinzione: l’Orfanotrofio maschile ai Gesuati e quello femminile alle “Terese” dove poté sostituire alle maestre laiche le sue suore, aprendo così la quarta casa della Congregazione.
Accanto a queste attività seppe dare la sua opera per ogni servizio richiesto dal suo Vescovo. Esercitò il ministero della predicazione in corsi di esercizi spirituali a religiose e laici, condusse missioni popolari, tenne conferenze spirituali al clero.
Trascorse gli ultimi anni in quasi totale ritiro, provato da lunghe sofferenze, ma sereno e sempre interessato alle opere che continuava a dirigere. Morì, assistito dal patriarca Giuseppe Sarto (poi S. Pio X), il 9 luglio 1897 invocando la Vergine Maria.
Nel luglio 1994 il papa Giovanni Paolo II promulgò il decreto nel quale dichiarava che il Servo di Dio Mons. Luigi Caburlotto visse in grado eroico tutte le virtù cristiane e lo dichiarò Venerabile.
Per rendere accessibile a tutti la venerazione delle sue reliquie, il 1° marzo 2009 l’urna con le sue spoglie venne traslata dalla Casa generalizia della congregazione e tumulata nella parete meridionale della Cappella interna alla Chiesa di S. Sebastiano.
Il 9 maggio 2014 il card. Angelo Amato, Prefetto della Congregazione dei Santi, informò il Papa delle conclusioni a cui era giunta la Causa del ven. mons. Luigi Caburlotto e Papa Francesco lo autorizzò a promulgare il Decreto sull’autenticità del miracolo attribuito all’intercessione del Venerabile Servo di Dio Luigi Caburlotto. È stato proclamato Beato a Venezia il 16 maggio 2015, con una bellissima celebrazione effettuata in piazza S. Marco.
Don Luigi Caburlotto è il primo Beato tra gli ex-allievi dell’Istituto Cavanis, in particolare essendo stato allievo direttamente dei due fratelli fondatori, Padre Anton’angelo e Padre Marcantonio Cavanis.
Le Suore Figlie di S. Giuseppe formano una Congregazione religiosa dedita all’educazione umana e cristiana dei bambini, degli adolescenti e dei giovani nella scuola (nido, infanzia, primaria, secondaria di 1° e 2° grado), nelle opere sociali e nella vita parrocchiale.
Per risanare una società, occorre impegnarsi nel campo educativo (don Luigi Caburlotto).
In tutte le opere educative e sociali, le Suore Figlie di S. Giuseppe condividono il carisma educativo ereditato dal loro Venerabile Fondatore, Mons. Luigi Caburlotto (1817-1897) con i collaboratori laici (docenti, educatori, volontari, cooperatori).
La Congregazione, da Venezia, dove venne fondata il 30 aprile 1850, si è diffusa in Italia, Brasile (1927), Filippine (1992), Kenya (2002).
La rivista Charitas dell’Istituto Cavanis, nel suo secondo numero, lo ricordava così, annunciando profeticamente la sua glorificazione in cielo e in terra:
Tra i primi alunni dei Fratelli Cavanis
Ricordando Mons. Luigi Caburlotto
Sono venticinque anni che è scomparsa dalla faccia della terra la nobile figura di mons. Luigi Caburlotto, modello di sacerdote e pastore, fondatore dell’Istituto delle Figlie di S Giuseppe. Ma la sua memoria vive di vita immortale quaggiù, dove egli perpetua la profusione della sua intelligenza e del suo cuore di padre delle orfanelle e delle figlie del popolo, di salvatore degli istituti e orfanotrofi maschili della nostra città. Dinanzi al degno sacerdote, al benefico cittadino, al fondatore d’un Istituto che effonde la sua opera di carità e di lavoro in modo particolare verso quelle giovanette, che, lasciate a se stesse o in balia di parenti cattivi, corrono pericolo di rovina morale e spirituale, dinanzi all’uomo dalla fede viva e inconcussa, ogni buon veneziano depone l’omaggio della sua venerazione e della sua riconoscenza.
Gli ex allievi dell’Istituto Cavanis, sapendo il Caburlotto alunno delle Scuole dei venerati Fondatori Anton’Angelo e Marcantonio, accettino di dirsi suoi condiscepoli, e gradiscano che sulle colonne del loro bollettino gli venga tributato un elogio fatto di amore e di venerazione. Coll’augurio che il Figlio possa aver parte nella gloria che a Dio piacesse riservare un giorno anche sulla terra ai benedetti Padri. I fratelli Cavanis e il loro discepolo sono ruscelli che pure scorrendo in letto diverso riflettono i medesimi raggi di sole, non intorbidando mai le loro limpide e cristalline acque; sono gigli che pur crescendo in differente aiuola nel medesimo giardino, fondono insieme il loro profumo e lo mandano verso il cielo. Essi, uniti a mons. Daniele Canal, a D. Carlo Coletti, a D. Angelo Bortoluzzi, a mons. Giambattista Piamonte, indimenticabili apostoli del bene della gioventù, costituiscono quel glorioso drappello di educatori cristiani che forma il vanto e il decoro di Venezia, la quale erigendo a questi suoi grandi figli un monumento d’imperitura riconoscenza potrebbe incidervi il motto: Passarono beneficando.
P. Giuseppe Borghese
9.3 Ricordando Mons. Daniele Canal
Tra i preti veneziani che per molti versi hanno imitato i venerabili fratelli Cavanis, o che comunque hanno seguito il loro cammino in favore della gioventù, cammino percorso del resto molto prima, a Venezia e altrove, dal veneziano San Gerolamo Miani (detto Emiliani) bisogna ricordare Mons. Daniele Canal.
La personalità del nobile abate Daniele Canal merita qui alcuni cenni particolari, anche per i rapporti che ebbe con i Cavanis. Egli fu uomo di una attività eccezionale e uno dei più benemeriti sacerdoti veneziani del secolo scorso. Era nato nella parrocchia di S. Agnese il 3 dicembre 1791, e fu ordinato sacerdote a 23 anni. Due anni dopo, nel 1817, assumeva spontaneamente la direzione spirituale della Casa d’industria a S. Lorenzo (sestiere di Castello), dove si raccoglievano per il lavoro circa 3.000 poveri d’ambo i sessi. Accortosi che l’ambiente era frequentato da gente sospetta, con l’aiuto del direttore, il conte Gio. Battista Muzan, imparentato con i Cavanis, riuscì a separare le ragazze dalle altre persone. Non avendo trovato comprensione nel successore del Muzan, a un certo momento si prese l’onere di trasferirle lontano, a S. Bonaventura (Cannaregio, parrocchia di S. Alvise, nel convento di S. Bonaventura, già dei francescani, attualmente monastero delle suore carmelitane).
Di là passò in parrocchia di S. Trovaso a Dorsoduro, vicino all’Istituto Cavanis, dove le ragazze rimasero per 10 anni, fino al 27 maggio 1841, quando egli poté passarle in numero di 70 nell’ex monastero di S. Maria del Pianto (attualmente inglobato nel complesso dell’Ospedale Civile di Venezia, non lontano della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo); da lui restaurato e ricuperato dal Demanio. Nel nuovo ambiente così poté affidarle alla educazione delle Figlie del S. Cuore della beata Teresa Eustochio Verzeri.
Nel suo zelo instancabile, nel 1864 aprì un secondo istituto nel complesso di edifici di S. Maria dei Servi nel sestiere di Cannaregio, la cui chiesa era stata distrutta nel 1815, per raccogliervi, mantenere e rieducare ragazze dagli 8-15 anni fino ai 21, sottraendole così ai pericoli della strada e a una vita licenziosa. Ne affidò la direzione alla Venerabile Anna Maria Marovich (1815-1887), veneziana dei Frari, coadiuvata a sua volta dalle cosiddette «Pie Signore», una istituzione di origine lombarda, che poi prese il nome di Suore della Riparazione.
Si rese benemerito di Venezia con numerose altre iniziative, tra le quali merita di essere ricordato il suo impegno presso l’imperatore per ottenere a Venezia il Porto franco, assecondando il progetto del patriarca mons. Giovanni Ladislao Pyrker.
L’abate Canal — così lo si indicava comunemente a Venezia — sebbene non fosse stato come tanti altri preti e religiosi veneziani, ex-allievo dei Cavanis, fu sempre in relazioni amichevoli con i due venerabili fratelli e ammiratore della loro opera. Nel 1825 per esempio lo troviamo fra i commensali in Istituto Cavanis, invitato a tavola nella festa di s. Giuseppe Calasanzio. Nel 1831, ha da loro l’incarico di raccomandare a Vienna, al maggiordomo dell’imperatrice, il giovane chierico Giuseppe Marchiori. Nell’occasione di questo viaggio egli scrisse loro varie lettere, e ne scrissero a lui i fondatori: il 16 e il 25 maggio; il 4, 15, 27 giugno. Altre ne scrisse l’anno dopo 1832 durante un altro viaggio: da Pirano, Vienna, Baden, Vienna.
Alla sua morte, avvenuta il 18 marzo 1884, il P. Casara scrisse nel Diario della Congregazione le seguenti espressioni di ammirazione: «Compianto da tutta la città, di anni 92, mesi 3, giorni 15, morì ier sera placidamente il venerando amico dei nostri Padri, amorevolissimo nostro, M.r Daniele Canal, fondatore di due grandi istituti, e indefesso in ogni opera privata e pubblica di zelo e di carità, benemeritissimo della patria. Innumerevoli e immensi sono i suoi meriti, dei quali andò ora a ricevere l’eterno premio. I funerali saranno fatti in S. Marco a spese del Municipio, e saranno solennissimi, e sarà deposto, a cura parimente del Municipio, in apposita tomba, che sarà decorata da un busto in bronzo, per proposta della Gazzetta, che aperse subito una sottoscrizione, alla quale si associa pur la Difesa, ma per giovare eziandio a’ suoi Istituti ».
9.4 Ricordando i fratelli Passi
Ancora, nello stesso motivo di ricordare amici, collaboratori dei Fondatori dell’Istituto Cavanis, con alcuna frequenza citati nei loro scritti, e appassionati educatori, non si possono dimenticare i fratelli sacerdoti il beato don Luca Antonio Passi e don (poi mons.) Marco Celio Passi, e soprattutto il primo; e di passaggio il loro zio paterno, mons. Marco Celio Passi.
La famiglia Passi era originaria di Bergamo, come del resto erano originari del Bergamasco (Cornalba) i Cavanis; ma i conti Passi erano realmente bergamaschi, pur avendo i due fratelli e lo zio vissuto e operato anche a Venezia, mentre i Cavanis, come si sa, erano passati dalla provincia di Bergamo a Venezia, stabilmente, già almeno dal 1503.
Luca Antonio Passi (Bergamo, 22 gennaio 1789 – Venezia, 18 aprile 1866), più comunemente chiamato Luca soltanto, nato nell’anno dello sconvolgimento francese; primogenito di undici fratelli, era figlio del conte Enrico Passi e della nobildonna veneziana Caterina Corner. La stirpe dei Passi de Preposulo vantava ascendenze anteriori all’anno Mille ed era passata con dignità attraverso molteplici snodi storici, mantenendo sempre una chiara ispirazione ai valori della fede cristiana e a quelli di un sano umanesimo. Ora però gli eventi precipitavano. Nel 1797 anche Bergamo, prima terra di S. Marco, divenne parte della Repubblica Cisalpina che aveva una costituzione modellata su quella francese. Nel turbine delle inquietanti notizie che provenivano da oltralpe, il conte Enrico Passi decise di trasferire i suoi, con tutta la servitù, dalla Città alta di Bergamo alla villa di sua proprietà, chiamata la “Passa”, maestoso edificio del XIV secolo rimaneggiato nel ‘700, nel paese di Calcinate, distante quindici chilometri da Bergamo.
I coniugi Passi vivevano con convinzione la fede cristiana che trasmisero anche ai figli, tre dei quali – Luca, Marco e Giuseppe – divennero sacerdoti. Un fratello del conte, monsignor Marco Celio Passi, arcidiacono della cattedrale, capo del Collegio Apostolico e vicario generale, uomo di cultura e di zelo apostolico, fu, accanto ai genitori, una figura di incisiva autorevolezza per la loro vocazione.
Luca Passi dunque è stato un prete italiano, fratello di Marco Passi (22 febbraio 1790-21 febbraio 1863), di un anno più giovane di lui, anche lui prete e missionario, membro di una associazione o congrega di missionari (cui apparteneva già il loro zio monsignor Marco Celio Passi, come si è detto), fondatore della Pia Opera di Santa Dorotea. Luca frequentò il seminario della sua città e, il 13 marzo 1813, venne ordinato prete. Il 16 maggio 1815 entrò a far parte del collegio apostolico di Bergamo, che riuniva alcuni sacerdoti diocesani vincolati da uno speciale voto di obbedienza al loro vescovo e al pontefice: papa Gregorio XVI gli concesse il titolo di missionario apostolico. Passò allora don Luca a percorrere molte città e paesi d’Italia tenendo missioni al popolo e tra l’altro, come già lo zio e come il fratello, Venezia fu una delle sue mete privilegiate, anzi vi visse come in sua base e vi morì.
Nel 1810 assunse la direzione della Confraternita del Santissimo Sacramento di Calcinate e nel 1811 di quella della Dottrina Cristiana. Con l’aiuto di suo fratello don Marco, organizzando i membri della congrega, nel 1815 diede vita alle pie opere di San Raffaele e di Santa Dorotea, per l’educazione cristiana dei fanciulli e della gioventù. L’iniziativa venne elogiata da papa Pio VII (1820), che ne incoraggiò la diffusione in varie città.
Il ramo maschile (di San Raffaele) si diffuse a Genova per opera di don Giuseppe Frassinetti e di don Luigi Sturla, ma non si diffuse a causa delle vicende storiche e soprattutto dei Moti rivoluzionari del 1848-49. Maggiori fortune ebbe il ramo femminile, intitolato alla vergine Dorotea che, condotta al martirio, riuscì a convertire le donne che dovevano pervertirla. Le Dorotee si diffusero in varie città italiane dando origine a varie congregazioni (tra le principali, quella della Frassinetti e di Vicenza). Le Maestre di Santa Dorotea di Venezia, fondate nel 1838 affinché si occupassero di sostenere l’attività della Pia Opera, derivano direttamente dal Passi, il quale era solito invitare le sue figlie allo zelo dicendo: “Chi non arde, non accende”.
È importante notare però che, come espone ampiamente don Antonio Nero in un suo capitolo dell’8° volume della preziosa serie “La Chiesa Veneziana ecc.”, che l’impostazione tipica iniziale dell’opera iniziata da don Luca Passi (e fratello) a Venezia in modo molto particolare ma anche altrove, era assolutamente laico, con compagnie di fanciulle e ragazze assistite da due signore laiche, profondamente cristiane, che vivevano a casa loro ma si riunivano di frequente, partecipavano quotidianamente alla messa e al rosario, erano tenute il più lontano possibile dalla “calle” (a Venezia), e non erano assolutamente organizzate come uma congregazione religiosa. Anzi, non erano neppure governate direttamente da un prete, anche se frequentavano ovviamente le parrocchie. Le congregazione religiose si sono formate in un secondo momento, se non in senso cronologico, almeno in senso logico ossia di idee e di programmi.
Don Luca morì a Venezia il 18 aprile 1866. Nel 1998 è stato proclamato venerabile dalla Congregazione per le cause dei santi; e il 13 aprile 2013 è stato dichiarato beato nella basilica di San Marco di Venezia dal cardinale Angelo Amato.
I suoi rapporti con i padri Antonio e Marco Cavanis e poi, anche dopo la morte di quest’ultimo, con l’Istituto e particolarmente con P. Sebastiano Casara, sono resi evidenti da vari passi del diario della Congregazione e da varie lettere.
Di un Mons. Passi si parla nelle Memorie dell’Istituto Maschile, ma doveva trattarsi del missionario e monsignore Marco Celio Passi, zio di Luca e di Marco Celio, i fratelli Passi di cui si parla. Questo mons. Passi aveva fondato a S. Polo una Congregazione Mariana sull’esempio di quella di S. Agnese, fondata da Antonio e Marco Cavanis. Mons. Passi “senior” resideva normalmente a Bergamo, dove era anche vicario generale; ma si dedicava alle missioni popolari viaggiando per il paese, come del resto P. Luigi Mozzi, mentore dei Fondatori dell’Istituto Cavanis e amico del Passi.
Dei fratelli Passi si parla invece di passaggio, in nota, nel II volume dell’Epistolario. Dei conti Passi scrive P. Marco a suo fratello il 17 giugno 1834: “Bene mi si mostrò cordialissimo ed impegnato ad assistermi e favorirmi [un don Benedetto Mazzoleni, di Bergamo, N.d.A.]; mi presentò all’istante a M.r Vescovo, da cui venni graziosamente invitato a pranzo pel dì seguente, e mi condusse poi con amorosissima gentilezza (…) a un altro grandioso Stabilimento detto il Conventino, ove sono più di 200 orfane mantenute; e la famiglia dei Conti Passi, prendendo cocchio a tal fine, perché non avessi a stancarmi col faticoso cammino”. Dell’incontro con i conti Passi P. Marco parla anche e più chiaramente nella lettera al fratello del 31 luglio 1834, da Bergamo, già sulla via del ritorno a Venezia “Il viaggio che mi condusse in questa mattina a Bergamo fu felice, avendo, nella diligenza compagni quieti e tranquilli e due gemme nel mezzo, cioè i due fratelli missionarj Passi; ecc.”.
Infine, in una lettera del 15 dicembre 1842, a un sacerdote di Como a lui sconosciuto, si presenta come raccomandato “dal celebre Missionario D. Luca dei Coo. Passi.”
10. Benefattori e benefattrici dei Cavanis
10.1 Principali benefattori e benefattrici dei fondatori della prima metà del XIX secolo
10.1.1 Marchesa Santa Maddalena di Canossa (vedi capitolo sull’istituto delle Scuole di Carità femminile)
10.1.2 Sig. Francesco Marchiori (vedi il capitolo sulla casa di Lendinara)
10.1.3 Conte Giacomo Mellerio
Giacomo Mellerio, senza dubbio il principale dei benefattori dell’Istituto Cavanis di tutti i tempi, nacque a Domodossola il 9 gennaio 1777.
Alla morte del padre si trasferì a Milano presso il facoltoso zio Giovanni Battista, conte Mellerio dal 1776. Inviato nel 1787 a studiare a Siena nel collegio Tolomei, delle Scuole Pie, Giacomo completò la sua educazione tra 1795 e 1803. Dopo il matrimonio (1803) esercitò i primi incarichi burocratici a Milano capitale del napoleonico Regno d’Italia e soffrì numerosi lutti familiari: la perdita dei quattro figli, della giovane moglie e, nel 1804, quella dello zio che lo lasciò erede unico di un ingente patrimonio. Gli si fece letteralmente il vuoto attorno. Lo riempì con l’impegno sociale, politico e culturale; e principalmente con le opere di carità, di cultura e di bene. Consigliere comunale tra 1813 e 1814, dal 1810 aveva iniziato a occuparsi di assistenza in qualità di membro del direttorio elemosiniero della Congregazione di carità di Milano.
Alla caduta del Regno Italico il Mellerio fu membro di spicco del gruppo di sette reggenti di governo, l’organo interlocutore delle potenze vincitrici, riunite nel Congresso di Vienna, nella trattativa che fu purtroppo infausta, producendo la dipendenza totale dall’Austria. Esponente del gruppo che sperava di ripristinare l’autonomia della Lombardia, coniugata a una libertà della Chiesa, il Mellerio collaborò tuttavia nel nuovo governo, e fu frequentemente a Vienna, come deputato di Milano.
L’esperienza viennese evidenziò le qualità del Mellerio, che nel 1816 fu nominato vicepresidente dell’imperial regio governo a Milano, con a capo il conte F.J. Saurau, e consigliere intimo di Stato, e, nel 1817 cancelliere per il Regno Lombardo-Veneto presso la Cancelleria aulica riunita.
Il Mellerio non si sentiva tuttavia a suo agio in questa situazione umiliante per la sua città: nel 1818 presentò dimissioni all’imperatore, che gliele accordò il 5 febbraio 1819. Visto a lungo come austriacante, studi recenti ne rivalutano personalità e opere inserendole in quell’ambiente cattolico ambrosiano legittimista ma non reazionario.
Il Mellerio si dedicò allora interamente alle attività di benefattore e di mecenate. Il cospicuo patrimonio ricevuto in eredità abbinato alla rete di relazioni coltivate nell’ambito soprattutto dell’Amicizia Cristiana, ma anche delle società ricreative milanesi (gli oratori parrocchiali, in particolare,), gli consentì di distribuire con organicità ed efficacia i suoi interventi di assistenza e di carità, ormai obiettivo prioritario della sua esistenza: nominato nel frattempo presidente della Commissione centrale di beneficenza, dispose numerose donazioni in favore di ospedali e scuole per fanciulli e fanciulle poveri, soprattutto nella natia Domodossola.
Risale al 1826 l’incontro con l’abate Antonio Rosmini Serbati, futuro punto di riferimento nella vita e nell’azione caritativa del Mellerio. Nel 1832 Giacomo Mellerio, accompagnando a Venezia l’abate Rosmini, conobbe i fondatori delle Scuole di Carità ed evidentemente ne rimase affascinato, perché li aiutò in modo sostanziale durante la sua vita e oltre.
Nominato nel 1831 direttore dei Luoghi pii ed elemosinieri, affiancò all’impegno assistenziale un’intensa attività di mecenatismo e promozione culturale all’interno del cattolicesimo ambrosiano. Fu amico di Alessandro Manzoni, al punto che ne lesse in bozze i Promessi sposi; del famoso Angelo Mai, prefetto dell’Ambrosiana, cardinale, bibliofilo, studioso. Mellerio fu in prima linea nella militanza culturale cattolica. Una via a Milano centro lo ricorda, vicino a S. Ambrogio.
Morì a Milano il 10 dicembre 1847. Il testamento (13 ottobre 1847), che disponeva lasciti e legati per oltre 2 milioni di lire, gli permise di continuare, al di là della morte, la sua opera di benefattore. Lasciò ai fratelli veneziani Antonio Angelo e Marcantonio Cavanis fondatori delle scuole di Carità (come pure alle canossiane di Brescia e Venezia), somme importanti. È nominato più volte in questa storia e non occorre qui ricordarlo in dettaglio. Ma la sua memoria è in benedizione, tra l’altro nella congregazione dei Cavanis e davanti al Signore. Nell’Epistolario (e nel suo apparato critico) è nominato espressamente ben 154 volte.
10.1.4 Contessa Carolina Durini Trotti
La Contessa Carolina Durini, nata Trotti Bentivoglio (1762-1833), milanese di nascita, figlia di Ludovico Trotti Bentivoglio e di Teresa Fontana Belinzaghi Beluschi. Aveva due sorelle e un fratello. La sorella Paola andrà sposa al conte Taverna e risiederà a Venezia dopo i mutamenti politici del 1796. Carolina si sposa nel 1782 al conte Carlo Francesco Durini. Fu Dama della Crociera e impegnata per tutta la vita in opere di bene, insieme alla sorella Teresa. La Canossa incontra la Durini a Verona mentre è in visita agli infermi nell’Ospedale della Misericordia. Le due Dame iniziano da quel giorno un’amicizia che durerà per tutta la vita. Si scambiano centinaia di lettere comunicando, insieme ad interessanti rilievi storico sociali, tutte le loro personali e benefiche attività. La fede religiosa che anima entrambe è il comune denominatore della loro perseverante amicizia. La Durini apre alla Canossa le più impensabili relazioni con nobili benefattori milanesi e con alti Prelati legati alla Curia Romana, contribuendo indirettamente alla espansione delle opere caritative della Canossa e al riconoscimento giuridico del suo Istituto. La benefattrice è nominato 49 volte nell’Epistolario e nel suo apparato critico. Sembra probabile che avesse conosciuto i fratelli Cavanis tramite la Beata Canossa.
10.1.5 Cav.r Pietro Pesaro, Londra
Pietro Pesaro, nobile veneziano che viveva e operava a Londra, fu contattato per la prima volta da P. Marco Cavanis con lettera del 22 giugno 1826, chiedendo elemosine per l’Istituto, e non ottenendone per il momento, sebbene ne ricevesse una risposta con lodi e sentimenti cordiali. P. Marco gli aveva mandato anche una sua pagellina di 4 pagine: Breve Notizia dell’Istituto delle Scuole di Carità. ecc. (del 1826; ne stamparono un’altra nel 1827). Pietro Pesaro, dei Pesaro del ramo di San Stae (=Sant’Eustachio), dove possedeva un grandioso palazzo sul Canal Grande, era stato a Roma in qualità di ambasciatore della repubblica veneta fino al 1797, cioè fino alla fine della stessa. Morì nei primi mesi del 1830 a Londra, dove da molti anni aveva posto la sua residenza. Pietro Pesaro lasciò nel suo testamento una beneficenza all’opera dei Cavanis, in forma di legato, che si riscoteva periodicamente presso i nobili uomini Gradenigo in Rio Marin (tra S. Giovanni Evangelista e S. Simion Grando (=S. Simeone Grande). Non si trattò tuttavia solo di un legato iscritto nel testamento; quando ancora vivo, i Fondatori ricevettero annualmente da Pietro Pesaro, dopo qualche insistenza, generose somme per aiutare l’Istituto.
10.1.6 Canonico Angelo Pedralli di Firenze
Dal 1838 almeno fino al 1853, anno della morte di P. Marco Cavanis, spesso spontaneamente e raramente richiesto, inviò ai fratelli Cavanis e all’Istituto, immagini sacre (cominciando nel 1838 con un busto in gesso di San Giuseppe Calasanzio che si trova ancora nell’AICV), libri religiosi, opuscoli e immaginette di devozione; a volte offerte raccolte a Firenza tra i fedeli. Dimostrava un estremo amore e grande stima per i fondatori e per l’Istituto. Oltre alle lettere nei volumi V-VIII dell’Epistolario, si veda il diario: “Memorie per la storia della Congregaz.e, Volume primo, da 1838 a tutto 183…” [..al 21 giugno 1850]. AICV, Fondo dei Fondatori, b. 9, f. ER, doc. 47.
Angelo Pedralli era (all’epoca delle Memorie della Congregazione, vol. I), canonico maggiore e penitenziere della cattedrale metropolitana di Firenze. Era “deciso intransigente e consigliere frequentemente consultato e ascoltato dai rappresentanti pontifici nel Granducato, vera eminenza grigia della Chiesa Toscana” (Martina, 1967, p. 18). Fu messo in disparte, almeno ufficialmente, con l’elezione dell’arcivescovo Limberti, nel 1857. Morì il 27 settembre 1858 (Martina, 1967, p. 370).
10.2.2 Contessa Loredana Gatterburg-Morosini
Di questa cara signora, di cui abbiamo parlato varie volte, come grande benefattrice dell’Istituto Cavanis nell’epoca di P. Casara, e particolarmente negli anni 1881-1884, questi scrisse nel diario di Congregazione in occasione della sua morte, avvenuta il 7 dicembre 1884:
“Domenica (7). Sta mattina verso le ore 9 è placidamente spirata la insigne Benefattrice nostra e di tutte le Opere pie e dei poveri e di quanti versavano in gravi distrette e a lei ricorrevano, la Nobil Donna Loredana Gatterburg Morosini, la cui dipartita immerge nel lutto la città tutta quanta e molti e molti nel Veneto e fuori anche in parti lontane. Le sue largizioni erano continue e generose, e sempre fatte in spirito di vera carità cristiana e di intima umiltà. Era impossibile che rimanessero ignoti gli effetti incessanti della cristiana e sua piissima munificenza. Ella però avrebbe voluto che nessuno mai li avesse saputi, e per suo sentimento e intenzione e volontà la sua sinistra non avrebbe saputo mai ciò che facea la sua destra. Cospicue erano le sue annue rendite delle molte e vaste sue possessioni, e tutto andava esaurito in opere di pietà religiosa e di benefica carità. Nè intendeva con ciò di far punto più dello stretto dover suo, considerandosi sinceramente, non come padrona assoluta, bensì come amministratrice dei beni di che l’aveva fornito Iddio tanto sovrabondantemente. Non attribuiva quindi a sè verun merito del moltissimo che continuamente effondeva, ed ammirava invece ed esaltava la virtù e il merito delle persone dedicate con sacrificio di carità alle Opere pie ch’ella sovveniva spesso e largamente. Iddio però, negli adorabili suoi consigli dispose che nulla perpetuasse dei tanti beni che solea fare, e senza dubio avrebbe voluto continuati anche dopo la morte sua !!! Incerta sempre sul modo di assicurare la durevole esecuzione delle intenzioni sue religiose e benefiche, non venne mai all’atto di esporle in iscritto validamente. Tutto così cessò con la preziosa sua vita!!! Iddio Signore chiamò lei al premio, colpendo noi di un castigo tremendo, e sia anche in ciò benedetto. Abbassiamo umiliati il capo, baciamo amorosi la mano che ci percuote e confidiamo nella sua infinita Bontà. Quanto a noi in particolare, dal molto che ci aiutò nel ricupero dei fondi perduti per la soppressione e nelle fabriche dispendiosissime e per l’Istituto feminile potevamo aspettarci forte conforto per l’avvenire. Ma Iddio vuole che confidiamo in Lui solamente, e noi faremo così, nè resteremo delusi. Preghiamo intanto che doni presto la gloria grande che l’Anima benedetta si è meritata, e speriamo che in Paradiso ci aiuterà ad ottenere in altro modo gli aiuti di che abbisogniamo”.
Si può supporre che P. Casara, nella seconda parte di questo scritto, che si può definire stranamente agrodolce, si riferisca all’assenza di un testamento che contemplasse, tra l’altro, anche l’Istituto Cavanis. Sembra strano tuttavia che il giorno stesso della sua morte si sapesse già che la defunta non avesse lasciato un testamento, dato tra l’altro che non aveva figli ed era l’ultima della sua stirpe.
10.2.3 Mons. Luigi Bragato di Vienna
Luigi Bragato era nato a Verona il 27 dicembre 1790, fu consacrato sacerdote a Verona nel 1814, e morì alla Corte di Praga il 13 ottobre 1874, a 83 anni. Nel 1818 entrò tra gli stimmatini, l’istituto di san Gaspare Bertoni. Ne uscì nel 1819 per motivo di salute debole, ma vi rientrò nel 1828. “Povero ed umile pretucolo” (così lo definisce il padre Gramego): lo era forse anche nell’aspetto fisico, per causa della sua salute gracile, ma soprattutto coltivava profondamente e sinceramente le virtù della povertà (e dell’amore ai poveri) e dell’umiltà. A Verona si dedicava all’educazione e all’assistenza dei fanciulli e giovani carenti. Nel 1835, tuttavia, su richiesta del suo Vescovo, passò alla Corte di Vienna e a Praga, dove ebbe il titolo di monsignore, come confessore, elemosiniere e direttore spirituale dell’Imperatrice d’Austria Maria Anna di Savoia, consorte di Ferdinando I d’Austria (successore di Francesco I), e coadiutore per opere spirituali, a condizione che il servizio fosse gratuito. Rimase fedele alla consegna, rifiutando onori e gloriandosi solo di essere “missionario delle Stimmate”. Era discepolo prediletto del Bertoni, come prova anche la corrispondenza scampata alla distruzione. Fu dunque un personaggio evangelico e realmente un pastore, pur nell’ambiente di corte dove doveva essere difficile esserlo. E continuò a vivere da buon stimmatino. A corte infatti approfittò della sua posizione solo per aiutare quanti ricorrevano a lui chiedendo la sua mediazione.
A Vienna e a Praga, aiutò molto spesso l’Istituto Cavanis, di cui fu grande benefattore, intercedendo in suo favore, a richiesta frequente di P. Marco Cavanis, a nome anche del fratello, e poi su richiesta pure frequente di P. Sebastiano Casara; sia quando si trattava di chiedere all’imperatore di turno o all’imperatrice o ad altri personaggi delle elemosine in aiuto dell’Istituto; sia quando si trattava (e questo più di frequente), di affrettare il successo delle pratiche, di scuotere la burocrazia imperiale, in favore delle scuole per i più poveri, dello studium teologico domestico dei Cavanis, dell’approvazione imperiale dell’Istituto maschile. Il suo nome è rappresentato ben 59 volte nell’indice onomastico dell’Epistolario dei Fondatori, nell’ottavo volume, p. 297, per il periodo 1831-1846. Nell’AICV si conservano numerose sue lettere, come pure le minute delle lettere rivolte a lui da P. Marco.
Questi si incontrò con don Luigi Bragato la prima volta nel 1831 a Verona, e ne dimostra grande stima. Lo visitò più volte a Vienna nei suoi viaggi a quella capitale e, come si diceva, gli scriveva con frequenza, confidenza e gratitudine. L’ultimo contatto (epistolare) tra P. Marco e Mons. Luigi Bragato risulta essere del 1846. Tale contatto fu ripreso poi da P. Sebastiano Casara, e ci risulta essere continuato almeno fino al 1863, forse anche in seguito.
10.2.3 Mons. Giuseppe Ghisellini
Mons. Giuseppe Ghisellini fu un prete, religioso rosminiano amico dei Cavanis, particolarmente del P. Casara. Egli operava presso la S. Sede. Aiutò i padri Cavanis, in modo particolare e con estrema frequenza, nel processo tutt’altro che facile di approvazione della seconda parte delle regole e nell’approvazione di tutto il codice delle Costituzioni da parte della Santa Sede, processo che ebbe la felice conclusione nel 1891. Era uomo di un’estrema pazienza e bontà, molto efficiente nell’aiuto, che gli era chiesto dai nostri davvero con eccessiva (e a mia opinione eccessivamente importuna) frequenza. Lo si trova citato infinite volte nel Diario di Congregazione, durante la seconda fase dei mandati di P. Casara come preposito, e anche in seguito con i prepositi suoi successori. La sua memoria deve restare in benedizione nell’Istituto Cavanis.
10.2.5 Principe Giuseppe Giovanelli
Il principe Giuseppe Giovanelli, detto anche commendator Principe Giovanelli, fu benefattore insigne dell’Istituto Cavanis almeno negli anni 1873-85, durante le prepositure di P. Sebastiano Casara. Fu benefattrice dell’Istituto anche sua madre, la principessa Maria Buri-Giovanelli.
Giuseppe Giovanelli era nato da Andrea Principe Giovanelli e da Maria Buri, a Venezia, l’8 dicembre 1824 (come alternativa, da altra fonte, il 5 dicembre dello stesso anno) e morì a Lonigo (Vi), durante un periodo di vacanze nella sua villa ivi situata, l’11 settembre 1886.
Fu Principe, conte di Marengo, Carpenedo, Telvara, San Pietro e dell’Impero, signore di Caldareo e di Laimbourg, patrizio veneto, nobile del Tirolo e delle provincie ereditarie d’Austria, magnate d’Ungheria.
Fu sindaco di Venezia (1868-1875) ed era stato anche Consigliere comunale di Venezia, Consigliere provinciale di Venezia, Consigliere comunale di Lonigo.
Tra le altre cariche, fu Capo battaglione della Guardia nazionale di Venezia (1848-1849) durante il periodo della repubblica rivoluzionaria di S. Marco, Presidente dell’Accademia di belle arti di Venezia, Presidente della Società italiana di navigazione [sede di Venezia], Presidente della Società veneta per le imprese e costruzioni pubbliche, Presidente della Banca nazionale, sede di Venezia, Vicepresidente della Banca nazionale, sede di Venezia, Membro del Consiglio direttivo della Scuola superiore di commercio di Venezia, Socio della Società geografica italiana (1868).
Fu senatore del Regno d’Italia dal 1866 fino alla morte.
11. I capitoli generali dell’Istituto Cavanis del XIX secolo
Noi non siamo benedettini o francescani e la nostra storia è assai recente a confronto. L’Istituto Cavanis è nato come opera nel 1802, come istituto di diritto diocesano (di Venezia) nel 1818 e come Congregazione religiosa di diritto universale il 16 luglio 1838.
Ma aver celebrato nel 2019 il XXXV Capitolo generale vuol dire che noi non siamo esattamente recentissimi. Abbiamo avuto infatti 35 capitoli generali (all’inizio chiamati provinciali) ordinari, ma anche 14 capitoli straordinari.
Il numero dei capitoli generali ordinari è da un lato più basso di quel che potrebbe essere, se si pensa che il primo è stato celebrato soltanto nel 1855; ma è d’altra parte elevato, perché sino al 1937 erano celebrati ogni tre anni, invece che ogni sei come lo è oggi. Il mandato dei prepositi e delle altre cariche a quel tempo era triennale e non ancora sessennale.
I fondatori non organizzarono capitoli generali, o meglio provinciali, durante la loro vita. Non avevano in animo di fondare un istituto religioso, ma piuttosto una catena di comunità quasi autonome (“come delle comunità sorelle, ma senza dipendere l’un l’altra”) di preti diocesani specializzati nella pastorale della gioventù, quasi degli “oblati”, che vivessero in comunità con i fratelli laici al servizio delle chiese locali e dipendenti localmente dal vescovo e, focalizzati sullo speciale ministero dell’educazione giovanile; essi inorridivano al pensiero di strutturazioni complicate e al capitolo generale non ci avevano mai pensato. Allo stesso tempo bisogna ricordare la frase di P. Anton’Angelo, che scriveva a suo fratello che si trovava a Roma per l’approvazione delle costituzioni e dell’Istituto: «Questa carica di Superiore generalissimo mi spiace molto».
La forma di congregazione religiosa con voti semplici e la struttura tipica di tale entità, fu loro imposta dalla Sede romana nel 1835 e fu accettata con obbedienza sì, e anche per necessità, ma fu realizzata assai poco nella prassi. Essi continuavano profeticamente a desiderare e a vivere una comunità meno giuridica e più evangelica: non unita da vincoli di legge, ma piuttosto da quello “della carità e dell’uniforme vocazione”.
P. Marco del resto comprendeva meglio di P. Antonio che occorreva una certa struttura consistente, anche in virtù della sua carriera, svolta in gioventù come funzionario di stato, del suo soggiorno a Roma negli ambienti della curia romana, così come grazie ai suoi numerosi viaggi e contatti con altri istituti religiosi e con le loro curie generali e provinciali.
Invece P. Antonio, forse più spirituale e senza dubbio alquanto ristretto nella sua residenza fissa a Venezia, tutto occupato nell’apostolato quotidiano nella scuola e nella formazione, nutriva molto meno il desiderio di complicare tutto.
Tale divergenza di opinioni è chiaramente messa in evidenza dalla corrispondenza che ebbero i due venerabili fratelli nel 1835, quando P. Marco si trovava a Roma per ottenere l’approvazione dell’Istituto e preparare le costituzioni; e P. Antonio si trovava invece a Venezia. A un certo punto la divergenza di idee sulla forma, la struttura e il governo dell’Istituto sembrava arrivare al disaccordo, con notevole sofferenza da ambedue le parti. Solo un grande amore fraterno poté trionfare sulle difficoltà. Mai come in questa occasione la metafora dell’aquila imperiale austriaca con due teste e un solo cuore avrebbe potuto calzare meglio.
Il fatto è che P. Marco era più realista, più “uomo di mondo”, in senso buono. Subiva le pressioni giuridiche della S. Sede ma guardava anche più lontano, al futuro; quanto a P. Antonio, vivendo a Venezia, nella casa madre, e preso da occupazioni e preoccupazioni immediate, soffriva piuttosto della prospettiva delle necessità quotidiane di una piccola opera piuttosto che pensare a divenire lui stesso un «superiore generalissimo» e a organizzare dei capitoli generali.
C’è da aggiungere che la seconda parte delle costituzioni, che doveva riguardare la struttura, il governo e l’amministrazione, non fu mai messa a punto da loro, ma la S. Sede approvò comunque di buon grado la nuova congregazione. Questo fu un vantaggio che permise l’approvazione rapida e l’inizio formale dell’Istituto già nel 1838; ma fu anche un freno allo sviluppo e una fonte di disaccordi futuri, di incertezze e di problemi, risolti solo nel 1891, con la pubblicazione della seconda parte delle costituzioni, cui si arrivò, anche allora, con notevoli difficoltà.
Bisogna anche ricordarsi, per comprendere meglio la situazione, che durante tutto il XIX secolo e i primi decenni del XX la Congregazione era costituita solo da una dozzina o una quindicina di professi perpetui, con dei picchi effimeri di 18-20: era ridicolo in queste condizioni parlare di capitoli generali.
Anche se sin dall’inizio era stato il superiore e il capo naturale dell’opera e della comunità, il P. Anton’Angelo fu formalmente il primo preposito generale solo dal 1838, data dell’erezione canonica dell’Istituto e fino al 1852, quando aveva raggiunto gli 80 anni, ed era quindi vecchio, malato e cieco. La sua successione non fu facile, secondo quanto spiegato dettagliatamente sopra, e non avvenne mediante un capitolo generale.
Era chiaro a tutti che P. Vittorio Frigiolini era stato scelto moralmente da P. Antonio come suo successore, con la lettera del 10 dicembre 1848, controfirmata da P. Marco, di cui si è parlato sopra; ma nel 1852, quattro anni dopo, fu difficile suggerire e spiegare al santo e vecchio Padre che il momento della prima successione era arrivato. I religiosi vennero consultati con grande discrezione, e le loro preferenze indicarono pure il P. Vittorio, come abbiamo visto; il patriarca Pietro Aurelio Mutti suggerì allora al fondatore di nominare come preposito P. Vittorio Frigiolini; il santo vecchio presentò le sue dimissioni e lo nominò (lettera al patriarca del 5 luglio 1852), con la conferma del patriarca. Si seguì un procedimento un po’ diverso per il terzo preposito, P. Sebastiano Casara, dopo che P. Frigiolini morì santamente poco più di due mesi e mezzo dopo la sua nomina. Dopo aver consultato i religiosi, il patriarca nominò P. Casara con decreto, in maniera irregolare, perché non conforme al diritto.
La serie di capitoli generali inizia allora finito il primo triennio, nel 1855. In una prima fase (1855-1887), queste sedute portano in verità il nome di capitoli provinciali, a causa della difficoltà naturale dei compagni dei fondatori, gli “anziani”, come li si chiamava, ad accettare l’idea di una struttura di livello generale per una così piccola comunità, anche perché il loro ricordo andava al progetto originario dei venerabili padri; e perché le tre case della Congregazione, tutte e tre in Veneto, costituivano più una provincia che una comunità generale.
Si chiamano dunque capitoli provinciali, anche se erano di fatto e di diritto generali, i capitoli ordinari del 1855, 1858, 1861,1883, 1887, come del resto i capitoli straordinari del 1856, 1863, 1864, 1868, 1871, 1874, 1876, 1878, 1882, 1884, 1885. Va aggiunto il capitolo locale, ma con funzione (chiaramente abusiva) di capitolo generale, del 1866, che seguì alle dimissioni da preposito di P. Giovanni Battista Traiber. Sono stati invece capitoli generali, verso la fine del XIX secolo, quelli del 1891, 1894, 1897.
Di questa serie di date, si può apprendere che i capitoli provinciali (e in seguito generali) furono celebrati, soprattutto dopo il 1861, in modo abbastanza irregolare e con un alto numero di capitoli straordinari e non si tratta solo di un modus operandi domestico dovuto a poca esperienza. Il motivo principale fu la soppressione della Congregazione (e di tutte le altre comunità religiose venete) dopo l’unione del Veneto all’Italia (nel 1866 e 1867, dopo la III Guerra d’Indipendenza), applicata alle nostre case nel corso del 1867 e anni seguenti, con la confisca dei beni, ma anche la perdita della personalità giuridica dal punto di vista civile. In questa situazione non era facile riunirsi in Capitolo ordinario generale o provinciale ed eleggere formalmente il governo dell’Istituto. Ci si affidava totalmente a P. Casara, il solo capace di dirigere la Congregazione in queste circostanze.
Ci si può ricordare inoltre che nel 1887 gli” anziani” inviarono una lettera commovente e sofferta alla S. Sede affermando il loro desiderio di ritornare alle forme originali, senza troppe strutture. Ma era una guerra persa in partenza e i nostri antichi confratelli dovettero obbedire.
In questa prima serie di capitoli il primo capitolo provinciale fu quello del 12-17 settembre 1855, che finì con l’affermazione e la rielezione di P. Sebastiano Casara. Costui si affermò come la personalità preminente che noi tutt’oggi conosciamo e meriterà il titolo di “secondo fondatore della Congregazione”; senza considerare poi la sua attività fertile e preziosa di filosofo rosminiano.
Nel secondo capitolo ordinario del 14-16 settembre 1858, P. Casara fu rieletto; ci si propose di distinguere la carica di preposito da quella di rettore della casa madre di Venezia e di eliminare dal nostro abito religioso la «pazienza», cioè lo scapolare e il « bavero » cioè una mozzetta corta, prendendo come uniforme soltanto la talare nera e la fascia con le frange, come all’inizio. Le due proposte ottennero ampio consenso, ma non se ne fece poi nulla.
Il terzo capitolo ordinario del 1861 confermò informalmente P. Casara come preposito; le prime difficoltà sorsero nell’applicazione delle costituzioni, perché in quel tempo P. Casara aveva scritto un regolamento che oggi chiamiamo convenzionalmente «MR5», ovvero Manoscritto delle Regole n. 5, e non era chiaro a quale regola conformarsi: alle regole approvate dalla S. Sede e stampate o il manoscritto. Si incaricò il preposito di preparare un manuale per l’educazione dei giovani che scrisse effettivamente più avanti.
Seguì il capitolo straordinario generale del 1863, semplicemente elettivo, per rimpiazzare P. Casara che aveva rinunciato: al suo posto fu eletto per tre anni P. Giovanni Battista Traiber. Si alternarono una serie di capitoli straordinari, durante il periodo dell’eccezione e della persecuzione. Si decise di rinunciare all’abito proprio dell’Istituto in quello del 1868, poi a Venezia e a Lendinara almeno, non se ne fece nulla, seguendo il desiderio del patriarca Trevisanato.
Nel capitolo straordinario del 1871, si decise di scrivere una storia dei fondatori e della Congregazione, e se ne incaricò P. Giovanni Chiereghin, che ne avrebbe pubblicato una dopo dodici anni, e altre due edizioni in seguito.
Il capitolo straordinario del 1874 fu probabilmente il più corto della nostra storia: fu celebrato una sera dopo cena. «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!», diceva ironicamente a questo proposito il caro P. Giovanni De Biasio; in questo caso gli atti si risolvettero ad una pagina soltanto, come successe anche in quelli del 1876, 1878, 1882.
La conferma abituale e quasi tacita di P. Casara (che aveva ricoperto la carica di preposito dopo P. Traiber dal 1866) era stata fatta l’anno precedente (1872) informalmente, nel capitolo locale di Venezia e con la conferma delle delegazioni di Lendinara e di Possagno. Ciò avvenne altre volte, dato che erano tempi molto duri: si viveva in difficoltà economiche dopo la soppressione e la confisca dei beni e in un clima sgradevolmente anticlericale di persecuzione religiosa.
È in questi anni che si innesta l’attività preziosa di P. Casara in campo economico e strutturale: riuscì gradualmente, come si è detto, a ricostruire la Congregazione ricuperando una buona parte degli edifici comunitari e delle scuole, e a porre le basi per una vita più sicura e serena.
Dopo il miglioramento della situazione politico-religiosa dell’Italia e dell’economia della Congregazione, ci fu il desiderio di un IV capitolo ordinario generale, dal 30 agosto al 10 settembre 1883. Fu rieletto all’unanimità P. “Bastian” Casara. Si decise di ricominciare a seguire sia le costituzioni stampate, cioè il testo del 1837, sia il regolamento scritto da P. Casara (MR5), e di portare avanti la sua approvazione. Si vietavano inoltre “lezioni scolastiche alle donne”: non erano ancora maturi i tempi per la scuola mista!
Nel capitolo straordinario del 1884, si lavorò a fondo sulla bozza delle regole da inviare a Roma, con la seconda parte, riguardante soprattutto le strutture del governo. Era cominciato infatti il periodo più difficile della preparazione della seconda parte del nostro codice, conclusa nel 1891 con la pubblicazione delle nuove costituzioni. Il nuovo capitolo straordinario del 1° settembre 1885 si riunì perché P. Casara si era dimesso dalla carica di preposito il 19 luglio precedente, tra l’altro sotto la pressione dei critici e delle divisioni in comunità sul tema delle nuove regole. Fu uno dei capitoli più tempestosi della nostra storia e non si arrivò a grandi risultati. Comunque fu eletto come nuovo preposito P. Domenico Sapori, che restò al governo solo due anni, terminando il triennio in corso. P. Casara era stato rieletto per l’ultima volta il 30 agosto 1883.
Il V capitolo ordinario del 1887 elesse preposito P. Giuseppe Da Col. Si parlò naturalmente della seconda parte delle costituzioni, per la quale si riscontrarono delle difficoltà a Roma per l’approvazione; dell’istituzione di un piccolo seminario, sfortunatamente irrealizzato: la stessa comunità, perché priva di forze e di personale, intendeva aprirsi agli aspiranti come semplice “casa d’accoglienza”, come ai tempi dei fondatori. Si parlò ancora della biografia dei fondatori (P. Giovanni Chiereghin rinunciò per ora a questo incarico); di collaborazione fraterna con la parrocchia della Madonna del Rosario, detta volgarmente «dei Gesuati»; del digiuno e dell’astinenza e delle tasse di successione.
Il VI capitolo del 1891 fu il primo a portare di diritto il nome “generale”. Era tuttavia «meno generale» del solito perché la casa di Possagno era ancora chiusa, dal 1869, come la sua scuola, anche se P. Da Col con uno o due confratelli restò a lungo in parrocchia; e la povera comunità di Lendinara, dato che c’erano meno di quattro membri, non poteva inviare il suo “discreto“, cioè il delegato; i padri capitolari erano solo in sei. Fu di nuovo rieletto a preposito P. Giuseppe Da Col, e si decise di non riaprire più la casa di Possagno per mancanza di personale, anche se tutti desideravano la sua riapertura. L’anno successivo comunque fu riaperta (1892), anche per le nuove pressioni insistenti del Comune di Possagno e del vescovo di Treviso.
Il VII capitolo generale, del 1894, al quale parteciparono ancora una volta per elezione solo i delegati di Venezia, rielesse per il terzo triennio P. Giuseppe Da Col, con il benestare della sacra congregazione dei vescovi e regolari, e il capitolo fu solo elettivo.
L’VIII capitolo generale del 1897, l’ultimo del secolo, rielesse per la quarta volta consecutiva P. Da Col, un grande preposito; la ratifica della S. Sede fu accordata per i buoni uffici del patriarca di Venezia che era il card. Giuseppe Sarto. Lo fece ben volentieri.
Ecco in sintesi la storia capitolare del nostro Istituto nel XIX secolo.
La comunità di Venezia continuava a vivere semplicemente, con virtù, lavorando e ingrandendosi a poco a poco; la casa di Lendinara al contrario era stata chiusa definitivamente nel 1896; la casa di Possagno era stata riaperta con due soli membri il 10 ottobre 1892 e si ricominciava l’attività educativa nel collegio Canova: una modesta ripresa che tuttavia avrebbe dato origine successivamente ad una delle nostre principali comunità e attività in Italia.
È una storia semplice, come s’intuisce da una rapida lettura dei verbali capitolari, che in quegli anni erano sempre molto laconici. Basti pensare che gli atti dei diciannove capitoli ordinari e straordinari del XIX secolo potrebbero essere contenuti tutti insieme in un solo faldone d’archivio; mentre recentemente la situazione è molto diversa. Per fare qualche esempio, gli atti del XVIII capitolo generale del 1979 occupano otto faldoni, quelli del XXIX capitolo del 1985 quattro, e quelli del capitolo generale straordinario speciale (1969-70), per l’aggiornamento post-conciliare della Congregazione e delle costituzioni, ben 18 faldoni.
Tuttavia, aldilà di questa semplice documentazione a volte arida e burocratica, si può ricostruire una ricca storia d’amore, di devozione ai giovani e alla chiesa, di sacrifici e di sofferenze, di vita fraterna in un piccolo e caro gruppo. Si nota tra le righe la presenza e l’attività e la passione di veri santi e di religiosi eccellenti. Si seguono i primi passi di giovani religiosi: per citarne solo alcuni, P. Sapori e P. Giovanni Chiereghin, che divennero all’inizio segretari del capitolo provinciali, poi definitori (consiglieri generali), infine prepositi. Si assiste a dibattiti infuocati e appassionati, delle volte fin troppo, con un tono e un clima che ci ricordano qualche capitolo dei giorni nostri.
Soprattutto, dalla lettura di questi asciutti verbali emerge una grande fiducia nel Signore, così tipica della spiritualità dei nostri venerabili fondatori, e una grande speranza.
La nostra Congregazione non è mai stata numerosa e non ha grandi cose da raccontare, proprio perché è un piccolo gregge. Tuttavia essa è sopravvissuta a un secolo difficile, ne ha terminato un altro, il XX, aumentando sia pure moderatamente il numero dei suoi membri, è entrata nel suo terzo secolo di vita in corrispondenza dell’inizio del terzo millennio della chiesa, durante il secondo mandato di P. Pietro Fietta, tra i capitoli generali XXXII e XXXIII. Essa ha celebrato recentemente il XXXIV capitolo generale nel 2013, dopo il primo mandato di P. Alvise Bellinato e il XXXV nel 2019 dopo il terzo mandato del P: Pietro Fietta.
Essa è uscita da Venezia nel 1834 con l’apertura della casa di Lendinara, dal Veneto dal 1919 con l’inizio della casa di Porcari, poi, nel 1968, dall’Italia, aprendosi al Brasile e poi allargandosi seppur modestamente in dieci paesi diversi, in quattro continenti secondo quanto desideravano P. Antonio e specialmente P. Marco.
Solo il Signore sa cosa ci riserva l’avvenire, ma l’Istituto Cavanis si sente fiducioso, rimettendosi nelle sue mani amorevoli, e confidando anche nell’intercessione della cara Madre Maria, sotto il titolo tradizionale del Monte Carmelo.
11.1 I capitoli del XIX secolo più in dettaglio
Nei giorni 12 a 17 settembre 1855 si celebrò il primo capitolo provinciale ordinario della Congregazione. P. Giuseppe Marchiori era segretario capitolare “eletto”, come dice il verbale, in realtà nominato dal preposito uscente, cioè P. Casara, a quel punto ancora presidente del capitolo; i padri Rovigo e Da Col furono proposti dal Casara come scrutatori, e così votati ed eletti dai capitolari; P. Spernich come anziano divenne presidente provvisorio del capitolo, dopo che P. Casara ebbe ceduto la sua carica di preposito, e fino a quando questi venne rieletto preposito nel prosieguo del capitolo; P. Giuseppe Da Col fu eletto all’unanimità maestro dei novizi; P. Giovanni Battista Traiber fu eletto visitatore della casa principale, ossia di Venezia. Furono eletti, anche, in modo un po’ complicato, sei “esaminatori locali” e un procuratore, con il senso di amministratore, e le funzioni (divisibili eventualmente fra varie persone, come decise il capitolo), di esattore, cassiere ecc. Dagli atti però non risulta l’elezione di tale procuratore.
P. Giuseppe Marchiori fu eletto a pieni voti “Vicario per la casa di Venezia”. Non c’era ancora la carica né il concetto di vicario generale, o provinciale. Si è inoltre costituita, in capitolo e dai capitolari, la comunità di Lendinara ed eletto il suo rettore, con il titolo però di pro-rettore, e si tratta del P. G.B. Traiber. Non si “forma” la comunità di Venezia, perché le case erano solo due, e chi non andava o restava a Lendinara apparteneva evidentemente a quella di Venezia. Il rettore di Venezia era automaticamente il P. Preposito, e così resterà per decenni. Da questo la necessità di un vicario per la casa di Venezia.
Nel corso del capitolo sono apparse varie incertezze che si risolvono proponendo una formula di votazione e votando. Si avverte la mancanza di un regolamento, cioè della seconda parte delle regole o anche di un semplice regolamento per i capitoli; e anche la mancanza di esperienza, trattandosi del primo capitolo nella storia della Congregazione.
Il 1° capitolo provinciale straordinario del 26 dicembre 1856 ebbe l’unico scopo di sostituire il defunto P. Giuseppe Marchiori nelle sue cariche di vicario, definitore e esaminatore. Fu eletto definitore in suo luogo il P. Giuseppe Rovigo. Furono poi eletti esaminatori (degli aspiranti e novizi) i tre PP. Antonio Fontana, Giuseppe Bassi e Vincenzo Brizzi. Si decise sulla copertura della spesa iniziale per la costruzione della nuova “urgentissima” casa della comunità.
Nel 2° capitolo provinciale ordinario, celebrato nei giorni 14-16 settembre 1858, con otto capitolari, si procede come nel primo. P. Casara tenne un lungo discorso sullo stato della Congregazione e P. Pietro Spernich tenne pure un (lunghissimo) discorso, come anziano e presidente provvisorio del capitolo; ambedue i discorsi sono conservati agli atti. Viene nominato dall’ “anziano”, per l’incarico di segretario capitolare, il P. Giuseppe Bassi, senza dubbio per la sua bellissima calligrafia. Sono proposti dallo stesso Spernich e poi eletti dai capitolari come scrutatori i padri Giuseppe Da Col e Giovanni Francesco Mihator; i due religiosi che rimanevano fuori della porta della sala del capitolo, come fu costume fino agli anni Sessanta, con lo scopo di impedire ai curiosi di ascoltare quanto si diceva nell’aula capitolare, sono chiamati “i bidelli”, e sono il chierico professo Giovanni Fanton e il fratello Giovanni Avi. Si definisce provvisorio il regolamento delle elezioni utilizzato già nel primo capitolo, del 1855.
Finiti i preliminari e giunti alla elezioni, P. Casara fu eletto con difficoltà 1° definitore solo al 4° scrutinio; gli altri quattro definitori invece furono eletti al primo scrutinio. In seguito P. Spernich propose che fosse eletto (o meglio rieletto) come preposito P. Casara, che era stato eletto 1° definitore. Dalla votazione egli risultò eletto preposito con cinque voti su otto vocali, cioè con la maggioranza minima richiesta. Nella prima sessione il “discreto”, ossia delegato, della casa di Venezia, P. Giovanni Francesco Mihator, propose che la casa di Venezia avesse un suo rettore, diverso dal preposito, ma i capitolari giudicarono che ciò non era consono alle costituzioni, e che si sarebbe dovuto chiedere il permesso di cambiare la norma alla S. Sede. La proposta di richiedere questo mutamento a Roma fu approvato all’unanimità. Fu eletto Maestro dei novizi il P. Rovigo, avendo per vice-maestro il novizio-sacerdote don Tito Fusarini. Si elessero sette esaminatori (dei novizi e chierici); P. Traiber fu confermato visitatore della casa primaria di Venezia; in questo capitolo non si fecero elezioni ad altre cariche, e si presume che P. Giovanni Paoli rimase vicario della casa di Venezia. Non vennero formate in capitolo le tre famiglie religiose – c’era ormai anche la casa di Possagno –, ma vi provvide poi il capitolo definitoriale.
Il terzo capitolo provinciale ordinario fu celebrato nei giorni 14-17 settembre 1861. In questo capitolo ci si rese conto che nei due precedenti si era agito seguendo nuove consuetudini corrispondenti al “regolamento [mano]scritto”, ma si era mancato al prescritto delle costituzioni del 1837, stampate e approvate dalla Santa Sede, che prevedevano che i rettori delle case fossero eletti dai membri delle rispettive comunità. Si osservò d’altra parte che la comunità di Lendinara, non essendo ancora una casa eretta canonicamente, erano in pratica ancora membri della comunità di Venezia. La confusione era notevole, e si arrivò a mettere in dubbio la validità dell’elezione del preposito nei capitoli precedenti; il problema insolubile per ora era che da un lato il preposito, essendo responsabile anche delle altre case, doveva essere eletto con la partecipazione di “discreti” ossia delegati delle altre case; d’altra parte, come rettore della casa di Venezia, doveva essere eletto solo dai congregati di Venezia. Si insiste allora nell’urgenza di concludere al più presto la redazione del regolamento sulla struttura della Congregazione, sulle elezioni, le cariche, i capitoli, cui P. Casara stava lavorando (l’MR5), e di farlo approvare dalla Sede romana. Si sa che ciò purtroppo avvenne soltanto nel 1891! P. Casara “elesse” segretario capitolare P. Giuseppe Bassi, propose come scrutatori i PP. G. Rovigo e G. Da Col, che furono confermati all’unanimità dai capitolari.
Stranamente, dopo la lunga discussione giuridica di cui sopra, non si precedette all’elezione del preposito, che pur doveva essere eletto o rieletto; e si elessero soltanto i quattro definitori. Rimase preposito, ancora una volta, P. Casara.
Si rielesse maestro dei novizi P. Domenico Sapori; P. Giuseppe Rovigo fu eletto maestro dei novizi che si trovassero eventualmente a Venezia: si noti che qui quando si parla di novizi ci si riferisce con ogni probabilità in senso ampio anche ad altri seminaristi non professi, sia avviati al sacerdozio sia laici. Si eleggono 10 esaminatori, il cui numero aumenta a ogni capitolo, e sembra eccessivo, dato il piccolo numero di membri della Congregazione e di “esaminandi”. Visitatore della casa primaria viene eletto questa volta, dopo vari altri tentativi, P. Pietro Spernich. Rimane chiaro che non c’è un vicario del preposito, ma solo i vicari dei tre superiori delle case di Venezia, Lendinara e Possagno, con potere vicario locale. Non si elegge quindi tale vicario generale o provinciale.
In questo capitolo si discusse molto del nuovo regolamento o statuto o seconda parte delle regole (si usano indifferentemente tutti questi termini, con l’aggiunta dell’aggettivo “scritto(-e)” o “manoscritto(-e)”; e in particolare si esaminò in dettaglio un progetto di P. Giovanni Paoli di riforma delle regole manoscritte, che fu accettato solo in parte, dopo aver giudicato il testo paragrafo per paragrafo. Tale progetto con le osservazioni, correzioni ed eliminazione di paragrafi è conservato negli atti del capitolo ed è di estremo interesse. Un altro progetto era stato presentato dai due padri Vincenzo Brizzi e Tito Fusarini, fu esaminato in dettaglio nello stesso modo, ed è pure conservato tra gli atti.
Il 2° capitolo provinciale straordinario fu celebrato in un solo giorno il 1° settembre 1863, con lo scopo elettivo di rinnovare la carica del preposito provinciale, avendo deciso il P. Sebastiano Casara di rinunciare alla sua carica e avendo presentato le sue dimissioni il 1° agosto 1863. I capitolari erano il preposito uscente, i quattro definitori (compresi i due rettori delle case di Lendinara e di Possagno, che erano appunto definitori e quindi vocali di diritto nel capitolo) e cinque altri padri della casa di Venezia, in tutto dieci vocali.
Si tennero delle votazioni preliminari, approvate tutte all’unanimità: 1° di accettare il sistema di elezione proposto; 2° di eleggere il preposito per un solo triennio; 3° che il preposito si occupasse con il solo definitorio (=consiglio) delle cose di Congregazione e col solo capitolo locale (di Venezia) delle cose di quella famiglia; 4° che “nel caso probabilissimo, fosse eletto Preposito uno dei Definitori, starà in diritto del nuovo Preposito coi tre rimanenti Definitori, eleggere il quarto Definitore; 5° con 9 voti su 10 si approvò che la riunione si occupasse solo dell’elezione. Le cinque questioni votate e approvate erano state presentate da P. Casara.
Il P. Sebastiano, preposito uscente, si ritirò a questo punto dalla riunione per lasciare più liberi i presenti, abbassando così il quorum. Assunse allora la presidenza quale “Preside” il P. Pietro Spernich definitore anziano, e tenne pure un discorso. Come sarà l’abitudine anche in seguito, nominò lui stesso il segretario capitolare, questa volta il P. Tito Fusarini e propose come scrutatori i PP. Gianfrancesco Mihator e Vincenzo Brizzi, che furono da tutti approvati. Al primo scrutinio fu eletto preposito, con 8 voti su 9, P. Giovanni Battista Traiber. Il 4° definitore non fu poi eletto, come era stato detto e deciso per voto, dal preposito con il suo consiglio, ma si attese il seguente capitolo provinciale straordinario, rimanendo per il momento P. Casara al suo posto come 1° definitore, contro il suo proposito.
Il 3° capitolo provinciale straordinario del 29 settembre 1864 si celebrò in tempo brevissimo e in modo “domestico”, nella camera del preposito, P. Traiber, la mattina di quel giorno, con soli sette vocali, e due definitori assenti giustificati (Pietro Spernich e Giuseppe Da Col).
Lo scopo era di eleggere gli esaminatori, e ne furono eletti dieci. P. Casara però presentò le dimissioni da (1°) definitore. Fu eletto al suo posto P. Giuseppe Bassi. Gli altri tre definitori (senza motivo a mio parere, perché non avevano dato le dimissioni, e le dimissioni di P. Casara da 1° definitore non infirmava la posizione degli altri tre) furono confermati. Per motivo difficile da comprendere e del tutto inedito e unico nella storia della Congregazione, alla confermazione dei definitori aggiunsero la frase: “…coll’avvertenza però che abbiano a chiamarsi col nome di Consultori e la loro autorità sia limitata più di quello che era prima d’ora, cioè col solo voto consultivo”. Furono confermate le altre cariche per un biennio, cioè fino alla fine del triennio di P. Traiber: il maestro dei novizi e il visitatore della “casa madre”.
Un capitolo elettivo importante, che avrebbe dovuto essere capitolo provinciale ordinario, fu invece celebrato in un solo giorno, il 1° settembre 1866, come capitolo locale della comunità di Venezia, per volontà del P. Giovanni Battista Traiber, preposito, che presentava le dimissioni irrevocabili, in modo del tutto irregolare. P. Casara fu eletto ancora una volta a preposito, ma non voleva accettare, data l’irregolarità della situazione; poi finì per sottomettersi all’insistenza dei confratelli, e per l’assoluto diniego del P. Giobatta Traiber di continuare nella carica almeno finché si concludesse l’immediato periodo del dopoguerra. P. Casara tuttavia insistette sulla necessità che la sua elezione fosse ratificata dal prossimo capitolo, ma la tempesta che si abbatteva sulla Congregazione con la soppressione e l’incameramento dei beni impedì di procedere a questa ratifica. Inoltre in questo capitolo locale del 1866 i definitori non furono eletti, e furono eletti o riconfermati nel quinto capitolo straordinario.
Il 4° capitolo provinciale straordinario del 1868 si svolse in due sessioni: nella prima, del 4 febbraio 1868, con sette vocali, compreso il P. Giuseppe Da Col venuto da Possagno, si esaminò la questione dell’abito religioso che i confratelli di Possagno avevano dovuto deporre (vedi capitolo sulla casa di Possagno). P. Casara aveva consultato in precedenza tutti i congregati preti. Si decise: 1) che tutti volevano mantenere aperta la casa di Possagno, anche nelle nuove condizione di deposizione dell’abito; 2) che i padri di Possagno vestissero solo l’abito ecclesiastico, talare e fascia, e il fratello laico deponesse del tutto l’abito religioso e vestisse da laico; 3) che, sebbene i padri di Lendinara avessero proposto che si abbandonasse, per uniformità, “il distintivo” dell’Istituto (cioè la pazienza e il bavero) in tutte e tre le case, e sebbene i voti riuniti dei vocali di Lendinara e di Possagno avrebbero dato la maggioranza questa opinione, si decise di consultare nuovamente i confratelli di Lendinara e di decidere sull’argomento in una seconda sessione.
Questa si tenne il 2 marzo successivo. Si lesse la lettera di Lendinara. I confratelli di Lendinara, Vincenzo Brizzi, Pietro Spernich e Giobatta Traiber, insistevano nell’idea che tutti dovessero deporre le insegne dell’Istituto, nelle tre case, sia per uniformità con i confratelli di Possagno, sia perché le costituzioni (del 1837) “prescrivono solo l’uniformità nel vestire e determinano la veste talare”; e aggiungono “Che lo scapolare aggiunto dal Patriarca, ed accettato dai nostri PP., ci fa comparire presso del pubblico come Regolari, e quindi ci espone a tutte quelle molestie, e forse persecuzioni (…)”: I tre capitolari lendinaresi mettevano in luce la loro simpatia – che si rivela anche in vari altri capitoli provinciali – per la semplice veste ecclesiastica che i fondatori avrebbero preferito; la critica del fatto che lo scapolare è più proprio dei regolari; e aggiungono che nella situazione attuale di anticlericalismo ciò era controproducente anche dal punto di vista pastorale e del bene dell’Istituto.
Ne seguì un ampio dibattito, in cui alcuni capitolari che appartenevano alla casa di Venezia erano favorevoli a conservare il distintivo e altri no; dibattito la cui verbalizzazione dettagliata stesa dal segretario capitolare è di estremo interesse per uno studio sulla storia del nostro abito.
Si votò alla fine sulla seguente formula: “Se le due case di Venezia e di Lendinara abbiano da uniformarsi nella deposizione del distintivo della Congregazione fin qui portato, alla Casa nostra di Possagno, limitandosi alla veste talare, e ritenendo quanto è possibile la uniformità nella qualità della stoffa. Il che, se venga adottato dalla pluralità, se ne dovrà sottoporre all’E.mo Patriarca la deliberazione, e da Esso dipendere quanto all’attuazione della medesima nella Casa di Venezia; come il dovranno dal monsignor vescovo di Adria i nostri di Lendinara”. Venuti ai voti segreti sulla formula, “se ne trovarono tre negativi, e quattro affermativi, i quali, uniti ai tre voti di Lendinara, diventano sette”. Interpellato per scritto da P. Casara, il Patriarca Trevisanato, con lettera del 30 marzo 1868, rispose che suggeriva che, fino a quando non ci fossero atti concreti di violenza o di minaccia contro i congregati, avrebbero fatto bene a mantenere a loro distinzione nell’abito proprio. Il contrario scrisse il vescovo di Adria, con lettera del 10 marzo 1868. E così si fece rispettivamente, pare senza ulteriori problemi, nelle case di Venezia e di Lendinara.
Il 5° capitolo provinciale straordinario celebrato a Venezia il 3 ottobre 1871, aveva lo scopo di eleggere i quattro definitori e 10 esaminatori, come fu fatto. Come definitori furono rieletti i PP. Giuseppe Rovigo, Giuseppe Bassi, Vincenzo Brizzi e Domenico Sapori. Stranamente non si elesse il preposito e rimase tale P. Casara, la sua elezione irregolare del 1866 (alla quale lui si era opposto appunto perché irregolare) essendo stata ratificata in seguito, forse proprio in questo capitolo.
Fu confermato come maestro dei novizi P. Sapori per la casa di Venezia, “e il P. Brizzi per quella di Lendinara, se mai ne venisse qualcuno a cui ci convenisse assegnare colà il noviziato”. Fu incaricato il P. Giovanni Chiereghin di “preparare e pubblicare Memorie, più piene che fin qui non si fece, dei nostri Padri Fondatori e della Congregazione”; cioè una specie di biografia. Si trattarono alcune altre questioni minori.
Il 6° capitolo provinciale straordinario si tenne la sera del 29 ottobre 1874 ed è stato uno dei più brevi della nostra storia. Vi si sono eletti i definitori e gli esaminatori, riconfermando, su proposta del preposito Casara, i precedenti nomi, ma per elezione con voto segreto.
È stato proprio in questo capitolo che, come risulta dal verbale, si dichiara ratificata l’elezione di P. Casara come preposito.
Il 7° capitolo provinciale straordinario del 26 ottobre 1876 aveva l’obiettivo di sostituire il definitore P. Vincenzo Brizzi, defunto a gennaio, che viene sostituito dal P. Giovanni Luigi Paoli, su proposta di P. Casara. I capitolari accettano la proposta, ma fanno notare che, “cessate le circostanze eccezionali tuttavia sussistenti, si possa l’anno venturo convocare regolarmente ed a tempo il Capitolo provinciale ordinario”.
Si parla ancora della costruenda abitazione della comunità. I capitolari erano favorevoli a costruirla “tra le Scuole attuali e la Chiesa [di Sant’Agnese], ora che si ha in proprietà tutta l’area a ciò necessaria, essendo stati comprati i mappali corrispondenti al progetto. Espose il Preposito la idea principale della medesima, di prolungare cioè prima di tutto la linea delle Scuole attuali fino alla casa di nostra proprietà, locata attualmente al Sig.r Giuseppe Berti, e approfittare anche di questa. In seguito fabricar l’ala tra le Scuole attuali e la Chiesa. L’idea fu unanimemente approvata”. Ed è quello che si fece, con il completamento della casa di comunità nel 1881, ora però addetta anch’essa alle scuole; mentre l’ala delle nuove scuole, tra il palazzo da Mosto e la chiesa, fu costruita poco più tardi dallo stesso P. Casara dal 1881 al 1883. Ma l’idea e il progetto rimasero quelli decisi in questo 7° capitolo straordinario.
Nel 5° capitolo provinciale ordinario del 30 agosto-1 settembre 1883, tenuto dopo una sospensione di 22 anni dal precedente, durante il quale periodo si tennero solo capitoli straordinari, si decise all’inizio di seguire in tutto le “Regole scritte”, ossia manoscritte. Come al solito si elessero prima i 5 definitori (nell’ordine, Sebastiano Casara con 7 voti su 8; Giuseppe Da Col; Giuseppe Bassi; Giuseppe Rovigo; Giovanni Chiereghin); si passò poi all’elezione del preposito e fu ricondotto il P. Casara con lo stesso numero di voti. Furono eletti anche p. Giuseppe Da Col (all’unanimità) maestro dei novizi; otto esaminatori; il visitatore della casa primaria, P. Da Col. Si discusse ancora lungamente sulle regole “stampate” e “scritte”. P. Giovanni Chiereghin presentò, su richiesta dei capitolari del capitolo locale di Venezia, una ricerca di archivio sulla seguente questione: se tutti i professi di Venezia dovessero avere voce attiva per l’elezione del loro rettore, che era anche preposito. Dichiara che nel passato tutto fu compiuto legalmente, o almeno in buona fede; propone una formula per il futuro.
Si noti di passaggio che nei verbali di questo capitolo provinciale ordinario del 1883, P. Giuseppe Bassi è presentato, a pag. 1, nella lista dei capitolari, al 2° posto dopo il preposito Casara, come “definitore e vicario della casa di Venezia”. Lo stesso titolo di vicario della casa di Venezia gli è attribuito esplicitamente nel verbale della riunione della comunità di Venezia del 6 agosto 1883 per l’elezione del discreto, allegato agli atti di quel capitolo provinciale ordinario.
Dal verbale della prima seduta definitoriale dopo l’elezione di P. Domenico Sapori a preposito provinciale, tenuta il 3 settembre 1885 (Archivio corrente in Curia generalizia a Roma, armadio 8, fascicoli di detti verbali, 1885), si viene a sapere tra l’altro che, eletto il P. Domenico Sapori, veniva a mancare il Maestro di novizi, che fino a quel punto era appunto il P. Sapori. Si deve da questo inferire, con ogni probabilità, che P. Sapori era sempre rimasto maestro dei novizi fin dal 1859, prima a Possagno dal 1859 al 1869, poi a Venezia, quando il noviziato passò a Venezia dopo la soppressione degli ordini religiosi e l’uscita della comunità Cavanis da Possagno, salvo i tre religiosi che vi rimanevano a titolo di addetti alla parrocchia della SS. Trinità (P. Giuseppe Da Col, parroco e arciprete; P. Narciso Emanuele Gretter, vicario parrocchiale; Fratel Francesco Luteri). Nella stessa riunione venne nominato maestro del novizi P. Giovanni Ghezzo, con una nomina a tempo determinato, fino al successivo “Capitolo Provinciale ordinario da tenersi nel 1886”.
6° capitolo provinciale ordinario del 30 agosto-2 settembre 1887. Questo capitolo era ordinario, ma in realtà doveva tenersi l’anno precedente 1886, più o meno nella stessa data. Infatti P. Domenico Sapori, eletto preposito nel capitolo straordinario tenuto il 10 settembre 1885, doveva soltanto completare il triennio in corso, dopo le dimissioni del P. Casara. Il mandato del P. Sapori doveva durare dunque soltanto fino al settembre 1886. Come scrive P. Giovanni Chiereghin, segretario, nel verbale del capitolo ordinario dl 1887, di cui stiamo parlando, il preposito Sapori aveva chiesto alla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari di poter celebrare il capitolo e procedere alle elezioni “giusta il tenore dei Capi 2.3.4. Parte II delle costituzioni inviate a Roma per l’approvazione. Da Roma invece era giunto il rescritto 4 agosto 1886 che comunicava che la Sacra Congregazione “…celebrationem Capituli Provincialis ad annum prorogavit, mandans ut interim qui regunt regant” (“…ha prorogato la celebrazione del capitolo provinciale di un anno, disponendo che quelli che governano continuino a governare”. Passato l’anno, le costituzioni non erano ancora approvate, anzi la Sacra Congregazione aveva disposto che i voti temporanei divenissero perpetui e aveva proposto o richiesto altri emendamenti.
Ci si mise d’accordo che si poteva celebrare il capitolo ordinario, nel settembre 1887, seguendo le regole previste nella seconda parte, sulle elezioni, su cui finora Roma non aveva fatto osservazioni, e che quindi si stimavano “in un certo modo implicitamente approvate”. Era solo un argumentum e silentio. Ma il capitolo fu indetto. Oltre ai vocali de jure, partecipava solo il discreto (delegato) di Venezia, P. Giovanni Fanton, perché la casa di Possagno era chiusa e quella di Lendinara aveva meno di quattro congregati professi. Il 30 agosto sera si tenne la riunione preparatoria. I sei vocali, senza la presenza del preposito Domenico Sapori (e del definitore P. Giuseppe Bassi, infermo a Lendinara) presieduti da P. Casara “quasi rettore della casa primaria” (in realtà vicario), elessero il P. Giovanni Chiereghin segretario e scrutatori i padri Giuseppe Da Col e Giovanni Tomaso Ghezzo.
Il vero capitolo si aprì il 1° settembre con la presenza del preposito P. Domenico Sapori. P. Casara come anziano assunse la presidenza, dopo che P. Sapori aveva dato il suo resoconto del biennio. Oltre al preposito Giuseppe Da Col e ai definitori (Domenico Sapori, Sebastiano Casara, Giuseppe Bassi, Giovanni Chiereghin), furono eletti P. Vincenzo Rossi maestro dei novizi (con esenzione, per essere troppo giovane, ottenuta all’unanimità) e cinque esaminatori provinciali.
Si decise di dedicarsi al più presto alla questioni toccate dalla S. Congregazione per le nuove regole; e particolarmente al punto dei voti perpetui “trattandosi di essere invitati a modificare sostanzialmente la natura dell’Istituto, è necessario riconoscere il voto di tutti; e oltre a questo è decisione a cui dee premettersi maturo consiglio, e fervida preghiera. Però prima d’ogni altra cosa, si crede necessario proporre alcuni dubi (sic) alla Sacra Congregazione [dei Vescovi e dei Regolari]”. Non si capiva ancora che bisognava soltanto sottomettersi, se si voleva l’approvazione delle costituzioni; come di fatto avverrà. Ma è significativa la frase “modificare sostanzialmente la natura dell’Istituto”, che indica che i Fondatori e i loro discepoli non volevano la forma di vera Congregazione religiosa, ma piuttosto quella di società di vita apostolica.
P. Casara, durante questo capitolo provinciale ordinario 1887, come presidente provvisorio per le prime elezioni (ossia del preposito e dei definitori) prima delle elezioni comunicò agli elettori o vocali che non si poteva prevedere quale sarebbe la durata del mandato del nuovo preposito, dato che si attendeva l’approvazione delle nuove costituzioni.
Dopo il capitolo, P. Casara fu eletto vicario, per nomina da parte del P. Giuseppe Da Col, non per il suo potere in quanto preposito recentemente eletto, ma in quanto rettore della casa di Venezia, eletto in quella stessa sessione del capitolo locale di Venezia. P. Da Col era stato eletto rettore con maggioranza molto elevata (sette su dieci vocali, lui compreso), anche se si era detto che si poteva votare sia per il preposito, ossia Da Col, sia su qualunque altro nome.
Finalmente fu celebrato il 1° capitolo generale ordinario dal 6 al 10 agosto 1891. Questo è il settimo capitolo ordinario della Congregazione, ma fu il primo chiamato capitolo generale, a seguito dell’approvazione della S. Sede alle nuove costituzioni, finalmente provviste della seconda parte, sulla struttura, capitoli, cariche ed elezioni e ancora sulla formazione.
Come segretario fu eletto, come al solito, P. Giovanni Chiereghin; scrutatori, i PP. Giambattista Larese e Vincenzo Rossi. Larese era anche discreto della casa di Venezia. Lendinara non aveva discreto, essendo comunità costitutita da meno di quattro religiosi professi e la casa di Possagno era chiusa. Il capitolo ebbe inizio in realtà il 5 agosto 1891 con la riunione introduttoria o preliminare, con il gruppo dei definitori, il maestro dei novizi e il discreto di Venezia, ma senza il preposito, che da tempo rinunciava a presenziare in questa fase, riunione questa che non si considerava capitolo in senso stretto.
Le elezioni del preposito, ancora P. Giuseppe Da Col, e dei definitori (Giuseppe Bassi, Sebastiano Casara, Giovanni Chiereghin e Giambattista Larese), ebbe luogo il 6 agosto 1891. Le elezioni furono difficili, con grande dispersione di voti e quindi vari scrutini; tre elezioni furono concluse per ballottaggio, una anche ricorrendo al criterio dell’anzianità, non essendo risolutivo nemmeno il ballottaggio. Dai cinque definitori eletti fu proposto il primo, P. Giuseppe Da Col, come preposito ma, essendo questo per lui il secondo triennio (il primo mandato in realtà era durato quattro anni, per via della proroga), secondo la nuova cost. 153 occorreva la maggioranza qualificata. L’ebbe, con 4 voti positivi e uno contrario. Si deve pensare che Da Col si sia astenuto, perché i capitolari di fatto presenti e votanti erano sei: Giuseppe Da Col, Giuseppe Bassi, Sebastiano Casara, Giovanni Chiereghin, Giambattista Larese, Vincenzo Rossi. Non si parla ancora di elezione del vicario, cioè il primo definitore (Giuseppe Bassi, nel caso). Il verbale ricorda che per la cost. 153 il mandato era inteso per un triennio.
Si discusse ampiamente la ormai possibile e richiesta riapertura della casa di Possagno, con un testo molto dettagliato e importante, tuttavia si decise di non accedere alla richiesta e di non riaprire per ora la casa. Seguirono le elezioni del maestro dei novizi, per la cui carica viene rieletto P. Vincenzo Rossi, e degli esaminatori. Stranamente, non si parlò esplicitamente delle nuove costituzioni, salvo quando bisognava citarle per le varie fasi delle elezioni. Secondo la logica, avrebbe dovuto essere questo il tema principale del capitolo, mentre in realtà il tema precipuo e anzi unico, dopo le elezioni, fu quello della riapertura della casa di Possagno.
Dopo finito il capitolo generale, P. Da Col fu eletto anche rettore della comunità di Venezia, nel capitolo locale del 12 agosto 1891, con sei voti favorevoli e sei nulli o bianchi, su 12 votanti. Nella stessa riunione Da Col, “Come Preposito generale confermò nell’ufficio di Vicario il P. Sebastiano Casara”.
Il 2° Capitolo generale ordinario dell’ 8-9 agosto 1894 era anche l’ottavo capitolo della Congregazione, se si comprendono i sei capitoli provinciali ordinari e i due generali.
Nella seduta preliminare del 7 agosto 1894 il presidente (« preside ») della riunione P. Casara nominò come segretario capitolare il solito P. Giovanni Chiereghin e come scrutatori furono proposti al presidente ed eletti dal capitolo i PP. Giambattista Larese e il giovane Antonio Dalla Venezia, che fa qui la sua prima apparizione in Capitolo e doveva essere emozionato. I capitolari erano sette, e c’era solo il discreto di Venezia, essendo le altre due case, Lendinara e ora anche Possagno, troppo piccole per eleggerlo (cioè con meno di quattro professi sacerdoti). Il discreto di Venezia, P. Carlo Simeoni, con imbarazzo presentò al capitolo una lettera in cui comunicava che i membri della casa di Venezia non presentavano alcuna proposta, perché stanchi di presentare ai capitoli e ai visitatori proposte che non trovavano alcun riscontro. A questa lettera risponderà verbalmente P. Casara, contestandola. Lo stesso, come anziano per età e professione, teneva l’incarico di presidente interino, dopo che P. Giuseppe Da Col aveva tenuto il suo discorso sullo stato della Congregazione e consegnato le chiavi, il sigillo e rassegnato l’incarico, come di prassi.
Si elessero i cinque definitori (Giuseppe Da Col, Giuseppe Bassi, Sebastiano Casara, Giovanni Chiereghin, Giambattista Larese) secondo la prassi normale e tra questi si propose il primo come preposito. P. Giuseppe Da Col fu rieletto allora per la terza volta, con la necessaria maggioranza qualificata dei 2/3, con 5 voti su 6 (P. Da Col s’era astenuto, come si immagina), e si dovette chiedere e ottenere la ratifica della S. Sede, come si fece.
Fu eletto maestro dei novizi P. Antonio della Venezia, e si elessero cinque esaminatori, “per ammettere all’abito i postulanti e alla professione i Novizi”. Si parlò della casa di Possagno in ripresa, di giovani vocazionati, tra i quali appare per la prima volta Giovanni Rizzardo di Fietta, che sarà poi religioso e preposito generale. A riguardo degli aspiranti, si decise di accettarne alcuni come convittori gratuiti a Possagno, “così, senza apparire, sarà iniziato un collegietto per aspiranti all’Istituto”.
Dal verbale appare che P. Giovanni Tomaso Ghezzo non si trovava più a Possagno, e che P. Vincenzo Rossi era solo; ma non si trovò modo di mandargli qualcuno per compagno. “Et de Possaneo satis”, conclude la pagina il segretario P. Giovanni Chiereghin. Si proseguì parlando senza grandi novità delle case di Lendinara e di Venezia. Nel complesso, fu un capitolo piuttosto scialbo e conservativo.
Il 3° Capitolo generale ordinario si svolse dal 31 agosto al 3 settembre 1897, e fu il nono capitolo della Congregazione. Fu per molti versi un capitolo analogo al precedente. I vocali o capitolari erano sette, solo Venezia presentava un discreto, infatti la casa di Lendinara era stata chiusa definitivamente nel 1896 e Possagno non aveva numero sufficiente di religiosi sacerdoti per eleggere un discreto.
Nella solita riunione preliminare, presieduta come d’abitudine dal P. Casara, anziano, questi “elesse” segretario capitolare il paziente e obbediente P. Giovanni Chiereghin, furono eletti scrutatori i PP. Giambattista Larese e Antonio Dalla Venezia, tutto come nel precedente capitolo.
I cinque definitori vennero eletti in quest’ordine: Giuseppe Da Col, Giuseppe Bassi, Sebastiano Casara, Giovanni Chiereghin, Giambattista Larese. Tra questi fu poi eletto preposito il primo definitore, Da Col, con quattro voti a favore e due contrari, quindi con la maggioranza qualificata, e fu chiesta e ottenuta la necessaria ratifica della S. Sede. Fu eletto maestro dei novizi il giovane P. Augusto Tormene, appena ordinato prete. A questo fine, aveva ricevuto eccezionalmente dal voto del capitolo la voce passiva di cui non disponeva, perché non aveva ancora compiuto “il decennio di magistero dalla professione”. Tormene era stato l’unico dei tre neo-presbiteri di quell’anno per il quale si fosse proposto (per due soltanto di loro) e ottenuto la voce passiva molto anticipata, in vista di un’elezione a maestro dei novizi. Fu necessario naturalmente chiedere la dispensa d’età alla S. Sede. Furono eletti anche gli esaminatori, e si concluse il capitolo, senza praticamente trattare di nessun altro argomento.
Nella riunione del Consiglio definitoriale che seguì, P. Casara fu eletto “Maestro delle cose spirituali”, termine che durerà a lungo, anche se in genere era più un titolo onorifico che si dava in genere a un pio anziano, e che non aveva molta influenza nella pratica della comunità.
Nel capitolo locale di Venezia immediatamente successivo fu eletto vicario P. Casara. Agli atti di questo capitolo sono allegati una lettera-decreto del card. Patriarca Giuseppe Sarto che esprime il giudizio che sia ragionevole ritardare il capitolo fino a quando il P. Giuseppe Bassi, ammalato, guarisse. Il capitolo fu differito dall’1 al 31 agosto. Bisogna ricordare che i vocali erano soltanto sette!
Il 4° Capitolo generale ordinario fu celebrato dal 5 al 7 agosto1900 e dava inizio al nuovo secolo. Era il 10° capitolo ordinario della Congregazione.
Si può notare, di passaggio, che la data dei capitoli provinciali e poi generali era passata gradualmente dai mesi di settembre-ottobre (a volta anche dicembre) ad agosto, e più tardi, ai tempi nostri, passerà a luglio-agosto. Ciò dipende dallo slittamento delle grandi vacanze tra la fine dell’anno scolastico e l’inizio del successivo. Esse anticamente erano piuttosto vacanze autunnali, e poi sono diventate vacanze estive, attualmente situate nei mesi di luglio-agosto. I capitoli si svolgevano appunto durante queste vacanze, sia perché i vocali (e anche gli ambienti) erano più liberi, sia perché, soprattutto dall’inizio della congregazione fino quasi alla fine del secolo XX era appunto verso la fine di queste vacanze che si formavano le comunità e quindi si provvedeva al trasferimento dei religiosi in vista del nuovo anno scolastico.
Questo capitolo generale è il primo del XX secolo e rappresenta nel complesso una svolta. I compagni e immediati discepoli di Fondatori sono quasi tutti scomparsi, con l’eccezione del P. Giuseppe Da Col e del P. Giuseppe Bassi. Non per caso, “Preside” del capitolo, defunto ormai P. Casara, è appunto il P. Giuseppe Bassi, dato che P. Giuseppe Da Col, come preposito uscente, non era abitualmente considerato, come possibile presidente della prima fase del capitolo. Era anzi consuetudine che il preposito non partecipasse alla sessione preliminare e che a questa, come alla fase delle elezioni dei definitori e del preposito, presiedesse l’“anziano”, che non era necessariamente il vicario di Venezia; in questo caso il P. Giuseppe Bassi.
P. Giovanni Chiereghin come sempre è nominato o “eletto” segretario dal presidente. Su proposta di quest’ultimo, furono eletti scrutatori i PP. Giambattista Larese e Augusto Tormene. I vocali erano sette. Furono eletti i definitori nell’ordine seguente: Giuseppe Bassi, Giuseppe Da Col, Giovanni Chiereghin, Giambattista Larese, Vincenzo Rossi. Si procedette all’elezione del preposito, a cominciare dal primo definitore. P. Giuseppe Bassi tuttavia chiese di essere dispensato, e lo fu, essendo approvata con il voto di tutti favorevolmente la sua dichiarazione e la sua preghiera di non essere eletto. P. Giuseppe Da Col non ricevette voti positivi e non fu quindi eletto. Fu eletto infine P. Giovanni Chiereghin, che accettò.
P. Augusto Tormene sostituì allora il P. Giovanni Chiereghin, ormai preposito, nella carica di segretario capitolare, con la sua elegante scrittura. Per maestro dei novizi fu rieletto lo stesso P. Augusto Tormene, con un procedimento raro: il primo scrutinio, effettuato con schede cartacee, non diede la maggioranza assoluta; si procedette allora per fabas, cioè probabilmente con le palline bianche e nere, e Tormene risultò rieletto. Furono eletti anche nove esaminatori, uno di più del necessario, ma si decise di rimanere con tutti e nove. Visitatore della casa di Venezia fu eletto, con lo stesso procedimento sopra, in due scrutini, P. Giuseppe Bassi. Seguirono decisioni di poco conto, e il capitolo fu dichiarato chiuso.
Nel capitolo locale della casa di Venezia, P. Giovanni Chiereghin, preposito neo-eletto, fu eletto all’unanimità (salvo il suo stesso voto) anche rettore della casa di Venezia. Egli nominò P. Giambattista Larese suo vicario, P. Giuseppe Da Col maestro delle cose spirituali, Larese infine fu eletto anche procuratore, cioè economo.
Il 5° capitolo generale ordinario (decimo considerando i capitoli provinciali ordinari) doveva tenersi ed era programmato infatti per il 6 agosto 1903, essendo il mandato ad triennium. Esso venne tuttavia aggiornato all’agosto 1904, e dai numerosi allegati previ agli atti del capitolo 1904, sembra di capire che il ritardo era dovuto a una malattia (si può supporre che si trattasse di un grave esaurimento nervoso) del Preposito P. Giovanni Chiereghin. Furono i quattro definitori e principalmente il buon vicario, P. Giambattista Larese, a consigliare e a chiedere al preposito di attendere un anno. Il P. Giovanni Chiereghin, più degli altri, era preoccupato della legalità di questo aggiornamento o ritardo di un anno. Si consultò il cancelliere del patriarcato di Venezia Marchiori, che consigliò di non preoccuparsi. Bisognava invece, probabilmente, chiedere la licenza della S. Sede, ad validitatem.
L’8° capitolo straordinario del 1878, chiamato: “Adunanza straordinaria di Capitolo provinciale”, si tenne a Venezia il 10 settembre, in poche ore, e con una pagina e mezza di verbale, Erano presenti il preposito P. Sebastiano Casara e i definitori; e inoltre il P. Giuseppe Da Col che rappresentava la casa di Possagno e il P. Giovanni Battista Larese per la casa di Lendinara. Si elessero due esaminatori, che erano mancati, cioè i PP. Tito Fusarini e Gianfrancesco Mihator.
P. Casara ricordò che bisognava anche eleggere i definitori e il preposito, essendo trascorso il triennio; e si convenne che, date le condizioni eccezionali dei tempi si potevano compiere le elezioni in questo modo straordinario, sperando di poterlo fare al più presto, trascorso il nuovo triennio, in modo ordinario. Si elessero dunque come definitori, che erano poi gli stessi precedenti, e cioè i padri Giuseppe Bassi, Giovanni Paoli, Giuseppe Rovigo e Domenico Sapori.
Stranamente, non fu rieletto il preposito P. Casara, che però rimase nella carica tacitamente; o per lo meno non si parla della sua elezione, per una grave svista, nel brevissimo verbale.
A esaminatori furono eletti i quattro ancora viventi, cui si aggiunsero per elezione due nuovi, ossia i P. Giovanni Battista Larese e Giovanni Chiereghin, in luogo dei padri Antonio Fontana (deceduto) e Giovanni Ghezzo (che probabilmente dava già segni di pazzia).
Ad accrescere la tristezza del momento, si proposero per la vestizione tre aspiranti, di cui non si fa il nome, e che erano già in casa; ma si decide di soprassedere, a causa delle disperate condizioni economiche della comunità. Fu tolta la riunione.
Il 9° capitolo straordinario del 1882, chiamato con lo stesso nome sopra ricordato, si tenne a Venezia il 16 agosto, e ricalca assolutamente quello precedente; si ricorda ancora la tristezza dei tempi e di dichiara che non fu possibile come era desiderato, realizzare un capitolo ordinario. Si decideva quindi di rinnovare le cariche in questa via straordinaria, però decidendo che il prossimo capitolo ordinario di celebrerebbe nell’anno seguente, 1883, cosa che felicemente si compì. Non è chiaro tuttavia quale fosse la differenza tra il realizzare un capitolo straordinario elettivo, o un capitolo ordinario elettivo.
P. Giovanni Paoli si dimise dalla carica di definitore a causa della sua debole salute e particolarmente per vista obnubilata e la forte sordità. Furono accettate le sue dimissioni.
Si procedette alle votazioni: il preposito propose i nomi e furono eletti come definitori i seguenti:
P. Giuseppe Bassi
P. Giuseppe Rovigo
Si elessero anche gli otto esaminatori:
P. Giuseppe Bassi
P. Giuseppe Rovigo
Il 10° capitolo straordinario del 1884, chiamato con lo stesso nome sopra ricordato, si tenne a Venezia dal lunedì 1° al venerdì 5 settembre 1884. Si lavorò a fondo sulla bozza delle nuove regole, preparate a cominciare dai primi abbozzi redatti ancora negli anni ’50 e ’60, e via via elaborate tra molte difficoltà esterne e interne alla comunità. Si trattava ora di perfezionare, tramite emendamenti eseguiti tramite approvazione in sede di capitoli, per poi inviare a Roma, un documento contenente soprattutto la seconda parte delle regole, riguardante le strutture del governo, “per la suprema sanzione”.
I capitolari erano i seguenti:
P. Sebastiano Casara preposito generale
P. Domenico Saporidelegato della casa di Venezia
All’inizio del capitolo si dà lettura di 4 allegati:
Nella prima giornata di lavori, si leggono e si commentano, con proposte di emendamenti, le regole del 1837, cominciando dal cap. I, con tre emendamenti; il cap. IV con due emendamenti; il cap. V con un emendamento; il cap. VI con un emendamento.
Nella seconda seduta, del 2 settembre, si legge e esamina il cap. VII con 10 emendamenti.
Essendo cambiate dal tempo dei Fondatori, le situazioni dei tempi e dei luoghi, le materie e lo stile, come dice il verbale, il capitolo con maggior numero di correzioni è il cap. VIII, sull’esercizio delle scuole, per il quale si propongono ben 13 emendamenti. Il cap. X riceve proposta di quattro emendamenti.
Nella terza seduta e nella quarta, rispettivamente del 3 e del 4 settembre 1884, si lavorò sulla seconda parte delle costituzioni, ossia sulla struttura, elezioni, capitoli, governo, amministrazione e formazione. Non si ebbe più a prendere come base le regole stampate, come si diceva, ma quelle “scritte”, cioè quanto si era preparato informalmente, e a volte praticato, a volte no. Come scrive il verbale di P. Chiereghin “Per ristrettezza del tempo, anche nel [presente] processo verbale”, eviteremo di esporre in dettaglio il lavoro svolto dai capitolari di questo capitolo straordinario. Questo documento però potrebbe essere oggetto di uno studio ben più approfondito.
La quinta seduta, del 5 settembre 1884, servì poi a leggere e firmare i verbali e chiudere formalmente il capitolo.
L’11° capitolo straordinario del 1885, chiamato con il seguente titolo “Capitolo straordinario per la elezione del nuovo Preposito in seguito alla rinuncia fatta dal M° Rev. P. Sebastiano Casara”, si tenne a Venezia la mattina del martedì 1° settembre 1885.
I capitolari erano i seguenti:
P. Antonio Fontana membro della comunità di Venezia
P. Francesco Bolech membro della comunità di Venezia
“È necessario quindi venire alla elezione d’un nuovo Superiore.
Questa non può farsi nel modo stabilito nelle Costituzioni [mano]scritte, perché non ancora sanzionate dalla S. Sede. Devesi dunque fare come la si fece nel 1863 in caso simile, secondo si venne a conoscere esaminando i documenti conservati nell’Archivio della Congregazione.
Si convenne allora da tutti che per le elezioni del Superior di Venezia non può bastare il modo stabilito per le altre famiglie, come mostrarono d’intenderlo i Fondatori stessi, i quali, approvate appena le Costituzioni, proposero alla Congregazione dei Vescovi e Regolari il dubio se, morto il Superiore della famiglia potessero venirsi ad eleggere il Successore. Ed in verità se, come Superiore provinciale estende la sua autorità sulle diverse famiglie della Provincia, non si può negare a queste il diritto di essere rappresentate nella sua elezione. Quindi fu allora determinato che fino alla regolare approvazione delle Regole scritte, il Superiore di Venezia fosse eletto dai Sacerdoti della Famiglia uniti ai rappresentanti delle altre case. E questa determinazione venne approvata ad unanimità di suffragi.
In base dunque a questa determinazione si dichiara a tutti i sacerdoti della famiglia di Venezia che il giorno 1° (primo) settembre p.v. si dovranno raccogliere in Capitolo per la elezione del nuovo Preposito, e che con essi prenderanno parte alla elezione i due PP. Da Col e Bassi, come rappresentanti della Famiglia di Lendinara”. Si danno poi determinazioni pratiche per lo svolgimento del capitolo straordinario elettivo. Seguono le firme dei 4 definitori, e poi nella terza pagina dell’allegato di “intimazione” le firme di tutti i sacerdoti della casa di Venezia (salvo il solo P. Casara) in numero di 13, per dimostrare che era stata loro letta la lettera di convocazione.
La seduta unica di questo capitolo si tenne come previsto a Venezia, il 1° settembre 1885, presenti tutti i vocali, ossia tutti i sacerdoti convocati della famiglia religiosa di Venezia e in più i PP. Giuseppe Da Col e Giuseppe Bassi, come rappresentanti della famiglia di Lendinara. Non partecipava però, “per delicatezza”, ossia per lasciare più libertà ai vocali, P. Casara; e non partecipava P. Giovanni Paoli “il quale alla presenza di tutti il dì 23 luglio, avea già rinunciato al diritto della voce attiva, a motivo specialmente della sua sordità”. Il P. Giuseppe Rovigo veniva così ad essere il Preside del capitolo, conforme l’usanza, essendo il secondo in anzianità dopo il P. Paoli.
Il preside “eleggeva” (in realtà nominò) segretario del Capitolo P. Giovanni Chiereghin e propose per scrutatori i PP. Giuseppe Bassi e Vincenzo Rossi. “Questa volta, contro il consueto, si credette di approvarli senza votazione segreta”.
Il Preside dette a lettura la lettera del P. Casara ai Capitolari (allegato B) “In questo scritto il cessato preposito espone principalmente lo stato finanziario della famiglia; raccomandava caldamente la povertà per non esporsi al pericolo di dover mano a mano diminuire il bene che ora si fa, secondo che vengano cessando le rendite vitalizie; diffondevasi a lungo nel giustificare la sua condotta nell’affare della Granziera; e chiudeva raccomandando obedienza pia, amorosa, esatta e costante”.
Il presidente del Capitolo, P. Giuseppe Rovigo, ricordò in un breve discorso, con “brevi e succose parole”, del quale fa breve riassunto il verbale del capitolo, le benemerenze del preposito uscente; e stava per passare avanti, alle elezioni del nuovo preposito.
Al momento però di intonare come d’uso le litanie lauretane e di cantare il Veni Creator, “…nel punto di passare alla elezione del nuovo Preposito venne fatta la proposta di una nuova discussione sulle Regole, profittando dell’occasione di trovarsi insieme raccolti presso che tutti i Sacerdoti capitolari, ecc.”.
Il verbale continua: “Vi si oppose il Preside, e con lui i più, basandosi sul principio che il capitolo era puramente locale, e i PP. di Lendinara v’erano solo perchè il Superiore di Venezia, fino ad ora, è pure provinciale; dichiarava pure, come era giusto, la piena libertà per ciascuno di presentare per iscritto osservazioni e proposte al nuovo Preposito, il quale non avrebbe lasciato di fare quanto avesse creduto opportuno davanti a Dio per conseguire il fine desiderato; ma insieme insisteva perchè si venisse senz’altro all’elezione del Superiore, trovandosi la comunità come corpo senza capo”.
Si rispondea che appunto per questo l’autorità stava nella Communità tutta raccolta a capitolo, poteasi dire, generale: che l’Emo° Patriarca, consultato dagli opponenti, li avea assicurati non solo il diritto, sì anche il dovere di fare loro proposte, e d’insistere in tutto ciò che opinassero conforme a regola, sempre però con un riguardo all’opinione dei più anziani.
Non desiderando tutti che la pace e la concordia, si lasciò leggere al P. Miorelli una sua memoria, sottoscritta dai PP. Larese, Marini e Simeoni (allegato C)”.
Ecco il testo completo di questa “memoria”, in cui si nota la grafia del P. Giuseppe Miorelli, scritta in un quarto di foglio:
“Molto Reverendi Padri Capitolari, La rinunzia dall’Ufficio di preposito fatta dal Molto Reverendo p. Casara in mano ai Definitori e da questi accettata, ci fu di non poca edificazione, ed apprezzammo assai l’atto generoso e della rinunzia e della sua delicatezza in assentarsi durante l’attuale Capitolo.
Ora noi siamo raccolti nel Signore per la nomina d’un nuovo Preposito. Così (?) l’invito fattoci, nè potea essere altrimenti, più in là non estendendosi il potere di chi l’ha redatto.
Crediamo però, che nessuno dei presenti dubiti, che tutta l’autorità stia ora nella comunità tutta qui raccolta a capitolo, che ben può dirsi generale.
Quindi noi, secondo l’avviso di sua Eminenza rispettosamente chiediamo all’Intero Capitolo di non sciogliersi senza prima aver definito chiaramente la quistione nella seconda parte delle Costituzioni, che ancor ci divide. Né si creda che la cosa sia ardua e difficile… che anzi stante la voglia, il desiderio vivissimo che ha ciascuno di pace, di concordia, di stabilità, in due o tre sedute al più, tutto sarà con plauso e con amore conchiuso. Si rechino al Capitolo i già apparecchiati materiali: si faranno forse alcune piccole modificazioni, e si approveranno i singoli articoli a maggioranza di voti e tutto sarà finito.
Sarebbe assai desiderabile, che anche i Definitori seguissero il nobile esempio del P. Casara concorrendo così con lui a mettere in pace la Religiosa Famiglia. Siamo certi che i nostri S. Padri Fondatori rimireranno giulivi dal cielo il generoso atto, lo presenteranno al Trono di Dio come un olocausto di propiziazione e di pace, per far discendere sopra la diletta nostra Congregazione le più elette benedizioni.
I sottoscritti certi d’essere esauditi nei loro voti propongono alla votazione la seguente Proposta: Tutti i padri presenti dichiarandosi raccolti in Capitolo generale per concordare ed approvare la seconda parte delle Regole, passano alla nomina del nuovo Preposito etc.
Giuseppe Miorelli
Giambattista Larese
Carlo Simeoni
Michele Marini.”
Continuò una viva discussione e poi si votò sulla proposta contenuta nella “memoria” del P. Miorelli e altri:
“Tutti i padri presenti dichiarandosi raccolti in Capitolo generale per concordare ed approvare la seconda parte delle Regole, passano alla nomina del nuovo Preposito etc.”
Dopo un’altra fase di dibattito che raggiunse anche toni aspri, il preside apre la votazione su un’altra formula, estremamente lunga, da lui concepita, che in fondo diceva che dopo eletto il nuovo preposito, ognuno poteva presentargli le proposte che volesse a proposito delle regole “stampate e scritte”, e che questi avrebbe provveduto al più presto, comunque entro un anno, prima del prossimo capitolo generale ordinario, a riunire ancora i religiosi per discutere ed approvare il testo della nuove costituzioni da presentare alla santa Sede.
Si vota, con l’astensione del proponente, abbassandosi così a 15 il numero dei votanti, e si ottiene il risultato di:
Voti favorevoli –13.
Voti negativi – 2.
Si lascia chiaro che naturalmente, perché un testo proposto e approvato diventi regola, occorre l’approvazione della Santa Sede.
“Trovandosi così tutti d’accordo, si venne alla elezione del nuovo Preposito, Al primo scrutinio nessuno ebbe in suo favore un voto più della metà; al secondo riportò 9 /nove/ il P. Domenico Sapori [una nota aggiunge che “N.B. Il P. Da Col riportava 7 /sette/ voti”], che venne proclamato Preposito”.
Dopo le formalità e le preghiere previste, si concluse così questo difficile e un po’ triste capitolo generale straordinario, che deve aver lasciato a molti la bocca amara, per un motivo o per l’altro. Cominciava il “dopo-Casara”, un periodo particolarmente fiacco e spento.
Dispiace davvero che la fine del governo del P. Casara, durato nell’insieme un trentennio (1852-1885, con la breve interruzione del 1863-66), e la drammaticità della sua rinuncia, che sottintende molta sofferenza (probabilmente non solo di P. Casara) siano stati confusi e messi in ombra da una critica sgradevolissima su fatti personali e da una polemica a proposito delle regole, che continuava del resto da decenni.
Bisogna anche dire però che i governi molto lunghi stancano, nella Chiesa come negli istituti religiosi – e anche nella società civile del resto – e possono suscitare negli altri un senso – e una realtà – di stanchezza e di stagnazione. Soprattutto da parte dei giovani, poi, si genera la voglia di cambiare e, anche di aver posto come protagonisti. La gerontocrazia e la mancanza di ricambio non sono mai una buona idea.
Gli atti di questo capitolo straordinario ci permettono anche di darci conto ancora una volta della consistenza numerica della congregazione in una data precisa. I capitolari che si firmano nella lettera di indizione e alla fine dei verbali di questo capitolo sono 16, di cui 14 di Venezia e due di Lendinara: si devono aggiungere altri due padri di Lendinara non vocali (P. Antonio Dalla Venezia e P. Narciso Gretter) e i due padri di Venezia assenti dall’assemblea capitolare per i motivi detti (P. Sebastiano Casara e P. Giovanni Paoli). In totale dunque i sacerdoti della congregazione completa erano 20 nel luglio 1884; si ha poi notizia di un fratello laico di Lendinara (fra Francesco Avi, più un aspirante laico, Antonio Dalboni, poi spontaneamente uscito), e di almeno uno (fra Pietro Sighel) di Venezia. La congregazione allora, all’epoca comprendeva almeno 22 membri, di cui 20 sacerdoti.
Tabella: prepositi, vicari, definitori e consiglieri generali (1820-2020)
In questa tabella, bisogna notare che il preposito aveva il titolo di “Preposito provinciale” dal tempo delle costituzioni del 1837 (cost. 8 e 9 del cap. 1°) e dall’erezione canonica del 16 luglio 1838, fino al 1891, ed era tale automaticamente il rettore della casa di Venezia (cost. 8 del cap. 1° delle costituzioni del 1837); con le nuove costituzioni del 1891 si parla, più correttamente, di “Preposito generale”, e questo poteva essere eletto rettore di Venezia da quella comunità (nella cost. 190 del 1891, con una formula tutt’altro che chiara e in seguito abolita). In origine e anche dopo le costituzioni del 1891 il preposito era eletto per un triennio, rinnovabile per una sola volta mediante maggioranza qualificata di due terzi, cioè al massimo si permettevano due trienni (cost. 179 delle costituzioni del 1930).
Il termine di “vicario” è stato usato in modo diverso in diverse epoche della storia della congregazione. All’inizio solo P. Marco Cavanis era considerato, informalmente, vicario della congregazione quasi per natura, come fondatore iunior; in seguito, con l’apertura delle altre case e dopo la morte di P. Marco, il vicario era tale solo per la comunità di Venezia, per aiutare il preposito che era anche rettore di quella comunità, ma doveva assentarsene spesso per visitare le altre case; solo più tardi, dopo l’approvazione della Santa Sede e la pubblicazione delle costituzioni del 1891 si può parlare veramente di un vicario generale, al quale però si accenna solo di passaggio nella regola 195 e, indirettamente, nella 203. Si noti che anche nella cost. 190, in cui si dà la lista delle cariche di livello generale, non si parla del vicario generale. Nella regola 212 si parla poi per la prima volta del vicario delle comunità locali, anche qui come di passaggio. Queste costituzioni del 1891 non sembrano però parlare del modo di eleggere i vicari, sia generale che locali. Durante tutto il secolo XIX della storia della congregazione nei documenti e nei diari si trova raramente usato questo titolo di vicario, sicché non è sempre facile definire chi era vicario, nei vari sensi sopra esposti.
I nomi dei definitori, come pure (con qualche maggiore difficoltà) quelli dei vicari della casa di Venezia e, in qualche modo, della Congregazione, e delle altre cariche (segretario, maestro dei novizi) provengono dai verbali delle riunioni del preposito con il definitorio o consiglio e/o da quelli dei capitoli ordinari e straordinari, provinciali fino al 1891 e poi generali. Si noti che in questa tabella si annotano i cognomi; i nomi di battesimo sono pure registrati, ad evitare confusioni, e a facilitare la comprensione del testo a chi non ha familiarità con i nomi di tutti i religiosi Cavanis del passato; ancor più quando ci sia stato più di un padre con lo stesso cognome in Congregazione. Si pensi per esempio ai quattro padri janeselli, ai tre padri e fratelli Sighel, ai quattro padri Zanon.
Sembra che nei primi anni dopo la nomina del P. Vittorio Frigiolini e, quasi subito dopo, del P. Casara come prepositi, cioè dal 1852 al 1855, non ci fosse un consiglio definitoriale. I primi definitori, ossia consiglieri sarebbero stati eletti nel corso del primo capitolo provinciale ordinario del 12-17 settembre 1855, e sono i padri, Giovanni Battista Traiber, Pietro Spernich, Giovanni Paoli e Giuseppe Marchiori.
Da notare che fino al 1930 nei capitoli provinciali e poi generali elettivi, per prima cosa, dopo i preliminari, si eleggevano uno per uno cinque definitori, in elezioni separate. Fra questi, con un’elezione successiva, cominciando dal primo che era stato eletto definitore, si eleggeva il preposito, e rimanevano allora quattro definitori, cioè il consiglio del preposito. Ciò può provocare delle confusioni o equivoci, esaminando gli atti di queste elezioni, perché, un terzo definitore nella prima batteria di elezioni, può diventare un secondo definitore dopo eletto il preposito, quando i definitori da cinque passavano a quattro.
Fino al 1971 (cioè fino alle costituzioni e direttorio pubblicati dopo il Capitolo generale straordinario speciale-CGSS del 1969-70) le forme di elezione del preposito furono successivamente due:
Tabella: prepositi generali e consigli generali (1820-2025)
Anno scolastico | Preposito | Vicario | Definitori | Osservazioni |
1820-1838 | P. Antonio Cavanis | P. Marco Cavanis (Vicario e procuratore-economo) | – | Preposito e vicario lo erano informalmente |
1838-1851 | P. Antonio Cavanis | P. Marco Cavanis (Vicario e procuratore-economo) | – | Il preposito lo era formalmente |
1852 | P. Antonio Cavanis fino al 6 luglio 1852. P. Vittorio Frigiolini dal 7 luglio 1852 al 21.10.1852. P. Sebastiano Casara dall’8.11.1852. | P. Marco Cavanis (Vicario e procuratore) fino al 6 luglio1852. Poi non si sa esattamente. | In quest’anno del 1852 si ebbero dunque successivamente tre prepositi | |
1852-53 | Sebastiano Casara | Non consta | — | |
1853-54 | Sebastiano Casara | Non consta | — | |
1854-55 | Sebastiano Casara | Non consta | — | |
1855-56 | Sebastiano Casara | Giuseppe Marchiori | Giovanni Battista Traiber, Pietro Spernich, Giovanni Paoli, Giuseppe Marchiori; poi Giovanni Battista Traiber, Pietro Spernich, Giovanni Paoli, Giuseppe Rovigo | 1° cap. prov. ord. del 12-17.9. 1855 Maestro dei novizi Giuseppe Da Col. |
1856-57 | Sebastiano Casara | Giuseppe Marchiori poi Giovanni Paoli | Giovanni Battista Traiber, Pietro Spernich, Giovanni Paoli, Giuseppe Rovigo | 1° cap. prov. straord. 26.12.1856 |
1857-58 | Sebastiano Casara | Giovanni Paoli | Giovanni Battista Traiber, Pietro Spernich, Giovanni Paoli, Giuseppe Rovigo | |
1858-59 | Sebastiano Casara | Giovanni Paoli | Giovanni Battista Traiber, Pietro Spernich, Giovanni Paoli, Giuseppe Rovigo | 2° cap. prov. ord. 14-16.9.1858 |
1859-60 | Sebastiano Casara | Giovanni Paoli | Giovanni Battista Traiber, Pietro Spernich, Giovanni Paoli, Giuseppe Rovigo | |
1860-61 | Sebastiano Casara | Giovanni Paoli | Giovanni Battista Traiber, Pietro Spernich, Giovanni Paoli, Giuseppe Rovigo | |
1861-62 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | Pietro Spernich, Giovanni Battista Traiber, Giuseppe Da Col, Giuseppe Rovigo | 3° cap. prov. ord. 14-17.9.1861 |
1862-63 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | Pietro Spernich, Giovanni Battista Traiber, Giuseppe Da Col, Giuseppe Rovigo | |
1863-64 | Giovanni Battista Traiber | Sebastiano Casara | Sebastiano Casara, Pietro Spernich, Giuseppe Da Col, Giuseppe Rovigo | 2° cap. prov. straord. 1°.9.1863 |
1864-65 | Giovanni Battista Traiber | Tito Fusarini | Pietro Spernich, Giuseppe Da Col, Giuseppe Rovigo, Giuseppe Bassi | 3° cap. prov. straord. 29.9.1864 |
1865-66 | Giovanni Battista Traiber | Tito Fusarini | Pietro Spernich, Giuseppe Da Col, Giuseppe Rovigo, Bassi | |
1866-67 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | — | Cap. locale di Venezia, del 1°.9.1866, per l’elezione (in forma tecnicamente irregolare) del preposito. |
1867-68 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | — | |
1868-69 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | ??? | 4° cap. prov. straord. 4.2 e 2.3.1868 |
1869-70 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | ??? | |
1870-71 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | Giuseppe Rovigo, | |
1871-72 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | Giuseppe Rovigo, Giuseppe Bassi, Vincenzo Brizzi, Domenico Sapori | 5° cap. prov. straord. 3.10.1871 |
1872-73 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | Giuseppe Rovigo, Giuseppe Bassi, Vincenzo Brizzi, Domenico Sapori | NB: il 9.1972 P. Sebastiano Casara è riconfermato preposito. |
1873-74 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | Giuseppe Rovigo, Giuseppe Bassi, Vincenzo Brizzi, Domenico Sapori | |
1874-75 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | Giuseppe Rovigo, Giuseppe Bassi, Vincenzo Brizzi, Domenico Sapori | 6° cap. prov. straord. 29.10.1874 |
1875-76 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | Giuseppe Rovigo, Giuseppe Bassi, Domenico Sapori, Vincenzo Brizzi (Tito Fusarini) | Vincenzo Brizzi muore il 13.1.1876. |
1876-77 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini | Giovanni Paoli, Giuseppe Rovigo, Giuseppe Bassi, Domenico Sapori | 7° cap. prov. straord. 26.10.1876 |
1877-78 | Sebastiano Casara | Tito Fusarini; dal 10.1.1877 Giuseppe Bassi | Giovanni Paoli, Giuseppe Rovigo, Giuseppe Bassi, Domenico Sapori | Tito Fusarini muore il 16.12.1877 |
1878-79 | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi | Giovanni Paoli, Giuseppe Rovigo, Giuseppe Bassi, Domenico Sapori | |
1879-80 | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi | Giovanni Paoli, Giuseppe Rovigo, Giuseppe Bassi, Domenico Sapori | |
1880-81 | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi | Giovanni Paoli, Giuseppe Rovigo, Giuseppe Bassi, Domenico Sapori | |
1881-82 | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi | Giuseppe Bassi, Giuseppe Rovigo, Domenico Sapori, Giuseppe Da Col | |
1882-83 | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi | Giuseppe Bassi, Giuseppe Rovigo, Domenico Sapori, Giuseppe Da Col | 4° cap. prov. ord. del 30.8-1.9.1883 |
1883-84 | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi | Giuseppe Da Col, Giuseppe Bassi, Giuseppe Rovigo, Giovanni Chiereghin | Maestro dei novizi Domenico Sapori |
1884-85 | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi | Giuseppe Da Col, Giuseppe Bassi, Giuseppe Rovigo, Giovanni Chiereghin | capitolo provinciale straordinario dell’1-5.9.1884. |
1885-86 | Domenico Sapori | Sebastiano Casara | Giuseppe Da Col, Giuseppe Bassi, Giuseppe Rovigo, Giovanni Chiereghin | |
1886-87 | Sapori | Sebastiano Casara | Giuseppe Da Col, Giuseppe Bassi, Giuseppe Rovigo, Giovanni Chiereghin | |
1887-88 | Giuseppe Da Col | Sebastiano Casara | Domenico Sapori, Sebastiano Casara, Giuseppe Bassi, Giovanni Chiereghin | 5° cap. prov. ord. del 30.8-2.9.1887 |
1888-89 | Giuseppe Da Col | Sebastiano Casara | Domenico Sapori, Sebastiano Casara, Giuseppe Bassi, Giovanni Chiereghin | |
1889-90 | Giuseppe Da Col | Sebastiano Casara | Sebastiano Casara, Domenico Sapori, Giovanni Chiereghin, Giuseppe Bassi | |
1890-91 | Giuseppe Da Col | Sebastiano Casara | Sebastiano Casara, Domenico Sapori, Giovanni Chiereghin, Giuseppe Bassi | |
1891-92 | Giuseppe Da Col | Sebastiano Casara | Sebastiano Casara, Domenico Sapori, Giovanni Chiereghin, Giuseppe Bassi | 1° capitolo generale ordinario, 6-10.8. 1891 (6° cap. ord.) |
1892-93 | Giuseppe Da Col | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi, Sebastiano Casara, Giovanni Chiereghin, Giovanni Battista Larese | |
1893-94 | Giuseppe Da Col | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi, Sebastiano Casara, Giovanni Chiereghin, Giovanni Battista Larese | |
1894-95 | Giuseppe Da Col | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi, Sebastiano Casara, Giovanni Chiereghin, Giovanni Battista Larese | 2° Capitolo generale ordinario dell’ 8-9.8.1894 |
1895-96 | Giuseppe Da Col | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi, Sebastiano Casara, Giovanni Chiereghin, Giovanni Battista Larese | |
1896-97 | Giuseppe Da Col | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi, Sebastiano Casara, Giovanni Chiereghin, Giovanni Battista Larese | |
1897-98 | Giuseppe Da Col | Sebastiano Casara | Giuseppe Bassi, Sebastiano Casara, Giovanni Chiereghin, Giovanni Battista Larese; poi Giuseppe Bassi, Giovanni Chiereghin, Giovanni Battista Larese, Giovanni Fanton | 3° Capitolo generale del 31.8-3.9. 1897 |
1898-99 | Giuseppe Da Col | Giuseppe Bassi? | Giuseppe Bassi, Giovanni Chiereghin, Giovanni Battista Larese, Giovanni Fanton | |
1899-1900 | Giuseppe Da Col | Giuseppe Bassi? | Giuseppe Bassi, Giovanni Chiereghin, Giovanni Battista Larese, Vincenzo Rossi | |
1900-01 | Giovanni Chiereghin | Giovanni Battista Larese | Giuseppe Bassi, Giuseppe Da Col, Giovanni Battista Larese, Vincenzo Rossi | 4° Capitolo generale del 6-7.8.1900 |
1901-02 | Giovanni Chiereghin | Giovanni Battista Larese | Giuseppe Bassi, Giuseppe Da Col , Giovanni Battista Larese, Vincenzo Rossi | |
1902-03 | Giovanni Chiereghin | Giovanni Battista Larese | Giuseppe Bassi, Giovanni Battista Larese, Vincenzo Rossi, Francesco Bolech | |
1903-04 | Giovanni Chiereghin | Giovanni Battista Larese | Giuseppe Bassi, Giovanni Battista Larese, Vincenzo Rossi, Francesco Bolech | |
1904-05 | Vincenzo Rossi | Antonio Dalla Venezia | Antonio Dalla Venezia, Giovanni Fanton, Francesco Bolech, Augusto Tormene | 5° Capitolo generale ordinario del 9-10.8.1904 |
1905-06 | Vincenzo Rossi | Antonio Dalla Venezia | Antonio Dalla Venezia, Giovanni Fanton, Francesco Bolech, Augusto Tormene | muore Giuseppe Bassi il 5.6.05 |
1906-07 | Vincenzo Rossi | Antonio Dalla Venezia | Antonio Dalla Venezia, Giovanni Fanton, Francesco Bolech, Augusto Tormene | |
1907-08 | Vincenzo Rossi | Giovanni Fanton | Giovanni Fanton, Antonio Dalla Venezia, Augusto Tormene, Carlo Simeoni | 6° Capitolo generale del 1907 |
1908-09 | Vincenzo Rossi | ??? | ????, Antonio Dalla Venezia, Augusto Tormene, Carlo Simeoni | Giovanni Fanton muore il 1°.2.1908 |
1909-10 | Vincenzo Rossi | ??? | ??? Antonio Dalla Venezia, Augusto Tormene, Carlo Simeoni | |
1910-11 | Antonio Dalla Venezia | Carlo Simeoni o Vincenzo Rossi | Carlo Simeoni, Augusto Tormene, Vincenzo Rossi, Basilio Martinelli | 7° Capitolo generale ordinario del 17-19.7.1910 |
1911-12 | Antonio Dalla Venezia | Vincenzo Rossi o Carlo Simeoni | Carlo Simeoni, Augusto Tormene, Vincenzo Rossi, Basilio Martinelli | |
1912-13 | Antonio Dalla Venezia | Carlo Simeoni | Carlo Simeoni, Augusto Tormene, Vincenzo Rossi, Basilio Martinelli | |
1913-14 | Augusto Tormene | Antonio Dalla Venezia | Antonio Dalla Venezia, Carlo Simeoni, Vincenzo Rossi, Basilio Martinelli | 8° Capitolo generale ordinario del 23-26.7.1913 |
1914-15 | Augusto Tormene | Antonio Dalla Venezia | Antonio Dalla Venezia, Carlo Simeoni, Vincenzo Rossi, Basilio Martinelli | |
1915-16 | Tormene | Antonio Dalla Venezia | Antonio Dalla Venezia, Carlo Simeoni, Vincenzo Rossi, Basilio Martinelli | |
1916-17 | Augusto Tormene | Vincenzo Rossi | Vincenzo Rossi, Antonio Dalla Venezia, Carlo Simeoni, Giovanni Rizzardo | 9° Capitolo generale ordinario del 17-18.7.1916 |
1917-18 | Augusto Tormene | Vincenzo Rossi | Vincenzo Rossi, Antonio Dalla Venezia, Carlo Simeoni, Giovanni Rizzardo | |
1918-19 | Augusto Tormene | Vincenzo Rossi | Vincenzo Rossi, Antonio Dalla Venezia, Carlo Simeoni, Giovanni Rizzardo | |
1919-20 | Augusto Tormene | Vincenzo Rossi | Vincenzo Rossi, Antonio Dalla Venezia, (Carlo Simeoni o più probabilmente Agostino Zamattio), Giovanni Rizzardo | 10° Capitolo generale ordinario del 7 luglio-1° agosto 1919. Si elegge per la prima volta l’Economo generale. È rieletto il P. Vincenzo Rossi. Basilio Martinelli Maestro dei novizi. |
1920-21 | Augusto Tormene | Antonio Dalla Venezia | Antonio Dalla Venezia, Giovanni Rizzardo, Agostino Zamattio, Francesco Saverio Zanon | P. Vincenzo Rossi muore il 17.9.1920. |
1921-22 fino al 20.12.1921 | Augusto Tormene | Antonio Dalla Venezia | Antonio Dalla Venezia, Giovanni Rizzardo, Agostino Zamattio, Francesco Saverio Zanon | Muore a Venezia il preposito P. Augusto Tormene il 20.12.1921 |
1922 dal 25.1.1922 al capitolo del luglio 1922 | Antonio Dalla Venezia preposito interino fino al capitolo generale ordinario del luglio 1922. | Giovanni Rizzardo | Antonio Dalla Venezia, Giovanni Rizzardo, Agostino Zamattio, Francesco Saverio Zanon, | |
1922-23 | Agostino Zamattio | Giovanni Rizzardo | Antonio Dalla Venezia, Giovanni Rizzardo, Agostino Zamattio, Francesco Saverio Zanon | 10° Capitolo generale ordinario, 22-25.7.1922 |
1923-24 | Agostino Zamattio | Giovanni Rizzardo | Giovanni Rizzardo, Antonio Dalla Venezia, Francesco Saverio Zanon, Basilio Martinelli | |
1924-25 | Agostino Zamattio | Giovanni Rizzardo | Giovanni Rizzardo, Antonio Dalla Venezia, Francesco Saverio Zanon, Basilio Martinelli | |
1925-26 | Agostino Zamattio | Giovanni D’Ambrosi | Giovanni D’Ambrosi, Francesco Saverio Zanon, Giovanni Rizzardo, Basilio Martinelli | 11° Capitolo generale ordinario, 17-18.7.1925 |
1926-27 | Agostino Zamattio | Giovanni D’Ambrosi | Giovanni D’Ambrosi, Francesco Saverio Zanon, Giovanni Rizzardo, Basilio Martinelli | |
1927-28 | Agostino Zamattio | Giovanni D’Ambrosi | Giovanni D’Ambrosi, (Francesco Saverio Zanon), Giovanni Rizzardo, Basilio Martinelli | |
1928-29 | Giovanni Rizzardo | Giovanni D’Ambrosi | Giovanni D’Ambrosi, Agostino Zamattio, (Francesco Saverio Zanon), Basilio Martinelli | 12° Capitolo generale ordinario 1928. Economo generale viene eletto dal consiglio defin. del 4.7.1928 il P. Agostino Zamattio |
1929-30 | Giovanni Rizzardo | Giovanni D’Ambrosi | Giovanni D’Ambrosi, Agostino Zamattio, (Francesco Saverio Zanon), Basilio Martinelli, Aurelio Andreatta | 12° Capitolo generale straordinario 8-10.7.1930 |
1930-31 | Giovanni Rizzardo | Giovanni D’Ambrosi | Giovanni D’Ambrosi, Agostino Zamattio, Basilio Martinelli, Aurelio Andreatta | |
1931-32 | Aurelio Andreatta | Giovanni Rizzardo | Giovanni Rizzardo, Agostino Zamattio, Mario Janeselli, Giovanni D’Ambrosi | 13° Capitolo generale ordinario 1931 |
1932-33 | Aurelio Andreatta | Giovanni Rizzardo | Giovanni Rizzardo, Agostino Zamattio, Mario Janeselli, Giovanni D’Ambrosi | |
1933-34 | Aurelio Andreatta | Giovanni Rizzardo | Giovanni Rizzardo, Agostino Zamattio, Mario Janeselli, Giovanni D’Ambrosi | |
1934-35 | Aurelio Andreatta | Agostino Zamattio | Agostino Zamattio, Giovanni Rizzardo, Giovanni D’Ambrosi, Mario Janeselli, | 14° Capitolo generale ordinario, del 1°-3.7.1934 |
1935-36 | Aurelio Andreatta | Giovanni Rizzardo | Giovanni Rizzardo, Agostino Zamattio, Giovanni D’Ambrosi, Mario Janeselli | |
1936-37 | Aurelio Andreatta | Agostino Zamattio | Giovanni Rizzardo, Agostino Zamattio, Giovanni D’Ambrosi, Mario Janeselli | |
1937-38 | Aurelio Andreatta | Agostino Zamattio | Agostino Zamattio, Giovanni Rizzardo, Giovanni D’Ambrosi, Mario Janeselli | 21° Capitolo generale ordinario 6-7 luglio 1937 |
1938-39 | Aurelio Andreatta | Agostino Zamattio | Agostino Zamattio, Giovanni Rizzardo, Giovanni D’Ambrosi, Mario Janeselli | |
1939-40 | Aurelio Andreatta | Agostino Zamattio | Agostino Zamattio, Giovanni Rizzardo, Giovanni D’Ambrosi, Mario Janeselli | |
1940-41 | Aurelio Andreatta | Agostino Zamattio | Agostino Zamattio, Giovanni Rizzardo, Giovanni D’Ambrosi, Mario Janeselli, poi Alessandro Vianello | P. Agostino Zamattio muore il 2 maggio 1941, viene sostituito da P. Giovanni Rizzardo come vicario; e si elegge p. Alessandro Vianello come 4° defin. |
1941-42 | Aurelio Andreatta | Giovanni Rizzardo | Giovanni Rizzardo, Giovanni D’Ambrosi, Mario Janeselli (economo generale), Alessandro Vianello | |
1942-43 | Aurelio Andreatta | Giovanni Rizzardo | Giovanni Rizzardo, Giovanni D’Ambrosi, Mario Janeselli, Alessandro Vianello | |
1943-44 | Aurelio Andreatta | (Giovanni Rizzardo) Giovanni D’Ambrosi | (Giovanni Rizzardo) Giovanni D’Ambrosi, Alessandro Vianello, Giovanni Battista Piasentini, Mario Janeselli | P. Giovanni Rizzardo rinuncia alla carica di definitore il 2 aprile 1943. 22° Capitolo generale ordinario del 1° luglio 1943 |
1944-45 | Aurelio Andreatta | Giovanni D’Ambrosi | Giovanni D’Ambrosi, Alessandro Vianello, Giovanni Battista Piasentini, Mario Janeselli | |
1945-46 | Aurelio Andreatta | Giovanni D’Ambrosi | Giovanni D’Ambrosi, Alessandro Vianello, (Giovanni Battista Piasentini), Mario Janeselli, Pellegrino Bolzonello | |
1946-47 | Aurelio Andreatta | Giovanni D’Ambrosi | Giovanni D’Ambrosi, Alessandro Vianello, Mario Janeselli, Pellegrino Bolzonello | |
1947-48 | Aurelio Andreatta | Giovanni D’Ambrosi | Giovanni D’Ambrosi, Alessandro Vianello, Mario Janeselli, Pellegrino Bolzonello | |
1948-49 | Aurelio Andreatta | Giovanni D’Ambrosi | Giovanni D’Ambrosi, Alessandro Vianello, Mario Janeselli, Pellegrino Bolzonello | |
1949-50 | Antonio Cristelli | Aurelio Andreatta | Aurelio Andreatta, Giovanni D’Ambrosi, Mansueto Janeselli, Gioachino Tomasi | 23° Capitolo generale ordinario del 20-25.7.1949. |
1950-51 | Antonio Cristelli | Aurelio Andreatta | Aurelio Andreatta, Giovanni D’Ambrosi, Mansueto Janeselli, Gioachino Tomasi | |
1951-52 | Antonio Cristelli | Aurelio Andreatta | Aurelio Andreatta, Giovanni D’Ambrosi, Mansueto Janeselli, Gioachino Tomasi | |
1952-53 | Antonio Cristelli | Aurelio Andreatta | Aurelio Andreatta, Giovanni D’Ambrosi, Mansueto Janeselli, Gioachino Tomasi | 13° Capitolo generale straordinario, 4 agosto 1952 |
1953-54 | Antonio Cristelli | Aurelio Andreatta | Aurelio Andreatta, Giovanni D’Ambrosi, Mansueto Janeselli, Gioachino Tomasi | |
1954-55 | Antonio Cristelli | Aurelio Andreatta | Aurelio Andreatta, Giovanni D’Ambrosi, Mansueto Janeselli, Gioachino Tomasi | |
1955-56 | Gioachino Tomasi | Federico Grigolo | Federico Grigolo, Luigi Ferrari, Antonio Eibenstein, Vincenzo Saveri | 24° Capitolo generale ordinario, a Venezia dal 12-27.7.1955. P. Narciso Bastianon è eletto economo generale. |
1956-57 | Gioachino Tomasi | Federico Grigolo | Federico Grigolo, Luigi Ferrari, Antonio Eibenstein, Vincenzo Saveri | |
1957-58 | Gioachino Tomasi | Federico Grigolo | Federico Grigolo, Luigi Ferrari, Antonio Eibenstein, Vincenzo Saveri | |
1958-59 | Gioachino Tomasi | Federico Grigolo | Federico Grigolo, Luigi Ferrari, Antonio Eibenstein, Vincenzo Saveri | |
1959-60 | Gioachino Tomasi | Federico Grigolo | Federico Grigolo, Luigi Ferrari, Antonio Eibenstein, Vincenzo Saveri | |
1960-61 | Gioachino Tomasi | Federico Grigolo | Federico Grigolo, Luigi Ferrari, Antonio Eibenstein, Vincenzo Saveri | |
1961-62 | Giuseppe Panizzolo | Valentino Pozzobon | Valentino Pozzobon, Antonio Cristelli, Giovanni De Biasio, Livio Donati, | 25° Capitolo generale ordinario 17-22 luglio 1961 |
1962-63 | Giuseppe Panizzolo | Valentino Pozzobon | Valentino Pozzobon, Antonio Cristelli, Giovanni De Biasio, Livio Donati, | |
1963-64 | Giuseppe Panizzolo | Valentino Pozzobon | Valentino Pozzobon, Antonio Cristelli, Giovanni De Biasio, Livio Donati, | |
1964-65 | Giuseppe Panizzolo | Valentino Pozzobon | Valentino Pozzobon, Antonio Cristelli, Giovanni De Biasio, Livio Donati, | |
1965-66 | Giuseppe Panizzolo | Valentino Pozzobon | Valentino Pozzobon, Antonio Cristelli, Giovanni De Biasio, Livio Donati, | |
1966-67 | Giuseppe Panizzolo | Valentino Pozzobon | Valentino Pozzobon, Antonio Cristelli, Giovanni De Biasio, Livio Donati, | |
1967-68 | Orfeo Mason | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Ugo Del Debbio, Giuseppe Simioni, Nicola Zecchin | 26° Capitolo generale ordinario, 1967 Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Gioachino Tomasi; Economo generale: Narciso Bastianon |
1968-69 | Orfeo Mason | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Ugo Del Debbio, Giuseppe Simioni, Nicola Zecchin | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Gioachino Tomasi; Economo generale: Narciso Bastianon |
1969-70 | Orfeo Mason | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Ugo Del Debbio, Giuseppe Simioni, Nicola Zecchin | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Gioachino Tomasi; Economo generale: Narciso Bastianon. Maestro dei Novizi da qualche anno: P. Nicola Zecchin |
1970-71 | Orfeo Mason | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Ugo Del Debbio, Giuseppe Simioni, Nicola Zecchin | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Gioachino Tomasi; Economo generale: Narciso Bastianon |
1971-72 | Orfeo Mason | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Ugo Del Debbio, Giuseppe Simioni, Nicola Zecchin | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Gioachino Tomasi; Economo generale: Narciso Bastianon |
1972-73 | Orfeo Mason | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Ugo Del Debbio, Giuseppe Simioni, Nicola Zecchin | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Diego Beggiao; Economo generale: Narciso Bastianon. È eletto nuovo maestro dei novizi P. Giuseppe Simioni. |
1973-74 | Orfeo Mason | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Angelo Moretti, Ugo Del Debbio, Edoardo Ferrari | 27° Capitolo generale, 23.7-13.8.1973 Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Diego Beggiao; Economo generale: Narciso Bastianon; Maestro degli studenti filosofi e teologi. Antonio Armini. |
1974-75 | Orfeo Mason | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Angelo Moretti, Ugo Del Debbio, Edoardo Ferrari | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Diego Beggiao; Economo generale: Narciso Bastianon |
1975-76 | Orfeo Mason | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Angelo Moretti, Ugo Del Debbio, Edoardo Ferrari | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Diego Beggiao; Economo generale: Narciso Bastianon |
1976-77 | Orfeo Mason | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Angelo Moretti, Ugo Del Debbio, Edoardo Ferrari | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Diego Beggiao; Economo generale: Narciso Bastianon |
1977-78 | Orfeo Mason | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Angelo Moretti, Ugo Del Debbio, Edoardo Ferrari | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Gioachino Tomasi; Economo generale: Narciso Bastianon |
1978-79 | Orfeo Mason | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Angelo Moretti, Ugo Del Debbio, Edoardo Ferrari | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Diego Beggiao; Economo generale: Narciso Bastianon |
1979-80 | Guglielmo Incerti | Orfeo Mason | Orfeo Mason, Angelo Moretti, Antonio Armini, (Vittorio Di Cesare), Attilio Collotto | Nel 10 luglio-8 agosto 1979 si celebra il 28° capitolo generale ordinario, con fini anche di riforma delle costituzioni. Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Narciso Bastianon Maestro dei chierici per l’Italia: Antonio Armini Maestro dei chierici e dei novizi in Brasile: Diego Spadotto |
1980-81 | Guglielmo Incerti | Orfeo Mason | Orfeo Mason, Angelo Moretti, Antonio Armini, Attilio Collotto | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Narciso Bastianon |
1981-82 | Guglielmo Incerti | Orfeo Mason | Orfeo Mason, Angelo Moretti, Antonio Armini, Attilio Collotto | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Narciso Bastianon |
1982-83 | Guglielmo Incerti | Orfeo Mason | Orfeo Mason, Angelo Moretti, Antonio Armini, Attilio Collotto | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Narciso Bastianon Maestro dei novizi: è nominato il P. Orfeo Mason, il 12-15 luglio 1982. |
1983-84 | Guglielmo Incerti | Orfeo Mason | Orfeo Mason, Angelo Moretti, Antonio Armini, Attilio Collotto | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Narciso Bastianon Maestro degli studenti e del novizi 1983-1985: P. Orfeo Mason. |
1984-85 | Guglielmo Incerti | Orfeo Mason | Orfeo Mason, Angelo Moretti, Antonio Armini, Attilio Collotto | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Narciso Bastianon. P. Gioachino Tomasi postulatore della causa di P. Basilio Martinelli, da quest’anno. |
1985-86 | Guglielmo Incerti | Angelo Moretti | Angelo Moretti, Attilio Collotto, Luigi Bellin, Pietro Luigi Pennacchi | 29° Capitolo generale ordinario, 16.7-3 8.1985. Segretario generale: Angelo Moretti; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Narciso Bastianon |
1986-87 | Guglielmo Incerti | Angelo Moretti | Angelo Moretti, Attilio Collotto, Luigi Bellin, Pietro Luigi Pennacchi | Segretario generale: Angelo Moretti; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Narciso Bastianon |
1987-88 | Guglielmo Incerti | Angelo Moretti | Angelo Moretti, Attilio Collotto, Luigi Bellin, Pietro Luigi Pennacchi | Segretario generale: Angelo Moretti; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Narciso Bastianon |
1988-89 | Guglielmo Incerti | Angelo Moretti | Angelo Moretti, Attilio Collotto, Luigi Bellin, Pietro Luigi Pennacchi | Segretario generale: Angelo Moretti; questi dette le dimissioni che furono accettate dal prep. Il 30.7.1988, perché l’incarico è incompatibile con quello di maestro dei Novizi. Rimane segr. Gen per un anno interino P. Orfeo Mason. Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Narciso Bastianon. Quest’ultimo era ancora economo generale e lo rimase fino al 30° capitolo generale anticipato del 1989. Maestro dei Novizi P. Angelo Moretti. |
1989-90 | Giuseppe Leonardi | Angelo Moretti | Angelo Moretti, Pietro Luigi Pennacchi, Danilo Baccin, Rocco Tomei | 30° capitolo generale ordinario 16.7-2.8.1989. Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
1990-91 | Giuseppe Leonardi | Angelo Moretti | Angelo Moretti, Pietro Luigi Pennacchi, Danilo Baccin, Rocco Tomei | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
1991-92 | Giuseppe Leonardi | Angelo Moretti | Angelo Moretti, Pietro Luigi Pennacchi, Danilo Baccin, Rocco Tomei | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
1992-93 | Giuseppe Leonardi | Angelo Moretti | Angelo Moretti, Pietro Luigi Pennacchi, Danilo Baccin, Rocco Tomei | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
1993-94 | Giuseppe Leonardi | Angelo Moretti | Angelo Moretti, Pietro Luigi Pennacchi, Danilo Baccin, Rocco Tomei | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
1994-95 | Giuseppe Leonardi | Angelo Moretti | Angelo Moretti, Pietro Luigi Pennacchi, Danilo Baccin, Rocco Tomei | Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi; Maestro desgli studenti Piero Fietta. |
1995-96 | Pietro Fietta | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Antonio Armini, Pietro Luigi Pennacchi, Luigi Bellin | 31° Capitolo generale ordinario. 16.7-5.8.1995. Segretario generale: Ugo Del Debbio; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
1996-97 | Pietro Fietta | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Antonio Armini, Pietro Luigi Pennacchi, Luigi Bellin | Segretario generale: Ugo Del Debbio (risulta anche e piuttosto Antonio Armini); Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi; Maestro dei chierici in Italia Giovanni De Biasio; postulatore generale Diego Beggiao |
1997-98 | Pietro Fietta | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Antonio Armini, Pietro Luigi Pennacchi, Luigi Bellin | Segretario generale: Antonio Armini; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
1998-99 | Pietro Fietta | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Antonio Armini, Pietro Luigi Pennacchi, Luigi Bellin | Segretario generale: Antonio Armini; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
1999-2000 | Pietro Fietta | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Antonio Armini, Pietro Luigi Pennacchi, Luigi Bellin | Segretario generale: Antonio Armini; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
2000-01 | Pietro Fietta | Giovanni De Biasio | Giovanni De Biasio, Antonio Armini, Pietro Luigi Pennacchi, Luigi Bellin | Segretario generale: Antonio Armini; Procuratore generale: Antonio Armini; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
2001-02 | Pietro Fietta | Diego Spadotto | Diego Spadotto, Pietro Luigi Pennacchi, Alvise Bellinato, Vandir Santo Freo | 32° Capitolo generale ordinario. 21.7-9.8.2001. Segretario generale e procuratore generale: Giovanni De Biasio; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
2002-03 | Pietro Fietta | Diego Spadotto | Diego Spadotto, Pietro Luigi Pennacchi, Alvise Bellinato, Vandir Santo Freo | Segretario generale e procuratore generale: Giovanni De Biasio; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi. Postulatore generale P. Diego Beggiao. |
2003-04 | Pietro Fietta | Diego Spadotto | Diego Spadotto, Pietro Luigi Pennacchi, Alvise Bellinato, Vandir Santo Freo | Segretario generale, procuratore generale e postulatore generale: Giovanni De Biasio; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
2004-05 | Pietro Fietta | Diego Spadotto | Diego Spadotto, Pietro Luigi Pennacchi, Alvise Bellinato, Vandir Santo Freo | Segretario generale e procuratore generale: Giovanni De Biasio; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
2005-06 | Pietro Fietta | Diego Spadotto | Diego Spadotto, Pietro Luigi Pennacchi, Alvise Bellinato, Vandir Santo Freo | Segretario generale e procuratore generale: Giovanni De Biasio; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
2006-07 | Pietro Fietta | Diego Spadotto | Diego Spadotto, Pietro Luigi Pennacchi, Alvise Bellinato, Vandir Santo Freo | Segretario generale e procuratore generale: Giovanni De Biasio; Economo generale: Pietro Luigi Pennacchi |
2007-08 | Alvise Bellinato | Pietro Fietta | Pietro Fietta, Edmilson Mendes, Irani Luiz Tonet, Manoel Rosalino Pereira Rosa | 33° Capitolo generale ordinario. 16.7-3.8.2007. Segretario generale: Diego Spadotto. Economo generale: Pierluigi Pennacchi. Procuratore generale: Diego Spadotto. |
2008-09 | Alvise Bellinato | Pietro Fietta | Pietro Fietta, Edmilson Mendes, Irani Luiz Tonet, Manoel R. P. Rosa | Segretario generale e procuratore generale: Diego Spadotto. Economo generale: Pierluigi Pennacchi; Martinho Paulus vice-econ. gen. e rettore della comunità dei servizi gen.; postulatore generale P. Giovanni De Biasio. |
2009-10 | Alvise Bellinato | Pietro Fietta | Pietro Fietta, Edmilson Mendes, Irani Luiz Tonet, Manoel R. P. Rosa | Segretario generale e procuratore generale: Diego Spadotto. Economo generale: Pierluigi Pennacchi; Martinho Paulus vice-econ. gen. e rettore della comunità dei servizi gen.; postulatore generale P. Giovanni De Biasio. |
2010-11 | Alvise Bellinato | Pietro Fietta | Pietro Fietta, Edmilson Mendes, Irani Luiz Tonet, Manoel R. P. Rosa | Segretario generale e procuratore generale: Diego Spadotto. Economo generale: Pierluigi Pennacchi; Martinho Paulus vice-econ. Gen. e rettore della comunità dei servizi gen.; postulatore generale P. Giovanni De Biasio. |
2011-12 | Alvise Bellinato | Pietro Fietta | Pietro Fietta, Edmilson Mendes, Irani Luiz Tonet, Manoel R. P. Rosa | Segretario generale: Diego Spadotto. Economo generale: Pierluigi Pennacchi. Procuratore generale: Postulatore generale, dal 10.12.2011, è il P. Edmilson Mendes. |
2012-13 | Alvise Bellinato | Pietro Fietta | Pietro Fietta, Edmilson Mendes, Irani Luiz Tonet, Manoel R. P. Rosa | Segretario generale: Diego Spadotto. Economo generale: Pierluigi Pennacchi. Procuratore generale e Postulatore generale,. Edmilson Mendes. |
2013-14 | Pietro Fietta | Irani Luiz Tonet | Irani Luiz Tonet, Alvise Bellinato, Giuseppe Viani, Martinho Paulus | 34° Capitolo generale ordinario. 1-17.8.2013 Segretario generale e Procuratore generale: P. Giuseppe Moni. Economo generale: P. Irani Tonet. Postulatore generale, Edmilson Mendes. |
2014-15 | Pietro Fietta | Irani Luiz Tonet | Irani Luiz Tonet, Alvise Bellinato, Giuseppe Viani, Martinho Paulus | Segretario generale e Procuratore generale: P. Giuseppe Moni. Economo generale: P. Irani Luiz Tonet. Postulatore generale, Edmilson Mendes. Semin. Internaz. Rogerio Diesel, nominato il 4.9.14. |
2015-16 | Pietro Fietta | Irani Luiz Tonet | Irani Luiz Tonet, Alvise Bellinato, Giuseppe Viani, Martinho Paulus | Segretario generale e Procuratore generale: P. Giuseppe Moni. Economo generale: P. Irani Tonet. Postulatore generale, Edmilson Mendes. |
2016-17 | Pietro Fietta | Irani Luiz Tonet | Irani Luiz Tonet, Alvise Bellinato, Giuseppe Viani, Martinho Paulus | Segretario generale e Procuratore generale: P. Giuseppe Moni. Economo generale: P. Irani Tonet. Postulatore generale, Edmilson Mendes. |
2017-18 | Pietro Fietta | Irani Luiz Tonet | Irani Luiz Tonet, Alvise Bellinato, Giuseppe Viani, Martinho Paulus | Segretario generale e Procuratore generale: P. Giuseppe Moni. Economo generale: P. Irani Tonet. Postulatore generale, Edmilson Mendes. |
2018-19 | Pietro Fietta | Irani Luiz Tonet | Irani Luiz Tonet, Alvise Bellinato, Giuseppe Viani, Martinho Paulus | Segretario generale e Procuratore generale: P. Giuseppe Moni. Economo generale: P. Irani LuizTonet. Postulatore generale, Edmilson Mendes. |
2019-20 | Manoel R.P. Rosa | Irani Luiz Tonet | Irani Luiz Tonet Ciro Sicignano Paulo Oldair Welter, Armando Masayon Bacalso | 35° Capitolo generale ordinario. Morlupo, Roma, 16.07-1.8.2019. Segretario generale e Procuratore generale: P. Giuseppe Moni. Economo generale: P. Irani Luiz Tonet. Postulatore generale, Edmilson Mendes. |
Tabella: capitoli generali (1855-2019)
Come abitudine nell’Istituto, i capitoli generali, sia ordinari che straordinari, non erano mai numerati con un numero d’ordine. Non si trova questo numero né nei diari di congregazione né nei documenti stessi del capitolo, neanche nei verbali: per di più fino al 27° capitolo generale ordinario escluso non si usava un timbro speciale del capitolo; quindi non si trova il numero d’ordine neanche nel timbro. Del resto il primo timbro “capitolare” del 27° capitolo appunto, non porta numero. Si è cominciato a numerarli, a quanto pare, solo durante il periodo in cui è stato segretario generale P. Ugo Del Debbio (1967-1985 e 1989-2001), più probabilmente nel primo mandato.
I Capitoli generali, sia ordinari che straordinari, erano chiamati semplicemente “Capitolo dell’anno x” oppure “capitolo del mese tale dell’anno x” o più raramente “capitolo 1955” o altro anno.
Per di più molto frequentemente non si scrive nei documenti se il capitolo era ordinario o straordinario.
I primi cinque capitoli erano chiamati “capitolo provinciale”, anche se in realtà erano capitoli generali a tutti gli effetti; nel 1891, quando si celebrò, con P. Giuseppe Da Col, il primo capitolo generale ordinario, dopo l’approvazione della S. Sede alle nuove costituzioni, lo si chiamò nel Diario di Congregazione “1° Capitolo Generale”. Però quando si arrivò ad assegnare un numero d’ordine ai capitoli, in pratica si considerarono generali anche i primi cinque; cosicché il 1° capitolo generale ordinario divenne il 6°. E così via. Con il risultato che l’ultimo capitolo generale del 2019, che viene chiamato il 35°, sarebbe propriamente il 30°, e così via.
Un altro dettaglio è anche che nei documenti dei capitoli ordinari si comincia molto tardi a chiamarli ordinari. In genere si dice solo “capitolo generale”. Si comincia a precisare che si tratta di capitolo ordinario, nei documenti, solo nel 1934.
Si noti che il numero dei capitoli generali ordinari è piuttosto basso, considerando l’età della nostra Congregazione; ma per un lato, non si celebrarono capitolo generali, anche dopo l’erezione canonica (1838) finché non ci fu il passaggio del governo dalle mani di P. Anton’Angelo (1852) a quelle del P. Casara (con in più il brevissimo mandato di P. Vittorio Frigiolini); fu P. Casara che prese l’iniziativa di celebrare il 1° capitolo generale (chiamato provinciale, come si è detto) nel settembre 1855. Per altro lato, il numero di capitolo celebrati è anche piuttosto alto, dato che dal 1855 al 1937 i capitoli si celebravano ogni tre anni anziché ogni sei anni come si fece in seguito.
Si noti ancora che per unificare il sistema delle date, anche per i più antichi capitoli, nei quali la prima riunione, in cui si eleggevano segretario e scrutatori (era chiamata “seduta preparatoria” o “prima seduta”) non era considerata parte del capitolo, si dà sempre nella data, in questa tabella, il primo e l’ultimo giorno del capitolo, includendo anche detta riunione preparatoria, seguendo l’uso più logico che prevalse in seguito.
N° d’ordine Capitoli ord. | N° d’ordine Cap. straord. | tipo | data | luogo | osservazioni |
1° | —- | Capitolo provinciale ordinario | 12-17.9.1855 | Venezia | |
—- | —- | Capitolo provinciale straordinario | 26.10.1856 | Venezia | |
2° | —- | Capitolo provinciale ordinario | 14-16.9.1858 | Venezia | |
3° | —- | Capitolo provinciale ordinario | 14-17.9.1861 | Venezia | |
—- | 2° | Capitolo provinciale straordinario | 1.9.1863 | Venezia | |
—- | 3° | Capitolo provinciale straordinario | |||
—- | —- | Capitolo locale elettivo del preposito (abusivo) | 1.9.1866 | Venezia | Capitolo elettivo del solo preposito generale, però celebrato come capitolo locale di Venezia, quindi irregolare |
—- | —- | —- | —- | —- | Mancano capitoli in questo periodo eccezionale, per causa della soppressione degli istituti religiosi |
—- | 5° | Capitolo provinciale straordinario | 3.10.1871 | Venezia | |
—- | 6° | Capitolo provinciale straordinario | 29.10.1874 | Venezia | |
—- | 7° | Capitolo provinciale straordinario | 26.10.1876 | Venezia | |
—- | 8° | Capitolo provinciale straordinario | 10.9.1878 | Venezia | |
—- | 9° | Capitolo provinciale straordinario | 10.8.1982 | Venezia | |
4° | —- | Capitolo provinciale ordinario | 30.8-1.9.1883 | Venezia | |
—- | 10° | Capitolo provinciale straordinario | 1-5.9.1884 | Venezia | |
—- | 11° | Capitolo provinciale straordinario | 1.9.1885 | Venezia | |
5° | —- | Capitolo provinciale ordinario | 30. -1.9.1887 | Venezia | |
6° (1°) | —- | Capitolo generale ordinario | 6-10.8.1891 | Venezia | NB: questo è in realtà il primo capitolo generale ordinario chiamato con questo nome nelle costituzioni, quindi de jure et de facto. Tuttavia viene numerato come il 6° capitolo generale ordinario |
7° | —- | Capitolo generale ordinario | 8-9.8.1894 | Venezia | |
8° | —- | Capitolo generale ordinario | 31.8-3.9.1897 | Venezia | |
9° | —- | Capitolo generale ordinario | 5-7.8.1900 | Venezia | |
10° | —- | Capitolo generale ordinario | 9-10.8.1904 | Venezia | NB: Doveva essere celebrato nel 1903, ma col permesso della S. Sede fu celebrato un anno dopo, nel 1904 |
11° | —- | Capitolo generale ordinario | 23-25.7.1907 | Venezia | |
12° | —- | Capitolo generale ordinario | 17-19.7.1910 | Venezia | |
13° | —- | Capitolo generale ordinario | 23-26.7.1913 | Venezia | |
14° | —- | Capitolo generale ordinario | 16-18.7.1916 | Venezia | |
15° | —- | Capitolo generale ordinario | 15.7-1.8.1919 | Venezia | |
16° | —- | Capitolo generale ordinario | 22-25.7.1922 | Venezia | Celebrato con un anno di ritardo |
17° | —- | Capitolo generale ordinario | 16-18.7.1925 | Venezia | |
18° | —- | Capitolo generale ordinario | 30.6-4.7.1928 | Venezia | |
—- | 12° | Capitolo generale straordinario | 7-10.7.1930 | Venezia | |
19° | —- | Capitolo generale ordinario | 30. -25.7.1931 | Venezia | |
20° | —- | Capitolo generale ordinario | 1-3.7.1934 | Venezia | |
21° | —- | Capitolo generale ordinario | 6-7.7.1937 | Venezia | NB: A partire dal 1937 i mandati sono sessennali, non più triennali. |
22° | —- | Capitolo generale ordinario | 1-5.7.1943 | Venezia | |
23° | —- | Capitolo generale ordinario | 20-25.7.1949 | Venezia | |
—- | 13° | Capitolo generale straordinario | 2-5.8.1952 | Venezia | |
24° | —- | Capitolo generale ordinario | 12-27.7.1955 | Venezia | |
25° | —- | Capitolo generale ordinario | 17-22.7.1961 | Venezia | |
26° | —- | Capitolo generale ordinario | 30.7-12.8.1967 | Venezia | È il primo capitolo con documenti ufficiali ciclostilati (a alcool); il primo che abbia un registro con dei veri verbali, fatti seriamente; .; il primo che sia stato comunicato alla stampa. |
— | (14°) | Capitolo generale straordinario speciale (CGSS) | 31.5.1969-3.9.1970 | 1ª Sessione a Venezia; 2ª sessione a Possagno | |
27° | —- | Capitolo generale ordinario | 23.7-13.8.1973 | Possagno |
|
28° | — | Capitolo generale ordinario | 10.7-8.8.1979 | Possagno | |
29° | — | Capitolo generale ordinario | 16.7- 3.8.1985 | Possagno | |
30° | — | Capitolo generale ordinario | 16.7-2.8.1989 | Possagno | |
31° | — | Capitolo generale ordinario | 16.7-5.8.1995 | Possagno | |
32° | — | Capitolo generale ordinario | 21.7-9.8.2001 | Possagno | |
33° | — | Capitolo generale ordinario | 16.7-3.8.2007 | Possagno | |
34° | — | Capitolo generale ordinario | 1-17 agosto 2013 | Roma | |
35° | — | Capitolo generale ordinario | 16.7-1.8.2019 | Morlupo (Roma) |
1. L’inizio del XX secolo
1.1. I tempi del pontificato di papa Pio X nella chiesa e nel mondo
Si è trattato sopra di Giuseppe Melchiorre Sarto patriarca di Venezia; ora è tempo di spendere qualche parola sul suo pontificato (1903-1914) che nella nostra Congregazione corrisponde ai mandati e al periodo dei prepositi P. Giovanni Chiereghin (1900-1904), P. Vincenzo Rossi (1904-1910), P. Antonio Dalla Venezia (1910-1913) e all’inizio del primo mandato di P. Augusto Tormene (1913-1922).
Eletto papa il 4 agosto del 1903, Pio X da subito diede l’impressione di essere rimasto quello di una volta, ovvero che c’era ora un papa pastore per eccellenza. Era la prima volta infatti dopo secoli che veniva eletto un papa che non aveva ricoperto cariche nella curia romana, ma che proveniva dalla pastorale, avendo percorso tutte le fasi della vita di chiesa e della pastorale, in mezzo al suo gregge, a dei livelli sempre più ampi. Inoltre proveniva dal Veneto, terra tradizionalmente di cristianità e d’integrismo. Vi si era occupato, da buon pastore, della salvezza spirituale, ma anche del benessere materiale e intellettuale dei suoi fedeli, della formazione dei seminaristi e del clero, della fedeltà dei preti e dei consacrati, della loro fermezza e della loro ortodossia. Non aveva ignorato la politica, favorendo l’alleanza a livello locale tra cattolici impegnati e liberali moderati, per respingere gli anticlericali e i socialisti.
Arrivato alla cattedra di Pietro, continuò coerentemente nella stessa attitudine e nella stessa pratica pastorale di un tempo. Si fece notare per la sua bontà e semplicità paterna, l’ampia accoglienza delle folle, la sua affabilità, e anche per la sua figura sorridente e amabile al punto che fu soprannominato «il papa buono». Il suo aspetto molto semplice e le sue abitudini di vita piuttosto modeste lo distinsero nettamente dalla solennità ieratica del suo predecessore. Dedicò un’attenzione particolarmente benevola verso l’infanzia (ciò che senza dubbio fu molto apprezzato anche dall’istituto Cavanis), alla quale aprì l’accesso frequente e precoce all’eucaristia, e per cui fece pubblicare il piccolo catechismo che fu chiamato dal suo nome “Catechismo di Pio X”. Esso fu utilizzato almeno sino agli anni ‘60 del secolo XX. Questo catechismo, come diversi testi analoghi precedenti apparsi dopo il Concilio di Trento, aveva il grave difetto di concentrare la dottrina cristiana e cattolica nella struttura, magra come uno scheletro, di domande e risposte, non attraendo né i bambini né tutti gli altri, mancando del sapore e della poesia del mistero divino. Aveva d’altro canto il vantaggio, che oggi si è quasi del tutto perso dopo il concilio Vaticano secondo, nella catechesi dei bambini e degli adolescenti, di favorire la memorizzazione e l’acquisizione chiara e duratura delle verità di fede.
Pio X fu anche un papa che diede molta importanza al diritto canonico, che fece riorganizzare in un’opera immensa e preziosa, sintetica e pratica, in quello che sarà il Codice di Diritto Canonico, promulgato tre anni dopo la sua morte dal suo successore, Benedetto XV, nel 1917.
L’istituto Cavanis, come gli altri, dovette allora adattare le sue costituzioni al nuovo codice, introducendo fra le altre cose – con un po’ di tristezza, ancora una volta – i voti perpetui e il sessennio anziché il triennio come periodo di ogni mandato dei prepositi.
Se l’atteggiamento di papa Leone XIII, come si diceva sopra, era stato quello di una notevole apertura rispetto ai suoi tempi, a riguardo del mondo della cultura e della ricerca, e anche al concetto stesso delle libertà, mostrando della simpatia per le teorie, i metodi, lo stile di ricerca che si chiamavano «moderne» e negli ambienti conservatori erano chiamate «moderniste», l’atteggiamento di Pio X fu piuttosto diverso.
In realtà, in contrasto con il suo aspetto pacifico e con la sua pratica pastorale aperta, mostrò sin dagli inizi, forti riserve verso la modernità e ancor più verso le idee teologiche giudicate moderniste, così come al modernismo in politica e nel sociale. «In questo campo durante gli undici anni di questo pontificato si sviluppò ‘un rigore un po’ manicheo, che si accentuò nel corso degli ultimi anni’». Tra l’altro, la commissione biblica fu riorganizzata in ciò che sembrava piuttosto «un tribunale che decideva della dottrina in materia di esegesi».
A fianco al cardinale Raffaele Merry Del Val, segretario di stato, e di altri cardinali della curia, fortemente antimodernisti, c’erano in questo campo, tra i membri dell’entourage del papa, in maggior parte preti veneziani, che erano già di suo fortemente integristi e che montarono volentieri sul cavallo dell’indurimento papale per dedicarsi a una «caccia alle streghe» che valicò troppo spesso i limiti della carità e della giustizia. L’avversario più duro delle idee moderne ed eventualmente audaci era il Sodalitium pianum, noto anche come «la sapinière”, ossia l’abetaia, una società segreta e una rete di informazioni, fondata da monsignor Umberto Benigni dal 1909, che si dedicava soprattutto alla lotta contro il modernismo.
Purtroppo si creò così un’atmosfera di sospetti, di sorveglianza, di delazione e di vero spionaggio nel seno del clero, delle università ecclesiastiche e dei seminari, un clima che divenne pesante e insopportabile e suscitò le proteste da parte degli ecclesiastici più coraggiosi, spesso in pericolo di essere tacciati anch’essi di essere modernisti.
Molti libri furono messi all’Indice, dei professori furono allontanati dall’insegnamento, il terrore panico dell’eresia portò alla pubblicazione di una specie di nuovo Syllabus (17 luglio 1907) di 65 proposizioni condannate. La Sede romana chiese ai vescovi di istituire delle commissioni di vigilanza, con risultato variabile. Ci furono numerose scomuniche personali e alcune istituzioni teologiche e bibliche furono minacciate.
Il papa rese obbligatorio (tranne che in Germania) la prestazione del «giuramento antimodernista», orale e scritto, da parte di tutti i chierici e dei seminaristi, da rinnovare rispettivamente in occasione dell’accesso a cariche di chiesa e dell’ammissione agli ordini sacri, come pure negli istituti religiosi. Il testo del giuramento faceva riferimento al testo del decreto del 1907. Si continuò a prestare questo giuramento fino al 1966, quando grazie a Dio fu abrogato da Paolo VI dopo il concilio Vaticano secondo.
La Congregazione delle Scuole di Carità non ebbe problemi in questi tempi di lotta antimodernista, e come lei, il P. Casara (o la sua memoria, dopo la sua morte), che invece ne aveva avuti negli anni ‘80 del XIX secolo, dovuti allora alla sua accettazione e difesa del sistema rosminiano. Si esprime qui l’ipotesi di lavoro, da verificare, che i membri dell’istituto fossero in perfetta sintonia con le misure antimoderniste di Pio X.
Per quanto concerne la politica interna italiana e la politica della chiesa che è in Italia, Pio X sciolse (1904) l’Opera dei Congressi, che soffriva di dissidi interni e favorì (1906) l’Unione popolare dei cattolici, che si proponeva di creare una piattaforma elettorale cattolica in vista delle elezioni, di controllare i candidati cattolici, di controbattere gli anticlericali.
Si parlava molto di guerra negli ultimi anni di vita di questo papa, la si sentiva imminente, e ci si stava riarmando. Le guerre dei Balcani (a partire dal 1909) fu una fase preliminare che avrebbe potuto mettere in allarme anche la Santa Sede; ma questa appoggiò la guerra d’Italia in Libia (1911-12) e non reagì a quelle dei Balcani; mostrò invece una certa posizione favorevole ai nazionalismi e in particolare alla monarchia degli Asburgo. Il papa tentò in qualche modo di intervenire alla vigilia della prima guerra mondiale, ma dato che si era occupato della vita interna alla chiesa piuttosto che della diplomazia del Vaticano, non venne ascoltato dalle grandi potenze. In tutti i casi non sarebbe stato ascoltato lo stesso, come accadde per il suo successore Benedetto XV. Il papa Pio X morì in seguito a un problema cardiaco, probabilmente una pericardite, la notte tra il 20 e il 21 agosto 1914, angosciato per la tragedia che si stava abbattendo sull’Europa e sul mondo intero.
Alla morte di Pio X si cominciò a capire che una posizione così estrema e violenta di difesa dell’ortodossia aveva dei risultati nefasti, perché, se da un lato si presentava un simbolo di fede che rassicurava i semplici, dall’altro si otteneva una manipolazione della stessa ortodossia da parte di poteri occulti dall’alto e si distruggeva la libertà di ricerca e la pace nella Chiesa.
Pio X è stato dichiarato beato il 3 giugno 1951 e santo il 20 maggio 1954 da Pio XII.
Questo papa mantenne, appunto da papa, un rapporto molto amichevole con l’istituto Cavanis. Tra l’altro ne fa fede il fatto che il nuovo papa, eletto il 4 agosto e incoronato il 9, ricevette in udienza il 5 agosto 1903 il P. Vincenzo Rossi futuro preposito dell’Istituto, e questi fu “quasi il primo che ricevette del Veneto e di gran cuore benedisse l’Istituto, augurandogli dal Cielo ogni bene”.
1.1.1 Missioni e colonie
Si dirà più sotto, parlando del passaggio dal secolo XIX al XX, che le potenze europee, come pure gli Stati Uniti d’America, si ritenevano nel diritto di dominare il mondo, anzi quest’epoca di passaggio costituisce un momento di rilancio di tale dominio. La chiesa – o meglio, gradualmente, le chiese – approfittava di questa nuova avanzata coloniale: i missionari accompagnavano o addirittura precedevano i commercianti, le imprese commerciali e i militari e entravano in qualche modo, spesso in buona fede, ma in modo assolutamente acritico, nelle schiere dei nuovi “Conquistadores”, secondo lo schema iniziato dalla Spagna e dal Portogallo sul finire del secolo XV e nel XVI.
I tempi di papa Leone XIII e Pio X sono allora tempi di un nuovo balzo in avanti dell’evangelizzazione dei popoli, soprattutto ma non esclusivamente per quanto riguarda il continente Africano.
Proprio in questo campo si vedrà chiaramente, tra l’altro, la collusione piuttosto ambigua tra missionari cattolici e l’organizzazione coloniale dell’“Impero”, anche per quanto riguarda la piccola Italia, giovane regno, entrata tardivamente nella logica imperialistica, durante le campagne di conquista dell’Eritrea e il primo, tra l’altro assolutamente inefficiente, tentativo di invadere l’Etiopia, interrotto dalla battaglia e dalla tragica sconfitta di Adua (1° marzo 1896); nella guerra di Libia (1911-1912); più tardi nell’occupazione della Somalia (1889) e nell’effimera e crudele conquista dell’Etiopia (detta anche seconda guerra italo-etiopica); 3 ottobre 1935 -9 maggio 1936; dove l’Italia dominò, con qualche difficoltà e soltanto fino al dicembre 1941, quando venne sconfitta su questo fronte dalle forze armate del Regno Unito e alleati.
Nel caso dell’Etiopia, quando Mussolini aggredì e invase questo stato sovrano, a prevalenza cristiana, membro della Società delle Nazioni, senza dichiarazione formale di guerra (3 ottobre 1935), Pio XI, pur disapprovando personalmente l’iniziativa italiana, rinunciò a condannare pubblicamente la guerra. All’unico intervento di condanna del papa (27 agosto 1935) avevano fatto seguito richiami e intimidazioni del governo italiano nel corso dei quali era intervenuto lo stesso Mussolini: il papa non doveva parlare della guerra se intendeva mantenere buoni rapporti con l’Italia. Dalla posizione di silenzio tenuta ufficialmente da Pio XI sul conflitto nacque l’immagine di un allineamento vaticano alla politica di conquista del regime: se il papa taceva e se permetteva che vescovi, cardinali – tra l’altro il patriarca di Venezia –, intellettuali cattolici benedicessero pubblicamente “l’eroica missione di fede e civiltà dell’Italia in Africa”, significava che, in sostanza, approvava quella guerra e che lasciava dire all’alto clero quanto non poteva affermare direttamente per il carattere sopranazionale della Santa Sede.
L’Istituto Cavanis si è tenuto al di fuori di questa epopea e retorica della conquista territoriale accompagnata dall’evangelizzazione, in cui le società “Dante Alighieri” si accompagnavano alle missioni, e la lingua italiana era insegnata insieme al catechismo e al vangelo. Sarebbe interessante studiare se l’Istituto si era tenuto fuori di questo movimento missionario compromesso con le colonie per convinzione e per scarsa simpatia verso il fascismo, o per la solita “mancanza di operaj”, di cui si era parlato spesso in passato; o se ancora una volta si trattava semplicemente di aver ignorato la politica internazionale e la possibilità che si apriva. Bisognerà scoprire almeno se c’erano stati degli inviti all’Istituto ad aprire case nei nuovi possedimenti territoriali dell’Italia.
Per proporre un esempio tra tanti, fuori dell’area di influenza italiana, un caso tipico di collusione tra la chiesa cattolica missionaria e l’organizzazione coloniale piuttosto perversa, proprio in questo tempo, tra l’ultimo quarto del XIX secolo e la prima metà del XX, si può portare il caso del Congo-Kinshasa, chiamato prima, a livello di progetto e di realizzazione iniziale di una colonia non dichiarata, A.I.C., cioè “Associazione internazionale per l’esplorazione e la civilizzazione del Congo” (1882-85); più tardi E.I.C., cioè “Stato Indipendente (?) del Congo”, proprietà totalmente personale del re dei Belgi pro tempore Leopoldo II (1885-1908), poi Congo Belga, cioè una vera colonia del Belgio (1908-1960), poi, dopo l’indipendenza (30 giugno 1960) chiamato in vari modi provvisori e anche secondo le regioni (1960-1965 o 1969), poi Zaire durante il “regno” del famigerato dittatore Joseph Mobutu (1965-1997; ma il nome di Zaire fu assegnato solo nel 1971), poi Repubblica Democratica del Congo (1997 ad oggi).
Il Congo coloniale d’influenza Belga, nelle sue varie fasi fin dal 1885, ma ancor più dopo il 1908, era articolata in un triangolo strutturale con tre apici:
1) l’apparato coloniale, centralizzato e governato dal ministro delle Colonie a Bruxelles, e non dal governatore del Congo insediato nella capitale, che era all’inizio situata nella piccola “stazione” di Vivi, poi a Boma e poi a Leopoldville;
2) le grandi imprese commerciali, di raccolta (del caucciù e dell’avorio soprattutto, poi del caffè e altro) e di estrazione minerale (in quei tempi soprattutto diamanti, rame, poi uranio);
3) la Chiesa cattolica, con le sue missioni, il quasi totale monopolio della scolarizzazione, quasi esclusivamente primaria per gli autoctoni, della sanità, dell’evangelizzazione. I missionari nei primi decenni erano quasi esclusivamente e obbligatoriamente belgi, in genere religiosi; all’inizio c’erano sul posto soprattutto i Padri francesi dello Spirito santo o Spiritani e i Padri Bianchi, pure francesi; ma furono ben presto estromessi o messi al margine della colonia e sostituiti da Leopoldo II con del clero e dei religiosi e religiose belgi, tra cui i padri e anche le suore, belgi e belghe, di Scheut, ossia la Congregazione del Cuore Immacolato di Maria-CICM.
Da notare che esistevano in abbondanza (minore) anche i missionari protestanti, anglicani ed evangelici in genere, entrati soprattutto dai paesi dell’Africa dell’Est, di colonizzazione prevalentemente anglo-sassone e tedesca; ma essi non rientravano nel triangolo suddetto, cioè nella struttura portante della colonia: erano al massimo sopportati dal re Leopoldo II, che era cattolico, anche se crudele, sfruttatore, disonesto e opportunista; e poi dal Belgio, paese a prevalenza cattolica e dai successivi ministri delle colonie, in grande maggioranza cattolici (calcolo in 74% la percentuale dei ministri delle colonie cattolici, dal 1908 al 1960); dal Belgio che aveva anche raggiunto un concordato con la Santa Sede nel 1906.
Quando si visitano i cimiteri delle più antiche comunità religiose maschili e femminili a Kinshasa, a Kisantu e in genere nel Congo, si rimane impressionati per il grande numero di religiosi e religiose belgi morti in giovane o giovanissima età, in genere per febbri, malaria, malattia del sonno o febbre tifoide soprattutto, negli ultimi 15 anni del secolo XIX e nelle prime due o tre decadi del XX. Morti a 22, 25, 28, 30 anni. Morivano come mosche, poco dopo essere arrivati, magari prima di imparare che situare le case religiose e le missioni sulle colline anziché sulle rive dei fiumi poteva fare la differenza; eppure molti altri, giovani e ragazze, continuavano ad venire in Congo a sostituirli, ben sapendo che andavano a morire, con molta probabilità. Non si può dunque dubitare della loro buona volontà e buona fede. E senza dubbio essi compirono grandi gesti di carità e d’impegno missionario.
Eppure stupisce e scandalizza, anche considerando che le idee di quel tempo erano differenti da quelle attuali e pur cercando di inquadrare i fatti nella loro epoca, che quei missionari, uomini e donne, stavano collaborando non solo con il regno di Dio, ma anche con un regno di questo mondo, nel caso specifico, un regno sanguinario e sfruttatore.
Stupisce e addolora, tra l’altro, sapere che non sono stati i missionari cattolici, evidentemente compromessi con il sistema e per il fatto che erano in grande maggioranza, come si è detto, di nazionalità belga; ma dei missionari evangelici – all’opposizione, anche perché spesso americani, inglesi, svedesi, e per di più mal accolti dal governo coloniale “cattolico” – i primi a denunciare il genocidio che veniva praticato, con milioni di morti, mani mozzate ai cadaveri dei neri, per dimostrare di averli uccisi, mozzate a volte anche ai vivi; sfruttamento di massa; tassazione in natura, soprattutto con la raccolta obbligatoria e la consegna alle autorità fiscali di quantità enormi di caucciù e di altri prodotti; imposizioni di massa di corvée, fornitura gratuita e obbligatoria di cibo alle missioni e alle stazioni dell’EIC, di trasporto gratuito di persone e merci, in una situazione di vero lavoro forzato.
Ci furono appunto denunce da parte di commercianti (1903) e di missionari protestanti (dal 1899); ne seguirono interpellazioni e una risoluzione di condanna alla camera dei comuni di Londra (1903) e una richiesta di informazioni al console britannico a Boma da parte del Foreign Office (1903) e una certa pubblicità anti-belga nella stampa mondiale. Questi fatti dettero origine a due inchieste, un’organizzata e compiuta personalmente dal console britannico nell’EIC Roger Casement, con sede a Boma (con pubblicazione di una relazione ufficiale nel 1904, il Rapport Casement) e una contro-inchiesta effettuata da una commissione mista di tre membri (un belga, un italiano e uno svizzero) organizzata dallo stesso sistema coloniale belga (1904-1905): ambedue le relazioni confermarono sorprendentemente le gravissime accuse, praticamente di genocidio.
Non pare tuttavia che la Chiesa cattolica, in Congo, in Belgio o a Roma, sia intervenuta con una condanna ai metodi coloniali bestiali denunciati e confermati.
Furono proprio questi crimini e il movimento di denuncia soprattutto anglo-sassone e francese che costrinsero il re del Belgi Leopoldo II, sia pure con lentezza e con varie proroghe, a cedere il suo impero personale al Belgio come regolare colonia (1908), con qualche leggero miglioramento nei metodi. Il re del resto morì l’anno successivo.
Sarà bene ricordare a questo punto, di passaggio, che l’Istituto Cavanis approderà al Congo-Kinshasa molto più tardi, solo il 21 gennaio 2004, in tutt’altro contesto storico e politico, e vi si dedica all’educazione, all’alimentazione e alle cure in forma completamente gratuita di bambini e ragazzi poverissimi, per lo più orfani e/o abbandonati, senza nessun compromesso con l’establishement.
Questo autore tuttavia ha sempre insistito e insiste con i confratelli e con gli altri agenti pastorali dell’Istituto, dall’inizio e fino ad oggi, e lo fa anche in queste pagine, che l’impegno dell’Istituto Cavanis in Congo è per ora prezioso sì, ma di tipo assistenziale, e che bisogna aggiungervi un forte impegno nella lotta per la giustizia e in particolare per l’educazione, l’alimentazione, la sanità e in genere i diritti umani, soprattutto dei bambini e dei giovani. La Justitia et pax deve essere considerata e praticata prima dell’assistenza: in Africa, in America latina, in Asia.
1.2 L’inizio del XX secolo nel mondo
Al passaggio dal secolo XIX al XX, le potenze europee e gli Stati Uniti d’America si ritenevano nel diritto di dominare e sfruttare i continenti extraeuropei e i loro popoli, da un lato perché ne avevano semplicemente la capacità e il potere tecnologico-militare per farlo; per altro lato perché essi si ritenevano superiori a tutti gli altri popoli, per motivi razziali e, peggio, razzisti, ideologici e anche – in modo del tutto falso – sotto la prospettiva religiosa e perfino biblica.
Spesso allegavano – esattamente come nel caso citato sopra di Leopoldo II – che il loro scopo era prima di tutto quello di civilizzare, evangelizzare, cristianizzare il mondo. Si era detto anche al tempo dell’invasione europea nelle due Americhe, con il risultato invece che si erano distrutte delle grandi civiltà (Aztechi, Incas, Maya) e si erano sterminati o a volte integrati malamente gli indigeni dell’America del Nord e dell’America Latina.
Il nuovo secolo, il XX, che sarà il secolo delle guerre più spaventose e di enormi stragi, di veri genocidi, cominciava sotto il segno di tre guerre svolte in continenti extraeuropei, guerre che si possono definire, in qualche modo e con tristezza, di tipo moderno, cioè guerre dalla tecnologia militare avanzata, caratterizzate da nuovi tipi di strategia (guerre di trincea più che guerre di movimento), condotte anche dall’emergere di nuove potenze, anche extraeuropee.
Si tratta in primo luogo della guerra dell’Inghilterra contro i Boeri (1899-1902), cioè i coloni di origine olandese insediatisi prima degli inglesi nell’Africa meridionale, allora quasi disabitata. Questa guerra ingiusta ha tra l’altro la triste caratteristica di aver “inventato” i campi di concentramento che diverranno così diffusi, purtroppo per tutto il secolo; è stata nuova anche per l’enorme messa in scena di eserciti numerosissimi da parte degli inglesi, per l’aspetto ideologico di odio razziale, per il coinvolgimento massiccio nella strage dei civili, sia bianchi (boeri) sia zulù, e ancora per “la totale indifferenza nei riguardi degli inermi e degli innocenti”. Un vero genocidio, che ne precede tanti altri. Per la Gran Bretagna fu una sorpresa vedere che i loro eserciti riuscirono con molta difficoltà e gravi perdite a vincere un popolo di bianchi, i Boeri, che però non appartenevano a nessuna potenza europea, sebbene nella guerra questi ultimi fossero notevolmente appoggiati dalla Prussia. L’impero britannico ebbe anche seri problemi a dominare gli Zulù. La battaglia di Isandlwana (1879) ne fu un chiao esempio.
La guerra dei “Boxer” in Cina (1899-1901) è stata in realtà una rivolta di elementi cinesi nazionalistici e quindi antioccidentali, appoggiata dopo vari tentennamenti dalla corte imperiale e dalla stessa Imperatrice, all’inizio contro il banditismo che rendeva impossibile la vita nelle campagne cinesi, a causa della decadenza e della debolezza del potere centrale dell’Impero Cinese. Il movimento in seguito era divenuto una rivolta in chiave xenofobica e particolarmente anti-occidentale, contro l’invadenza sempre maggiore delle legazioni occidentali armate europee e statunitensi, delle imprese commerciali, delle ferrovie e compagnie delle linee fluviali controllate dal capitalismo internazionale: e anche delle missioni sia cattoliche sia protestanti.
La rivolta, dopo un lungo assedio dei bianchi nel quartiere delle ambasciate a Pechino, fu duramente e brutalmente repressa con stragi, caccia alle streghe, dissoluzione violenta dei movimenti dei Boxer, imposizione all’impero celeste di una pace durissima e di un’indennità impossibile a pagare. Soluzioni queste che affretteranno la caduta dell’impero cinese e la nascita di una Cina apparentemente democratica, debole e corrotta all’inizio, fortemente ideologizzata, nazionalista e autoritaria poi, e in seguito comunista. Alla reazione contro i Boxer e, in pratica, contro la Cina, avevano partecipato con spedizioni militari di forze di terra e di mare tutte le grandi nazioni occidentali, tra cui emergevano l’Italia e anche il Giappone, oramai sulla via dell’imperialismo di stampo occidentale.
Al disopra delle ideologie razzistiche e delle teologie che volevano giustificare il dominio dei bianchi sui continenti extraeuropei, era il modello di sviluppo occidentale che era vincente, come pure erano vincenti la forma dello stato nazionale, l’accelerazione data alla tecnologia militare dalla seconda rivoluzione industriale, il sistema moderno di trasporti marittimi e continentali, l’educazione di massa, il miglioramento dei sistemi sanitari che permettevano l’accrescimento demografico e favorivano l’emigrazione di massa. Era inconcepibile, all’inizio del XX secolo, che una potenza extra-occidentale, cioè non appartenente all’élite bianca – la sola che avesse, come si credeva, la vocazione di dominare e “civilizzare” il mondo – potesse entrare in conflitto con una potenza occidentale e batterla per terra o per mare. Eppure fu ciò che accadde nella guerra russo-cinese dell’inizio del secolo XX, e fu un brusco risveglio non solo per la Russia zarista, ma per tutto l’occidente.
Il Giappone da alcuni decenni si era autoriformato in una monarchia di tipo nazionale e nazionalista moderna, aveva abolito la feudalità, riorganizzato l’esercito, creato quasi dal nulla una marina moderna, istituito la coscrizione obbligatoria e l’educazione di base gratuita e obbligatoria, creato un’industria leggera e poi pesante di tutto rispetto. Aveva preso la Francia come modello di organizzazione statale, la Prussia (e poi la Germania) come modello militare e come maestra di strategia e di tattica, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti come modello nell’area industriale e commerciale.
La contesa avvenne perché sia il Giappone sia la Russia zarista volevano controllare la Corea, la Manciuria (il nordest della Cina) e alcune isole del Pacifico Nord-occidentale. Il Giappone prese l’iniziativa togliendo alla Cina Formosa e Corea, e impegnandosi per dominare imperialisticamente il sub-continente cinese. La Russia reagì militarmente, volendo dare una lezione ai “musi gialli” con una forma politica del tutto sorpassata, quella delle “cannoniere”.
La guerra iniziò nel febbraio 1904. La nuova flotta moderna giapponese distrusse la flotta russa e prese la loro base, a Port Arthur in Cina; le truppe di terra giapponesi poi trionfarono nella battaglia di Munkden, nella pianura antistante il golfo di Liaodong. Persa la flotta del Pacifico, l’impero russo inviò la sua grande flotta del Baltico, con 26 unità che dopo la circumnavigazione, di circa 20.000 miglia marittime, dell’Europa occidentale e dell’Africa, giunse di fronte al Giappone. Gli equipaggi stremati dal lunghissimo viaggio di sette mesi, nel maggio 1905, arrivati nel mar Giallo, si trovarono di fronte la flotta giapponese al completo che bloccava lo stretto di Tsushima, fra la Corea e il Giappone. La flotta russa attaccò, sicura della sua forza. Imprevedibilmente, si trovò a combattere contro una flotta moderna, di stile “occidentale”, con una strategia e una tattica moderna, e fu inesorabilmente travolta e sconfitta. Le migliori navi di linea dello zar finirono in fondo al mare. La battaglia di Tsushima e tutta la guerra russo-giapponese fu uno shock per la Russia e per tutto l’occidente. La situazione internazionale stava cambiando. Se ne sarebbero accorti più tardi Inghilterra, Francia, Olanda e Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, la Francia anche a Dien-Bien-Phu (1954) e in Algeria, i nordamericani in Vietnam, Sovietici e Stati Uniti in Afghanistan e questi ultimi anche in Iraq, così via.
1.3 L’inizio del XX secolo in Europa
Si ha l’abitudine di definire il passaggio dall’ottocento al novecento la belle époque: era naturalmente tale per i ricchi e i benestanti; non per i contadini, gli operai, gli emigranti e i disoccupati. La caratteristica principale di questi decenni è la crescita dello stato-nazione, posto al centro del potere dalla seconda rivoluzione industriale, dal nazionalismo, dalla crescita demografica, in una società che cominciava a divenire di massa, dalla rapida evoluzione della tecnologia militare. Questi tipo di stato era necessario per il decollo industriale, per costruire e mantenere l’impero coloniale, per mantenere delle forze armate forti e tecnicamente aggiornate, per sviluppare il mito e il culto della nazione armata, per tutelare i cittadini nel campo della previdenza e i bambini e giovani in quello dell’educazione di stato. Funzioni prima riservate a gruppi privati, come chiese o associazioni, o ancora alle comunità locali, venivano ora controllate da élites che controllavano e organizzavano il territorio nazionale dalla capitale.
All’inizio del secolo XX, a parte le tre guerre ricordate sopra, che sono molto significative al riguardo dello stile del secolo che si apriva, si notano i seguenti fatti principali, solo per dare alcuni esempi.
La Francia, nella terza repubblica (dal 1870) si presenta fortemente democratica, sempre più laica e spesso anticlericale – ma a vote bigotta, nazionalista, nel complesso antisemita, con tentazioni a volte autoritarie a volte populiste, progressivamente più imperialista (protettorato in Tunisia, 1881; occupazione dell’Amman, al centro dell’attuale Vietnam (1883) e del Madagascar (1895); e piuttosto militarista, con un riarmo crescente. Vi si nota l’avanzata dei ceti medi; la separazione della chiesa dallo stato (1905): la presenza di radicali di destra, ma anche di gruppi anarchici e socialisti (partito socialista, 1905); numerose progressive riforme di carattere sociale ed economico; un’alleanza con la Russia e l’“Entente cordiale” con la Gran Bretagna (1904), che dà inizio alla spartizione di larghe porzioni del mondo tra Francia e il Regno Unito.
La Gran Bretagna, con la Francia, nonostante fosse una monarchia, era l’unico impero mondiale a disporre di un vero parlamento, dotato di reali poteri legislativi. Il paese prosperava ancora dal punto di vista economico, produttivo, industriale soprattutto e commerciale, e allargava continuamente il suo impero coloniale; la sua flotta era imponente e controllava ancora i mari e gli oceani. La sua influenza, particolarmente in Africa, in India e adiacenze, in Canada, in Australia e adiacenze, era aumentata e continuava a crescere nel maggiore impero coloniale del mondo. Dimostrava un grande interesse per il Medio Oriente, zona chiave per l’unità dell’impero, soprattutto dopo la costruzione del canale di Suez e la scoperta delle immense potenzialità petrolifere dell’Arabia e della Mesopotamia. Anche la Gran Bretagna, naturalmente, si armava, e molto, per conquistare e mantenere le sue colonie e dominions e per prevenire attacchi da parte delle altre potenze europee. Come queste, spendeva un quarto del bilancio in armamenti, particolarmente per la marina da guerra.
La Germania continuava la tradizione militarista e bellicista della Prussia. Fondata, in qualche modo, dopo il 1870 da Bismarck, cancelliere fino al 1890, questi l’aveva governata con il fine di farne lo stato più forte dell’Europa, con mire soprattutto verso la porzione centro-orientale del continente europeo. La sua principale preoccupazione era quella di mantenere separate la Francia, desiderosa di rifarsi, dopo la guerra franco prussiana del 1870, e il grande impero della Russia: se queste di fatto si fossero alleate – come poi fecero tra il 1892 e il 1894 – la Germania sarebbe stata chiusa in una morsa tra due fronti.
Per il Kaiser Guglielmo II, che regnò e imperò dal 1888 al 1918, la visione era più ampia. Voleva che la Germania si proiettasse come una grande potenza a livello mondiale, e sviluppò quindi l’industria, soprattutto metallurgica e chimica, l’economia, e prima di tutto le forze armate. Le industrie furono impegnate in una violenta corsa agli armamenti, sia nella poderosa marina, sia nelle truppe di terra. Vi si accompagnerà più tardi l’aviazione.
La Germania era entrata troppo tardi, in parte appunto per il programma europeo di Bismarck, a formarsi un impero coloniale, e dovette accontentarsi (come d’altra parte l’Italia) dei rimasugli, come iene in un paese di leoni: piccole colonie marginali, senza contatti diretti tra loro, molto spesso in zone poco produttive: Tanganika, Africa di SW (Namibia attuale), Togo, Cameroun, e alcune isole o arcipelaghi del Pacifico. All’inizio del secolo la Germania si sentiva senza spazio vitale, senza una vera presenza fuori d’Europa, un gigante militare-industriale accerchiato fra la Francia risuscitata a ovest e l’impero russo a est.
L’esteso impero austro-ungarico aveva un’apparenza di potenza, di ordine, di benessere e di buona organizzazione interna; era tuttavia decadente, ricco di contrasti tra i molti paesi e le molte genti inglobate, e di fermenti autonomisti e di indipendenza. Era privo di colonie nei continenti extraeuropei, in compenso occupava come colonie varie regioni d’Europa, come il Tirolo italiano, Trieste e la Venezia Giulia, e soprattutto i Balcani, che divideva con l’impero ottomano, pur lasciando in mezzo qualche stato cuscinetto, su cui tuttavia manteneva o tentava mantenere un notevole controllo. Sarà proprio dal Balcani dominati dall’egemonia austro-ungarica che scoccherà la scintilla della prima guerra mondiale.
Da notare che, dopo che nel 1866 il Veneto era passato dall’Austria al Regno d’Italia, l’Istituto Cavanis aveva cercato episodicamente di mantenere qualche rapporto con Vienna – anche perché a differenza dell’Italia era un regno a governo cattolico – e particolarmente con membri della casa reale e con nobili che tradizionalmente avevano protetto e aiutato l’Istituto; ma i risultati erano stati molto modesti o assenti e gradualmente, comunque ben prima della fine del secolo XIX – i tempi di P. Casara – s’interromperanno del tutto i rapporti.
I tre imperi, tedesco, austro-ungarico e ottomano o turco, che si sentivano isolati e circondati dagli altri paesi europei, tendono in questo periodo ad approssimarsi e allearsi, formando il blocco degli imperi centrali, nome del resto piuttosto inappropriato, soprattutto per il terzo paese.
La Russia era un gigante addormentato e arretrato; l’agricoltura tradizionale, estensiva, era l’attività prevalente; l’industria pesante era quasi inesistente, le disparità sociali erano enormi, il potere era eccessivamente accentrato anche per l’epoca e tradizionalmente di carattere poliziesco. Lo zar Nicola II Romanov (1894-1918) e il suo governo si trovavano stretti dalla borghesia timidamente emergente, che chiedeva forme di governo più liberali e parlamentari, praticamente inesistenti, dal sorgere del partito socialdemocratico di ideologia marxista nel 1898, dalla minaccia tedesca a ovest, dalla stessa enormità del compito di governare, con i mezzi ancora limitati dell’epoca, un territorio immenso, tra Europa e Asia, esteso fino ai mari della Cina e del Giappone. La sconfitta del 1904-1905 inflitta da quest’ultima nuova potenza aveva umiliato il paese e soprattutto le forze armate, con il risultato di una vera rivolta armata, che fu repressa sanguinosamente dalle truppe dello zar nel 1905. Si preparavano altre rivoluzioni ben più significative.
Alle principali potenze europee si può qui aggiungere qualche parola sugli Stati Uniti d’America, la grande potenza democratica emergente in quest’epoca a livello internazionale. Questo grande paese ha la caratteristica del melting pot di razze; tra i bianchi, alle razze nordiche (anglo-sassoni, tedeschi, scandinavi), si aggiunge in quest’epoca a cavallo tra i due secoli una grande emigrazione di abitanti dell’Europa meridionale, in maggioranza molto poveri e senza specializzazioni. Molti tra questi sono italiani. La crescita nella produzione agricola, industriale e commerciale è sorprendente, tanto da superare all’inizio del ‘900 in molti campi (petrolio e acciaio per esempio) la metà della produzione mondiale.
Il paese era per il momento isolazionista e protezionista. La scalata sociale era possibile e il self made man era il mito nazionale. Si erano ormai praticamente distrutte o chiuse in riserve le nazioni indiane locali. Ci si volgeva a dominare le nazioni estere; e sono proprio i presidenti riformatori all’interno che sviluppano un inizio di imperialismo esterno: basta pensare alla pericolosa dottrina Monroe, alla guerra alla Spagna (1898) in cui gli USA occupano Cuba e Filippine, oltre a istituire loro basi a Portorico e a Guam. L’imperialismo non aveva tuttavia ancora la forza militare corrispondente, ma il paese tendeva ad uscire dall’isolazionismo. In conclusione, democrazia all’interno, crescita impressionante, blando imperialismo – per il momento – all’esterno.
1.4 L’inizio del XX secolo in Italia
Il secolo XX era cominciato drammaticamente in Italia, con l’assassinio del re Umberto I, il terzo della dinastia Savoia come re d’Italia da parte dell’anarchico Bresci a Monza il 20 luglio 1900. Chiamavano Umberto “il re buono”. Tuttavia, durante il suo regno l’esercito aveva massacrato degli operai e popolani, sparando a zero sulla folla a Milano. Gli succedeva Vittorio Emanuele III, una figura di re molto basso di statura, debole, incerto, succube più tardi di Mussolini, causa con molti altri dell’assurda partecipazione dell’Italia a fianco della Germania nella seconda guerra mondiale, che costò a lui e alla sua dinastia il rifiuto dell’Italia di continuare a essere una monarchia e a divenire una repubblica (1946). Lo chiamarono “il re soldato”, per la sua partecipazione personale, in prima persona, realmente coraggiosa, sui fronti della prima guerra mondiale. Nella seconda guerra mondiale si comportò in modo molto meno partecipativo e troppo pavido, specie con la triste fuga da Roma a Pescara e poi a Brindisi (9-10 settembre 1943).
Alla morte di Umberto I e all’accessione al trono di Vittorio Emanuele III, l’Italia cominciava ad entrare nel ruolo delle società industriali di massa, anche se per la verità tale situazione coinvolgeva molto più il nord, soprattutto il triangolo industriale Milano-Torino-Genova. Il sud d’Italia e il Veneto ne restavano largamente fuori, mantenendosi in un’economia di tipo agricolo e artigianale. Inoltre il paese stava uscendo dall’ombra e dalla “minore età” e stava assumendo il ruolo di una media potenza in Europa e nel mondo. Si rafforzavano il desiderio e in parte il successo di costituire un impero coloniale in Africa settentrionale e orientale, nella zona del Corno d’Africa, già iniziato verso la fine dell’ottocento. L’Italia però, come la Germania, era arrivata tardi sulla scena del colonialismo internazionale, e si era dovuta accontentare delle briciole, incontrando una certa approvazione della Francia nella conquista della Libia (1911-12), di cui si parlerà, e l’opposizione di tutte le potenze per quanto riguarda l’Africa orientale.
Il parlamento italiano passava da una forma fortemente oligarchica a forme più democratiche e liberali. La scuola di stato ampliava gradualmente l’offerta formativa, le forze armate si rafforzavano moderatamente, il miglioramento della situazione sanitaria, soprattutto a nord e centro, permetteva e permetterà ancor più nella cosiddetta “era fascista” un notevole aumento demografico. La povertà è tuttavia ancora forte nelle campagne e nelle periferie delle città, e provoca una notevolissima emigrazione, con lo svantaggio di costringere all’espatrio una quantità di cittadini e di sottoporli alla sofferenza dell’esilio, e il vantaggio di arricchire il paese con la diminuzione delle bocche da sfamare in patria e con le rimesse di denaro in valute pregiate, da parte degli emigranti ai loro familiari rimasti in patria, e quindi al paese.
La prima fase della storia del regno d’Italia, quella governata da uomini che avevano partecipato al Risorgimento, si conclude sul finire del XIX secolo, con la sparizione di Francesco Crispi, siciliano, travolto con il suo governo dalla disfatta di Adua in Eritrea (1° marzo 1896), mentre cercava di riprendere le guerre coloniali e di entrare in Etiopia.
Il paese cambiava. L’industria si sviluppava e occupava masse sempre più rilevanti, in genere in una situazione di sistematico sfruttamento del lavoro. Al nord, le masse operaie, sempre più numerose, si organizzavano in sindacati e soprattutto nel Partito socialista italiano, sorto a Genova nel 1892. Le leghe contadine accompagnavano il movimento, soprattutto nella pianura del Po. Il divario economico e sociale tra nord e sud aumentava anziché diminuire, l’analfabetismo diminuiva, sia pure con calma.
Le elezioni del 1900, tenute subito dopo la morte di Umberto I, introdussero nel parlamento forze nuove e un nuovo spirito, con un maggiore interesse per le questioni sociali ed economiche, e con il programma di uno stato più capace di intervenire nel paese, piuttosto di controllarlo, come era stato il programma degli antichi liberali conservatori. Dopo una serie di governi effimeri, fu più significativo il movimento o corso liberale di stampo nuovo (1901-1914), più sensibile ai problemi del popolo e alla presenza in parlamento, pur minoritaria, dei socialisti, dei radicali, dei liberali di sinistra: un movimento, questo, capeggiato da Giovanni Giolitti. I governi Giolitti condussero a un decisivo decollo dell’industria italiana, lo sviluppo d’importanti banche, aumentò le commesse governative alle fabbriche, soprattutto per lo sviluppo delle ferrovie, nazionalizzate nel 1905, e per il riarmo; introdusse l’assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro (1903), il suffragio universale solo maschile (1912). Giolitti tuttavia rimase un oligarca, più che un vero riformatore; fu piuttosto un abile politico o politicante, abile nel giostrare tra sinistra e destra, cercando di non perdere l’appoggio saltuario della prima senza rinunciare a quello della seconda, e riuscendoci soltanto in parte.
Il suo peccato capitale fu quello di condurre una campagna riuscita di sviluppo e anche di riforma in alcuni campi nel nord del paese (nordovest, in particolare: Lombardia, Piemonte e Liguria) ma di lasciare il sud nelle tragiche condizioni quasi feudali di controllo totale del popolo da parte dei grandi latifondisti, che gli procuravano voti a poco prezzo.
Giolitti finì per perdere la collaborazione della sinistra (1912), dove tra gli altri stava comparendo sulla scena un giovane romagnolo, Benito Mussolini, a quel tempo ardente socialista; si rivolse allora a nuovi interlocutori della destra, tra cui i cattolici.
Il conflitto aperto tra lo stato italiano e la chiesa di cui abbiamo parlato ampiamente sopra, si era venuto illanguidendo, soprattutto dopo la contemporanea scomparsa (1878) di due protagonisti importanti del Risorgimento, Pio IX e Vittorio Emanuele II. Già Leone XIII aveva dato segni di apertura, come si è visto.
Pio X, pur severo in tutto ciò che riguardava il modernismo, anche a costo di attenuare il “non expedit”, era favorevole a un avvicinamento dei cattolici ai liberal-costituzionali, piuttosto moderati, “anche per bilanciare il nuovo anticlericalismo di socialisti e radicali”. La chiesa che è in Italia e la stessa S. Sede avevano appoggiato l’intervento italiano in Libia, dando prova, per la prima volta dall’inizio del regno d’Italia, di un atteggiamento considerato patriottico dallo stato. L’anno successivo (1912), il Patto Gentiloni tra Giolitti e i cattolici italiani faceva ancora un passo avanti: in base al patto, i cattolici, con l’approvazione più o meno tacita dei vescovi e della S. Sede, non potendo eleggere candidati cattolici, in base al “non expedit”, avrebbero appoggiato i candidati liberali che si impegnassero a non presentare o appoggiare leggi contrarie alla legge della chiesa, come per esempio il divorzio, o eventuali altre soppressioni e indemaniazioni. Il sostegno a Giolitti fu dato, e il clima tra stato e chiesa si raddolcì.
Anche la politica estera cambiava. L’Italia aveva aderito dal 20 maggio 1882, su propria richiesta, in chiave soprattutto antifrancese, alla Triplice alleanza, aggiungendosi così agli imperi di Germania e Austria-Ungheria e tale alleanza difensiva era stata rinnovata più volte; tuttavia lo spirito antiaustriaco e antitedesco aumentava, nel ricordo dell’antica dominazione e grazie al crescere dello spirito irredentista, cioè del desiderio di ampie porzioni del popolo italiano di vedere finalmente “redente”, cioè assicurate all’Italia, Trento e Trieste e relativi territori: città e regioni del tutto italiane nella lingua e nella cultura, ma ancora sottomesse all’Austria.
Ora, nel tempo dei governi Giolitti e soprattutto nell’ultimo (1911-1914), l’inimicizia con la Francia era piuttosto superata, grazie al muto assenso francese all’avventura italiana di Libia; de resto tale nuova amicizia era stata rafforzata su suggerimento di Giolitti, ancora semplice ministro, con una ripresa di contatti e con un inizio di “intesa” già nel 1902.
L’alleanza con l’impero austro-ungarico, e di riflesso con la Germania, diveniva quindi sempre più aleatorio. Questo antico e nuovo sentimento anti-austriaco e lo spirito irredentista erano favoriti tra l’altro da associazioni come la “Dante Alighieri”, che aveva lo scopo di far conoscere all’estero l’Italia e la sua lingua e cultura, ma anche di mantenere alto il livello di italianità nelle “terre irredente”; il Club Alpino Italiano-C.A.I; la Società Alpinisti Tridentini-S.A.T. e altre.
La posizione internazionale della politica estera italiana non era però ancora evidente: “Nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Italia non aveva scelto da che parte stare; da un lato restava in vigore la Triplice alleanza; dall’altro, i rapporti con Parigi erano stati recuperati. Nell’opinione pubblica e fra gli intellettuali, però, era avvenuto un grande cambiamento; l’idea che fosse possibile a breve recuperare Trento e Trieste, ovvero le province italiane dell’impero austro-ungarico, in nome di un patriottismo che si nutriva ormai di sogni di grandezza imperialistici, accumunava liberali e repubblicani, riformisti e moderati in un tripudio di tricolori e di propaganda al quale la solenne celebrazione del 50° del regno, nel 1911, aveva dato avvio”. Nello stesso anno, appunto in questo clima, si era inaugurato a Roma l’Altare della Patria, che era insieme monumento all’Italia e monumento al re Vittorio Emanuele II e alla dinastia Savoia che “Aveva fatto l’Italia”, anche se non sempre aveva fatto gli italiani.
1.5 Padre Giovanni Chiereghin, preposito generale (1900-1904)
In questa situazione internazionale e nazionale, a Venezia la vita continuava tranquilla in un modesto benessere nella classe alta e media, e in una grande povertà nella classe popolare. Nella città lagunare con la sua struttura urbana medievale, mancava naturalmente spazio per l’agricoltura e quindi per la produzione di cibo, che doveva venire dal continente o dalle altre isole della laguna; l’industria ancora non esisteva, il turismo era sempre presente, come nei tempi antichi, ma non era ancora il turismo di massa attuale, sicché esso non influiva molto sulla vita della città, che viveva piuttosto di artigianato, piccolo commercio e servizi.
L’Istituto Cavanis continuava la sua opera del tutto gratuita di educazione e istruzione della gioventù veneziana, e particolarmente ma non esclusivamente dei bambini e ragazzi poveri, molto numerosi a Venezia – esclusivamente i maschi a quel tempo. Nei primi decenni del XX secolo, iscriversi alle scuole dei Padri Cavanis era una cosa molto ambita, sia per il prestigio e la serietà delle scuole, sia per la loro gratuità. La cosa continuerà del resto anche dopo la seconda guerra mondiale, almeno negli anni ’50 e ’60. Sia i religiosi più anziani sia i miei nonni Giuseppe Leonardi e Giovanni Giada e gli zii, Luigi e Giovanni Adamo Giada, tutti ex-allievi dell’Istituto Cavanis, mi raccontavano che quando arrivava la data annuale dell’iscrizione, a settembre o inizio ottobre, i genitori dei maschietti candidati cominciavano a fare la fila davanti all’Istituto, in Rio terà dei Alboreti, a S. Agnese, già dalla sera precedente, passavano la notte in strada, e molti si portavano delle sedie e delle coperte, e addirittura dei letti! Naturalmente la reiscrizione degli allievi già iscritti l’anno precedente era automatica, e i figli degli ex-allievi erano accolti con gioia.
Poco prima che il patriarca Giuseppe Sarto diventasse papa, la Congregazione delle Scuole di Carità cominciò ad essere governata da P. Giovanni Chiereghin.
Questi era nato a Venezia in parrocchia della Madonna del Rosario, detta dei Gesuati, nelle immediatezze dell’Istituto Cavanis, il 7 maggio 1839. Entrò in Istituto come seminarista il 15 agosto 1856, prese l’abito dei Cavanis l’8 settembre 1856, quando ancora era vivo P. Antonio Cavanis. Del resto, quando era ancora semplice alunno nelle scuole dell’Istituto Cavanis, Giovanni aveva conosciuto di certo anche P. Marco.
Emise la sua prima professione dei voti il 16 gennaio 1859, con 4 mesi abbondanti di ritardo, perché non era risultato votato positivamente per la professione da 4 su 5 degli esaminatori alla fine del tempo previsto. Non sembrava un buon inizio per un futuro superiore generale!
Senza dubbio emise la professione perpetua dopo il 1891, con le nuove regole.
Nello stesso anno 1859 ricevette la tonsura e i quattro ordini minori, tutti assieme, il 24 settembre. Poco prima di questa data, P. Casara, allora preposito, scriveva a P. Da Col che il Giovanni Chiereghin “sarà certo in futuro una preziosa colonna dell’Istituto”.
Ebbe il suddiaconato il 16 marzo 1861, il diaconato il 25 maggio 1861 e fu ordinato presbitero lo stesso anno, sempre a Venezia, il 22 dicembre.
Esaminando le “pagelle” dei suoi studi filosofici e teologici si osserva che nei primi due anni di teologia ha sempre “prima classe con eminenza”; nel terzo e quarto anno “prima classe con eminenza” e a volte “con distinzione”.
Nel 1887 ottenne presso l’università di Padova il diploma di professore di grado superiore.
Docente di lettere, fu per una dozzina d’anni preside delle scuole di Venezia (Prefetto delle scuole, secondo la nostra terminologia Cavanis antica, esclusiva della casa di Venezia). Era molto severo, così come lo ricordavano degli ex-allievi che ho avuto occasione, da giovane, di conoscere di persona, ma era anche un buon preside davvero e anche un professore competente e appassionato.
P. Francesco Saverio Zanon scrive a lungo di P. Giovanni Chiereghin come insegnante, come educatore, come formatore dei giovani Cavanis in cammino nella loro iniziazione teorica e pratica alla pedagogia Cavanis. L’aveva avuto come insegnante per due anni al liceo e lo descrive come un insegnante nato; ricorda che egli gli aveva aperto gli orizzonti meravigliosi della pedagogia cristiana già il giorno in cui, essendo preside delle scuole, Giovanni Chiereghin gli affidò la sua prima classe, come insegnante alle prime armi di matematica e fisica al liceo. Gli diede gli orari, le consegne e le istruzioni pratiche; ma dopo, invece di impartirgli una lezione di pedagogia scientifica e cerebrale, gli manifestò «la parola della carità cristiana ardente in un’anima che si era interamente consacrata alla missione della scuola e che aveva attinto tesori didattici e educativi di valore inestimabile dalla lunga esperienza personale e dallo spirito dei nostri Padri.
P. Zanon afferma, in seguito, che noi, i Cavanis “tardivi” vedremo “P. Giovanni Chiereghin solo in ritratto, quest’uomo singolare. Sì, singolare nel senso di unico al mondo. Era arrivato [in istituto] appena in tempo per cogliere gli ultimi bagliori dei fondatori, già vicini alla fine della loro vita; ma ne aveva colto lo spirito vigoroso nei Cavanis della prima ora, Casara, Spernich, Paoli, Marchiori, Da Col, Giuseppe Rovigo, Bassi. Questo spirito, egli lo assimilò, e ne nutrì il suo spirito forte, ardente, inflessibile, rude e affettuoso allo stesso tempo, intelligente e semplice, molto pio e terribile. Giovanni Chiereghin fu l’uomo della sua vocazione. Tutta la sua vita si spiega – direi – con questa parola magica, che significa chiamata divina. Comprendere la sua vocazione al sacerdozio e alla scuola ed esserne fedele per tutta la vita a quello che vuol dire Sacerdozio e Scuola cristiana, significa nutrire la propria personalità di ideali soprannaturali: e questi uniti alle qualità umane, stimabili e anche difettose (qual è l’uomo che non ha difetti quaggiù?) possono formare dei caratteri straordinari».
P. Zanon ricorda ancora, del nostro, la messa celebrata tutti i giorni con solennità e devozione; la liturgia delle ore alla quale riservava tutto il tempo e tutta la devozione e puntualità; la predicazione che Zanon definisce essere un vero modello: Dottrina corposa, chiara nella forma, degna, senza le vanità della retorica, cosciente della dignità e dell’autorità del ministero sacro; ma soprattutto cordiale. Cordiale qui vuol dire – continua – che questa predicazione veniva direttamente dal cuore del predicatore al cuore dei giovani, come se lo augurava P. Marcantonio Cavanis.
Ricorda ancora nel suo libro, con stupore e commozione (era a quel tempo nel ginnasio) , di aver visto P. Giovanni Chiereghin struggersi in lacrime durante i funerali di due padri Cavanis molto anziani, P. Antonio Fontana e P. Giovanni Paoli, deceduti a due giorni di distanza l’un l’altro: non immaginava che il suo grande Maestro fosse capace di commuoversi e di piangere così.
P. Zanon si considerava una creatura di P. Giovanni Chiereghin (e in seguito di P. Augusto Tormene), dal punto di vista dell’insegnamento e della pedagogia.
Sulla personalità e sul carattere di P. Giovanni Chiereghin bisogna leggere anche la lunga introduzione scritta da don Emilio Silvestri, ex-allievo e amico dell’Istituto e in particolare di P. Giovanni Chiereghin, per la terza edizione della biografia dei fondatori, di cui era autore il Giovanni Chiereghin.
Di lui, monsignor Giuseppe Ambrosi, già citato più volte, scrive nel suo poema: “… pur tremendo, avea mente bellissima e gran cuore.”. Pare allora che la definizione di “terribile” o “tremendo” fosse piuttosto diffusa tra chi aveva conosciuto personalmente il nostro confratello di cui si parla.
Padre Giovanni Chiereghin fu eletto superiore generale nel 1900 e cominciò così il secondo secolo dell’Istituto. Esercitò un solo mandato triennale, prolungato di un anno per motivi speciali, come si dirà.
Qualche dettaglio sui periodi della prepositura:
Nell’anno scolastico 1901-02 furono istituite nell’Istituto di Venezia le scuole tecniche, che, inaugurate con 33 alunni e con la benedizione degli ambienti il 23 ottobre 1901, vennero ad affiancare il ginnasio classico. Si trattò di un aggiornamento e di una modernizzazione dell’Istituto, ma anche di un impegno per aiutare di più le classi sociali più disagiate, i cui figli, dopo il ginnasio, non avevano la possibilità di continuare gli studi nel liceo e all’università, ma dovevano avviarsi al lavoro. P. Giovanni Chiereghin commenta: “Magnifico esordio delle feste centenarie dell’anno venturo!”.
VENEZIA
(Telefono N. 419)
Le Scuole Tecniche presso i PP. Cavanis
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Una bella notizia ci arriva. I RR. PP delle Scuole di Carità (Cavanis), sperando sempre nel concorso dei buoni, stanno disponendo quanto occorre per aprire nel p. v. ottobre la prima classe del corso tecnico inferiore.
Nella sua semplicità la notizia ha un grande significato. Tutti sanno chi sono i PP. Cavanis e quanto bene hanno operato a Venezia. A tutti sono note le grandi simpatie che fioriscono attorno al loro istituto, da cui s’irraggiano tanti benefizii alla città nostra nel campo dell’educazione. La notizia pertanto che all’istituto classico essi stanno per aggiungere quello tecnico, e coraggiosamente s’accingono ad affrontare il problema di quei particolari insegnamenti che le condizioni dell’età moderna specialmente impongono alla società, ha un’importanza veramente straordinaria ai riguardi dell’insegnamento cattolico.
Importanza che ognuno potrà facilmente misurare quando osservi la straordinaria frequenza dei giovani ai corsi tecnici; la necessità pertanto che anche per questo ramo dello scibile alla sana istruzione vada congiunta un’educazione profondamente cristiana e tanta parte dello future generazioni non si trovi esposta al pericolo di dover pagare l’insegnamento colla perdita della fede o con l’offuscamento dei principii della morale.
Ardua è l’impresa, ma quali miracoli non ha saputo compiere la modesta e infaticabile opera dei PP. Cavanis durante i cento anni da che la loro Congregazione è istituita?
Il coraggio pertanto col quale i buoni Padri affrontano il difficile problema ha per suo conforto la fede nella bontà dell’impresa, i1 bisogno che di quest’opera è vivamente sentito, lo zelo prudente e misurato che già assicurò al loro istituto così splendidi risultati.
Ma è necessario che i cattolici veneziani, specie i più facoltosi, sappiano e vogliano coadiuvarli. È necessario che nella mente di quanti possono qualche cosa penetri il sentimento che fra le opere di carità una delle più alte e meritorie è quella diretta ad educare la gioventù, a salvare dalle vie dell’incredulità e del vizio tanti a cui la scuola laica è fonte d’irreparabile perdizione.
Ai PP. Cavanis adunque le felicitazioni più vive per la loro coraggiosa iniziativa: a Venezia cattolica l’augurio di saper ben meritare col suo generoso concorso di un Istinto che può veramente chiamarsi provvidenziale fra noi.
Un quarto piano fu aggiunto al nuovo palazzo delle scuole più tardi, più esattamente nel 1936, con materiali semplicissimi, come si scoprì con sgomento nel 2004, nel momento in cui bisognò rinnovare l’edificio e metterlo a norma di legge, e bisognò sostituire molte pareti con materiale più consistente. Il cortile a est dell’ala nuova è uno dei tre cortili per la ricreazione che abbiamo nelle scuole di Venezia.
In vista del centenario dell’inizio dell’opera dell’Istituto delle Scuole di Carità, Istituto Cavanis, il giornale cattolico “L’ancora della domenica”, Padova, 7 settembre 1901. Anno V, n° 36, p. 1, pubblicava il seguente articolo in prima pagina, in onore dei PP. Cavanis:
I Cavanis
Chi che non li conosce a Venezia ed a Possagno ?
Sono i modesti, gli umili, ma santi ed operosissimi figli del Calasanzio, instituiti dai nob. Padri fratelli Cavanis di Venezia, Anton’Angelo e Marcantonio, che, nel povero quartiere di S. Agnese, ogni giorno raccolgono oltre trecento fanciulli nelle scuole elementari e ginnasiali, ed a Possagno hanno un fiorente convitto, che dopo molte vicende, da che era stato a loro strappato, poterono riavere.
Chi sono? Chiedetelo al popolo di Venezia, chiedetelo ai mille e mille che pel corso di un secolo frequentarono quelle scuole e ne sortirono istruiti e cristianamente educati, ed oggi sono onore della patria, nelle famiglie, nel foro, nelle scienze, nelle lettere e nel sacerdozio.
Chi sono? Chiedetelo alle molte famiglie povere, che abitano nei dintorni dei Gesuati, di S. Trovaso, di S. Vio, e vi diranno che sono i loro angeli consolatori, che soccorrono i fanciulli poveri non solo, ma anche le famiglie di questi, quando sono colte dalle sventure, dalle malattie, o abbandonate dalla carità ufficiale burocratica delle famose Congregazioni di Carità, e dei laici filantropi.
Chi sono? Chiedetelo allo stuolo eletto, credente che frequenta la tacita devota chiesetta di S. Agnese, dove aleggia ancora lo spirito dei fondatori Cavanis, e vi trova non solo decorose funzioni, ma ciò che più monta, assistenza spirituale a tutte le ore, e sempre pronta, soave, serena, caritatevole, sapiente, efficace, perchè nutrita alle dottrine di S. Alfonso, che l’empietà tanto perseguita.
Oh! quante lagrime furono asciugate fra quelle sacre pareti, quanti consigli impartitivi, che salvarono l’onore di famiglie pericolanti; quanto ajuto e quale riabilitazione non ebbero anime già traviate e tradite dalla seduzione e dallo scandalo !
E tutto questo i Padri Cavanis fanno senza rumore di sorta, intenti solo a fare il bene collo spirito della carità, dell’abnegazione, del Sacrificio, del lavoro, null’altro chiedenti che di aver fanciulli, a cui poter spezzare il pane del catechismo, delle lettere, dalle scienze, di condur anime a Dio.
Quando, sei lustri circa, un disastro minacciava la Chiesa di S. Agnese, di nottetempo abbiamo visto accorrervi in soccorso il popolo di Venezia colle lagrime agli occhi inneggiando alla carità dei Cavanis; allora abbiamo compreso quanta venerazione essi godano, quanto sieno apprezzati.
Nel venturo anno [1902] le scuole di S. Agnese saranno in festa per la centenaria ricordanza della fondazione.
Dio benedica a questi benefici apostoli e benefattori della educazione, Dio li conservi perennemente a Venezia, alla loro santa missione.
A Loro, che accesi di vero spirito di carità, che fa il più nobile e significante contrasto coll’ufficialità delle istituzioni che stanno poco lungi da loro, giungano le benedizioni ed i ringraziamenti del popolo Veneziano, specialissime per i venerandi preposti, il cui nome taciamo, per non offenderne la rara modestia, e ai dotti e piissimi giovani che nel ginnasio impartiscono l’istruzione con sapiente metodo e con zelo, che suscita l’ammirazione anche dei nemici dei frati.
La carità inesauribile di Venezia; ahi! pur troppo non sempre rispettata nei suoi intendimenti, fino a farsi lecita la irriverenza alle tavole di fondazione, alterando indirizzo, carattere, e tutto di certi Istituti, non venga mai meno ai benemeriti figli dei Calasanzio redivivo nei Padri Cavanis.
Gli empi, i nemici del Cattolicismo e delle congregazioni religiose nulla di più temono che i frati, istruiti, dotti, laboriosi, che lavorano tacitamente negli Istituti di educazione e tengono vivo il focolare della fede e delle opere di una pietà pratica; ed è per ciò che intrepreti di tutte le Provincie Venete, ed in particolar modo di Venezia, esaltando la santa memoria dei benemeriti fratelli Cavanis, inneggiamo agli infaticabili, piissimi Padri delle scuole di Carità di S. Agnese.
Mille e mille volte benedette, anime grandi! I vostri meriti cessino di essere occulti, velati dalla vostra rara modestia; è giunta l’ora che tutti li abbiano a riconoscere, e a salutarvi come una provvidenza, un sommo beneficio per il nostro popolo.
Oh! al vostro esempio si inspirassero quanti hanno influenza sulle opere di carità noi non vedremmo esiliare da taluni Istituti lo spirito necessario che ne forma l’essenza, la vita, lo spirito di religione, per tutelare il quale non basta conservare soltanto qual, he pratica settimanale, od un catechista alle altrui dipendenze e senza alcuna influenza.
Vivano i R.R. P.P. Cavanis e i degni loro sucessori di S. Agnese e di Possagno.
Il 1902 fu l’anno del primo centenario dell’Istituto e fu preparato lungamente nel corso del 1901 e poi celebrato solennemente, soprattutto il 2 maggio, data esatta dell’inizio dell’opera.
Così sintetizza in proposito il libretto “Dies quas fecit Dominus”, per la data 2 maggio 1902: “Primo solennissimo anniversario secolare del principio del nostro Istituto. L’antica cappella colle offerte dei benevoli venne rinnovata ed abbellita straordinariamente.
Sul nuovo altare venne posta la pala davanti la quale vestirono l’abito e fecero la professione i Fondatori e i primi loro figli. Ai lati dell’altare vennero posti i busti dei Venerandi fratelli Cavanis: e sopra la porta d’ingresso fu posta un’epigrafe italiana a perennare il faustissimo avvenimento.”
In preparazione alle celebrazioni fu effettuato appunto un restauro della suddetta cappella del Crocifisso. Si costruì inoltre anche la cappella che fu detta “la cappella del Centenario”, all’entrata della “casetta”, o meglio, dell’edificio che aveva sostituito l’ala orientale della stessa. La localizzazione corrispondeva grosso modo a quella della camera da letto successivamente dei due Padri, nella vecchiaia e nella morte. Tale cappella era ancora utilizzata, principalmente per uso delle associazioni varie dell’Istituto di Venezia, negli anni Cinquanta del secolo XX, e fu purtroppo distrutta al momento di costruire, nel 1960-61, il grande edificio che attualmente è affittato all’albergo Belle Arti. Come si dirà, fu in seguito arricchita di mosaico dorato.
La solennità principale del centenario, il 2 maggio, vide la celebrazione di molte sante messe, mentre aumentava il concorso del popolo; un solenne pontificale, presieduto e celebrato dal Patriarca Giuseppe Melchiorre Sarto, poi Pio X, “nella chiesa messa a punto in modo veramente ammirabile dal santese Paolo Moretti”; l’omelia tenuta dal Patriarca dopo il pontificale, come si usava a quei tempi e fino all’infanzia di chi scrive, “con quel cuore di padre e pastore che tanto lo rende caro e amabile; seguì un rinfresco e poi il pranzo con 38 persone, tra cui il patriarca e due canonici. Il pranzo fu rallegrato da attività poetiche e musicali: “L’ilarità fu al colmo quando i due nostri carissimi ex scolari Ambrosi e Silvestri [?] i loro brindisi, il primo alla nota seria, il secondo alla nota faceta. La bravura loro li fece un’altra volta palese quando con le rime più strane furono invitati, in primis dall’Eminentissimo, a fare due sonetti d’occasione, e poi furono pregati a comporre altri due sonetti colle medesime rime in onore dei PP. Da Col e Bassi, gemme preziose del nostro Istituto”. Conchiusero la celebrazione il canto del Te Deum e la benedizione del patriarca Sarto.
P. Giovanni Chiereghin scrive nel diario due giorni dopo: “Ringraziamo di tutto il Signore; ed egli ci conceda la grazia, massime a chi serve, di non lasciare infruttuose le lezioni che da questa festa abbiamo ricevuto. Viva la Congregazione nostra! Lode e gloria ai nostri Fondatori. Sorga presto, presto, quel giorno che tra il fumo degli incensi e l’armonie degli organi splendano in un mare di luce sopra l’altar maggiore le loro immagini.”
Durante il 1902, il 28 gennaio, il vescovo di Treviso, monsignor Giuseppe Apollonio, offrì al P. Giovanni Chiereghin di assumere ancora la parrocchia di Possagno. Il vescovo “gli avea domandato se potevano iniziarsi le pratiche per ridare la parrocchia di Possagno ai Cavanis, quorum memoria ibi in benedictione est”. Sentito il definitorio, completamente contrario, P. Giovanni Chiereghin rispose in modo assolutamente negativo.
Il 27 febbraio 1902 ci fu un’altra richiesta di fondazione, da parte dell’arciprete di Cittadella (provincia e diocesi di Padova), che offriva all’Istituto di aprire colà un collegio convitto ginnasiale. Fu risposto negativamente, come quasi sempre, dando come causa la “scarsezza deli individui”.
La “casetta”, culla della Congregazione, durante questo periodo continuava probabilmente ad essere data in affitto ai PP. Somaschi. Il 16 marzo 1903 tuttavia P. Giovanni Chiereghin scrive nel diario: “Il preposito scrive al pievano dei Tolentini Sandrinelli dichiarandogli che da parte della nostra comunità nulla osta a che siano affittate le stanze superiori dell’ex-Collegio Emiliani, quondam casetta nostra, al Si (sic) Angelo Draghi, ottimo cattolico, a noi ben noto, si serve dell’occasione per manifestargli alcune idee sull’abbandono in cui è lasciato quel locale dai Somaschi autorizzandolo a comunicarlo suo nomine ai superiori, in nome dei quali egli agisce.” Non è chiaro da questo testo se la casetta era ancora proprietà dei Cavanis, o se era stata ceduta in proprietà ai Somaschi.
Nel maggio successivo, si era proposto come affittuario un oste, tale Scatturin, che voleva trasformare varie stanze in albergo o meglio locanda. I padri naturalmente non accettano, un po’ scandalizzati delll’ardire della richiesta!
Sullo stesso tema il diario, il 6 aprile 1904: “Il Preposito scrive al Provinciale dei Somaschi sulla vendita del palazzo da essi acquistato pel Collegio Emiliani. Ricorda gli eventuali diritti nostri, e del Patriarca pro tempore, nella ex-casa nostra e sull’orto, dichiarando insieme che noi non intendiamo punto di rivendicare ai nostri diritti e che importa isolare interamente il palazzo dalla ex- casa nostra e dall’orto. Lo prega insieme di rimettere la sua lettera al Reverendissimo P. Generale, col quale avrebbe scritto dove ha la sua residenza”.
Ancora sul tema della casetta e dell’orto: una decina di giorni dopo “fu da noi il P. Alcuini Provinciale dei Somaschi [parola illeggibile] da esaminare copia del contratto di vendita del palazzo Pisani al (?) Dolcetti (?) ed una lettera che avea avuta a [parola illeggibile] pell’argomento Opere sia abbastanza tutelata l’integrità sui nostri eventuali diritti”.
Più importante quanto segue, cioè la decisione di vendere il palazzo natale dei Fondatori, presa in un capitolo di famiglia di Venezia: “Oggi ci fu Capitolo di Famiglia. L’argomento era stato comunicato ai capitolari fino dal venerdì antecedente; si trattava di decidere se si fosse contenti di vendere la casa dei nostri Padri. Il Preposito appena n’ebbe qualche sentore scrisse ai Definitori di Possagno, specialmente per conoscere l’opinione del P. Bassi, il più anziano e gemma del nostro Istituto. La risposta dei due definitori fu favorevole. Chi aspira all’acquisto di quella casa offre non meno di £ 50.000, con tutte le spese a suo carico. Assicurato alla Famiglia di Venezia quanto ricava dall’affitto, avanzerebber qualche migliaio di lire da impiegarsi nel nuovo noviziato. Il progetto di vendita fu approvato con voti 11, su due contrarii. Chi si oppone a questa vendita lo fece solo in onore della memoria dei Padri Fondatori, pel timore che non fosse rispettata la casa ecc. ecc. Lode a questi fratelli di tal tal (sic) pii sentimenti. Speriamo che il Signore non condanni quelli che diedero voto favorevole alla vendita, e per amore alla economia, e per avere facilitata l’edificazione del nuovo noviziato”.
L’intenzione del P. Giovanni Chiereghin e dei suoi definitori e altri confratelli di costruire un edificio nuovo e speciale per il “noviziato” – in realtà oggi diremmo per il seminario – corrispondeva al desiderio di rilanciare la ricerca di giovani intenzionati a entrare nell’Istituto e la cura della formazione iniziale. Queste cose erano state molto o anche quasi del tutto trascurate negli ultimi decenni, per mancanza di mezzi, di spazio, di personale adatto; forse anche per mancanza di fantasia, presi come si era dalla scuola, nella ristrettezza estrema di personale. Sta di fatto che negli ultimi decenni del secolo XIX, dopo il periodo relativamente felice ma molto breve del piccolo seminario a Possagno (1860-1869), periodo chiuso con l’abbandono di quel paese e del collegio con il suo seminarietto, si sente parlare raramente di aspiranti, postulanti, novizi e studenti teologi. Ci fu lo Spalmach a Lendinara; e a Venezia Tormene, Zanon e Martinelli; e qualche fratello laico. Molte vocazioni furono rifiutate per mancanza di spazio, di personale formatore, della possibilità economica di costituire patrimoni. Ciò almeno fino al 1902, cioè al tempo del mandato di P. Giovanni Chiereghin e all’anno del primo centenario dell’opera.
Il verbale della riunione del capitolo definitoriale – tenuta ormai da parecchi anni soltanto a cadenza annuale – del 5-6 giugno 1902 contiene questa frase significativa: “Nel dicembre [1902], il dì dell’Immacolata, se al Signore piacerà, dopo quasi quattro anni, avremo un novizio studente”. P. Giovanni Chiereghin poi, in un suo documento sulla formazione inviato ai definitori il 21 giugno 1902 e allegato al suddetto verbale, scrive tra l’altro: “Giacchè mi venne fatto di accennare alle prescrizioni di Clemente VIII, noto che il nostro noviziato non fu mai in piena regola, sia per le circostanze speciali in cui nacque e crebbe il nostro Istituto, sia anche perchè queste regole o non le conosciamo appieno, o si pensava che non fossimo tenuti alle medesime per essere i nostri voti semplici, e fino agli ultimi anni temporanei non perpetui. E in verità si credeva di poter fare il Noviziato in qualunque casa piacesse al Preposito, e lo si era anche espresso nel manoscritto delle nuove Costituzioni inviate a Roma per l’approvazione; (…) Mi sono un po’ dilungato in questa osservazione perchè intendiamo il bisogno di pensare a questo benedetto Noviziato; (…) pensiamo sì, riflettiamo, prima di accingerci ai lavori pensiamo bene ogni cosa; ma sia nostra massima lasciare ogni altro lavoro non necessario finchè non sia provveduto al Noviziato. E questo anche per togliere motivo a lamenti quasi che si prendano determinazioni a lasciare poi lettera morta negli Atti Capitolari”. Questa era la situazione tristissima dell’Istituto Cavanis in quella data, e si voleva uscirne.
Per costruire il “noviziato”, l’Istituto decise dunque di vendere l’appartamento del palazzo Cavanis, casa paterna e ancestrale dei fondatori sulla fondamenta de le Zattere ai Gesuati, che sino a quel momento, dopo la morte della madre, donna Cristina Pasqualigo Basadonna e l’ingresso di P. Marco in comunità nel maggio 1832, diviso in più appartamenti, era stato dato in affitto; il ricavato veniva alla famiglia religiosa di Venezia per contribuire a supportare per mezzo di quel reddito le scuole gratuite.
Vendere la casa che diede i natali ai fondatori – o meglio il piano superiore, le soffitte abitabili e gli annessi e attinenze –, fu una decisione pesante ed è un vero peccato che non ci appartenga più; tuttavia, aldilà di tutto, i fondatori avrebbero senza alcun dubbio approvato la decisione di vendere fino all’ultimo dei loro beni, come essi avevano sistematicamente fatto con gli altri beni di famiglia, fino a restarne totalmente privi, salvo quest’edificio, che probabilmente essi avevano mantenuto per rispetto alla loro famiglia, o forse per averne un provento fisso per le scuole.
Nel 1994 siamo andati a visitare una prima volta la casa natale dei padri, chi scrive, che era all’epoca preposito, con il consiglio generale, e una seconda volta a marzo 2008, con tutti i superiori maggiori della Congregazione; sempre per gentile concessione dell’attuale proprietaria.
Si possono aggiungere alcune considerazioni su questa decisione: primo, che il prezzo offerto sembra piuttosto modesto per un immobile di stile gotico di tal fatta e sito in luogo tanto ameno; secondo, che sembra davvero strano che se ne sia ricavato soltanto il necessario per costruire i due piani e pianterreno del noviziato, edificio molto semplice ed economico nella fattura originaria, e anche attuale, anche tenuto conto che buona parte del valore della vendita andava ad assicurare alla famiglia religiosa di Venezia un fondo che compensasse della perdita del bene immobile e dell’affitto; terzo, che chi scrive aveva sempre sentito dire in comunità che la casa dei Fondatori era stata venduta per sostenere la costruzione dell’ala nuova delle scuole, anziché del noviziato; cosa che sembrerebbe ben più interessante, e anche più proporzionata al valore di quell’avito palazzo. Aggiungo che l’edificio del “noviziato” di cui si parla sopra è quello che in seguito, alzato di un piano nel giugno 1956, servì all’inizio come “noviziato” (termine da intendersi allora in senso ampio, cioè come casa di formazione, che includeva aspirantato, postulantato, noviziato e studentato teologico); in seguito, dopo la costruzione del probandato di Possagno e il trasferimento del noviziato alla Casa del S. Cuore a Possagno e fino al 1968 fu adibito principalmente come studentato teologico; dopo questa data fu utilizzato come foresteria per studenti universitari, nel tentativo di svolgere pastorale universitaria; e infine, fino ad oggi esso fu affittato per scopi alberghieri all’Hotel Belle Arti.
La decisione di vendere la casa natale dei fondatori sembra sfumare il 23 maggio 1904, perché l’affittuario sig. De Bigli esigeva £ 10.000 per sgomberare il locale, di cui per contratto aveva diritto all’affittanza ancora per due anni. La somma sembra eccessiva (corrispondeva al 20% del ricavo della vendita) e per il momento si lascia cadere l’affare.
Il 2 luglio 1904 si dà inizio alla demolizione della casetta che era data in affittanza al maestro Coja, che aveva resistito lungamente al suo sfratto. Questa casa si trovava più o meno dove si trova attualmente l’entrata dell’Istituto verso la piscina Venier e una sala di deposito della biblioteca, ai numeri civici 834 A-B, e la demolizione serviva a preparare il terreno per la costruzione di un nuovo piccolo edificio.
P. Giovanni Chiereghin scrisse la prima vera biografia dei Fondatori, con tre edizioni successive, di cui esistono rare copie, e che sarebbe utile ripubblicare.
L’opera fu pubblicata la prima volta nel 1883 con il titolo «I Cavanis e l’opera loro. Narrazione ai giovani d’un Congregato delle Scuole di Carità». La seconda edizione era intitolata «I venerandi fratelli Anton’Angelo e Marcantonio nob. Conti Cavanis, ed i principali loro figli defunti» ed era quasi una ristampa, con l’aggiunta però di brevi biografie di religiosi compagni dei fondatori; era stata pubblicata nel 1902, in occasione del primo centenario dell’Istituto. Questa edizione ebbe l’onore di essere rivista e corretta ad opera del patriarca di Venezia card. Giuseppe Sarto, come si sa dalla dedica della 3ª edizione.
La terza edizione uscì postuma e si intitola «Due eroi dell’educazione popolare», con 185 pagine, pubblicata nel 1909. Questa edizione presenta ancora come la seconda il «Visto per la pubblicazione» del patriarca di Venezia card. Giuseppe Sarto, datata 5 febbraio 1902. Nel 1909 Sarto era tuttavia già papa, con il nome di Pio X.
Le tre edizioni della biografia redatta da P. Giovanni Chiereghin furono pubblicate in veste editoriale molto modesta ed economica, una brossura leggera. Hanno come vantaggio che il testo è molto aderente alle fonti, originale, pone l’accento sulle virtù, la pedagogia e la didattica dei due fratelli.
P. Giovanni Chiereghin fu anche autore di una “Storia antica abbreviata per le scuole superiori”, in due volumi (1° vol.: Storia orientale e greca; 2° vol.: Storia romana) e di una “Guida per le principali pratiche di pietà” per gli allievi dell’Istituto Cavanis.
Il suo mandato triennale per sé finiva nell’agosto 1903. Esso venne tuttavia prorogato di un anno con il consenso della S. Sede, e sembra di capire che il ritardo sia stato dovuto a una malattia, probabilmente a un grave esaurimento nervoso del Preposito P. Giovanni Chiereghin, come si è detto a proposito dei capitoli generali. Di questo suo decadere ci si rende conto anche nella sua scrittura nel Diario di Congregazione e nelle altre carte, che, a partire soprattutto dall’inizio del 1903 e tanto più nel 1904 diventa sempre più piccola e a volte difficilmente comprensibile.
Nel capitolo generale tenuto il 9-10 agosto 1904 il P. Chereghin non venne rieletto, probabilmente per lo stesso motivo, ma sostituito con il P. Vincenzo Rossi.
È passato molto tempo, ma per chi ha seguito attraverso i documenti di archivio la vita del nostro, da giovane seminarista a segretario di capitoli, a consigliere, a preposito, in un cammino brillante e molto interessante, tutto fuoco, tra l’altro come primo storiografo della vita dei fondatori e della Congregazione, dispiace di vederlo uscire di scena tanto presto, dopo un mandato di soli quattro anni (tre + uno), in modo direi un po’ umiliante e imbarazzante. Si potrebbe anche pensare che la malattia che lo impedì di concludere normalmente il suo triennio e di essere eventualmente rieletto consistesse nei prodromi della malattia che lo portò alla morte nel 1905.
Il 9 agosto 1904, ultimo giorno del suo mandato di preposito generale, concludendo anche la sua opera di compilatore del diario di Congregazione, avendo probabilmente difficoltà di scrivere, dettò al giovane P. Giovanni Rizzardo, che fu costretto a scrivere nel diario stesso su suo ordine e sua dettatura, la seguente frase: “Oggi nella prima sessione del Capitolo Generale venne eletto preposito il Rmo. P. Vincenzo Rossi, pro-rettore della casa di Possagno: “Dominus conservet eum et vivificet eum et vigilet plenitudine gratiae suae, ut possit promovere majorem Congregationis nostrae profectum, et mederi malis illis quae ejus antecessor Congregationis nostrae procuravit”. “Il Signore lo conservi e lo vivifichi e vigili con la pienezza della sua grazia, affinché possa promuovere un maggiore profitto della nostra Congregazione, e [possa] sanare quei mali che il suo antecessore della nostra Congregazione procurò.”
Merita qualche commento tale annotazione, che indica da un lato l’umiltà del P. Giovanni Chiereghin, del resto affiorante qua e là nelle pagine del Diario della Congregazione nel periodo del suo mandato; da un altro probabilmente anche la sua situazione di depressione, dipendente dalla malattia. Essa porta due note e una censura. In ordine di tempo:
Stupisce un po’ che P. Tormene scrivesse la sua nota un po’ più di cinque anni dopo la sua elezione a preposito, e quindi dopo che aveva avuto accesso al Diario di Congregazione; e che P. Rizzardo scrivesse la sua annotazione soltanto quasi cinque anni dopo la fine del suo mandato.
P. Giovanni Chiereghin morì a Venezia il 5 novembre 1905, a 66 anni, dopo una lunga e dolorosa malattia. P. Vincenzo Rossi scrive in proposito: “Il P. Giovanni Chiereghin peggiora – il 28 ottobre riceve l’Estrema Unzione. Il 29 Dom[enica]. migliora un po’ – riconosce il Patriarca venuto a visitarlo e colla mente abbastanza serena riceve poi il S. Viatico – Si spegne la sera (verso le 10) del 5.XI. Domenica. Erano presenti 6 Padri ed 1 converso.” “Martedì [7] Funerale del P. Giovanni Chiereghin”.
1.6 Padre Vincenzo Rossi, preposito generale (1904-1910)
Vincenzo nacque a Villanova del Ghebbo (diocesi di Adria, provincia di Rovigo) il 5 aprile (data quasi certa) o il 4 maggio 1862. Nel 1879 si scrive spesso di lui nel Diario di Congregazione come seminarista ginnasiale presente a Possagno, in collaborazione con il P. Da Col, già attivo e di piena fiducia del P. Casara. Da notare che doveva essere di buona famiglia, perché suo fratello, il commendator Adolfo Rossi, fu tra l’altro console generale d’Italia a Denver, Colorado, USA. Entrò in Istituto il 3 novembre 1880. Celebrò la sua vestizione l’8 dicembre 1880. Fu novizio a Possagno nel 1881; nell’ultimo periodo della presenza Cavanis a Possagno visse le difficoltà e il dramma della sua comunità. Lasciò il paese segretamente con il P. Da Col. Emise la prima professione dei voti l’ 8 dicembre 1882 e la perpetua il 5 agosto 1894.
Da suddiacono, mentre si stava già organizzando la sua ordinazione diaconale, dopo varie visite al distretto per la coscrizione militare, dovette recarsi a “a Verona, per passarvi un mese fra i militari. Lo passerà peraltro in un ospitale come infermiere”. Reagisce bene a questa situazione anomala ed evidentemente imbarazzante per un religioso ed ecclesiastico. Dopo una lunghissima trafila di difficoltà relative al servizio militare, e di pratiche burocratiche interminabili, fu ordinato diacono dal patriarca di Venezia Domenico Agostini il 7 giugno 1884 e prete qualche giorno prima del 20 settembre 1884, quando celebrò la prima messa solenne. Fu inviato a Possagno, dove rimase dal 1892 al 1904, quando fu eletto preposito generale e si trasferì allora a Venezia. A Possagno fu rettore per 12 anni.
Il 29 novembre 1880 sostenne a Padova, all’università, il suo ultimo esame e fu approvato professore ginnasiale.
Fu maestro dei novizi per cinque anni (probabilmente a Venezia), rettore del collegio Canova di Possagno per dodici anni (1893-1904). Durante questi anni a Possagno, a partire dal 1898, succedette al P. Casara, defunto l’8 aprile 1898, come definitore ossia consigliere generale. Negli ultimi mesi del 1899 restò gravemente ammalato fino a far temere della sua vita, ma si stava ricuperando del tutto all’inizio del 1900.
In seguito fu preposito generale della Congregazione per sei anni (1904-1910; due mandati a quell’epoca). Fu eletto preposito per la prima volta il 9 agosto 1904, succedendo al P. Giovanni Chiereghin. Fu rieletto preposito nell’estate 1907) per un secondo triennio.
Concluso il suo secondo mandato di preposito il 18 luglio 1910, durante la prima sessione del Capitolo generale 1910, rimase a Venezia dal 1910 all’inizio del 1919; nel capitolo generale del 1910 fu eletto 1° consigliere e dal 1917 fu vicario della Congregazione e della casa di Venezia. Il 1° agosto 1919 fu nominato o eletto economo generale della Congregazione, per la prima volta con questo termine o nome, a seguito della promulgazione del Codice di diritto canonico del 1917.
Inoltre, il diario riporta che il 31 ottobre 1910 fu nominato dal patriarca di Venezia esaminatore prosinodale per un quinquennio, cosa molto gradita dalla comunità.
Nell’autunno del 1919 fu incaricato dal preposito di aprire la casa di Porcari e di esserne per primo il pro-rettore. La casa aprì in effetti il suo primo corso di scuola il 9 novembre 1919. Purtroppo il P. Vincenzo rimase pro-rettore della nuova casa solo per circa 10 mesi, perché vi fu raggiunto dalla morte.
Il necrologio di Congregazione dice di lui che “Era stimato per la dolcezza del suo carattere e per la prudenza nel consigliare, un vero dono del consiglio” e che era “riconosciuto pieno di meriti dalla Congregazione”; in realtà però P. Vincenzo Rossi è rimasto per troppo tempo praticamente dimenticato in Congregazione e se ne sa e se ne parla pochissimo. Purtroppo anche il suo stesso Diario di Congregazione, nel volume V, scritto quasi sempre, salvo all’inizio, da lui stesso, è troppo laconico, manca di interi mesi o gruppi di mesi, e contiene poche notizie utili, tra l’altro sulla sua stessa vita.
Morì il 17 settembre 1920, dopo una breve malattia a Porcari (Lucca), fortificato dai sacramenti, nella nostra nuova casa non ancora “formata”, cioè non ancora canonicamente eretta. Non aveva ancora compiuto cinquantanove anni.
Qualche dettaglio sul periodo dei suoi due mandati.
Già all’inizio del suo compito di preposito, chiese e ottenne rapidamente un’udienza personale del Papa Pio X. Vale la pena di riprodurre integralmente la lettera in cui P. Vincenzo Rossi dà relazione al P. Augusto Tormene del suo incontro con il caro Papa, lettera che da un lato ci ricorda con gratitudine la considerazione e l’amicizia che S. Pio X dimostrava alla comunità Cavanis e al suo preposito; da un altro lato ci descrive la condizione – come sempre – molto difficile della Congregazione negli aspetti economici; e ancora illustra la difficoltà dell’Istituto in seguito all’istituzione di un liceo cattolico a Venezia da parte dell’Istituto:
I.M.I.
Venezia 5 maggio 1905
Carissimo P. Augusto
Appena ricevuta la risposta di Mons. Pescini che Sua Santità mi avrebbe ricevuto subito, Domenica sera alle 22 partii per Roma, dove giunsi la sera del lunedì (1 maggio). La mattina seguente mi presentai in Vaticano, fui subito introdotto nello studio del S. Padre; erano le 7 e mezzo: stava seduto scrivendo, alzò gli occhi sopra gli occhiali, mi guardò e sorridendo mi disse: Com’éla, padre? Vegnì avanti e sentéve, finisso ste do righe e son subito co vu. Stavo in ginocchio prima, poi in piedi, ma ad un suo nuovo sentéve mi posi a sedere sulla poltrona che sta preparata presso la sua. Dopo qualche istante finì con un bel Pio P.P.X e la sua brava striscia sotto, depose la penna e contéme, disse, come xela caro Padre Rossi? Cominciai col chieder scusa d’essermi permesso di disturbarlo ecc. Ma mi interruppe e senz’altro entrai in argomento.
Restò sorpreso alla mia minuta esposizione finanziaria e povereto, disse, me dispiase tanto: no ve credea proprio siori, ma discretamente provvisti, me despiase daseno; povero Rossi, la ve toca anca a vu cofà mi e mi parlò lungamente delle amarezze sue anche finanziarie. Poi aperto il cassetto di mezzo della scrivania, ne tolse una carta da mille lire, me la pose in mano e xe poco ma tuto xe bon, mi promise di interessarsi e scrivere agli eredi Antonini, commutò tutti i lasciti che abbiamo noi in casa (con obblighi di Messe) in un’ufficiatura annua con Messa per i benefattori; si parlò del Seminario Patriarcale, di Mr. Ferrei, del P. Giovanni Chiereghin e di parecchie altre cose e persone. Io m’ero alzato in piedi per andarmene e cominciavo a rinnovare i ringraziamenti, ma Egli speté ancora un poco, mi disse, gavé fato ben a vegnerme a contar tutto, ma bisognaria che se convertisse quel benedetto Paganuzzi, el la ga fissà col so Liceo e nol vol capir che a Venezia nol tacarà mai; mi so, ghe lo go dito sc-ieto a lo stesso Candiani, che in otava el ga ritirà so fio dal Seminario per farghela far al Marco Polo, per paura di esami; le tecniche me preme e me premé vu altri, povari Padri; e che no i me staga tirar fora el Liceo e i Gesuiti. M’alzai di nuovo, s’alzò Egli pure, mi diè la mano, che baciai con tutto il cuore, m’accompagnò fino alla porta, m’inginocchiai, mi benedisse, ringraziai ancora di tutto e uscii. Diedi subito un’occhiata all’orologio: erano le 8 e venti minuti.
M’avea detto il S. Padre, nel consegnarmi la carta da mille, che di quella non parlassi con alcuno e che uscito chiedessi di Mr. Pescini, al quale avea dato 500 lire per il Noviziato e fu proprio così. Avevo le ali ai piedi. Andai a S. Pietro, a S. Paolo, a S. Maria Maggiore, a S. Agnese fuori delle mura in via Nomentana ecc. ecc. poi a riposare.
La mattina seguente celebrai di nuovo sull’altare dove riposan le ossa di S. Giuseppe Calasanzio, andai a riverire la sorella del S. Padre, visitai ancora il foro, il Colosseo e non so quant’altre Chiese e cose. La sera alla stazione ed in 16 ore ero qui.
Auguri di cuore per il tuo giorno Onomastico.
Salutami tutti. Memento. Bondì. Tuo Rossi
Il 10 gennaio 1906 il Diario di Congregazione riporta questa notizia, ancora sulla “casetta” e sull’”orto”: “Si è conchiuso il contratto per cui la nostra Congr. cede i suoi diritti sulla corte [= orto ossia cortile grande] e sulla Casa, un tempo nostra dimora (casetta) e poi ceduta ai PP. Somaschi, dietro il compenso di £ 12500, come si era combinato coll’Illmo Patriarca, al quale spettano pure £ 12500 e i RR. P. Emiliani, che ricevono £30000. Il compratore è il Cav. Gustavo Dolcetti.”
Il 16 luglio 1906 ebbe luogo la benedizione della nuova casa del noviziato (a Venezia, l’edificio che più tardi divenne lo studentato, ora adibito a installazione alberghiera, detta, impropriamente, Domus Cavanis). Assieme al noviziato era stato costruita, con fronte sulla piscina Venier, ai numeri civici (attuali, 2016) 838 e 839, una casetta definita “affittareccia”, a un piano, contigua al noviziato e corrispondente ai mappali 2022 e 2033. Essa corrisponde attualmente al corridoio di entrata e al deposito della biblioteca; come pure, al primo piano, alla cosiddetta maneghetta, ora ala orientale del primo piano della “Domus Cavanis”. Molto interessante il progetto del noviziato e di tale “casa affittareccia” (con data 20 giugno1905), conservato in AICV nei carteggi di curia, busta Curia 17, fascicolo 1906.
Da notare di passaggio che, con la costruzione del nuovo noviziato verso nord e della “casa affittareccia” verso est, si veniva a creare un nuovo cortile, quello dell’attuale (2020) giardino della comunità Cavanis, detto anche cortile piccolo, in uso delle scuole per ricreazioni fino agli anni ’70 del XX secolo; di questo cortile detto “cortile del noviziato”, di cui si parla già dal 10 maggio 1906 nel Diario di Congregazione. Vi si organizza infatti in quella data la tombola per gli allievi della scuola in occasione della festa pro pueris di S. Giuseppe Calasanzio.
In seguito, le annotazioni nel Diario della Congregazione, in questi anni della doppia prepositura del P. Vincenzo Rossi divengon sempre più saltuarie, brevi, e molte volte di scarso interesse. Sono anni apparentemente senza avvenimenti.
Una notizia molto interessante e del tutto dimenticata tuttavia si trova nel diario di Congregazione al 24 febbraio 1906: “È venuto il Generale dei Benedettini come Visitatore Apostolico. Si mostrò molto bene informato della nostra Congregazione ed ebbe per noi confortanti parole di elogio. Richiesto dal preposito se il S. Padre [Pio X] desidera veramente l’unione [dell’Istituto Cavanis] con l’Ordine Scolopio, rispose che molti interpretano troppo facilmente per desideri le parole del S. Padre; che se realmente fosse stato questo un desiderio del S. Padre, ora sarebbe una realtà. Raccomandò vivamente l’apertura di un collegio e per il bisogno che n’ha Venezia e per il bene che si farebbe e per il vantaggio materiale che ne ridonderebbe alla nostra povera Congregazione”. Purtroppo, nei carteggi di curia del fascicolo del 1906 non esiste alcun documento corrispondente a questa visita straordinaria e di straordinario interesse. Da notare che una proposta del genere, ma non specificamente di unione o fusione con gli scolopi (piuttosto con i salesiani) era stata fatta 32 anni prima a P. Casara, nel 1876, vedi sopra).
Il 7 agosto 1908 vennero a Venezia un monsignor Fraccon con due sacerdoti, evidentemente in modo ufficiale da parte della diocesi di Adria-Rovigo, anche se in quel momento questa si trovava in sede vacante, e solo il 16 ottobre successivo sarebbe entrato in diocesi il nuovo vescovo Tommaso Pio Boggiani; questa commissione venne a chiedere al preposito di riaprire la casa a Lendinara. “Vedi istanza di 18 parochi” aggiunge P. Vincenzo Rossi; e ancora “Se son rose fioriranno”. Ma non se ne parla più in seguito. La casa di Lendinara era stata chiusa, come si sa, nel 1896, 12 anni prima.
Un altro evento legato a Lendinara segue il 18 gennaio 1910: P. Vincenzo Rossi, “il preposito, insieme con Don Pietro Rover parroco di Bonisiol[o], presenziarono il trasporto delle ossa dei PP. Domenico Sapori e Narciso Gretter dal luogo ov’erano stati tumulati in Lendinara, al sepolcreto speciale della Congregazione. Il Superiore, dopo aver per loro celebrato la Sª. Messa a Villanova, impartì egli stesso in cimitero l’assoluzione e fu presente dalle 9 alle 12 circa alle operazioni del trasporto”. Questo testo è senza dubbio interessante ma è assolutamente ermetico: non si sa chi sia il sacerdote di cui si parla, e che cosa c’entra il paese di Bonisiol o Bonisiolo; dal testo non si sa a quale delle circa 54 (cinquantaquattro) città, cittadine, paesi e frazioni di nome Villanova presenti in Italia si tratta: e qui senza dubbio si parla di Villanova del Ghebbo in provincia di Rovigo, dove era nato P. Vincenzo Rossi, il preposito; non si capisce soprattutto quale sia e dove sia situato il “sepolcreto speciale della Congregazione”; certamente non a Venezia; probabilmente non a Possagno; esiste dunque un altro “sepolcreto speciale della Congregazione” in Italia, del quale non sappiamo nulla? Certamente non possiamo definire “sepolcreto speciale della Congregazione” il gruppo di due o tre tombe di confratelli rimaste a Porcari e analogamente a Capezzano Pianore.
Il 3 gennaio 1915 fu resa nota la nomina del P. Vincenzo Rossi, che era all’epoca vicario generale della Congregazione alla carica di Censore ecclesiastico del patriarcato di Venezia.
Nel 1919 fu inviato dal preposito a fondare la casa di Porcari, la prima fuori del Veneto. Ci andò con passione, il 6 ottobre 1919, il 9 novembre seguente con l’inaugurazione formale cominciò bene l’opera del Signore e della Congregazione, ma purtroppo vi durò solo circa 10 mesi.
P. Vincenzo Rossi morì infatti, nella pace del Signore, il 17 settembre 1920 a Porcari (Lucca). P. Augusto Tormene narra lungamente nel diario la sua malattia, la sua morte, il funerale e le esequie, con molto cuore e molta passione, purtroppo però senza raccontare molti dettagli utili sulla sua vita e sulla sua morte. A Porcari fu seppellito, a spese della parrocchia, tramite il Proposto (=Parroco o Arciprete) e tanti altri amici e parrocchiani; anzi fu tutto gratuito, funerale, tomba in muratura, lapide, telegrammi e dove la sua tomba si trova ancora oggi.
Nella galleria dei ritratti dei prepositi generali, nella sala del capitolo a Venezia, si trova il suo ritratto, opera del pittore Giovanni Valentinelli.
1.7 Padre Antonio dalla Venezia, preposito generale (1910-1913)
Nato a Venezia, nella parrocchia di S. Marcuola il 12 luglio 1861. Nei documenti più antichi, come i certificati di battesimo e cresima, si trova che il nome, completo di soprannome familiare, era: “Antonio Dalla Venezia [detto] Angeloni”. Era probabilmente orfano di padre. Studiò all’Istituto Cavanis e, dopo concluso con lode tutto il percorso fino al 5° e ultimo anno del ginnasio, decise di entrare nell’Istituto come aspirante e ne fece richiesta a 16 anni, essendo accolto nella comunità il 10 novembre 1877. Indossò l’abito Cavanis il 27 aprile 1879. Emise i voti nella prima professione il 1° maggio 1881.
Ricevette la tonsura clericale il 7 luglio 1883; il suddiaconato il 5 agosto 1883; il diaconato il 22 settembre dello stesso anno 1883. Ricevette l’ordinazione presbiterale nel giugno 1884, molto probabilmente il 7 giugno.
I primi anni da prete li passò al collegio Canova di Possagno (1884-86). Fu poi a Venezia dal 1886 al 1916, quando passò quasi due anni a Possagno, venendone però sloggiato dalla guerra, e passò a Venezia. Nel 1919 fu a Porcari per quasi due anni. P. Tormene lo aveva destinato poi, nel 1920, come rettore della casa che si doveva aprire a Roma, sulla via Appia; ma poi si desistette dall’apertura. Passato a Venezia vi rimase fino al 1926.
Ricevette il diploma di licenza alla Facoltà di Filosofia e Lettere nell’università di Padova il 12 dicembre 1888. Nella stessa università fu dichiarato con lode dottore in Lettere il 6 novembre 1894: “Ritornato a noi si ebbe le sincere affettuose dimostrazioni di fraterna consolazione, e gli fu presentata la bella Iscrizione di circostanza del nostro P. Giovanni Chiereghin, che gli fu Maestro, e poi guida ne’ suoi studi”:
Era amato da tutti e spiccava per la sua semplicità, la sua pietà e l’osservanza alle regole. Visse in diverse case della Congregazione, come si è detto sopra, e per molto tempo soprattutto nella casa madre. In questa fu prefetto degli studi dal 1910 al 1916. Passò più di quarant’anni come insegnante e ricoprì la carica di prefetto delle scuole a Venezia per 12 anni consecutivi. D’aspetto grave e dolce di cuore, era considerato per la sua estrema precisione.
Avendo ricoperto con particolare diligenza le principali cariche dell’Istituto, sostenne la carica di preposito generale per tre anni, essendo eletto a questa carica il 18 luglio 1910, nella prima sessiore de capitolo generale di quell’anno, e succedendo così al P. Vincenzo Rossi. Rimase preposito generale fino all’estate 1913. Era già stato 2° consigliere generale per tre anni dal 1907 al 1910.
Qualche dettaglio sul periodo del suo mandato:
In questo periodo (il 25 marzo 1913), volle che fosse rifondata la Congregazione mariana, prima a Possagno, poi a Venezia; se ne occupò di tutto cuore sino agli ultimi giorni della sua vita.
Durante i primi mesi del suo mandato, nel Diario di Congregazione si parla spesso di progetti, di approvazione degli stessi e poi di restauri della casa della comunità a Lendinara; e può sembrare a prima vista, ma non è detto chiaramente, che si trattasse di restauri mirati a una riapertura di quella casa di cui si era parlato in occasione della visita di tre membri del clero della diocesi di Adria. In realtà il 5 dicembre 1910 si trova nello stesso diario: “È arrivata la facoltà da Roma per mezzo della Rev.issima Curia [patriarcale], di vendere la Casa di Lendinara”.
Il 9 novembre 1911, nell’epoca della guerra coloniale Italo-Turca per occupare la Libia, che era a quei tempi provincia dell’impero Turco Ottomano, il giovane novizio fratello laico Sebastiano Barbot (Fra Bastian), venne esentato, mentre si pensava potesse essere richiamato alle armi, essendo nato nel 1889. Fu dichiarato rivedibile, cioè di riserva, essendo stato considerato appartenente alla classe del 1890 e non a quella del 1889, che invece era stata richiamata. “Ciò accadde durante la novena in preparazione alla nostra festa della Vergine del perpetuo soccorso. La sera dello stesso giorno arrivò da Roma al preposito l’esonero per fratel Barbot di rifare tutto il noviziato, come si pensava invece dovesse fare, avendolo interrotto in seguito alla prima chiamata. La Vergine sia sempre benedetta!”
Si può notare a questo proposito che il Diario di Congregazione, compilato in quel periodo dal giovane religioso Giovanni D’Ambrosi (già dall’ultimo periodo del mandato di P. Vincenzo Rossi), non fa alcun altro riferimento alla guerra di Libia, detta anche Campagna di Libia o guerra Italo-Turca, salvo, di passaggio, nelle nove righe citate sopra, che si riferiscono alla situazione di coscrizione del giovane religioso Sebastiano Barbot, e con una breve nota sulla raccomandazione del provveditorato di Venezia di raccogliere offerte tra gli alunni per le famiglie dei caduti in detta guerra.
Sarà forse opportuno, tuttavia, dedicare un po’ di spazio a questa guerra coloniale italiana, che fra l’altro, come si dirà, indebolendo ancora l’impero ottomano, già decadente, getterà della benzina sul fuoco delle guerre balcaniche e metterà delle pericolose premesse all’inizio della prima guerra mondiale e quindi a un secolo di guerre.
Il Regno d’Italia aveva dichiarato e condotto questa guerra contro l’Impero Ottomano, perché desiderosa di seguire l’esempio (pessimo) degli altri paesi europei e di contribuire a costruirsi un impero coloniale in Africa. Aveva scelto la Libia anche perché frustrata dalla presa della Tunisia da parte della Francia, e nel timore che la Libia fosse occupata dai tedeschi. La guerra nasceva anche dal clima nazionalista proprio degli anni dei governi Giolitti (1901-1914). Giustamente nel 1911 si era inaugurato a Roma l’Altare della Patria, allo stesso tempo monumento all’Italia e monumento al re Vittorio Emanuele II e alla dinastia Savoia. Più tardi (1921) diventerà anche il monumento al “milite ignoto”, cioè a un soldato sconosciuto, il cui corpo era stato raccolto sui campi di battaglia della prima guerra mondiale, in rappresentanza di tanti e tanti morti.
L’Italia, già a questo punto una potenza di medio livello, voleva crescere nel consesso delle nazioni sia con l’aumento della produzione industriale e la diminuzione delle importazioni, sia con una migliore organizzazione dell’esercito e della marina, sia ancora con nuove alleanze, soprattutto con la Francia, nonostante appartenesse alla Triplice Alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria.
Si sviluppava di nuovo il desiderio di completare l’opera del risorgimento, recuperando all’Italia le città e le regioni di Trento e Trieste, nel fenomeno che si è chiamato irredentismo.
Uno dei maggiori problemi d’Italia era tuttavia la disoccupazione: nonostante il decollo industriale soprattutto nel triangolo Milano-Torino-Genova, con ramificazioni in Toscana e a Napoli (Bagnoli), settori molto ampli della popolazione, soprattutto i braccianti del sud, non trovavano lavoro permanente in patria ed erano costretti a emigrare, soprattutto verso le Americhe, ma anche verso i paesi più ricchi dell’Europa centrale e settentrionale. Si parlò allora della Libia come di una terra ricchissima, un vero Eden, rifacendosi anche alle memorie dell’epoca degli antichi romani, quando l’Africa settentrionale aveva tra l’altro un clima differente, senza dubbio più ricco di precipitazioni e quindi di fecondità. Si fece leva sul nazionalismo, rievocando l’Impero romano. In poche parole, la conquista della Libia sembrava risolvere molti problemi e fornire molti motivi di speranza e di gloria.
La guerra di Libia iniziò il 29 settembre 1911 e si concluse il 18 ottobre 1912 con la vittoria del Regno d’Italia. La marina italiana, durante la guerra, aveva anche compiuto una diversione e aveva conquistato all’Italia, dall’Impero Ottomano, la storica isola di Rodi e le altre piccole isole del Dodecaneso nel mare Egeo, attorno all’angolo di Sudovest dell’attuale Turchia.
La vittoria effettiva contro i turchi, si trasformò in seguito, per una ventina d’anni, in una nuova situazione di guerra permanente contro la guerriglia condotta dagli autoctoni, cui apparteneva il paese, e particolarmente dai Senussi, una setta islamica che aveva il suo centro tribale e religioso nell’oasi di Giarabub e in quella di Cufra. I Senussi cedettero soltanto nel 1931. In pratica, l’Italia controllava solo la fascia costiera di questa nuova colonia e incontrò gravi difficoltà a penetrare all’interno e a dominare le tribù che controllavano le vie carovaniere e le grandi oasi dell’interno. La speranza italiana di una guerra breve e facile non si era compiuta. Il possesso di questo territorio, per lo più desertico e, fino alla scoperta del petrolio, molto povero, aveva avuto però per breve tempo dal punto di vista geostrategico il vantaggio di assicurare all’Italia il possesso e in parte il controllo della sponda meridionale del mar Mediterraneo di fronte alla penisola, e di impedire che lo occupasse un’altra potenza europea. Non risolse tuttavia che in parte la necessità e il programma di orientare il flusso dell’emigrazione di coloni italiani poveri, invece che verso le Americhe o verso i più ricchi paesi dell’Europa centrale e settentrionale, verso una terra “propria”, annunziata e promessa come una fantastica terra ricca e “scorrente latte e miele”.
Le tribù berbere dell’interno condussero contro il nuovo padrone coloniale, almeno fino al 1931, una guerriglia ostinata, alla quale l’esercito italiano rispose con una repressione spesso feroce, crudele, contraria alla convenzione di Ginevra. Si fece uso di gas, di avvelenamento dei pozzi, in ambiente da semi-arido a desertico, di frequenti torture e impiccagioni di prigionieri, di uccisioni di civili. Anche nel corso delle due guerre mondiali gli abitanti dell’interno (specialmente) della Tripolitania e della Cirenaica si opposero tanto quanto poterono al dominio italiano, come prima lo avevano fatto contro i turchi ottomani. L’Italia del resto perse la Libia (e anche il Dodecaneso) soltanto tre decenni dopo la conquista ancora incompleta di queste regioni dalla fine del 1942 al 1943, con la sua tragica sconfitta nel secondo conflitto mondiale.
La politica di sfruttamento della Libia era stata principalmente di carattere agricolo e, specie dopo la fondazione del partito fascista (7 novembre 1921), era fondata più sulla retorica e sull’ideologia del nazionalismo prima, del partito fascista poi, che a livello di una seria e intelligente programmazione.
Per proporre soltanto un esempio, il famoso geologo prof. Ardito Desio, più conosciuto fuori del mondo scientifico come capo della vittoriosa spedizione alpinistica e scientifica dell’Italia al K2 (la seconda vetta più alta del mondo, con 8.609 metri, nella catena del Karakorum) nel 1954, mi raccontava che negli anni ’30, giovane geologo incaricato di rilevamento geologico in Libia e di ricerca di falde acquifere in zone semiaride e desertiche dell’interno di quel paese, aveva scoperto dei bacini petroliferi e aveva perforato un pozzo sperimentale, trovando realmente una promettente quantità di “oro nero”.
La scoperta e lo sfruttamento del petrolio sarebbe stata senza dubbio della massima importanza per quel povero paese che era all’epoca l’Italia, un frutto prezioso del possesso coloniale della Libia, paese anche questo piuttosto povero e non particolarmente produttivo a quell’epoca, e più tardi avrebbe apportato anche un aiuto incredibilmente utile alle operazioni militari italo-tedesche sul litorale nordafricano nel corso della seconda guerra mondiale.
Desio, che aveva ottenuto un’udienza dal duce Benito Mussolini e aveva portato con sé e mostrato con giusto entusiasmo al capo del suo governo un flacone di petrolio libico da lui scoperto, si sentì tuttavia dichiarare: “Abbiamo bisogno di acqua per l’agricoltura e per colonizzare il paese, non di questo campione geologico”. E la cosa finì lì. Il petrolio fu poi scoperto e sfruttato in abbondanza in Libia dopo la seconda guerra mondiale, quando l’Italia ne era già stata estromessa.
Sulle questioni relative alla collaborazione (e a volte alle difficoltà) fra Gesuiti e Cavanis a Venezia per via del liceo e del pensionato, condotti in comune tra le due comunità, si veda il capitolo della casa di Venezia per gli anni 1909-1911.
Il 22 luglio 1911 il direttore dell’Osservatorio meteorologico del Seminario del Patriarcato propone al preposito di aprire un osservatorio analogo presso il Collegio Canova a Possagno, offrendo gli apparecchi e strumenti necessari. La proposta viene accettata. All’inizio del 1913, P. Zamattio da Possagno scrive al Preposito a Venezia che l’osservatorio meteo di Possagno è in funzione, che può mandare i dati relativi al prof. Henning, direttore dell’osservatorio patriarcale di Venezia. L’inaugurazione formale dell’osservatorio meteo di Possagno di effettuerà però il 10 maggio 1913.
Il 1912 è stato un anno pieno di risultati nel campo della confraternizzazione e dell’associazionismo; lo ricorda P. Giovanni D’Ambrosi, amanuense incaricato di gestire da anni e per anni il Diario di Congregazione, dove ricorda in quest’anno (e nei due anni successivi) vari avvenimenti in questo campo: la fondazione del circolo giovanile S. Giuseppe Calasanzio da parte di P. Francesco Saverio Zanon, a Venezia; la fondazione di un’ “Aggregazione del SS.mo Sacramento”, che aveva già 146 ascritti nel maggio 1914; aggregazione che era stata riconosciuta dalla Prima-primaria di tale genere di associazioni eucaristiche a Roma; si istituisce di nuovo, con un nome leggermente diverso, la Congregazione Mariana a Possagno prima, e a Venezia poi.
Per quanto riguarda Venezia, essa riceve il nome piuttosto barocco –rispetto alla Congregazione mariana dei Fondatori- di “Congregazione dei Figli di Maria, sotto il titolo dell’Annunziata e di S. Tarcisio”. Essa riceve prima l’approvazione per decreto del patriarca (11 novembre 1912), poi da parte del Superiore generale dei Gesuiti il decreto di aggregazione alla Prima-Primaria del Collegio Romano a Roma (19 novembre 1912). L’8 dicembre seguente, nella solennità dell’Immacolata si celebra anche l’aggregazione di fatto, con una grande festività, lungamente descritta nel Diario di Congregazione. I membri della nuova Congregazione mariana erano 31. Più tardi, sul finire del 1914, si istituirà anche una conferenza di S. Vincenzo de’ Paoli, con sede in Istituto Cavanis, con il nome tuttavia di “Conferenza giovanile S. Giuseppe Calasanzio”, presieduta provvisoriamente dal presidente diocesano delle conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli, il dott. Agostino Vian.
Ci sembra dunque interessante riportare qui un riassunto schematico della vita e delle attività della Congregazione Mariana di Venezia, proveniente da un quaderno commemorativo pubblicato dalla Congregazione Mariana veneziana in occasione del suo quarantesimo: 1912-1952.
Box: sfogliando i verbali della Congregazione Mariana
25 marzo 1912
Fondazione.
8 maggio 1912
Aggregazione dei primi nove.
14 luglio 1912
La Pia Pratica viene effettuata per la prima volta nell’Oratorio attuale.
17 ottobre 1912
Il primo assistente funge da Prefetto.
27 ottobre 1912
Viene scelto a patrono secondario: S. Tarcisio.
11 novembre 1912
La Congregazione viene approvata dall’Ordinario.
8 dicembre 1912
Solenne funzione per l’aggregazione alla Prima Primaria sotto il titolo dell’Annunciata.
25 marzo 1913
Primo discorso del Prefetto.
25 marzo 1913
Esce il primo “Foglietto „ (commemorativo per la festa).
5 giugno 1913
Gita a Possagno: Primo incontro delle due Congregazioni.
29 ottobre 1913
Un Congregato ottiene per la nostra Congregazione la reliquia di S. Tarcisio.
20 giugno 1915
Sorge la sezione “Eucaristica „.
24 settembre 1915
Divisione dei Congregati in: Aggregati, Aspiranti, e Postulanti.
25 marzo 1916
Vengono benedetti due tipi di medaglie: una col nastro azzurro, da portare alle Pie Pratiche, e una più piccola, con cordoncino bianco, da portare sempre addosso.
22 ottobre 1916
Si crea il nastro verde per gli aspiranti.
22 ottobre 1916
Esce il primo numero del “Nostro Foglietto…
29 novembre 1917
Viene sospesa la stampa del “Nostro Foglietto”.
26 dicembre 1920
Riprende la pubblicazione del “Nostro Foglietto”.
13 novembre 1921
Si stabilisce che il Prefetto deve essere nominato per elezioni.
27 novembre 1921
Gli ex-prefetti sono consiglieri di diritto.
27 marzo 1922
Contributo per una gemma per la corona della Beata Vergine della Salute.
12 aprile 1922
Sorge l’idea delle assemblee generali.
Giugno 1922
Il P. Direttore stabilisce che nessun Congregato possa, senza il suo permesso, iscriversi ad altre associazioni.
Ottobre 1922
Messa in Congregazione di Urbani Giovanni, primo Confratello Sacerdote.
26 gennaio 1923
Sorge la “ Filodrammatica ”. [detta Filo]
1 aprile 1923
Inizia la pratica dell’“ Ora Eucaristica “.
6 maggio 1923
Prima rappresentazione della Filo.
1 luglio 1923
La Congregazione viene consacrata al S. Cuore di Gesù.
22 luglio 1924
Consacrazione Sacerdotale di Piasentini G. Battista.
30 novembre 1924
La processione dell’8 dicembre parte dalla Cappellina del Noviziato, dove ebbe inizio la Congregazione.
17 novembre 1925
Nino Gavagnin è il primo Direttore Artistico della Filo.
17 gennaio 1926
Sorge la “ Missionaria “.
30 maggio 1926
Incidente a Massanzago.
26 novembre 1926
Il bibliotecario è Ufficiale maggiore e interverrà alle riunioni di Consiglio.
3 aprile 1927
Posa della prima pietra del Sacello a Massanzago.
26 maggio 1927
Inaugurazione del Sacello.
11 giugno 1927
S. Marco viene scelto come Compatrono della nostra Congregazione.
16 agosto 1927
Sorge la sezione “Corale,,.
18 marzo 1928
Sorge la sezione di “ Cultura „ con presidente Coja.
Dicembre 1929
Sorge il gruppo del Vangelo.
14 maggio 1931
Viene benedetta nel cortile dell’Istituto la statua della “ Mater Dei”.
8 dicembre 1931
Viene posta in Oratorio una teca votiva, in ricordo del centenario di Efeso.
15 settembre 1932
S. Porfirio eletto patrono della Filo.
3 dicembre 1933
Il “Nostro Foglietto,, sospende le pubblicazioni.
22 agosto 1934
Esce il primo numero de El soprimento.
Agosto 1935
Primo corso di Esercizi Spirituali organizzato dalla nostra Congregazione.
28 gennaio 1936
Morte del Padre Giuseppe Borghese, l’indimenticabile ” Padre Bepi…
Dicembre 1939
Inizia l’attività l’apostolato del mare.
Settembre 1941
Inizia, col quarto d’ora di adorazione per i soldati, la tradizione del “giovedì sera…
24 maggio 1942
Posta nell’Oratorio un’Icona russa della Madonna, donata da Renato Renosto.
1 novembre 1942
Esce il primo numero del “Razzo ”.
Aprile 1943
Viene istituito un “ centralino „ di collegamento con i confratelli soldati.
22 luglio 1945
Sorge la sezione “ Sportiva ”.
1 gennaio 1946
Esce il primo numero de “ Il Sentiero…
24 gennaio 1946
P. Piasentini G. Battista nominato Vescovo di Anagni.
19 marzo 1946
P. Piasentini consacrato Vescovo in S. Agnese.
8 dicembre 1946
Monsignor Urbani Giovanni consacrato Vescovo.
8 dicembre 1949
Viene creato un Prefetto anche per i minori.
6 giugno 1951
Sorge la sezione “ Cinematografica…
7 ottobre 1951
Il Prefetto resterà in carica un triennio.
8 dicembre 1951
Viene indetto il primo censimento dei Congregati.
Aprile 1952
Monsignor Piasentini G. Battista Vescovo di Chioggia.
11 maggio 1953
Solenne Quarantesimo della Congregazione.
Box: censimento della Congregazione mariana di venezia 1952
TOTALE ISCRITTI N. 442
Dalla nostra Congregazione sono usciti finora: 2 Vescovi; 11 Sacerdoti; 2 diaconi; 3 chierici
Attraverso il nostro “ Censimento „ abbiamo rilevato i seguenti dati:
Stato civile:
112 celibi
103 sposati con di 206 figli
Titoli di studio:
128 Laureati, di cui:
24 in Ingegneria
23 in Medicina
23 in Economia e Commercio
21 in Giurisprudenza
14 in Lettere e Filosofia
5 in Farmacia
3 in Lingue Estere
2 in Architettura
2 in Scienze Naturali
2 in Scienze Politiche e Sociali
2 in Magistero di Ragioneria
1 in Teologia
1 in Diritto Canonico
1 in Scienze Diplomatiche
1 in Agraria
1 in Chimica
1 in Matematica
1 in Decorazione
Scenografia
103 Diplomati, di cui:
63 col diploma di Maturità Classica 17 con il diploma di Ragioneria
10 con il diploma di Abilitazione Magistrale
5 con il diploma di Capitano di lungo corso
2 con il diploma di Geometra
2 con il diploma di Perito Industriale
1 con il diploma di Perito Agrario
1 con il diploma di Direttore Didattico
1 con il diploma di Pianoforte
1 con il diploma di Macchinista Navale.
Studenti:
Universitari 45 – Liceali 1
La Congregazione Mariana di Venezia, dopo il quarantennio celebrato nel 1952 anche con quel brillante e divertente Quaderno, continuò poi la sua vita, in modo organizzato e reale, ma senza dubbio meno interessante e più convenzionale, per altri 40 anni circa, fino ai primi anni ’90 del XX secolo. In seguito, smesse le pie pratiche domenicali e le riunioni di consigli e altre attività sistematiche, si limitò a ritrovi periodici di celebrazione e di preghiera, in occasione delle due principale feste di Maria SS.ma, l’Annunciazione (25 marzo) e Immacolata (8 dicembre), con la messa, la tradizionale cioccolata coi biscotti, e un numero sempre minore di soci presenti. La fine della “Mariana” di Venezia si può attribuire in parte alla difficoltà attuale dell’associazionismo in genere; ma in buona parte al fatto che essa era rimasta a Venezia molto tradizionale e del tutto obsoleta, inaccettabile dalle nuove generazioni. Mentre le altre “Congregazioni Mariane”, a esempio e su invito della cosiddetta Prima Primaria di Roma, si erano trasformate fin dal 1968 (con l’approvazione formale pontificia nel 1990) in “Comunità di vita cristiana” o, in sigla, CVX, ritornando alla spiritualità delle origini (~1584), più cristocentrica e meno mariana, quella dell’Istituto Cavanis di Venezia, pur rimanendo associata alla prima primaria, continuava ostinatamente con la medaglia col nastro blu e con tutte le pratiche e lo stile prettamente preconciliari.
Parlando di Congregazione Mariana, tanto importante per i Cavanis, perché è da questo punto di partenza che prendono origine le attività tipo Oratorio (l’ “Orto”), le scuole, e più tardi tutto il resto e la stessa Congregazione, è strano che in fondo l’Istituto abbia realizzato raramente e con notevoli discontinuità delle Congregazioni Mariane nelle sue case:
Altra grande festa fu quella del cinquantenario della fusione del ramo femminile dei Cavanis con le suore Canossiane, celebrata per iniziativa dei due istituti alle Eremite o Romite il 19 dicembre 1912.
Il 24 maggio 1912 arrivò al P. Preposito, attraverso monsignor Pescini, un rescritto di sua santità Pio X, che accorda il privilegio di celebrare la divina Eucaristia anche nello stesso oratorio domestico, dove si riuniscono i bambini delle nostre scuole primarie.
È del 19 febbraio 1913 un’osservazione importante del P. Antonio Dalla Venezia, preposito: “Il Preposito indirizza una lettera a Monsignor Apollonio Ferdinando, arciprete della Basilica [di S. Marco], nella quale combattendo l’opinione troppo diffusa del benessere della nostra Congregazione, gli confessa che siam poveri, e faciendo (sic) appello alla venezianità della nostra Istituzione, lo prega di aver presente nelle molteplici relazioni sue coi benefattori della città, anche la Congregazione nostra”. Il testo è interessante. Succedeva che la gente faceva questo ragionamento: Se i Cavanis fanno scuola gratis, senza far pagare le rette a nessuno, vuol dire che sono così ricchi che non sanno che farsene del denaro. Questo è sempre stato un problema della nostra Congregazione: ancora oggi: di essere assolutamente poveri – ancora oggi nelle e dalle scuole Cavanis i religiosi, insegnanti o no, non ricavano nulla; e vivono delle pensioni sociali dei sacerdoti anziani e delle scarse offerte delle messe; eppure si parla delle scuole cattoliche e delle nostre come di fabbriche di denaro. Lo stesso ragionamento era ed è diffusissimo in Congo, dove le nostre scuole sono del tutto gratuite, e sono le uniche con questa caratteristica in quel paese.
Per il resto, nel periodo dell’unico mandato triennale del P. Dalla Venezia, gli eventi sono stati molto pochi: qualche vestizione, professione, ordinazione, che sono state annotate qui nelle rispettive biografie; qualche viaggio a Possagno, l’unica casa dell’Istituto oltre alla casa madre; qualche rapporto con la curia patriarcale e con il patriarca. La Congregazione sembrava del tutto addormentata.
Forse anche per questo, nel capitolo generale ordinario del 25-26 luglio 1913, il P. Antonio Dalla Venezia terminò il suo mandato triennale di preposito, e fu sostituito dal P. Augusto Tormene, eletto nella prima sessione, il 25 luglio 1913. Nella seconda sessione P. Francesco Saverio Zanon fu eletto maestro dei novizi.
Dopo la fine del suo triennio come preposito generale, P. Dalla Venezia fu eletto 1° consigliere e quindi vicario generale, con sede a Venezia, dal 1913 al 1916; e fu eletto e poi rieletto 2° consigliere generale dal 1916 al 1926, con sede a Venezia.
Il 13 giugno 1921, in occasione del suo onomastico, il preposito P. Augusto Tormene gli offrì il suo ritratto, eseguito dal pittore Giovanni Valentinelli “da porsi nella “camera delle visite” a ricordo della sua prepositura”. Evidentemente il ritratto è quello che fa parte attualmente della galleria dei ritratti dei prepositi generali.
Nel 1922, cosa poco conosciuta, il Dalla Venezia fu preposito interino per circa 6 mesi, dal 25 gennaio 1922 al 24 luglio dello stesso anno, per via della morte repentina di P. Augusto Tormene alla fine del 1921, in attesa che si celebrasse il capitolo generale nell’estate successiva, per l’elezione del nuovo preposito..
P. Antonio rimase in seguito a Venezia ancora due anni, poi lo troviamo a Possagno, naturalmente nella comunità del collegio Canova, dall’autunno 1926 al dicembre 1929, anno della sua morte. Fu colto, infatti, all’inizio della novena di Natale, da una breve e inesorabile malattia a Possagno, dove viveva da quattro anni. Avendo ricevuto i santi sacramenti con l’abituale devozione, spirò placidamente la vigilia di Natale, nel bacio del Signore, nella casa di Possagno, il 24 dicembre 1929. I funerali furono celebrati subito dopo Natale, il giorno di S. Stefano, ossia il 26 dicembre 1929. Il suo corpo giace nel cimitero di Possagno.
1.8 Padre Augusto Tormene, preposito generale (1913-1921)
Augusto Tormene era nato a Venezia il 23 luglio 1873. A 16 anni, il 1° agosto 1889, entrava nella nostra Congregazione, “Fu accompagnato dai genitori, che di nuovo dichiararono di lasciarlo seguire la volontà divina, quantunque ne sentano assai penoso il distacco dalla famiglia”. Fu rivestito dell’abito dell’Istituto il giorno dell’Immacolata (8 dicembre) del 1889; il 12 novembre 1891 emise i voti temporanei. Emise la professione perpetua, dopo la pubblicazione delle nuove regole, il 15 novembre 1894. Ricevette la tonsura e i quattro ordini minori, tutti assieme, il 4 aprile 1893 a Treviso, dal vescovo diocesano monsignor Giuseppe Apollonio. Intanto continuava i suoi studi all’università di Padova, non tanto con la frequenza, ma dando esami; l’ultimo esame lo sostenne il 6 novembre 1894, e ricevette così l’abilitazione all’insegnamento ginnasiale inferiore . Il 15 novembre 1894 il P. Spalmach e i seminaristi Augusto Tormene e Francesco Saverio Zanon furono i primi che, una volta finito il triennio di professione temporanea, si unirono all’Istituto con la professione semplice ma perpetua, secondo le nuove costituzioni (del 1891) nella seconda parte.
Il 4 aprile 1896 Augusto Tormene riceveva l’ordinazione presbiterale in S. Agnese, per l’imposizione delle mani del patriarca Giuseppe Sarto. Ottenne la laurea a Padova il 9 luglio 1902 con 110/110 e lode. La sua tesi ricevette il premio Lattes, e con qualche correzione fu pubblicata. Ben presto, oltre a dedicarsi al ministero della scuola, fu nominato maestro dei novizi a partire dal 1900 e fino al 1904, fu in seguito definitore, cioè consigliere generale, dal 1904 al 1913, fu anche uno dei più famosi e amati rettori del Collegio Canova di Possagno dal 1907 al 1913 e fu eletto preposito generale a soli quarant’anni, nel capitolo generale ordinario del 25-26 luglio 1913, nella prima sessione del 25 luglio 1913. Svolse questo mandato per nove anni, cioè per tre trienni consecutivi, dal 1913 al 1921. Questo periodo fu profondamente segnato dallo scoppio e dallo svolgimento cruento, anche per l’Istituto, della prima guerra mondiale, la cosiddetta grande guerra (1914-1918). La sua vita fu breve: morì durante il suo terzo mandato come preposito generale, a soli 48 anni, lasciando la Congregazione nella desolazione. Era stato molto amato, come pochi.
Uno dei primi atti della prepositura del P. Tormene fu quella di consacrare la Congregazione al S. Cuore di Gesù. Tale avvenimento è così descritto nel Diario di Congregazione: “In questo II° venerdì di ottobre (essendo stato impedito il I°) nell’Oratorio domestico alle ore 8 convenne la Famiglia religiosa di Venezia e un Padre di Possagno per la Consacrazione dell’Istituto al Sacro Cuore di Gesù, come era stato deciso nel Capitolo Generale dello scorso luglio [1913]. Celebrò la S. Messa (votiva del S. C. di G.) e tenne discorsi di Circostanza al Vangelo il P. Preposito [P. Augusto Tormene]. Prima della Messa fu recitata la Coroncina del S. C. di Gesù. Alla Messa fecero la S. Comunione i Chierici, Aspiranti e Fratelli Laici. Seguì la Benedizione Solenne col canto delle Litanie del S. Cuore e Formula di Consacrazione (V. Archivio 1913 N° 30-31). Così fu pure inaugurata la nuova statua di N. Signora del S. Cuore”. Come conseguenza di questa consacrazione, comincia un’esplosione di altre pie pratiche al S. Cuore:
A ottobre: “In ogni aula, come pure in tutte le stanze della Casa [di Venezia] e del Noviziato, fu appesa un’immagine del S. Cuore di Gesù che protegga, benedica e difenda l’Istituto, i suoi membri e gli alunni. E nella Sua santa Carità, buon anno!”
A novembre: “Principio della pia pratica del primo venerdì del mese ad onore del S. Cuor di Gesù. Alle 8.50 S. Messa del P. Preposito con accompagnamento dell’Organo – Coroncina alla Messa Buon numero di Comunioni – Esposizione, Pange lingua, canto delle Litanie del S. Cuore, Tantum ergo”.
P. Tormene era un uomo di grande fede, tutta la sua vita fu improntata e orientata da questa virtù, da un’illimitata fiducia nella divina Provvidenza. Nel diario della Congregazione troviamo spesso frasi come queste: «Ci insegni Gesù che cosa dobbiamo fare; sia fatta la tua volontà; lasciamo fare a Dio! Sempre fede e preghiera; Faccia il Signore quel che è meglio per l’Istituto; ma in tutto lasciamo fare a Dio. Quanto è buono il Signore e paterna la sua Provvidenza! Come è bello riposare con fede presso il Cuore di Gesù! » Commoventi sono le frasi con le quali termina la cronaca di un anno e inizia quella del nuovo. Ne riportiamo alcune: alla fine del 1915: «Vi furono giorni di dolore per l’Istituto, e nel dolore si chiude quest’anno 1915 continuando la guerra e tenendo nell’affanno gli animi, ma uniformati, o Signore, alle Vostre divine disposizioni in Voi pienamente confidiamo presso il Vostro Cuore divino »; alla fine del 1917: « Abbiamo sempre fede: stiamo buoni: lasciamo fare a Dio, e avremo un altro giorno di che ringraziarlo e benedirlo!” e ancora: “Sia sempre benedetto, amato e ringraziato Dio Padre nostro amorosissimo»; e all’inizio del 1918: « E con viva fede ai suoi divini voleri lasciamoci guidare da Dio ».
Durante l’anno 1914 e particolarmente nei primi 5 mesi del 1915, il Diario della Congregazione parla sempre più frequentemente della guerra che si avvicinava, poi della guerra europea – così la si chiamava all’inizio – in corso, poi dell’adesione dell’Italia alla stessa:
P. Augusto Tormene fu dunque preposito generale dell’Istituto durante tutto il periodo della prima guerra mondiale e la guerra fu pesante e dura anche per la Congregazione. I sacerdoti Cavanis a quel tempo erano solo quattordici, cui si aggiungevano parecchi fratelli laici professi; c’erano alcuni aspiranti, qualche novizio e uno e due chierici. Le case dell’Istituto erano soltanto due: Venezia e Possagno. Quale la situazione creata con la guerra? Dodici giovani seminaristi Cavanis italiani vennero richiamati mano a mano sotto le armi: fratel Sebastiano Barbot, Pellegrino Bolzonello, Michele Busellato, Alessandro Vianello, fratel Corrado Salvadori, Vincenzo Saveri, Giovanni Battista Piasentini, Nazzareno De Piante e altri. C’era il pericolo che fossero mandati al fronte anche alcuni padri: particolarmente il P. Giovanni D’Ambrosi, P. Agostino Zamattio, P. Agostino Menegoz e altri.
C’era anche il richiamo sotto le armi di religiosi nostri “tirolesi”, che il consolato austriaco a Venezia controllava periodicamente e che ora, iniziata la guerra, anche se l’Italia non vi aveva ancora aderito, li richiamava alla coscrizione obbligatoria. Un caso tipico fu quello di fra’ Bortolo Fedel, che si trovava a Possagno, venne a Venezia perché richiamato alle armi dall’Austria, ma si decise con coraggio e fede nel Signore, e con la meditata approvazione del preposito, alla renitenza alla leva o, come si sarebbe detto più tardi, all’obiezione di coscienza. Si vedano nella sua breve biografia, in questo stesso volume, i suoi buoni motivi, e le tristi conseguenze.
Due dei nostri dopo la lotta in trincea caddero prigionieri degli austriaci. Quattro morirono, per motivi diretti o indiretti di guerra. Si aggiunga la minaccia di dover abbandonare Venezia, se gli austriaci e tedeschi avessero sfondato sul Piave. Il collegio di Possagno fu chiuso e occupato (e praticament distrutto) dalle forze armate italiane, dato che si trovava, dopo l’ottobre 1917, a pochi chilometri dal fronte del Piave e del Grappa.
P. Agostino Zamattio e P. Giovanni D’Ambrosi partirono profughi prima brevemente a Ca’ Rainati, una frazione di San Zenone degli Ezzelini in provincia di Treviso, poi in Sicilia, in provincia di Trapani, accompagnando generosamente il popolo di Possagno nel profugato; un fratello laico era profugo a Bologna; un padre e sei chierici, trentini e quindi cittadini austriaci, profughi a Tortona in Piemonte. La piccola congregazione era veramente dispersa ai quattro venti. Non c’era forse da disperare? P. Tormene non dispera: è bello riposare con fede presso il Cuore di Gesù!
Nel dicembre 1915 partono i primi tre giovani Cavanis per la guerra. Egli annota in data 16 Ottobre: «Così dovrebbero partire nel prossimo dicembre, impoverendo il noviziato, l’Istituto, la scuola. Ma a Dio non mancano i mezzi anche straordinari e che meno immaginiamo. Sempre fede e preghiera! Intanto apriamo la scuola fidenti in Dio!» 18 Ottobre 1915: «Primo giorno di scuola fino alle 11. Dopo la S. Messa gli Alunni entrarono nelle aule a principiare il nuovo anno scolastico Quanti! Specialmente nelle Tecniche. Anche il ginnasio è numeroso. In prima ginnasio più di 40, mentre in qualche anno il numero era scarso. Malgrado la previsione che potessero essere chiamati quei quattro giovani (che di fatto lo furono) con un atto di viva fede nella Provvidenza si decise quest’anno di rimettere anche la la El. (prima elementare, sospesa l’anno scorso): sicché anche le Elementari sono al completo. Mancheranno poi i maestri in dicembre? Il Signore provvederà, ci dirà come possiamo fare, ci manderà le forze, gli aiuti per lavorare la sua vigna che ci ha affidata, dove è così copiosa la messe. In Te, Domine speravi, non confundar in aeternum! »
Sempre ad ogni partenza di un membro della Congregazione per il servizio militare ripeteva il suo fiat. I suoi figli sono lontani. Egli li segue con la preghiera, con la corrispondenza e li va a trovare: a Padova, a Verona, a Cividale, a Ca’ Rainati, a Mantova, a Tortona. Più tardi, al fronte.
Ai primi di dicembre 1916 arriva in Istituto l’ordine, che poi fu revocato, di lasciare Venezia. «Del resto -scrive in data 5 dicembre – ci guidi e disponga di noi il Signore sempre buono e misericordioso. Egli sarà sempre con noi, se noi saremo con Lui uniformati alla Sua SS.ma Volontà».
Era davvero un tempo di tribolazione! Non è da stupirsi che la frase biblica che era abitudine di iscrivere nell’intestazione di ogni anno nel Diario di Congregazione facesse riferimento proprio a questo:
1917
Domine, miserere nostri: te enim espectavimus:
esto brachium nostrum in mane, et salus nostra
in tempore tribulationis
________________
1 Gennaio –Lunedì – Oratorio festivo. – Alle 11½ pel popolo Ben.[edizione] Solenne con discorsetto del P. Fr. Saverio Zanon (anche jeri).
Alle 18½ Rosario, poi la Pia Pratica dell’estrazione dei Santi Protettori dell’anno per la sola Comunità.
Oggi fu distribuito fra i Figli di Maria il I° N° del loro giornaletto “Il nostro foglietto”, organo della Congregazione Mariana di Venezia e di Possagno.
L’Istituto doveva andare avanti, e, nella speranza e nella fede, si continuava a estrarre a sorte i santi patroni, e addirittura si cominciava a pubblicare un periodico, sia pur modesto, “Il nostro foglietto” della Congregazione Mariana. C’era già stato un “Foglietto” saltuario, per esempio il 25 marzo 1913, per la festa dell’Annunciazione di quell’anno; ma ora si trattava di un periodico. Era la speranza e la fede nel Signore che Geremia consigliava agli esuli di Babilonia: “5Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti”.
Il 1917 e il 1918 furono particolarmente anni terribili. Il 30 luglio 1917 all’età di 27 anni muore a Possagno P. Agostino Santacattarina. «Sia fatta la Volontà sempre adorabile e paterna di Dio », commenta P. Tormene, «chiniamo la fronte adorando e accettando tutto dalle sue mani santissime; Dominus dedit, Dominus abstulit, sit nomen Domini benedictum! Egli ama l’Istituto che è suo, ne conosce i bisogni, provvederà: lasciamo fare a Lui ».
Il dolore non mancava certo al P. Tormene e alla Congregazione! Il 10 ottobre era morto nel seminario minore di Possagno anche l’aspirante veneziano Carlo Trevisan (Carletto) a 14 anni, di malattia. Ciò che scrive P. Tormene nel diario è commovente e molto edificante. “È dunque un Angioletto nostro ora che prega dal cielo pel suo Istituto”.
Il 19 Dicembre dello stesso anno moriva a Bologna, dove era profugo di guerra, Fra’ Bortolo Fedel, trentino di Miola di Piné, pure lui all’età di 27 anni: «Mio Dio che schianto al cuore! — scrive P. Tormene, ma soggiunge — la SS. Volontà di Dio sia sempre adorata, amata, benedetta! ».
Nel gennaio 1918 P. Enrico Perazzolli, di Bosentino (TN) e sei chierici trentini partono profughi per Tortona (Alessandria), ospitati dall’istituto di don Orione. P. Tormene li accompagna nella casa offerta in quella cittadina piemontese dall’amico don Orione, poi annota « Che vuoto al ritorno dopo averli lasciati! Ma lasciamo fare a Dio che ci vuol tanto bene: certo andrà bene così, e così sia! Fiat, Fiat! ».
Il 7 Marzo giunge notizia che il chierico Pellegrino Bolzonello è prigioniero in Sassonia; l’8 Aprile notizia che il chierico Vianello Alessandro è prigioniero in Austria, e nella stessa data giunge a Venezia in licenza dal fronte il novizio soldato Borella Leonardo. Il 3 giugno, P. Tormene va a Ca’ Rainati e assiste alla partenza di P. Zamattio e di P. D’Ambrosi per la Sicilia coi profughi di Possagno, in tutto 830 possagnesi.
Il 12 ottobre 1918 si viene a sapere con certezza che il novizio Fratel Corrado Salvadori, dato per disperso, era invece morto, ucciso in un’azione militare nella notte tra il 27 e il 28 maggio 1917 e si celebra in questa data una messa solenne di funerale, senza avere almeno il suo corpo. Tormene scrive nel Diario: «Era di indole amabile, semplice, piissima: sarebbe stato un Fratello laico amantissimo del suo Istituto: ma il Signore dispose diversamente, e la sua SS. Volontà sia benedetta».
In seguito, P. Tormene scriveva: «Altra corrispondenza giunse a mezzogiorno, ma ahimè! quanto dolorosa. Il nostro caro, amabilissimo Nazareno De Piante (novizio Fratello laico) fatto prigioniero il 17 giugno 1918 sul Piave e tenuto ancora in Italia in attesa di essere mandato in campo di concentramento, il 27 luglio fuggito di prigionia, annegò nel passare il Tagliamento. Aveva 19 anni […] Ma Dio sia sempre benedetto, ringraziato ed amato! È il nostro Padre!».
Al termine di quest’anno scrive: «E passandosi in rassegna dinanzi alla mente tanti innumerevoli benefici fattici dal Signore quest’anno, la gratitudine ci spinge commossi fra le braccia di Lui come figli al cuore del Padre, e ringraziandolo con trasporto d’amore Gli diciamo di cuore anche il Fiat voluntas Tua per le perdite dolorose subite e per tutto quello che di affliggente dispose o vorrà disporre di noi. Ch’Egli sia sempre amato, benedetto, ringraziato! Magnus es Domine, in aeternum, quoniam tu flagellas et salvas! Salvasti nos, Domine; et in nomine tuo confitebimur in saecula! ».
Ci voleva senza dubbio molta fede, molta confidenza nel Signore, molto amore per ringraziare dopo un periodo così duro e così pieno di sofferenza.
Dei mandati di P. Augusto Tormene si possono raccontare anche molte altre cose, oltre a quelle più tipiche, cioè sui fatti di guerra e sulla sua grande bonta e pietà.
Una delle caratteristiche principali del diario compilato dal P. Tormene è il risalto straordinario che viene dato alle devozioni di tutti i tipi: nuove devozioni, associazioni devozionali fondate (o ricostituite) durante il suo mandato, novene, coroncine, litanie, ora di adorazioni; l’aspetto devozionale della vita religiosa e dell’educazione della gioventù prevale nettamente sull’elemento liturgico.
In compenso, un tema che ritorna spesso nel Diario di Congregazione del tempo di P. Tormene e particolarmente dei suoi primi anni come preposito, è quello delle prime comunioni, di cui si parla spesso e con entusiasmo: ciò si può capire, perché era avvenuto appena tre anni prima dell’elezione di P. Tormene a preposito generale che il papa Pio X, con il decreto Quam singulari dell’8 agosto 1910, promulgato dalla Congregazione dei Riti, aveva abbassato l’età minima per la prima ricezione dell’eucaristia dai 12-14 anni ai 7 anni, cioè alla cosiddetta età della ragione. Pio X infatti riteneva che non era necessario che il bambino conoscesse tutta la dottrina; era importante però che potesse distinguere il pane normale dal pane eucaristico, che è il corpo di Cristo. C’era quindi in quegli anni un particolare entusiasmo attorno alle prime comunioni, in parte per la novità, in parte per il forte legame tra l’Istituto Cavanis – e in particolare P. Tormene – e Pio X. Questi inoltre aveva anche incrementato la comunione frequente e anche quotidiana, contro l’uso precedente.
Un’altra di queste cose è la scarsità di vocazioni all’inizio del governo di P. Tormene. Nel 1914 c’era in Congregazione un solo studente di teologia, il giovane Michele Busellato, anche se c’erano parecchi novizi e aspiranti. Lo si viene a sapere dal diario, perché il chierico Michele in questa data tenne il suo primo discorsetto in refettorio dei padri nel primo giovedì di quaresima. Era una pratica che continuò fino agli anni ’60 del XX secolo, e chi scrive se ne ricorda personalmente; era una forma di far fare penitenza ai padri ascoltando un discorso, spesso deboluccio, durante una cena; e al tempo stesso far fare esercizio pratico di omiletica al chierici di teologia, e far fare anche a loro un po’ di penitenza. Si aveva infatti una paura notevole di pronunciare questi discorsi, perché si tenevano stando seduti al centro del refettorio, davanti a un piccolo tavolino, ovviamente senza alcun sussidio o schema scritto, davanti a tutta la comunità dei padri e fratelli, che negli anni di P. Tormene comprendeva una quindicina di religiosi, ai miei tempi una ventina o più. Essi a volte si sollazzavano e ridacchiavano, in genere piuttosto critici sulle prime esperienze oratorie dei giovani chierici. Mi è ancora rimasto impresso il tema del mio primo discorso, tema che veniva comunicato all’interessato 24 ore prima: era il bellissimo capitolo 8 di Amos, e la frase (Am 8, 11):
“11Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore Dio – in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore”.
Nel caso del 1914, in diario commenta: “5 marzo – I° giovedì di Quaresima – Alla sera in refettorio il Ch.co Michele Busellato fece il suo primo discorsetto secondo le nostre Costituzioni. Ritornato così in vigore questo punto di regola, avrà luogo il II° discorsetto il I° giovedì di aprile; una volta al mese soltanto essendo uno solo studente di Teologia e avendo parecchie occupazioni scolastiche”.
Ci fu nel 1914 una proposta di assumere la direzione del collegio dell’Angelo custode di Rovigo, offerto dal vescovo di Adria, mons. Anselmo Rizzi, ma dopo varie tergiversazioni la cosa non fu accettata.
Tra agosto e settembre 1914 molte pagine sono occupate da notizie sulla malattia, la morte, i funerali di Pio X – che P. Tormene come molti altri giudica morto di crepacuore per l’inizio della grande guerra – e dalle notizie del conclave e dell’elezione di Benedetto XV; come pure alla corrispondenza relativa a questi importanti avvenimenti della chiesa.
Il 25 maggio 1916 la salma di P. Sebastiano Casara fu riesumata e fu sistemata più tardi (il 9 giugno 1916) in un loculo perpetuo nella cappella di S. Cristoforo, della Confraternita della Misericordia nel cimitero di S. Michele. Il Diario di Congregazione dà una lunga descrizione del fatto e della situazione delle spoglie di P. Casara. Se ne è già accennato sopra, verso la fine della sua lunga biografia.
Il 17 luglio 1916 iniziò il capitolo generale ordinario e in questo primo giorno (prima sessione, ma una sessione preliminare era stata realizzata il giorno precedente, 16 luglio) fu rieletto il P. Augusto Tormene a preposito generale, “Come Dio dispose e che non sia a danno dell’Istituto”, come commentò nel diario il P. Tormene in persona. Delle altre cariche, generali e locali e delle due famiglie di Venezia e Possagno, si vedano le rispettive tabelle.
Il 21 luglio 1916 il patriarca card. Pietro La Fontaine aveva chiesto ai padri Cavanis di accettare di assumere la direzione della Casa del Soldato, che doveva lasciare il sestiere di Castello e passare a S. Agnese, nell’edificio che aveva sostituito parte dell’antica “casetta”, in faccia alle scuole. Dopo qualche difficoltà e un buon dibattito, sentiti soprattutto i PP. Definitori, P. Augusto Tormene accettò il 29 luglio 1916. Tale casa fu aperta il 20 agosto, e continuerà aperta fino alla fine della guerra. Da notare, di passaggio, che il patriarca La Fontaine fino a questo punto era arcivescovo e patriarca di Venezia, ma non cardinale, e il diario lo chiama “Eccellenza”; sarà “creato” cardinale, come registra il diario il 4 dicembre 1916. Il Patriarca in questa occasione gradì molto la festa che gli organizzò l’Istituto Cavanis; era sempre cordialissimo con i religiosi Cavanis, e lo dimostrò particolarmente quando, nella settimana santa 1917 predicò lui stesso gli esercizi spirituali alla scolaresca dell’Istituto, essendosi offerto per questo servizio di sua iniziativa.
Il 20 agosto 1916, il Diario di Congregazione recita:
“Preparata ogni cosa coi membri del Comitato per l’Opera della “Casa del Soldato” che sono monsignor Paganuzzi Fco., don Mario Vianello e monsignor Tommaso Zanardi – economo –, colla benedizione implorata il dì innanzi dall’Ecc.mo Patriarca, oggi alle 16 si aperse la “Casa del Soldato” senza cerimonie né avvisi sui giornali. Furono solo mandati degli avvisi a stampa nelle caserme col nuovo indirizzo in sostituzione di quelle che già c’erano coll’indirizzo di Castello. Il numero dei soldati intervenuti fu discreto. Si cominciò subito a distribuire cartoline illustrate, fogli e buste per lettere; le sale messe con molto decoro hanno ogni comodità per lettura di giornali, posti per scrivere, tavoli da giuoco: nella sala che conduce alla direzione v’è il bigliardo; v’è pure un buon pianoforte nella Iª sala dei giuochi. Nel cortile furono fatti due stradoni per giuoco di palle: di più vi sono gli attrezzi di ginnastica e la palla-calcio. A fianco dell’androne la cameretta del portinaio fu ridotta a bottiglieria (bar, probabilmente) per comodità dei soldati. Sulla sera il numero dei soldati aumentò per la venuta degli scritturali del vicino distretto che si fermaron fino alle 22, ora di ritirata. Il P. Preposito pregò il P. Rossi di prestarsi il più possibile in quest’opera: sarà aiutato dai Confratelli, ma lui in modo particolare ne renda la più interessante cura”.
Nel frattempo, è da notare che Possagno entra in zona di operazioni nel 1916 (già prima della sua estrema vicinanza al fronte che si creerà dopo la disfatta di Caporetto nell’autunno 1917) probabilmente perché la fascia pedemontana alle falde del M. Grappa costituiva una zona di cerniera tra le due vallate del Brenta e del Piave, che mettevano ambedue in comunicazione l’Italia con l’Austria e quindi ora con il fronte. Di fatto, per andare a Possagno, a partire da questo periodo, ci voleva uno speciale passaporto detto salvacondotto, forse anche in conseguenza della cosiddetta Strafexpedition, che in tedesco come si sa vuol dire “spedizione punitiva”, combattuta tra il 15 maggio e il 27 giugno 1916, sugli altipiani vicentini o dei Sette Comuni, tra l’esercito italiano e quello austro-ungarico. In tedesco la battaglia è individuata piuttosto come Frühjahrsoffensive (ossia Offensiva di primavera) o Südtiroloffensive. Si trova notizia di questo salvacondotto speciale necessario, oltre al normale passaporto, per raggiungere una zona considerata sensibile o strategica nel diario di Congregazione, p. 145, vol. VI, 31 luglio 1916. I due padri Antonio Dalla Venezia e Giovanni Rizzardo tuttavia riuscirono a raggiungere Possagno, il primo per restarci, il secondo per una visita alla comunità e alla sua famiglia, anche senza il nuovo salvacondotto, ma soltanto con il passaporto, essendo conosciuti.
Nel 1916 la situazione di guerra peggiorava via via, e si aveva sempre più bisogno di “carne da cannone”; e si capisce, se si pensa che in questa guerra da parte italiana i soldati uccisi (senza contare i civili) furono circa 650.000: si chiamarono alle armi la classe del 1881, cui apparteneva il P. Giovanni Rizzardo e quella del 1876, uomini ormai di 40 anni, con moglie e figli a carico; classe cui apparteneva P. Arturo Zanon.
Lo stato italiano non rispettava, dal punto di vista militare i seminaristi, come si è visto, né i preti che non fossero in cura diretta d’anime; per evitare la loro chiamata alle armi e l’invio al fronte, con la collaborazione generosa della diocesi di Venezia, il primo allora fu nominato cooperatore della parrocchia di S. Silvestro, il secondo cooperatore di quella di S. Pietro di Castello, in modo puramente burocratico e nominale. All’inizio del 1917 del resto, il 17 gennaio, il preposito, P. Augusto Tormene, fu nominato rettore della chiesa (divenuta rettoriale per l’occasione) di S. Agnese, in modo di evitare di ricevere la cartolina precetto, se si fosse chiamata, come sembrava (ed era) imminente la chiamata alle armi della classe del 1873, cioè di uomini adulti di ben 44 anni! La strage era stata e continuava ad essere così grande, soprattutto sul fronte dell’Isonzo, ma anche sugli altopiani, che la gioventù era stata in gran parte divorata, e si chiavano i ragazzini e gli uomini fatti, padri di famiglia.
A S. Agnese, in rio terà Antonio Foscarini, la Casa del Soldato diretta dall’Istituto Cavanis diventava sempre più conosciuta, frequentata e importante per la popolazione militare di guarnigione o di passaggio a Venezia. Il 12 settembre 1916 la casa ricevette la visita del ministro della guerra, del generale Rossi, comandante del Presidio di Venezia e, a fare da padrone di casa, assieme ai padri Cavanis, il Patriarca di Venezia monsignor La Fontaine. Ancora più frequentata era la casa più tardi, nel novembre successivo. Si era cominciato a recitare ogni sera il rosario nella cappella e vi si celebrava la messa ogni mattina, per cui si era chiesto al Patriarca di conservarvi il SS.mo Sacramento.
Il 5 dicembre, il preposito Tormene andò a prendere a Possagno fra Bortolo Fedel e cercò per lui un posto come residenza provvisoria in una casa religiosa fuori del Veneto, che correva pericolo di invasione austriaca, perché il fratello, in quanto trentino, era suddito austro-ungarico e quindi in pericolo di essere catturato come renitente alla leva o, peggio, disertore e di essere fucilato. Cercò prima a Roma presso gli Scolopi, poi in varie case di altri istituti, infine lo sistemò a Bologna presso i cappuccini in un primo momento, ma poi come sistemazione definitiva, fino alla fine della guerra, lì a Bologna presso la comunità dei PP. Barnabiti, grazie all’amicizia del rettore P. Fracassetti, che era stato ex-allievo dei Cavanis a Lendinara!
Intanto, il giorno dell’Immacolata, l’8 dicembre 1916, si celebrava una grande festa: la vestizione di sei postulanti che entravano in noviziato, di cui ben cinque rimasero poi perseveranti fino alla morte: Valentino Fedel, Vincenzo Saveri, Mansueto Janeselli, Nazareno de Piante, Leonardo Borella, Giovanni Battista Piasentini. P. Tormene nel diario commenta: “Forse mai nella storia dell’Istituto avvenne vestizione sì numerosa!” Bisognerà attendere molti anni perché ce ne fosse un’altra così numerosa, e tanto più di novizi così perseveranti.
Si parlava del Tempio votivo del Lido; l’annuncio fu dato dal Patriarca La Fontaine per Natale 1916; si faceva voto di erigere questo tempio pregando il Signore di far interrompere la strage della guerra; il voto fu emesso il 6 gennaio 1917, solennità dell’Epifania del Signore, nella cattedrale di S. Marco, durante un pontificale solennissimo.
Intanto però aumentava il numero dei seminaristi e altri religiosi Cavanis chiamati alle armi e inviati al fronte: oltre a quelli più conosciuti e di cui si parla più in dettaglio, bisogna ricordare il novizio Artemio Tretto, richiamato in fanteria, ed era della classe del 1898; i novizi Leonardo Borella richiamato nel Genio elettricisti e Nazzareno De Piante richiamato in fanteria (due dei sei di cui sopra); questi tre partirono il 14 giugno 1917.
La guerra intanto aveva portato via all’Istituto il seminarista minore Carlo Trevisan, per complicazioni intestinali iniziate con un caso di dissenteria, malattia tipica del tempo di guerra, tra i militari e i civili; ora cominciava la parte più triste della guerra stessa.
“La sera del 26 [ottobre 1917] il Comunicato Cadorna partecipava alla nazione l’invasione degli Austro-Tedeschi nel territorio della Patria, occupato l’altipiano di Bainsizza, e marciando verso il Tagliamento. Sul Bainsizza c’era il nostro Aless. Vianello, Aspirante Ufficiale 79 Fant.[eria], 3ª Sezione lanciatorpedini. Sul [Monte] S. Gabriele il nostro Bolzonello Pellegrino Caporale 58° Fant.[eria], 10 Compagnia. Signore, fiat voluntas tua!” Si trattava dello sfondamento del fronte da parte dei tedeschi, seguiti poi dagli austriaci, a Caporetto.
L’avvicinarsi del fronte alla città di Venezia e la possibile e temuta invasione di tutto il Veneto fino al Po, richiedevano una serie di provvedimenti da parte della Congregazione, come del resto avveniva da parte di molti cittadini di Venezia e del Veneto. Nel Diario di Congregazione, al 6-7 novembre 1917, troviamo il seguente testo: “6 Nov. Martedì- Il Preposito, dietro autorevoli consigli, pensa di mettere al sicuro il Noviziato (che ha 6 Trentini), e il P. Enrico Perazzolli, pure Trentino, e qualche altro padre se desidererà, nel Conventino dei Cappuccini di Budrio (in provincia di Bologna) offerto fin dall’anno scorso dal caritatevole Provinciale di Bologna. – Qui in città v’è molto panico: l’esodo dei veneziani si fa ogni giorno più numeroso. Anche il bando dell’Ammiraglio pel censimento della popolazione, per cui ogni capo famiglia deve riferire quanti ha in famiglia e dove intende trasferirsi nel caso che il Comando ordinasse lo sgombero di Venezia ha aumentato l’esodo frettoloso. Nelle nostre scuole oggi vuoti impressionanti. – Prima però che l’Istituto si divida, il Preposito ha stabilito che si faccia in Comunità un triduo di adorazione a Gesù sacramentato per ricevere luce e benedizione in momenti e decisioni così gravi. Oggi I° giorno dell’Adorazione nell’Oratorio di Comunità dalle 16 ½ alle 17 ½: Pange lingua – Christum regem – preghiere individuali – Alla mezz’ora coroncina del S. C. di Gesù – preghiere individuali – Alla fine dell’ora: canto del Miserere, Tantum ergo.-. 7 Nov. Mercordì – II giorno del Triduo. Facendosi più allarmanti le voci, Fra Bortolo Fedel per le speciali sue condizioni nel caso di invasione, partì per Bologna dopo l’adorazione. Se il Noviziato partirà per Budrio, [fra Bortolo] vi si unirà, se no, resterà ospite del buon P. Fracassetti al Coll.[egio] S. Luigi.” Nel III° giorno del Triduo, si fece un voto al S. Cuore di Gesù di fare una celebrazione solenne con la scolaresca dopo un digiuno di chi potesse, a cose finite, cioè dopo la guerra.
Non si partì poi, nonostante fosse stato organizzato un treno speciale per i religiosi e molto specialmente per le comunità religiose femminili, e nonostante i novizi trentini e vari padri avessero preparato i bagagli. Il treno partì, ma i Cavanis per il momento rimasero a Venezia, anche per consiglio del Patriarca La Fontaine, e i bagagli furono sfatti.
Invece il 15 novembre 1917 arriva al preposito una cartolina di P. D’Ambrosi, che era partito “colla popolazione povera di Possagno” per Ca’ Rainati, la prima tappa della lunga odissea, cui si aggiungerà poi P. Zamattio. Il vescovo di Treviso aveva dato al giovane e coraggioso P. D’Ambrosi “tutte e facoltà parrocchiali”, “(non avendoli seguiti il Vicario parrocchiale)”, che anzi era ritornato al sua paese natio! È interessante questo dato, che si trattava della frazione povera del popolo. I ricchi o benestanti avevano provvisto in altro modo, con il denaro o con gli appoggi.
Nel frattempo, gli altri padri Cavanis della comunità di Possagno si erano trovati spiazzati: ordinato lo sgombero del Collegio Canova, degli allievi convittori e dei religiosi, perché era stato requisito dall’esercito italiano (dal 12 novembre 1917), i padri Carlo Simioni e Antonio Dalla Venezia (e probabilmente con loro qualche fratello laico purtroppo non nominato, tra cui probabilmente fra Vincenzo Faliva), si erano spostati successivamente a Crespano (Tv), Marostica (Vi), Vicenza, Padova, Rovigo, in un circuito counterclockwise, approdando infine a Venezia. Il preposito infatti li fece mandare a prendere a Rovigo, dove si trovavano ospiti dei cappuccini, da fra Angelo Furian, e condurre a Venezia, dopo averne chiesto e ottenuto il permesso al comandante dell’Arsenale, colonnello Costa. “Ora per ogni dovere e diritto faranno parte della Famiglia di Venezia”, conclude P. Tormene nel diario.
Forse con i due padri sfollati di Possagno, dal 25 novembre 1917 erano giunti a Venezia e furono ospiti di quella comunità per un certo tempo anche nove convittori del Collegio Canova, le cui famiglie abitavano nel Veneto orientale o in Friuli, nei territori occupati dall’esercito austro-tedesco. Intanto il collegio era stato occupato e devastato (e analogamente tutto il paese di Possagno) dall’esercito italiano (si noti bene!), che nell’occasione sembrò più un esercito nemico che amico, una vera invasione di Unni: un certo Maggiore Ricci, buon cristiano che senza conoscere personalmente i padri aveva salvato parecchi mobili, tutti i libri, e oggetti soprattutto liturgici appartenenti alla comunità Cavanis e li aveva depositati nel seminario diocesano di Padova, riferiva al P. Tormene “che il Collegio non ebbe forti danni dalle granate nemiche, però fu saccheggiato dai nostri soldati essendo rimasto incustodito: quello ch’egli salvò è quanto rimane dello sperpero inconsulto e vandalico dei soldati. Il Tempio soffrì danni solo nella parte posteriore per granate. La Gypsoteca è quasi distrutta essendo crollato il tetto, e pochi gessi poterono essere trasportati in salvo. Il paese è deserto e molte case distrutte. Povera Possagno!” Era veramente strano che i padri non avessero provveduto, come in altri casi (per esempio nella guerra del 1848-49 a Venezia e nelle varie case durante la II guerra mondiale, proprio a Possagno per esempio) a lasciare qualcuno di guardia nel collegio Canova o nei dintorni. Sembra che la comunità locale, oltre ad essere stata sloggiata per ordine del comando militare, fosse veramente caduta in panico. Il testo di cui sopra, datato del 15 dicembre, sembra accennare a una nota di critica in questo senso, con quella frase “essendo rimasto incustodito”.
Il maggiore Ricci, venuto più tardi a Venezia “per suoi studi nell’osservatorio del Seminario, si fermò tanto volentieri [a pranzo] con noi; è religioso e modesto. Noi gli dobbiamo assai per quanto fece spontaneamente pel nostro Collegio di Possagno”.
Interessante l’annotazione entusiastica, di sapore crociato, di P. Tormene, scritta nel diario il 10 dicembre 1917: “Oggi Gerusalemme è ritornata in mano ai Cristiani! Ne sia ringraziata la Divina Provvidenza che per vie occulte agli uomini tutto conduce ai suoi altissimi fini!” Il controllo dei cristiani (anglicani, in maggioranza) su Gerusalemme e sulla Terra Santa sarebbe durata, in modo abbastanza infelice, poco più di 20 anni, durante la fase conclusiva della guerra, e poi fino alla fine del mandato della Palestina, frutto degli Accordi Sykes-Picot del 1916, che permise alla Gran Bretagna di governare la Terra Santa tra il 1920 e il 1948, dopo la sconfitta dell’Impero ottomano. In seguito essa sarebbe stata governata di nuovo da non cristiani, cioè dallo Stato di Israele e dal regno della Giordania.
La vigilia di Natale e la festa stessa furono rattristati dal fatto che il comandante della piazza di Venezia negò di rinnovare i permessi di soggiorno a Venezia ai religiosi Cavanis trentini; questi dovevano lasciare la città entro il 4 gennaio 1918. Non era proprio un ordine ma un consiglio di andarsene nel loro interesse, per evitare pericoli. Ma valeva per un ordine. Il Patriarca La Fontaine diede l’idea di scrivere “a un santo sacerdote di Tortona, Don Luigi Orione, che ha delle case di Provvidenza alla Cottolengo, chiedendogli posto nel suo Noviziato pei 7 Trentini che dovranno partire il 4 gennaio.” Il preposito scrisse a don Orione – sembra sia stato questo il primo contatto tra i Cavanis e don Orione – e questi rispose positivamente il 31 dicembre, offrendo al gruppetto di Cavanis sfollati la villa di Bra, in provincia di Cuneo (Piemonte), affermando che “li accoglie a braccia aperte”.
Vale la pena senza dubbio di riprodurre qui un commento sintetico del preposito P. Augusto Tormene sul difficile e per molti versi tragico anno 1917: “Il Preposito passò in rivista i grandi benefici concessi dal Signore all’Istituto nel 1917, anche nelle stesse tribolazioni e commemorò i cari nostri perduti: P. Santacattarina, Carletto Trevisan, Bortolo Fedel, – e forse perduto anche Corrado Salvadori del quale mancano notizie dal 28 maggio. – Ricordò i cari nostri soldati, le loro sofferenze, e l’esemplarità della loro vita quale si rispecchia nelle loro lettere e come consta dalle dichiarazioni dei loro Cappellani ed altre fonti. – Abbiamo sempre fede: stiamo buoni, lasciamo fare a Dio, e avremo un altro giorno di che ringraziarlo e benedirlo”.
Dopo la festa di S. Agnese del 1918, tentato di tutto per evitare la partenza, il 2 gennaio i sette trentini, cioè P. Enrico Perazzolli e sei chierici, partono per Tortona, invece che per Bra, dove li invitava e li aspettava don Orione. Segue una regolare corrispondenza tra i sette profughi trentini e il preposito, e anche tra quest’ultimo e don Orione. Il patriarca poi aveva dato e continuava a dare tutto il suo appoggio e il suo aiuto.
Il resoconto che fa il P. Augusto Tormene della sua visita alla piccola comunità Cavanis-Trentina profuga e ospite di quel sant’uomo di don Orione a Tortona, in occasione della Pasqua e dei giorni immediatamente successivi (31 marzo-5 aprile 1918), merita di essere trascritto integralmente:
“5 Aprile – Venerdì – Alle 13 ½ ritornò a Venezia il P. Preposito (…). Riferì le carissime e sante impressioni ricevute a Tortona. I giovani confratelli sono sotto le cure e la guida di un uomo veramente santo; stanno benissimo di salute, e tranquilli e sereni di spirito. Nella loro casetta di S. Rocco fanno vita religiosa da soli osservando pienamente le regole del Noviziato. Alla casetta annessa la Chiesa che officiano e alla quale accedono internamente, e di più dal corridoio superiore passano alla cantoria dove compiono le loro pratiche comuni fra il giorno. Il Convitto Ecclesiastico dove studiano Teologia i quattro Chierici è muro a muro con la casetta: a due viuzze di distanza c’è la Casa della Divina Provvidenza di Dn. Orione dove vanno pei pasti. I due Novizi liceisti studiano con buon orario privatamente con P. Enrico [Perazzolli] e Chierici. P. Enrico ha anche alcune ore di scuola ai Chierichetti di Dn. Orione e qualche ripetizione: i Chierici un po’ di scuola serale ai ragazzi profughi, più il canto o servizio al Duomo nei dì festivi; sicchè la loro giornata senza essere eccessivamente piena, è però bene occupata fra pietà e lavoro. Furono molto cordialmente accolti da monsignor vescovo e dal rettore del Convitto; sono ben visti generalmente. Dn. Orione poi è loro Padre, e che Padre! C’è per loro il disagio di dormire in comune e in una povertà più che stretta, inoltre la separazione dalla comunità di Venezia a cui sospirano con vivissimo affetto: ma date le attuali dolorose circostanze , il Signore li ha guidati con una Provvidenza amorosissima dove nulla manca loro nè pel corpo nè per lo spirito, e dove – speriamo – la prova del dolore può far loro del gran bene.
Al Preposito Dn. Orione usò attenzioni più che fraterne: con lui andò a visitare Mons.r Vescovo lietissimo d’aver i nostri Chierici, e il Vice-Prefetto che diede loro il sussidio facilmente: jeri – giovedì – pranzò insieme a lui e ai Chierici (…). Raccontò tante cose belle col suo linguaggio da Santo che innamora. Quanto cuore generoso, quanta fede ardente! P. Enrico e i Chierici ne sono entusiasti, e ciò è di grande vantaggio al loro spirito – andando anche a confessarsi da lui – e di lenimento alla pena dell’esilio. Deo gratias, Deo gratias”.
In questi ultimi mesi di guerra, come del resto nei primi mesi del dopoguerra, il diario riporta un andirivieni di brevi visite-licenza di seminaristi soldati, di notizie e a volte di cartoline o lettere dai e ai soldati al fronte e di quelli prigionieri (Pellegrino Bolzonello in Germania e Alessandro Vianello in Austria); come pure la partenza di altri religiosi per la guerra, come P. Agostino Menegoz e il novizio Mario Miotello; e ancora la partenza dei possagnesi profughi, con i loro angeli custodi, P. D’Ambrosi e P. Zamattio da Ca’ Rainati a Marsala, all’estrema punta occidentale della Sicilia, il 3 giugno 1918.
Il 5 giugno 1918 “Il Preposito [P. Tormene] partito il I° giugno mattina per Ca’ Rainati ritornò stasera a Venezia. Passò l’1 e 2 giugno in cara compagnia dei PP. Zamattio e D’Ambrosi assistendo ai preparativi di partenza, ammirando la fiducia dei Possagnesi nei due Padri e l’opera zelante e intelligente dei due cari Confratelli che guidano un’intera popolazione con calma e ordine come un Collegio: la mattina del 3 giugno [il Preposito] assistette alla partenza del primo treno formato da 830 possagnesi guidati dal P. D’Ambrosi a cui diede il saluto d’arrivederci e la benedizione a Cassòla (sic) stazione di partenza. – La mattina del 4 col P. Zamattio, rettore del Collegio Canova, e l’assessore e fabbriciere Angelo Cunial in un camions (sic) militare messo dal Prefetto di Treviso a disposizione dei due Padri per questo esodo, muniti di speciali permessi, andò a Possagno a rivedere ahimè! il vuoto, saccheggiato, rovinoso Collegio, a vedere la desolazione del paese. Da granate nemiche è colpita la Chiesetta, l’ala a est e quella a sud del fabbricato, anche, ma poco, il fabbricato maggiore a nord. Oggetti nessuno – tutto portato via o pesto o reso inservibile. Si potè salvare, coll’ajuto di due buoni militari della Territoriale stanziati in Collegio, la Pala di S. Gius. Calasanzio e di S. Teonisto, e la pietra sacra dell’Altare della Chiesetta. È però intatta ancora la statua della Madonna della Custodia che dal cortile stende le sue Mani a protezione. E non la si rimosse: resti a custodia del Collegio Suo! – Passati al Tempio ne fu aperta la Cassa-forte ed asportato l’Archivio parrocchiale ivi conservato: il Tempio porta le traccie dell’ingresso forzato e della profanazione dei francesi, ma non gravi guasti: ora è alla custodia un carabiniere che non permette l’ingresso senza speciale permesso del Comando (meglio tardi che mai!) – Caricato il Camions si passò a far visita alla famiglia Casona che custodisce qualche cosa del Collegio (troppo poco) sottratta affettuosamente alla furia rapitrice dei nostri soldati nei primi giorni quando dal collegio uscì il Comando che vi alloggiava e non provvide a una custodia del locale da cui i nostri Padri erano usciti dietro garanzia del Comando che tutto sarebbe rispettato. Quindi ritorno a Ca’ Rainati col cuore stretto stretto, non invidiando però le quattro o cinque famiglie che ancora vi sono in posizione abbastanza nascoste al tiro delle granate che giungono fino a S. Pietro (Croce). Quante rovine, quanto silenzio, quanti guasti! Che impressione incancellabil! – A Ca’ Rainati, dopo due ore di sosta per caricare il camions degli altri oggetti del Tempio precedentemente raccolti presso i Padri, ultimo saluto al caro P. Zamattio che cogli altri 600 [possagnesi] partirà giovedì per raggiungere P. D’Ambrosi; quindi in camions partenza per Padova. Vi si giunge tardi, verso le 20: i Preposti però al Seminario cortesemente aderirono alla richiesta che anche questi ultimi oggetti potessero esser custoditi cogli altri del Collegio portati il dicembre scorso dal buon Maggiore Ricci, e ne fu fatto il trasporto nei locali adiacenti alla Tipografia. – Quindi il Preposito pernottò presso i Filippini – Il mattino seguente ritornò in Seminario per una migliore sistemazione degli oggetti – poi partenza per Venezia … quasi sognando: eppur è vero quanto vide e udì, è vero e doloroso il grande distacco dai Confratelli! Lasciamo fare a Dio!”.
Da notare, a proposito dell’impresa dei due padri D’Ambrosi e Zamattio con il loro gregge pastorale di 1460 profughi possagnesi, è la frase che scrisse di loro e per loro (in una lettera al P. Zamattio) il vescovo di Treviso, il Beato monsignor Giacinto Longhin: “I venerati Padri Cavanis hanno scritto una pagina magnifica della storia del loro Pio Istituto a Possagno, ed io non ho parole per vivamente esprimere tutta la mia riconoscenza”.
Il 15 e rispettivamente il 23 giugno, il diario dà conto dell’inizio e della fine della terribile battaglia detta poi “del solstizio” o “seconda battaglia del Piave”, che costituì l’ultima, estrema e frustrata offensiva delle forze armate austro-tedesche su questo fronte. P. Tormene si rallegra della fine dell’offensiva, ma ha una spina nel cuore: il novizio Nazzareno de Piante non scriveva dal 14 giugno, il giorno prima dell’inizio dell’offensiva. Aveva ben motivo di essere preoccupato!
Il 5 luglio si concludeva con una santa messa celebrata in S. Agnese e con la normale premiazione quell’anno scolastico 1917-1918, molto difficile e complicato, che, nell’unica casa dell’Istituto aperta e funzionante, quella di Venezia – dato che l’unica altra, di Possagno, era chiusa dopo la rotta di Caporetto – che aveva avuto il corpo docente dimezzato dall’assenza di vari religiosi sparsi per l’Italia, come militari, rifugiati, profughi, malati in ospedali militari, defunti; e il corpo discente più che dimezzato a causa del profugato di massa che aveva attinto la popolazione veneziana e quindi anche i bambini e ragazzi studenti ai Cavanis. Il nemico da pochi giorni aveva attaccato e aveva creato temporaneamente una testa di ponte sulla destra Piave, arrivando molto vicino al Cavallino, praticamente in comune di Venezia; e al contrattacco, a partire proprio dall’importante centro di smistamento del Cavallino, avrebbe dovuto partecipare anche il religioso Cavanis geniere lagunare Giovanni Battista Piasentini, se un attacco di febbre non glielo avesse impedito. Profeticamente, secondo P. Tormene, don Orione avrebbe detto in proposito: “Questa febbre dovrebbe aumentare!”. Ed essa aumentò sufficientemente per fargli perdere l’appuntamento probabile con la morte!
I quattro chierici teologi ricevettero il suddiaconato dal vescovo di Tortona, monsignor Simon Pietro Grassi, nel suo episcopio, durante il tempo del profugato, l’8 settembre 1918, nella memoria della Natività di Maria. Nell’occasione, il preposito P. Augusto Tormene, dopo essere passato alla villa di Bandito, presso Bra (CN) per incontrare i giovani confratelli in quella villa che era divenuta loro sede provvisoria di vacanze estive, si fece presente a Tortona e alla celebrazione, e rimase lì qualche giorno, fino al 18; il dato più interessante è che don Orione “Spera che i due Istituti si completino a vicenda lavorando insieme. Lasciamo fare a Dio” . In effetti ci fu una fase di collaborazione fra i due istituti, in genere per iniziativa soprattutto di don Orione, don Sterpi e collaboratori; poi poco a poco ci si allontanò. La frase sopra citata di P. Tormene lascia l’impressione che da un lato P. Tormene fosse grato a don Orione della sua amicizia e del suo interesse (e certamente del suo concreto aiuto); ma d’altra parte che egli volesse mantenere un po’ le distanze.
Il 12 ottobre, quasi alla fine della guerra, ci fu un altro grave lutto: si venne a sapere tardivamente, ora con sicurezza, della morte al fronte del novizio Corrado Salvadori sul Carso. A Venezia si celebrarono esequie solenni.
E il 4 novembre, che si è celebrato fino a qualche anno fa come giorno della vittoria, il diario riferisce: “4 Nov. – Lunedì – Oggi alle ore 15 si firmò l’armistizio coll’Austria-Ungheria. Deo gratias! Ci pare di svegliarci da un sogno, dopo tre anni di pene, di sangue, di lagrime! Oggi Venezia fu esultante, imbandierata. Con questa sera cessò l’oscuramento della città. Finalmente si respira largo, Domine, adveniat regnum tuum! Perdonate, benedite!”. È una svolta storica. Giorni dopo si commemora anche l’armistizio con la Germania. Comincia allora nel diario il lungo e penoso resoconto del ritorno dei religiosi o novizi reduci, dei prigionieri, dei profughi, degli ammalati, dei giovani a volte rovinati per sempre dalla guerra, molte volte costretti a una lunga fase di debriefing, di permanenza in ospedali militari, di servizio militare di occupazione, di altre interminabili ma forse inevitabili lungaggini post-belliche, su cui non ci tratterremo ulteriormente. Alcuni pochi giovani novizi e religiosi ritornarono, ma si allontanarono poi dalla Congregazione o furono invitati a lasciarla. La guerra aveva lasciato il suo segno, anche se raramente, anche in questa forma.
A Natale 1918 la comunità Cavanis era quasi tutta riunita a Venezia, unica casa operativa, per la celebrazione e anche per il pranzo comunitario; mancavano soltanto i due padri Zamattio e D’Ambrosi che erano ancora a Marsala a servizio del popolo di Possagno; Pellegrino Bolzonello, ancora non ritornato dalla prigionia; e fratel Sebastiano Barbot, non ancora esonerato dal servizio militare. Dovevano essere circa 23 persone presenti, compresi padri, fratelli e seminaristi, inclusi i quattro neo-diaconi; circa 28 in tutti, compresi gli assenti. A titolo di conclusione del triste periodo di guerra 1915-1918 come passato dalla Congregazione, si può leggere il testo scritto il 31 dicembre di quest’ultimo anno dal P. Augusto Tormene, nel diario di Congregazione; un testo pieno di realismo, di malinconia, di speranza e di gioia nella fede.
Di tutt’altro genere fu il 1919 anche per la Congregazione: fu un anno «di pace, di conforti, di speciale provvidenza » scrive nell’ultimo giorno dell’anno, riproducendo in scritto il discorsetto che P. Tormene aveva tenuto alla comunità di Venezia nel corso dell’ora di adorazione di fine d’anno, e passa ad enumerare tutti i favori e le grazie concesse dal Signore all’Istituto, tra le quali ricorda il ritorno dei possagnesi profughi a Marsala, con i due padri che li avevano accompagnati; l’accoglienza di una ventina di aspiranti o probandi nel seminario minore di Possagno; il ritorno dei chierici soldati (non tutti purtroppo, alcuni erano morti, come si è visto) “con buon spirito religioso dopo esemplare vita condotta fra molteplici pericoli”. Chiama poi «Grazia specialissima e di sommo conforto l’introduzione della causa di Beatificazione dei Venerati SS. di Dio i PP. nostri Fondatori, firmata dal Card. Patriarca il 2 Febbraio, festa della Madonna. L’acquisto impensato, insperato della casa dove morirono i Padri nostri, e precisamente il dì del Carmelo: acquisto, che coincidendo col fatto dell’introduzione della Causa di Beatificazione, ci dà consolante fiducia che i Padri nostri ci abbiano ciò ottenuto dal cielo perché lì dove Essi lavorarono, pregarono tanto e santamente morirono, siano pur resi a loro onore e culto oh speriamo assai presto ». Era realmente una grazia del Signore, ma molto ci si era impegnato il Padre Tormene.
Leggiamo nel diario in data 12 Marzo 1914: « Fra i Padri fu espresso il desiderio e l’augurio che potesse riprendersi il processo già iniziato fin dal tempo del Card. Trevisanato, e poi sospeso alla morte del medesimo, sulle virtù dei benedetti Padri Fondatori, rivedendo i documenti che si trovano presso questa Curia di Venezia. Il Preposito promise di interessarsene subito e vivamente». Altro cenno lo troviamo in data 3 Settembre dello stesso anno, giorno in cui fu eletto Papa Benedetto XV. Scrive: «Che il nuovo Pontefice sia designato da Dio alla glorificazione dei Ven.ti nostri PP. Fondatori e all’incremento della loro cara Congregazione? Fiat, Fiat ». Poi il diario non ne parla più fino alla fine della guerra. Ma ne parla, come vedremo, in occasione della udienza privata avuta il 25 giugno 1919, nel cui resoconto tra l’altro ricorda e riprende anche questa sua frase.
Il silenzio viene rotto improvvisamente il 25 ottobre del 1918 con una comunicazione ai Religiosi dopo il rosario delle 17,15: «Ho notato con grande mia edificazione e conforto che nello Istituto va sempre più manifestandosi il senso di filiale devozione e confidenza nei benedetti nostri PP. Fondatori …Un complesso di sentimenti, di bisogni, di circostanze, anche fortuite, hanno tenuto il mio spirito sempre fisso in questo pensiero che bisognava far qualche cosa, e presto, pei Padri nostri Fondatori. Onorare Iddio nei nostri Fondatori! Mi pare che ciò deve tornar graditissimo a Lui che si compiacque tanto di essi per la loro virtù e li elesse a diventar Fondatori di un Istituto Religioso. Questo nostro, caro Istituto attraverso tante prove deve pure ripetere continuamente il «Deo Gratias »: benedizioni, aiuti, provvidenza, conforti, visibile protezione del cielo nella sua vita di Casa, di scuola, di esilio, di milizia, di prigionia, dovunque vi siano i suoi membri! Oh io penso che la vita santa dei nostri PP. Fondatori deve aver quasi assicurata questa speciale benedizione all’Istituto e che la loro preghiera, dacché sono presso il trono di Dio, deve essere incessante, sollecita, ardente. Benedetti i nostri PP. Fondatori e Protettori! Oh facciamo qualche cosa anche noi per loro. Forse manca questo alla santa prosperità dell’Istituto e alla sua dilatazione. Onoriamo Dio, ripeto, nei nostri Padri! Facciamo istanza al Patriarca che si riprenda in Curia il loro processo canonico. Il desiderio comune, ora, per tante cose avvenute in me, attorno a me, negli anziani e nei giovani, per circostanze speciali mi portò a riflettere a lungo sulle vie della Provvidenza e presentarmene ora dinanzi all’anima come un dovere. E martedì, 22 corr. ho affidato al P. F. Saverio Zanon, l’incarico di preparare i materiali del processo e poi per scrivere la vita dei Padri nostri. Noi accompagnamo il lavoro del Confratello e lo svolgersi poi delle cose, colle nostre preghiere private e comuni. Facciamo fin d’ora l’intenzione che quel Pater, Ave, Gloria che diciamo ogni giorno alla S. Famiglia sia un ringraziamento dei doni celesti elargiti da Dio ai Venerati Fondatori della nostra cara Famiglia Religiosa, e infine supplica perché le nostre intenzioni ed opere allo scopo di onorare Dio nei nostri Padri siano dirette, illuminate, fecondate dalla sua benedizione. Ci riserverà il Signore la gioia di vedere i frutti di questo lavoro? Deo gratias: se no, sia fatta la Volontà di Dio; altri raccoglieranno e felici loro! E noi saremo felici d’aver seminato. Del resto faccia il Signore secondo i disegni della sua provvidenza! Noi intanto lavoriamo e alimentiamo nei nostri cuori la devozione e fiducia nei nostri Padri benedetti, e sforziamoci di essere imitatori loro nella virtù e nello zelo per la missione dell’Istituto, sicché essi dal cielo ci possano riconoscere per loro figli, buoni e fedeli ».
Sull’argomento P. Tormene ritornò il 6 Novembre all’inizio di un solenne triduo di adorazione per ringraziare il Cuore di Gesù delle grazie ricevute, e, scrive, per « impetrare dal Signore — se così è conforme alla sua SS.ma Volontà — che sia ripreso il Processo Canonico presso il Patriarca sulla fama di santità dei nostri Ven.ti PP. Fondatori. Se ne presenterà l’istanza subito dopo questo triduo». «Noi intanto facciamo la parte nostra e poi lasciamo fare a Dio, raccogliamoci nella preghiera. Sì preghiamo, preghiamo assai, insistiamo nella preghiera ».
Il 9 novembre, dopo varie fasi preparatorie cui si accenna in precedenza nel diario, P. Tormene va dal Patriarca La Fontaine a presentare domanda formale per l’inizio (in realtà una ripresa) della causa di beatificazione dei Fondatori.
Il 2 Febbraio del 1919 il Card. Pietro La Fontaine conferiva nella sua cappella privata nel Patriarchio gli ordini minori dell’Esorcistato e dell’Accolitato al chierico Alessandro Vianello, reduce dalla guerra sul fronte dell’Isonzo e dalla prigionia. Terminò il discorso così: «È giorno oggi di consolazione nel cielo e nella terra per la festività di Maria, per voi poi dell’Istituto Cavanis sia giorno di speciale consolazione anche perché al Vespero di ieri, entrati già nella festa della Purificazione, ho firmato il decreto di introduzione alla Causa di Beatificazione dei Vostri Padri Fondatori ».
«Oh momento soave di consolazione! — esclamava P. Tormene — Parve l’inizio di una nuova vita. Ciò che fu il voto e il sospiro di tanti anni si è avverato finalmente, e il Cardinale nella scelta del giorno, del momento e del modo di darci la felice partecipazione circondò questa data di tanta religiosità e dignità da farci riconoscere che per l’intercessione di Maria sta per isvolgersi ora l’opera del Signore nella glorificazione dei suoi servi fedeli ». Il decreto venne pubblicato a stampa il 18 dello stesso mese.
«Quanta gioia in Comunità – leggiamo nel diario- quante speranze ed ansiosa aspettazione! Pare un sogno questa dolce realtà, e frattanto si diffonde nelle nostre anime un fremito di riconoscenza a Dio, di fiducia nell’intercessione dei Padri nostri, per ottenere grazie, quasi una vita nuova! Signore che non guastiamo l’opera tua amorosa, che non demeritiamo la tua grazia! Maria, Madre nostra e Patrona dell’Istituto, prega per noi! Il Decreto — aggiunge — porta naturalmente una data di Maria: l’1l Febbraio: ancora e sempre tutto per Maria ».
Il 24 febbraio, nella cappella del Patriarchio, si tenne la cerimonia della domanda formale da parte della Congregazione e dell’accettazione da parte del patriarca dell’apertura della causa di beatificazione dei fondatori a livello diocesano di Venezia. Alla richiesta formale del preposito, il patriarca La Fontaine rispose: “ben volentieri sogliono gli Ordinari accogliere simili istanze per la gloria che ne viene a Dio e pel vantaggio dei fedeli quando vengono proposti all’ammirazione ed imitazione nuovi eroi dalla Chiesa. Nel caso presente, tanto più volentieri egli introduce tale causa e per la fama di santità che s’accorse goder generalmente a Venezia i due Fratelli Cavanis, e per la vigoria che anche oggi ha il loro Istituto, e pel bene che ha esso fatto e continua a fare: elementi questi di cui la Chiesa tiene molto conto nel suo giudizio sulla santità dei suoi Figli. Venezia va gloriosa per tanti suoi Santi; i due Fratelli Cavanis ne continuarono le tradizioni. Egli quindi è lieto di iniziarne la Causa, e ben volentieri presiederebbe Egli stesso alle sessioni se doveri gravi di Ministero non gli facessero prevedere di non potersene sempre occupare con quella diligenza ed assiduità che vorrebbe: perciò ha delegato monsignor Brunetti ad assumerne la presidenza”.
P. Tormene e P. Rossi verso la fine di giugno 1919 (23-29) sono a Roma e ne ritornano il 30 giugno e all’inizio di luglio via Firenze (ospiti dei PP. Scolopi) e con un’importante sosta a Porcari. Ebbero un’udienza privata con il papa Benedetto XV il 25 giugno e parteciparono alla solennità dei SS. Pietro e Paolo nella basilica vaticana il 29. Sull’udienza papale, come del resto sui vari dettagli minori del viaggio, e sulla sosta a Porcari, P. Tormene scrive un lungo resoconto nel diario. La narrazione dell’udienza è lunga, interessante ma un po’ generica, sebbene piena di entusiasmo per il papa e per la chiesa e il suo servizio. Interessante sapere che l’udienza era stata facilitata da don Orione e che a Roma i due padri abitarono nella parrocchia di Ognissanti presso gli Orionini dal 23 al 29 giugno. P. Tormene ha qui, a riguardo di don Orione, la seguente espressione “D.n Orione fu più che un fratello: anima di Santo, è un altruista meraviglioso: la sua compagnia è soavità, è scuola, è legame spirituale dei due Istituti. Benedetta la Provvidenza che permise la sventura per farci conoscere a Tortona un tal Santo, a cui l’Istituto molto deve finora, e chissà quanto più dovrà in seguito!”.
Più interessante il resoconto della breve tappa a Porcari, che fu il primo contatto di persona con questa cittadina. Il diario dice così: “… quindi si ripartì per Porcari sulla linea di Lucca. Quivi c’erano alla stazione il Proposto e Dn. Mario Del Carlo, quello che Soldato a Venezia, fatta conoscenza col P. Rossi nella Casa del Soldato, riferì al suo Paese dell’Istituto nostro e ci propose l’apertura di una Casa che una pia Signora da parecchio tempo desiderava cedere a un Istituto Religioso per l’educazione della gioventù. L’impressione del luogo e delle persone fu assai felice. Si trattò seriamente la questione e dopo il Capitolo se ne darà risposta definitiva. Intanto preghiamo!”.
Il 12 Maggio 1919 veniva offerta all’Istituto al prezzo di 130.000 lire la “casetta” dei Padri, che era stata in uso come Casa del Soldato, con l’assistenza pastorale dei padri Cavanis, durante la guerra e apparteneva al Banco S. Marco di Venezia. Il P. Tormene ne ebbe incoraggiamento dal Card. Patriarca e anche da Don Orione, amico dell’Istituto, il quale scriveva: « … io penso col cuore a quella casa che sta davanti a Loro, e dove morirono o meglio passarono a vita beata i Loro benedetti Fondatori, e darei volentieri, volentieri, volentieri, e con grande e fraterna gioia, almeno due case delle nostre per far avere a loro la Culla della Fondazione »; don Orione scriveva anche a Don Sterpi: « Ogni pietra di quel luogo santo ben vale pei Cavanis 130 mila lire ».
Da notare che la Casa del Soldato viene chiusa l’8 agosto 1919, dopo tre anni di vita. P. Tormene in questa data presenta nel diario una breve sintesi della sua vita, delle sue attività e dei suoi vantaggi.
Il preliminare di acquisto della casetta fu firmato il 3 Giugno e l’atto notarile d’acquisto il 16 luglio. P. Tormene annota: «E così il gran passo è fatto! La cifra è enorme ed è affrontata con fede, certi solo per la fede nella divina Provvidenza».
Si celebrò a luglio il 10° Capitolo generale ordinario (17 luglio-1° agosto 1919). Il 17 luglio 1919 il diario annota che P. Tormene in capitolo generale fu rieletto preposito generale. Occorreva la ratifica della Congregazione dei Religiosi, che fu ottenuta anche grazie alla raccomandazione del Card. Patriarca Pietro La Fontaine e all’intervento di monsignor Pescini, già segretario di Pio X, e arrivò a Venezia il 29 luglio. Intanto i padri capitolari cominciarono a studiare le correzioni da apportare alle regole, come era stato richiesto dalla S. Sede, a seguito dell’approvazione del CJC del 1917. Il processo di riforma però fu lungo e faticoso ed ebbe la sua conclusione, come si sa, solo nel 1930 e poi 1937.
Fu in occasione delle trattative per l’acquisto della casetta dei Padri che sorse l’idea di fondare l’Associazione Ex-allievi: « Volle anche D. Ugo trattare stasera concretamente con Don Orione, Don Sterpi e il Preposito su quel suo progetto accennato al Preposito il 15 corr. quando seppe che l’acquisto della Casa dei PP. Fondatori avrebbe costato 130 mila lire, di sollecitare cioè la carità degli Ex-alunni dell’Istituto istituendo una Associazione di Ex-alunni e diramando circolare in proposito. Il pensiero venne a Don Ugo improvvisamente mentre il Preposito gli raccontava dell’offerta e del desiderio dell’Istituto d’avere la Casa benedetta: ne scrisse subito a Don Orione che rispose immediatamente approvando con entusiasmo il progetto e facendo coraggio: stasera poi ne furono determinate a voce anche le modalità, e Don Orione ne farà la circolare e a sue spese la farà stampare a Tortona. Se così è nel piacere e nelle disposizioni del Signore, fiat, fiat! » Il Signore disponeva diversamente. «Don Orione con suo espresso di ieri da Como si scusa di non riuscire proprio a dettare la circolare promessa a Don Ugo Camozzo per gli antichi allievi chiedendo la loro offerta per la Casa dei Fondatori. La negativa viene a proposito, perché frattanto, bene esaminata la cosa nei suoi pro e contro, prevalevano i contro nelle nostre menti. Così il Preposito chiese a D. Ugo di lasciare la cosa sospesa per ora, in attesa di ulteriori indizi che alla Provvidenza divina piaccia servirsi di questo mezzo ».
P. Tormene nel diario non parla più di questa idea, ma certamente la tenne viva e gli indizi della Provvidenza vennero proprio con la sua morte. Leggiamo nel n. 1 del bollettino Charitas: «Fra gli alunni che a Venezia e a Possagno (dove per 9 anni il P. Tormene aveva diretto con saggezza il Collegio Canova) erano stati oggetto delle sue cure di ottimo educatore, sorse tosto una fervida gara d’ideare qualche manifestazione concreta per onorare la memoria, ed in generale fra gli ex-allievi dell’Istituto si propagò una schietta tendenza a dedicare qualche ricordo al Veneratissimo Padre nella cui immatura scomparsa era stata sì duramente colpita la Congregazione Cavanis.
Uno scambio delle varie idee portò ad un inatteso ma felice risultato: si riconobbe che, ove si prendesse per base l’attuazione di un antico disegno già caro all’ottimo Padre, cioè di riunire in una compatta e fervida associazione gli ex-allievi dell’Istituto, ogni iniziativa sarebbe meglio studiata e più agevolmente tradotta in pratica nel seno di questo vasto organismo, il quale già in se stesso avrebbe il significato di prezioso ossequio alla memoria dell’indimenticabile Maestro dei giovani e Preposito delle Scuole di Carità ». L’Associazione veniva fondata il 5 Febbraio 1922 « con lo scopo — leggiamo nell’art. 1 dello Statuto — di mantenere desto il sentimento della riconoscenza verso i Superiori e i Maestri dell’Istituto e conservare ed avviare fra gli ex-allievi vincoli cordiali di fratellanza cristiana, favorendo così il reciproco aiuto morale e materiale ». P. Tormene attuò, incoraggiò e diresse le altre associazioni e opere a favore dei giovani: la Congregazione Mariana, il Circolo giovanile S. Giuseppe Calasanzio, la Conferenza giovanile S. Vincenzo de’ Paoli, la Pia Unione dei Catechisti, la Casa del Soldato, il Pensionato Universitario, un Reparto Esploratori (Scouts), l’istruzione religiosa ai marinaretti della nave-scuola “Scilla”, e, sempre per far del bene ai giovani, desiderava ardentemente che l’Istituto si propagasse. Durante il suo mandato, nel 1919, aprì la Casa di Porcari (Lucca) e fece di tutto per portare l’Istituto a Roma, risultato raggiunto molto più tardi, nel 1946, da P. Antonio Cristelli. L’idea gli venne per la prima volta (a lui, e non a don Orione come sembra da altre fonti), nella festa della cattedra di S. Pietro a Roma, il 18 gennaio 1919, in preghiera dopo la messa; sentì l’ispirazione di aprire una scuola Cavanis, magari elementare all’inizio, nella parrocchia degli Ognissanti, in via Appia Nuova, e ne scrisse una lettera a don Orione il giorno stesso. Forse fu questo uno dei suoi desideri più cari. Prese in seguito accordi con Don Orione per aprire questa scuola a Roma nella parrocchia di Ognissanti, dei PP. Orionini; Don Orione aveva da parte sua messo gli occhi su una casa di fronte a quella della parrocchia degli Ognissanti per la scuola Cavanis, come don Sterpi disse a P. Tormene, quando fu a Venezia per ricevere dal Patriarca La Fontaine l’incarico di organizzare un orfanotrofio ai Gesuati, che si chiamerà degli Artigianelli; si era anche raccomandato in una sua visita alle preghiere di Don Giovanni Calabria «per essere illuminati e guidati dal Signore e fare solo la sua SS. Volontà». Il Signore però dispose altrimenti.
Numerose furono le richieste avanzate da varie parti per ottenere la presenza e l’opera dei Padri Cavanis, specialmente negli anni 1920-1921.
Il capitolo generale del 1919 aveva già trattato della possibilità di aprire una casa a Roma, e l’aveva approvata “di massima”. Nella riunione del consiglio generale dell’11-12 agosto 1920, tenuto a Porcari, si discusse concretamente la possibilità di assumere una scuola elementare e più tardi media a Roma, nel quartiere di via Appia Nuova nella parrocchia di Ognissanti, su invito insistente di don Orione, che stava già facendo preparativi per l’accoglienza ai padri Cavanis. P. Tormene era evidentemente del tutto interessato alla proposta e la caldeggiava; aveva già pensato di inviare a Roma i padri Antonio Dalla Venezia come rettore, Giuseppe Borghese e Luigi Janeselli. Una casa a Roma “nella Capitale del Cristianesimo e sotto gli occhi e la protezione del Papa”, come recita il verbale, aveva anche il vantaggio giuridico e pratico di poter essere sede del Procuratore generale della Congregazione, che doveva obbligatoriamente risiedere a Roma. Naturalmente c’era come sempre il ricorrente problema della “ristrettezza dei membri dell’Istituto”. Il preposito si rimetteva ai consiglieri. Il giorno seguente fu proposta dal preposito una formula di voto sulla fondazione a Roma, e la votazione fu cautamente favorevole, con tre sì e due no. La fondazione della casa di Roma era approvata.
Nella stessa riunione si respingono invece le proposte di accettare la direzione di un collegio civico a Este (Padova) e di un patronato nel quartiere del Portello a Padova.
La morte improvvisa e dolorosa di P. Vincenzo Rossi, pro-rettore della casa di Porcari, avvenuta il 17 settembre 1920, la mancata speranza di un aiuto nell’insegnamento a Venezia da parte di un prete veneziano amico dell’Istituto, l’incertezza sulla situazione militare del chierico Vincenzo Saveri, che insegnava in Istituto, ma era soggetto alla coscrizione obbligatoria il 20 ottobre seguente, costrinsero tuttavia il definitorio, nella riunione del 29 settembre 1920, a rinunciare alla fondazione romana: “Dinanzi a tali condizioni, parve ai Definitori inevitabile, benché doloroso, il sospendere la deliberata apertura della Casa di Roma, in attesa di momenti migliori per l’Istituto, quando piacerà al Signore che la fondazione si compia”. I “momenti migliori” arriveranno soltanto 26 anni dopo, nel 1946. Per l’Istituto fu una grande occasione perduta.
È possibile – ed è una cosa da studiare – che questo cambiamento di rotta da parte dell’Istituto Cavanis abbia influito negativamente in qualche modo sulle relazioni tra i due superiori generali, e comunque tra i due istituti, i padri Cavanis e i padri Orionini. Per la verità tutta la questione dovrebbe essere studiata e approfondita.
Don Orione appare all’improvviso nella storia dell’Istituto Cavanis, quando il patriarca di Venezia Pietro La Fontaine ne parlò al P. Augusto Tormene verso la fine del dicembre 1917. Il contatto fu fatto qualche settimana più tardi, e dal 1918 don Orione divenne un grande amico dell’Istituto Cavanis, molto ammirato dai Cavanis, un loro consigliere e benefattore. Così, benefattore, è chiamato molte volte nel diario e in altri documenti dell’Istituto. Tale amicizia era molto forte particolarmente con il P. Augusto Tormene, con il quale c’era una perfetta intesa. Lo stretto rapporto tra la congregazione della Piccola Opera della Divina Provvidenza (Padri Orionini) continuò anche con il venerabile don Carlo Sterpi, primo successore di don Orione.
Sarebbe interessante approfondire i rapporti tra i due personaggi e i due istituti, rapporti e visite reciproche che sono registrate con estrema frequenza nel diario dal 1918 alla morte del P. Tormene, molto più spesso di quanto si possa registrare qui; e studiare anche che cosa sarebbe successo se i padri Cavanis avessero seguito di più consigli di don Orione, soprattutto quelli relativi a una più coraggiosa espansione dell’Istituto Cavanis, sia in Italia, a Roma soprattutto, sia all’estero; e alla maggiore collaborazione tra i due istituti che, secondo don Orione, dovevano lavorare insieme e in qualche modo completarsi.
Il rapporto tra i due istituti tuttavia si venne diluendo e in pratica sparendo, dopo la morte prematura di P. Tormene (1921) e ancor più dopo quella di don Orione (1940).
Scrive ancora P. Tormene il 27 ottobre: «Stasera venne l’Arciprete di Feltre con una lettera di Mons.r Vescovo Giosuè Cattarossi per invitarci ad aprir lì un Patronato-Pensionato. Purtroppo le attuali circostanze che ci impediscono l’andata a Roma, non ci permettono neppur di esaminare la proposta, con grande rammarico del cuore che desidererebbe pure dilatarsi nel bene e vede messis multa, inviti non rari, operarii autem pauci. Durante queste vacanze aveva chiesto insistentemente anche il Sindaco di Este (provincia di Padova) pel suo Collegio Civico, e il Proposto (ovvero, parroco o arciprete) di Certaldo di Firenze per un Patronato e Scuole. Durante l’anno ci fu proposto il Patronato dell’Immacolata al Portello, quartiere periferico di Padova, e un Convitto Provinciale per orfani di guerra in Padova ». A tutti P. Tormene deve dire di no, e così commenta: «Forse il Signore, che sa bene le nostre strettezze e quindi l’impossibilità di aderire, ci manda queste richieste per tenere desta in noi la conoscenza del bisogno della gioventù, il desiderio e speranza di espansione, e la costanza nella umile preghiera e fiducia in Dio che nell’ora Sua dilaterà l’Istituto. Tutto e sempre come piace al Signore ».
Nel 1920 e anche nel 1921 l’Arcivescovo di Lucca invitava i Padri ad accettare in quella città “l’esistente Ricovero Artigianelli, già visitato da P. Tormene il novembre precedente. «Purtroppo — scrive P. Tormene — devo rispondere negativamente, finché al Signore piacerà mandare mezzi di dir molti sì. Fiat».
La stessa risposta la dovette dare al Vescovo di Rovigo che voleva affidare ai Padri la direzione del Collegio Angelo Custode e al P. Giulio, Provinciale dei Riformati di S. Michele, il quale chiedeva che i Cavanis aprissero a Monselice (Padova) un Patronato con annesso ginnasio. Le domande furono presentate nello stesso giorno il 17 Febbraio 1921. P. Tormene scrive: «Due in un giorno! E siamo così pochi e tanto scarse le vocazioni. Dio vuol proprio che lo preghiamo di più e speriamo in nuovi mezzi che vuol darci, se intanto ci mostra nuovi lavori pei quali viene richiesta l’opera dell’Istituto».
Dopo la guerra, appena possibile, il rettore P. Agostino Zamattio con i soli P. Giovanni D’Ambrosi e fra Angelo Furian, il 12 febbraio 1919 riapre la casa di Possagno e comincia a operare i primi restauri del collegio semidistrutto e spogliato di tutto. Si calcolava di riaprire il convitto e la scuola solo nell’autunno seguente. P. Zamattio riuscì a comperare molti letti e altri mobili a prezzo irrisorio da ospedali militari dismessi, mentre si continuava ad aspettare i rimborsi sostanziosi dovuti dallo stato per i danni di guerra, danni che erano stati assolutamente rilevanti. I padri P. Enrico Perazzolli e Amedeo Fedel si aggiungeranno alla comunità possagnese da ottobre. Vi era destinato anche un aspirante molto speciale: don Luigi D’Este, che prendeva il nome di Marco, suo primo nome, in onore di P. Marcantonio, e che aveva lasciato la parrocchia di S. Felice a Venezia, di cui era parroco, per entrare in Istituto. D’accordo con il patriarca. Don D’Este avrebbe fatto un anno di probandato, e nel frattempo aiutato i padri, in attesa di cominciare il suo noviziato. A Ottobre si ricominciava la scuola (il 19 novembre) e si riapriva il collegio o convitto, con soli 20 convittori e ben poche classi, mentre si continuavano i lavori di ripristino, sembra anche con l’aiuto concreto del genio militare e civile. A Possagno altre al collegio c’era anche il “collegino”, ossia piccolo seminario o probandato, con ben 17 aspiranti (si respirava aria nuova!).
Nel 1921 comprarono otto loculi nel sacello del cimitero di Possagno, e si propose e approvò che vi fossero deposte, accanto alla salma del P. Santacattarina (defunto il 30 luglio 1917), quelle “dei nostri Padri: Piva, Da Col, Bassi, Fanton (che ora stanno nella cella) e quella del giovanetto aspirante Carlo Trevisan”. Il Capitolo definitoriale del 12 agosto 1920, tenuto per la prima volta a Porcari, approvò “l’apertura della Casa a Roma pel prossimo Ottobre in Parrocchia di Ognissanti in Via Appia Nuova, coi Figli di Dn. Orione”.
Un avvenimento infausto, sommato ad altre difficoltà venne tuttavia a cambiare una situazione che sembrava tanto favorevole per la Congregazione. Si tratta della morte di P. Vincenzo Rossi a Porcari. Non era una morte improvvisa, stava male al cuore da qualche tempo. Ma anche così fu sentita come una tragedia, che veniva a cambiare la situazione. Se ne parla molto lungamente (circa 4 pagine) nel diario, il che indica quanto P. Augusto Tormene, preposito, e i confratelli, ne abbiano sofferto.
Con la morte di P. Vincenzo rimaneva vacante la carica di definitore; il preposito con i definitori Rizzardo e Zamattio (e con l’approvazione di P. Antonio Dalla Venezia che era rimasto a Porcari) si elesse P. Francesco Saverio Zanon. P. Tormene scrive “Quindi si trattò delle attuali condizioni dell’Istituto, mutatosi assai dal dì del Capitolo di Agosto in causa della vietata venuta del Sac. Dn. Giov. Caburlotto e della morte del P. Rossi che bisogna sostituire a Porcari perché il nascente Istituto possa continuare a vivere e a svilupparsi, come la prova di quest’anno e la stima del paese fa bene sperare. Benchè doloroso, sembrò necessario sospendere la nostra andata a Roma per non intisichire Venezia e iniziare un’opera nuova dove presto potrebbero occorrere dei nuovi soggetti. Entrati in quest’ordine di idee, si sospese ogni decisione in attesa degli altri definitori Dalla Venezia e Zanon”. D’altra parte giungeva anche un’altra notizia che peggiorava la situazione: “Riguardo a Dn. Marco D’Este, non sentendosi per la sua malferma salute di entrare nell’Istituto come Religioso, chiese ed ottenne dal Preposito fin dal 17 corr. di restare nell’Istituto come ospite, prestando l’opera sua come fece assai bene e utilmente quest’anno. E resterà a Possagno”. La decisione di desistere per il momento dall’apertura della nuova casa a Roma giungerà il 29 settembre 1920. Resterà poi ancor più confermata, più tardi e per 26 anni, dalla morte di P. Tormene (20 dicembre 1921).
All’inizio del 1921 P. Tormene così scriveva nel diario: «Prostrati dinanzi a Gesù Sacramentato allo spuntare di questo primo giorno del nuovo anno, ricevuta la sua benedizione, col cuore pieno di fiducia in Lui, vogliamo pel nuovo anno tutta e sola la sua SS.ma Volontà». Prevedeva il P. Tormene che quell’anno 1921 doveva essere l’ultimo della sua laboriosa vita? Forse sì. Non si sentiva bene, e si sente qua e là nelle pagine relative ai primi mesi del 1921. L’anno tuttavia nei primi mesi si svolse normalmente, anche se in modo un po’ fiacco.
Il 5 luglio cominciano le avvisaglie della malattia che avrebbe condotto P. Tormene alla morte ben presto: « 5 Martedì: oggi con la corsa delle 7 pomeridiane andrò a Porcari. Purtroppo la mia salute è minata da un brutto male, tensione dell’aorta. Fino a 7 giorni fa non ne sospettavo, tanta era ancora la forza che mi sentivo nel parlare e nell’agire. Ho fatto il mese di Maggio proprio di gusto, con tutta la mia energia, senza sentire neppure stanchezza mai, contento di dar alla Madonna un tributo d’amore, che però vagamente – e senza motivi – pensavo che doveva essere l’ultimo, tanto che volevo dirlo nell’ultima predica, ma nol feci per non darmi l’aria di profeta. Solo sulla metà di giugno avvertii un’oppressione al petto camminando, cosa che progredì rapidamente fino a impedirmi in pochi giorni anche l’andata all’Istituto Solesin. Il Dr. Picchini, avendomi visitato il 30 giugno, mi ordinò assoluto riposo e cura. Andrò a Porcari perchè realmente sento di star male, mi manca la forza di parlare in iscuola e sono oppresso. Voglio la volontà di Dio, in Lui solo voglio confidare, ma caro autem infirma ».
Il 2 agosto P. Augusto lascia Porcari per Uscio di Genova, invitato da suo fratello Dott. Enrico per tentare una cura. «Finita la cura – scrive il padre – lasciai Uscio per fermarmi a Verona da Don Calabria che alle 10 di notte era ad attendermi alla stazione. Il Santo Uomo, presso il quale passai la Domenica e il Lunedì, mi fu ministro della bontà del Signore per conforti spirituali e mi promise preghiere sue e dei fanciulli. Vorrebbe che per dieci anni non pensassi a morire! Sia come piace al Signore!». Da Verona va a Miola ospite della famiglia di P. Amedeo Fedel, e quindi a Possagno. «Da Miola discesi a Possagno. Mi si aperse il cuore che era stretto dalla nostalgia del mio Istituto. Purtroppo da Uscio e da Miola non ho ricevuto grandi vantaggi. Certo il riposo avrà giovato, almeno impedito un peggioramento: ma in complesso ho il disturbo come prima che mi impedisce il moto e il vociferare. Sia fatta la volontà di Dio! ».
Il 29 settembre, non dopo aver realizzato la sua ultima riunione del capitolo definitoriale il 13 settembre, ritornava a Venezia dove riprendeva la sua attività, sebbene ridotta.
Vale la pena di riprodurre una parte delle decisioni del capitolo definitoriale, così come sono trascritte di mano del P. Tormene, preposito, nel Diario di Congregazione, perché indicano chiaramente l’importanza che P. Tormene, ora che la Congregazione aveva tre case e tre scuole, voleva dare ai titoli accademici dei religiosi Cavanis, anche perché voleva regolarizzare la situazione delle scuole. Dopo aver annotato le alterazioni nella composizione delle tre case (vedi le rispettive tabelle), aggiunge:
“Inoltre fu stabilito che P. Luigi Janeselli sia iscritto all’Univ. di Pisa in Lettere e P. Alessandro Vianello a Padova pur in Lettere, e continui l’iscrizione universitaria dei tre chierici, Bolzonello in 4° anno, Piasentini in 3°, Miotello in 2° – nonché dei due Padri già frequentanti, P. Aurelio 2° Lettere e P. Mario 2° Scienze – Ancora: che i 3 Chierici Bolzonello, Piasentini, Miotello siano ammessi al I° Corso di Teologia, integrando contemporaneamente il Liceo con lezioni di Filosofia. – E che al termine dell’anno scolastico anche a Venezia, come si fa a Possagno e Porcari, ritornino in vigore gli Esami finali con Commissioni come una volta.-”.
Ma la vita di P. Tormene volgeva al termine. Scrive il 17 ottobre 1921, all’inizio dell’anno scolastico a Venezia: “Circa 440 alunni! Il Signore ci manda abbondante la messe; dobbiamo insistere nella fervente preghiera perché mandi anche abbondanti Operai. Siamo troppo scarsi, bisogna mettere al lavoro delle Scuole anche i giovani Chierici, e in quest’anno non potrò fare che un’ora al giorno di scuola perchè non ho forza di vociferare di più, e le condizioni generali di salute sono depresse”.
L’ultima pagina del Diario di Congregazione P. Augusto Tormene la scrisse il 18 Dicembre 1921. Il 19 dicembre così scrive il P. Antonio Dalla Venezia, suo predecessore come preposito e suo vicario: « L’amatissimo nostro Padre Preposito Augusto Tormene nel pomeriggio fu assalito dalla stretta del suo male alla presenza di S. Em.za venuto a salutarlo e benedir l’Istituto. Le strette furono delle più forti, tanto che si chiamò il medico, il quale gli die’ un calmante. La notte la passò assai male, tanto che la mattina seguente fu però richiamato il medico, che mi consigliò a dargli l’Olio Santo. Poi gli diedi anche l’assoluzione ‘in articulo mortis’, e gli raccomandai l’anima».
La mattina celebrò la S. Messa all’altare della Madonna, con grande fatica. Dopo la Messa, ad un confratello che in vista del suo stato sofferente lo esortava ad astenersi quel giorno dalla consueta ora di scuola disse: «No, no per allora avrò forza: lasciatemi questa che è la mia unica consolazione». Nel pomeriggio fece anche mezz’ora di scuola ai chierici di Teologia e li licenziò con queste parole: «Voi farete il presepio a Gesù, io lo vedrò in Paradiso».
Il 20 dicembre troviamo annotato nel Diario di Congregazione: «Sulle otto però principiò a dar segni di qualche conoscenza, ché l’aveva perduta tutta. Facemmo pregare i fanciulli e poi licenziammo quelli delle sue due classi. Il miglioramento crebbe sempre più durante la giornata. Alla mattina mandammo telegrammi a Possagno, a Porcari, al Dr. Enrico suo fratello, e avvisammo l’altro fratello, Colonnello Umberto, che venne subito con figlio Dino. Alla sera purtroppo! fu agitatissimo. Venne il Dr. Enrico. Il male crebbe assai. Rinnovammo le assoluzioni. Alle 11 ½ circa l’amatissimo Padre, che ci lasciò preclari esempi di virtù religiose e direttive, serenamente spirava ».
Il 20 dicembre 1921 moriva dunque all’età di 48 anni il P. Augusto Tormene, Preposito generale dell’Istituto Cavanis. Il Diario di Congregazione si diffonde a narrare dei funerali e delle varie esequie, con lunghe liste dei partecipanti e delle rappresentanze civili e religiose. Il patriarca card. Pietro La Fontaine partecipò di persona al funerale e ne fece un elogio funebre ammirevole. I nostri allievi festeggiarono il trigesimo del caro preposito e in quell’occasione il canonico Giovanni Jeremich, presidente della celebrazione eucaristica, ne esaltò le virtù. Così pure nel diario si dà relazione delle condoglianze, ricevute da più parti d’Italia.
Oltre che dalla lettura della sua abbondante corrispondenza e del suo diario, anche per le innumerevoli volte in cui ne ho sentito parlare dai religiosi anziani e da suoi ex-allievi, che lo ricordavano a distanza di decenni, mi sento di dire che P. Augusto Tormene è stato una dei religiosi Cavanis più amati e uno dei migliori tra i prepositi generali dell’Istituto Cavanis. La sua memoria è in benedizione.
A seguito della morte di P. Augusto Tormene, il P. Antonio Dalla Venezia, che era primo consigliere e vicario della Congregazione (non della casa di Venezia) assunse il governo interino, con il titolo di preposito ma anche di Padre Vicario fino al prossimo capitolo generale, decisione presa in adunanza definitoriale straordinaria, il 25 gennaio 1922, giorno stesso del funerale in S. Agnese per la morte del Papa Benedetto XV. Quindi la data dei mandati di P. Tormene finisce al termine del 1921, e P. Zamattio comincia il suo mandato di Preposito solo sette mesi dopo, il 24 luglio 1922.
Del ritratto di P. Augusto Tormene per la galleria dei prepositi generali nella sala del capitolo, fu fatta committenza, con buon risultato, al pittore Umberto Martina, un amico dell’Istituto. Le spoglie del caro padre riposano nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo, nel cimitero civico di S. Michele a Venezia.
2. La prima guerra mondiale: “La prima carneficina mondiale” (28 luglio 1914-11 novembre 1918)
“8Caino parlò al fratello Abele. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. 9Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”. 10Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!”.
(Gen 4,8-10)
Questo capitolo è necessariamente solo parziale, perché un resoconto storico completo su questa guerra, detta anche per antonomasia “la Grande Guerra”, si può trovare in qualunque libro di storia.
Essa dovrebbe piuttosto essere chiamata “la prima carneficina mondiale”, “la Grande Carneficina” o, come l’ha chiamata il papa Benedetto XV, l’ “Inutile strage”. Stavamo scrivendo queste pagine mentre si stava celebrando il 1° centenario dell’inizio di questa guerra. Si assisteva all’imbarazzo dei vari capi di stato, spesso riuniti in visita sui luoghi delle più famose – e disastrose – battaglie di questa guerra, al momento di pronunciare discorsi commemorativi, che tempo fa sarebbero stati celebrativi, ma non lo sono più. Con ogni evidenza, in maggior parte i capi di stato non sanno se esaltare l’eroismo dei soldati morti in battaglia, o se battersi il petto e proclamare la stupidità dei loro predecessori che l’hanno causata, cioè di “chi tiene (teneva, e tiene ancora, NdA) in mano le sorti delle Nazioni”.
I morti in quella guerra o per causa della guerra vi si possono ragionevolmente stimare, tra militari e civili, tra 15 e 17 milioni; senza contare le decine di milioni di vittime della pandemia influenzale detta “Spagnola”, provocata dalla guerra stessa, pandemia che falcidiò i popoli sfiniti fisicamente e moralmente dalla guerra, verso la fine della stessa e subito dopo. Inoltre, il totale dei feriti e invalidi di guerra, civili e militari, è calcolato in più di altri 20 milioni. I risultati politici della guerra sono stati almeno dubbi, e i risultati economici disastrosi. La prima guerra mondiale è stata causa, tra l’altro, dell’inizio della decadenza dell’Europa, e prodromo della seconda guerra mondiale.
Per la nostra generazione, come per le precedenti, educate, per esempio in Italia, al suono dell’inno “Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio / dei primi fanti il 24 maggio…”; o magari da un altro canto che inneggia all’altopiano montagnoso, oggi italiano e sloveno, luogo della principale mattanza di giovani o non più tanti giovani soldati, con le parole “Il Carso era una prora, prora d’Italia volta all’avvenire…”, come ci insegnava la mia maestra, una suora, di IV e V elementare, è difficile ma necessario uscire da una retorica e da una mitologia belliche e post-belliche ancora presenti qua e là.
Il saggista Ernesto Galli della Loggia invita a “un’analisi critica della retorica, dei miti, delle lugubri cerimonie del lutto che allora e dipoi fiorirono, dei cimiteri di guerra, dei monumenti ai militi ignoti e non, sparsi dappertutto”; monumenti e lapidi presenti anche nelle case dei Cavanis, oltre che in tutte le parrocchie, come vedremo. E lo stesso saggista – certamente non sospetto di clericalismo – comincia così il suo editoriale: “Alla fine ha avuto la meglio Benedetto XV. Come non accorgersi infatti che è stata la sua interpretazione di quanto cominciò ad accadere esattamente cento anni fa – il 4 agosto 1914, il giorno in cui la guerra europea divenne realmente mondiale per effetto della dichiarazione di guerra dell’Inghilterra alla Germania, seguita dopo pochi giorni dall’intervento del Giappone e dell’Impero turco – è stata proprio la sua interpretazione di quell’evento, dicevo, che oggi l’intera opinione pubblica europea sembra avere ormai definitivamente adottato?”. “Per averne conferma – continua il saggista – basta pensare al tono e ai contenuti delle commemorazioni centenarie che ormai s’infittiscono anche in Italia. È tutto un ricordo della cecità dei politici di quegli anni, delle bugie della propaganda, degli orrori delle trincee, della crudeltà degli ordini, dei disagi disumani della vita quotidiana, della carneficina degli assalti, delle mutilazioni”.
Riprendiamo allora qui alcuni brani dell’importante documento pontificio, la Nota “Lettera del Santo Padre Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti” del 1° agosto 1917.
“E l’Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro ad un vero e proprio suicidio?”
“E primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentri alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell’ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi, l’Istituto dell’arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo le norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all’arbitro o di accettarne la decisione.”
“Quanto ai danni e spese di guerra, non scorgiamo altro scampo che nella norma generale di una intera e reciproca condonazione, giustificata del resto dai benefici immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la continuazione di tanta carneficina unicamente per ragioni di ordine economico. Che se in qualche caso vi si oppongano ragioni particolari, queste si ponderino con giustizia ed equità.”
“Ma questi accordi pacifici, con gli immensi vantaggi che ne derivano, non sono possibili senza la reciproca restituzione dei territori attualmente occupati. Quindi da parte della Germania evacuazione totale sia del Belgio, con la garanzia della sua piena indipendenza politica, militare ed economica di fronte a qualsiasi Potenza, sia del territorio francese: dalla parte avversaria pari restituzione delle colonie tedesche. Per ciò che riguarda le questioni territoriali, come quelle ad esempio che si agitano fra l’Italia e l’Austria, fra la Germania e la Francia, giova sperare che, di fronte ai vantaggi immensi di una pace duratura con disarmo, le Parti contendenti vorranno esaminarle con spirito conciliante, tenendo conto, nella misura del giusto e del possibile, come abbiamo detto altre volte, delle aspirazioni dei popoli, e coordinando, ove occorra, i propri interessi a quelli comuni del grande consorzio umano.”
“Lo stesso spirito di equità e di giustizia dovrà dirigere l’esame di tutte le altre questioni territoriali e politiche, nominatamente quelle relative all’assetto dell’Armenia, degli Stati Balcanici e dei paesi formanti parte dell’antico Regno di Polonia, al quale in particolare le sue nobili tradizioni storiche e le sofferenze sopportate, specialmente durante l’attuale guerra, debbono giustamente conciliare le simpatie delle nazioni.”
“Sono queste le precipue basi sulle quali crediamo debba posare il futuro assetto dei popoli. Esse sono tali da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti e preparano la soluzione della questione economica, così importante per l’avvenire e pel benessere materiale di tutti gli stati belligeranti. Nel presentarle pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage. Tutti riconoscono, d’altra parte, che è salvo, nell’uno e nell’altro campo, l’onore delle armi; ascoltate dunque la Nostra preghiera, accogliete l’invito paterno che vi rivolgiamo in nome del Redentore divino, Principe della pace. Riflettete alla vostra gravissima responsabilità dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini; dalle vostre risoluzioni dipendono la quiete e la gioia di innumerevoli famiglie, la vita di migliaia di giovani, la felicità stessa dei popoli, che Voi avete l’assoluto dovere di procurare. Vi inspiri il Signore decisioni conformi alla Sua santissima volontà, e faccia che Voi, meritandovi il plauso dell’età presente, vi assicuriate altresì presso le venture generazioni il nome di pacificatori.”
La voce del papa di quel tempo, Benedetto XV, che già aveva predicato la pace nella sua prima enciclica Ad Beatissimi Apostolorum, pubblicata il 1° novembre 1914, qualche mese dopo l’inizio della guerra, non fu purtroppo ascoltata, né nel 1914, né nel 1917, né nelle altre sue iniziative generali o particolari a favore della pace. In Francia fu chiamato, dopo la Nota del 1917, “Le pape boche”, (il “Papa crucco”) in Germania “der französische Papst” (il “Papa francese”), in Italia, con un adattamente spregiativo del suo nome Benedetto, fu chiamato “Maledetto XV”! L’inefficiacia deludente dell’appello pontificio era probabilmente legata fra l’altro all’isolamento diplomatico in cui il predessore di Benedetto XV, cioè il papa Sarto, Pio X, aveva lasciato la Sede Romana alla vigilia della guerra europea e poi mondiale, sia con la sua politica generale, sia specificamente all’inizio del conflitto dichiarando la Santa Sede neutrale e imparziale.
Il peggio fu che gli appelli paterni e pastorali di Benedetto XV non furono ascoltati nemmeno dai cattolici, dal clero, spesso neppure dai vescovi. In Italia la grande maggioranza dei cattolici, come pure del clero e dei vescovi, sia pure con varie sfumature, aveva finito per appoggiare, anche se tardivamente, la guerra; in Francia si era realizzata un’ “union sacrée” contro i tedeschi, nemici tradizionali del paese, con la piena partecipazione dei cattolici e del clero allo sforzo bellico; in Germania i cattolici si attendevano, dal loro consenso entusiastico, la definitiva consacrazione del proprio ruolo nazionale. Perfino l’Impero austro-ungarico, fondamentalmente cattolico e spesso appoggiato e in qualche modo difeso proprio da Benedetto XV, addirittura il cattolicissimo imperatore e re Carlo I, succeduto nel 1915 a suo prozio Francesco Giuseppe I, non batterono ciglio e continuarono l’ “inutile strage” sul fronte meridionale con l’Italia, fino all’ingloriosa sconfitta.
Del resto, non si trattava soltanto di una questione relativa ai cattolici, ma a tutti i cristiani, dato che alla guerra partecipavano cattolici, ortodossi, evangelici, anglicani, oltre a mussulmani, ebrei, non credenti e così via. “Il dramma dei cristiani che muovono l’un contro l’altro, invocando lo stesso Dio, farà esclamare allo scrittore irlandese George Bernard Shaw che sarebbe meglio chiudere le chiese, piuttosto che in esse si preghi per l’annientamento del nemico”. Lo stesso si può dire della seconda guerra mondiale e naturalmente di molte altre guerre!
Sarebbe interessante esaminare, più profondamente di quanto si faccia qui, se e come gli appelli del papa furono accolti e ascoltati nella Congregazione di cui qui scriviamo la storia. Certamente P. Tormene almeno (ma probabilmente anche tutto l’Istituto), non ebbero mai toni bellicistici e nazionalistici, ma piuttosto considerarono la guerra una “sventura”
“Degli orrori delle trincee, della crudeltà degli ordini, dei disagi disumani della vita quotidiana, della carneficina degli assalti, delle mutilazioni” vedremo che parlano abbondantemente anche i testi della nostra Congregazione dei tempi di questa guerra.
A proposito dell’incontro personale con Benedetto XV, P. Tormene (che l’aveva visitato assieme a P. Vincenzo Rossi il 25 giugno 1919, dopo la guerra, in un’udienza privata), scrive molte frasi belle e piene di devozione e di fede, descrive il rituale caratterisrico dell’epoca (incluso il bacio del “sacro” piede, di cui il papa si schermisce ma che poi accetta) e dà un ampio riassunto del dialogo, abbastanza generico e più di convenienza e di reciproca conoscenza che di concreta utilità. È interessante la frase “Caro S. Padre! Quale impressione soave e profonda! Come si sente alla Sua Presenza viva la Fede nel Vicario di Gesù Cristo, e la gioja di essere figli della S. Chiesa, e un più forte desiderio di lavorare per Essa! Il Santo Padre è piccolo di statura e non bello, ma l’affetto e la venerazione abbellisce agli occhi dei figli la la Persona del padre comune”.
Vale la pena infine di accennare brevemente soltanto agli eventi bellici sul fronte italiano, dato che sono questi che principalmente influirono sulla vita dell’Istituto Cavanis.
L’Italia, pur essendo entrata in guerra più tardi degli altri « Alleati », non è incolpevole dell’inizio della stessa. Bisogna ricordare infatti che la guerra che l’Italia mosse all’Impero ottomano o della Sublime Porta nel 1911, con la guerra italo-turca per conquistare la Libia, che riuscì ad annettere nel 1912, e di passaggio Rodi e il Dodecaneso, indebolì l’impero suddetto, con la conseguenza che tutta la regione dei Balcani si mise in movimento con tendenze separatiste e nazionaliste, da cui si scatenarono le due guerre dei Balcani (1912-1913) e dalle quali sorse, tra l’altro, due anni più tardi, il gruppo serbo che fu la scintilla che fece scoppiare la prima guerra mondiale con l’uccisione a Sarajevo il 28 giugno 1914 del arciduca Francesco Ferdinando d’Absburgo, erede del trono imperiale e regio austro-ungarico, e di sua moglie, da parte del fanatico studente nazionalista serbo Gavrilo Princip.
Bisogna anche ricordare che dal 20 maggio 1882 l’Italia aveva aderito, su propria (stranissima!) richiesta, alla Triplice alleanza, un patto militare soltanto difensivo, aggiungendosi così dagli imperi di Germania e Austria (che già formavano la Duplice Alleanza). L’adesione dell’Italia a questa alleanza difensiva aveva una chiave soprattutto antifrancese, come protesta per l’isolamento in cui l’Italia era caduta dopo che la Francia aveva occupato la Tunisia, praticamente contigua alla Sicilia e alla penisola italiana. La triplice alleanza fu rinnovata, spesso con mutazioni nel testo del trattato, nel 1887, 1891, 1896, 1902, 1908, e ancora nel 1912. Ma in Italia gli storici sentimenti antiaustriaci aumentavano e riscaldavano l’ambiente politico.
Allo scoppio della guerra mondiale tuttavia, l’Italia non si sentì immediatamente di entrare in guerra, cui non era assolutamente preparata, né si sentì di allearsi all’Austria-Ungheria, dato il rispuntare dei tradizionali sentimenti fortemente antiaustriaci degli italiani, soprattutto nel nord; ricordò agli altri due membri della Triplice che l’impegno di entrare in guerra valeva solamente in caso di guerra difensiva, mentre in questo caso era l’Austria-Ungheria che aveva attaccato militarmene la Serbia. Nel 1915 la Triplice intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) propose all’Italia, in cambio della sua eventuale entrata in guerra contro l’Austria, ampliamenti territoriali a scapito di Vienna e una posizione di dominio nell’Adriatico. Lo stesso anno l’Italia rifiutava le proposte (ben inferiori) dei governi di Vienna e Berlino, denunciava la Triplice alleanza ed entrava nel conflitto contro l’Austria.
Il 24 maggio 1915, l’Italia entrò dunque in guerra contro gli imperi centrali, a fianco della triplice Intesa, cioè Francia, Inghilterra e Russia e i loro alleati. Questo procedimento non piacque naturalmente a tedeschi e austriaci che accusarono l’Italia di aver “voltato gabbana”. Si disse anche più tardi, non del tutto a torto, con riferimento anche al comportamento dell’Italia nella seconda guerra mondiale, che l’Italia non finisce mai una guerra con gli stessi alleati con cui l’aveva cominciata, il che non è esatto, ma è un’idea molto diffusa all’estero.
All’estero, e particolarmente negli stati della triplice intesa, si ha anche l’impressione tradizionale e falsa che l’Italia non abbia contribuito che in modo irrisorio alla grande guerra, mentre essa ha mantenuto occupato un numero rilevante di armate austriache e poi anche tedesche durante più di tre anni, e soprattutto dopo la defezione della Russia nel 1917; inoltre l’Italia da sola ebbe circa 650.000 soldati e 600.000 civili uccisi, e in più un’infinità di feriti e invalidi – al riguardo di questi ultimi si parla di circa un milione di unità.
All’entrata in guerra dell’Italia, il confine tra Italia e Austria e quindi il nuovo fronte, era quello stabilito dagli austriaci alla fine della guerra del 1866, e in esso gli austriaci occupavano quasi tutte le posizioni dominanti, che essi poi avevano fortificato potentemente. Esso passava da ovest a est per le montagne e i ghiacciai dell’Ortles, del Cevedale, della Presanella, dell’Adamello, attraversava il settore settentrionale del lago di Garda, passava la Val d’Adige poco a sud di Rovereto, saliva alle piccole Dolomiti, sul Pasubio, agli altopiani di Lavarone e dei sette comuni o di Asiago, attraversava il fiume Brenta in Valsugana nella frazione di Martincelli nel comune di Grigno, passava poi attraverso le Dolomiti a sud dei passi di Rolle, Valles, San Pellegrino, attraversava la Marmolada, in seguito passava poco a Nord di Cortina d’Ampezzo, seguiva le Alpi Carniche e Giulie, e in seguito scendeva a sud fino al mare Adriatico seguendo grosso modo il corso del fiume Isonzo, ai piedi del Carso.
Una delle conseguenze dolorose per le popolazioni delle Alpi, da un lato e dall’altro del fronte italo-austriaco, ancor prima della dichiarazione di guerra da parte del Regno d’Italia, fu che i valligiani delle aree interessate dalla guerra furono trasferiti e deportati lontanissimo: l’esercito austriaco li trasferì in Moravia, in Boemia, per esempio nelle baraccopoli di Mitterndorf, Branau e Katzenau, o in altre regioni lontane dell’impero; l’esercito italiano li fece sfollare perfino al sud della penisola o nelle isole. Questa gente, di lingua e cultura italiana, da una parte all’altra del fronte, visse il tempo della guerra in situazione di miseria, a volte in veri e propri campi di concentramento o lager, le “città di legno” come le chiamavano gli sfollati. Vivevano in baracche, molte volte senza porte e finestre, dovendo dormire su qualche bracciata di paglia, ricevendo pagnotte fatte di segatura, di paglia e di farina di castagne; con l’angoscia per essere senza notizie dei loro uomini costretti a combattere per gli austriaci su un fronte sconosciuto, in genere in Galizia o sul fronte con la Serbia.
Gli austriaci ne sfollarono circa 70.000 verso il nord (un nord freddissimo d’inverno, particolarmente nel gelido inverno 1917-18) e l’est, gli italiani circa 30.000 verso il sud; tutti con poco preavviso, di 24 o 48 ore in molti casi.
Dal lato austriaco, gli abitanti della valle di Ledro, della Vallagarina, della valle di Gresta, della Vallarsa e dell’alta Valsugana, del basso Isarco, dell’area di Vermiglio, furono avvisati dalle autorità militari austro-ungariche di preparare una valigetta con “cibo per cinque giorni, i documenti personali, una coperta di lana, posate con un piatto, un bagaglio non eccedente 10-15 chilogrammi”. Famiglie intere, costituite per lo più da donne, bambini e vecchi, perché i giovani e gli uomini fino a 55 anni erano già sul fronte, inquadrati nei rispettivi eserciti, persero tutto, e ritornarono alle loro valli e ai loro paesi quattro anni dopo, sulla fine del 1918 e fino al gennaio 1919, quelli che non morirono in esilio di tifo, morbillo, dissenteria, per trovarsi poi in patria nella miseria più totale, perché tutto il loro era stato distrutto, casa e campi; a volte dall’artiglieria nemica; a volte dall’artiglieria “amica”, come nel caso di Calceranica, il paese di P. Basilio Martinelli e di altri dei nostri, ancora bambini all’epoca. Proprio a Calceranica, sulla riva de lago fu istallato il famoso, potente ma molto poco efficace cannone “Lange Georg”, da 450 mm, che con i botti terribili delle sue cannonate fece crepare i muri delle case del paese dove era situato e volare in pezzi i vetri delle finestre. I soldati occupanti poi avevano fatto il resto, bruciando tutto ciò che era di legno, macellando bovini ed equini, rubando tutto, profanando i luoghi sacri.
Lo stesso naturalmente accadeva dal lato italiano. Non andava molto meglio infatti ai trentini della Vallagarina a sud di Rovereto, della val del Vanoi, della zona di Castel Tesino, in Val Cia, in Val Calamento e ad altri italiani delle Alpi orientali, deportati, si può dire, dall’esercito italiano un po’ dappertutto, in 269 comuni di 69 diverse provincie, e fin nell’estremo sud. Alloggiati in tendopoli almeno nei primi mesi, mangiavano ciò che distribuiva l’esercito, razioni militari da tempo di guerra, aggiungendo qualcosa con quel poco che potevano guadagnare con qualche lavoretto, difficile da trovare tra “stranieri” e in tempo di guerra.
Ci fu dall’ottobre 1917, dopo la rotta di Caporetto, un altro esodato: oltre all’esilio di tutti quelli che poterono fuggire dal Friuli oltre il Piave, ci fu lo sfollamento forzato degli abitanti di tutta la fascia adiacente al massiccio del Grappa, della valle del Brenta e di quella del Piave, come per esempio gli abitanti di Possagno che, come si dirà, dovettero arrivare e stabilirsi addirittura presso Marsala in Sicilia.
Tra i profughi trentini sfollati nelle “città di legno” di Moravia e Boemia, c’erano anche le famiglie di vari religiosi Cavanis residenti a Venezia o a Possagno, che si trovavano invece anch’essi sfollati a Tortona (Alessandria); nelle famiglie sfollate in Moravia e Boemia si trovavano anche alcuni bambini, specialmente dell’Alta Valsugana e dintorni, che più tardi entrarono nell’Istituto e si sarebbero sempre ricordati di questa tragica esperienza.
Tra questi bambini esuli di povere famiglie trentine sfollate, entrati dopo la guerra in seminario e divenuti poi religiosi Cavanis, ricordiamo in particolare P. Livio Donati e P. Luigi Ferrari.
Una differenza di trattamento bellico tra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico riguardava i candidati al sacerdozio: in Italia, prima dei Patti Lateranensi, i giovani candidati al sacerdozio e anche i giovani sacerdoti erano chiamati alle armi come gli altri cittadini sani giovani o adulti, se erano della classe richiamata. Di fatto, dei nostri parecchi furono richiamati e alcuni come si sa morirono o rimasero rovinati per tutta la vita. L’Impero Austro-Ungarico non richiamava invece sotto le armi i candidati al sacerdozio, molto meno i preti. Si legga per esempio parte della seguente lettera, inviata dal Comune di Bosentino (paese natale) al “Sig.r Aurelio Andreatta, Studente di Teologia” il 7 novembre 1914, con protocollo n° 1090: “Essendo che i candidati del Clero non saranno chiamati al servizio delle armi, essi devono presentare alla rassegna i documenti comprovanti tale loro qualità”. Dovevano pure rinnovare annualmente, a dicembre, tale dichiarazione e dimostrazione, e dovevano frequentemente presentarsi personalmente al consolato austro-ungarico più vicino, come risulta frequentemente da annotazioni sul Diario di Congregazione. L’esenzione e il trasferimento alla riserva erano previsti dal “§ 11 della legge militare”.
Nei primi mesi di guerra l’esercito italiano avanzò qua e là, con qualche successo ma con eccessiva lentezza e prudenza, ma riuscì comunque ad avanzare soprattutto perché l’esercito austro-ungarico, pur più numeroso e più fortemente armato e arroccato, si era ritirato da alcune regioni indifendibili dal punto di vista strategico, per attestarsi su posizioni arretrate più dominanti e/o meglio fortificate.
In seguito la guerra tese a stabilizzarsi su queste posizioni del 1915; il fronte occidentale (quello tra Lombardia e Trentino) rimase piuttosto stabile, con frequenti scaramucce e numerosi morti e feriti da ambedue le parti, ma del resto era impossibile invadere l’Austria da parte italiana o il Veneto e la Lombardia da parte austriaca, passando per queste montagne impervie e per questi ghiacciai. Sul fronte centrale della Val d’Adige e degli altopiani, ci furono avanzamenti italiani e austriaci successivi, ma non si giunse mai a rompere il fronte e a penetrare; sulle Dolomiti del Trentino e del Cadore, gli Italiani riuscirono con grande difficoltà e molte vittime a prendere al nemico alcune cime soprattutto nella catena del Lagorai in Val di Fiemme, come il mitico Cauriol, rimanendo poi a presidiarle nella neve e nel ghiaccio, perdendo più uomini per i congelamenti e le valanghe che per la guerra in sé.
Ma anche lì, ciò serviva a molto poco, perché le alte cime e le forcelle montane non avrebbero mai permesso l’invasione massiccia delle strette valli alpine. Del resto, il general Luigi Cadorna, Capo di Stato maggiore dell’esercito italiano, soldato di vecchia scuola e di scarsa fantasia – e di ancora più scarsa pietà verso i suoi soldati –, aveva riservato a questi fronti dei reparti numericamente molto modesti. Aveva concentrato ostinatamente quasi tutta la massa degli uomini e dell’artiglieria sul fronte orientale, nel tentativo di sfondare sull’Isonzo e sul Carso e penetrare a Trieste, con il programma di spingersi poi fino a Lubiana e infine verso Vienna. Vana speranza. Il Carso era stato fortificato dagli austriaci e trasformato in fortezza; il sogno di una forte spallata e di una rapida invasione svanì e la guerra si trasformò in guerra di posizione, cioè di trincea, come sul fronte franco tedesco. In ben undici grandi battaglie, le famigerate battaglie dell’Isonzo, con stragi indicibili da ambedue le parti, gli Italiani riuscirono a conquistare soltanto alcune quote del Carso, soprattutto l’altopiano della Bainsizza e la città di Gorizia, obiettivo ambito ma poco interessante da un punto di vista strategico.
Visto l’indebolimento dell’esercito austro-ungarico, l’esercito tedesco inviò sette importanti divisioni in suo appoggio. Insieme, i due alleati il 24 ottobre 1917 riuscirono a sfondare, in un periodo autunnale caratterizzato da piogge particolarmente intense, nella vallata di Caporetto e, con una strategia nuova, di matrice più tedesca che austriaca, a penetrare in profondità oltre le linee e a costringere gli italiani a ritirarsi su tutto il fronte dell’Isonzo e del Cadore e ampezzano, fino al fiume Tagliamento e poi fino al fiume Piave, al Montello e al monte Grappa nel Trevigiano, arretrando nell’insieme di circa cento chilometri. Lo sfondamento di Caporetto cominciò alle ore 2:00 del 24 ottobre 1917. Dovettero ritirarsi tutte le truppe italiane dalle vallate e dalle cime dolomitiche e di Lagorai che tanto avevano costato in uomini e risorse durante gli anni precedenti. Si parlò di tradimento (senza motivo, con ogni probabilità; il problema vero era l’inconcludenza e l’incapacità tecnica dei comandi) e per l’Italia e per l’esercito Italiano lo shock fu immenso. La guerra sembrava persa.
Per quanto riguarda la Congregazione, in questa situazione il fronte si veniva a trovare a pochi chilometri dalla casa di Possagno e a una cinquantina di chilometri da Venezia. Dopo la ritirata sul Piave, vari dei soldati e ufficiali religiosi Cavanis furono dati per dispersi, alcuni erano stati fatti prigionieri e finiranno la guerra nel campi di concentramento; due di loro furono dichiarati dispersi e poi risultarono morti. Altri si ritirarono con l’esercito italiano sulle nuove linee e continuarono la guerra.
Luigi Cadorna sconfitto fu sostituito dal generale Armando Diaz. L’esercito italiano fu riorganizzato e rinforzato da alcune divisioni francesi e inglesi e più tardi anche da reparti USA, questi inizialmente adibiti piuttosto a compiti di riserva. I rifornimenti USA principalmente furono essenziali per un esercito e una nazione sfinite dalla sfibrante situazione di guerra e di parziale carestia. Passò un anno di durissima resistenza su questo fronte, fragile sì, ma molto più corto del precedente e molto più vicino alle proprie basi logistiche. Il contrario era vero per gli avversari.
L’esercito austriaco, privato ormai dell’apporto germanico, ma d’altra parte favorito dalla fine del conflitto sul fronte russo (con l’armistizio del dicembre 1917 e le pesanti condizioni di pace imposte alla Russia nel trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918), tentò una grande offensiva sul Grappa e sul Piave nel giugno 1918, ottenendo alcuni piccoli successi locali, ben presto contrastati e respinti dagli italiani e, in misura ben minore, dai reparti alleati.
L’Austria aveva consumato in questo attacco, esercitato praticamente lungo tutto il fronte anziché in un punto di probabile sfondamento, le sue ultime forze; e d’altra parte gli imperi centrali, Germania, Austria-Ungheria e Turchia, avevano sofferto a fondo del blocco navale operato dagli alleati e dalle loro marine, e i popoli di questi paesi, e gli stessi soldati, si trovavano in una situazione impressionante di carestia, di impotenza, di depressione. Si facevano sentire, in questa situazione di frustrazione e di sofferenza, anche i sentimenti e movimenti nazionalistici del variopinto e molto differenziato impero ed esercito di Vienna.
Alla fine di ottobre e inizio novembre 1918, mentre pure sul fronte principale occidentale, quello franco-tedesco, si profilava la vittoria degli alleati, anche le forze italiane ripassarono il Piave e scesero dal Grappa e dagli Altipiani (24 ottobre 1918), infliggendo agli austro-ungheresi la sconfitta finale il 4 novembre 1918, in una battaglia che prese nome, in modo discutibile a mio parere, dalla cittadina di Vittorio Veneto, così chiamata dopo la guerra, e formata dalla fusione del bel borgo di Serravalle e della vicina Ceneda, ai piedi delle Prealpi.
Il comando austriaco firmò l’armistizio con il regno d’Italia il 4 novembre a Villa Giusti presso Padova. L’imperatore Carlo d’Asburgo fu costretto ad abdicare (11 novembre 1918). L’impero veniva suddiviso in molte repubbliche e l’Austria ne era umiliata e ridotta a un piccolo paese arroccato principalmente sulle Alpi. La Germania divenne una repubblica e il Kaiser andò in esilio in Olanda. Anche l’impero turco, sconfitto, fu diviso in molti paesi indipendenti, e ai turchi restò soltanto la Turchia, a cavallo tra Asia ed Europa.
La conferenza di Parigi condusse alla ratifica e alla firma di cinque trattati, in momenti diversi per i differenti paesi sconfitti, sempre in località situate a Parigi o nei dintorni. Così, la pace tra gli Alleati e la Germania fu firmata il 28 luglio 1919 a Versailles, presso Parigi; si ratificò il trattato di pace con l’Austria il 10 settembre 1919 a Saint Germain; con la Bulgaria a Neuilly il 27 novembre 1919; con l’Ungheria al Trianon il 4 giugno 1920; a Sèvres il 10 agosto 1920 con la Turchia.
I tre imperi centrali furono umiliati, con pesantissime ammende e riparazioni dei danni e delle spese di guerra. Particolarmente, per quanto riguardava la Germania, vinse – nel complesso ma non del tutto – il programma francese di una “pace cartaginese”, piuttosto che i programmi di pace suggeriti dagli inglesi e dagli statunitensi, che si annunciavano più moderati. Questo eccesso di umiliazione e punizione doveva produrre i prodromi della seconda guerra mondiale.
La spartizione dei grandi imperi austro-ungarico e ottomano in numerosi nuovi piccoli paesi nell’area balcanica, dove le varie razze, popoli e religioni sono mescolati, al di sopra e al di fuori di confini geografici definiti, avrebbe prodotto mali senza fine ancora in tempi recenti e attuali. In particolare, la creazione di numerosi paesi minori (Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Jugoslavia ecc.) dava la possibilità concreta alla nuova Germania, dopo la sua ripresa economica, politica e militare, di attaccare uno o più di questi paesi deboli – come di fatto fece puntualmente –, più facilmente di quanto potesse fare prima della pace di Versailles, essendo allora circondata da grandi potenze e, particolarmente, a est, direttamente dall’impero russo,
L’occupazione e la spartizione del Medio Oriente da parte dell’Inghilterra e della Francia, sotto la finzione giuridica dei protettorati della Palestina, del Libano, della Siria, dell’Iraq, della Transgiordania era foriera di gravi problemi per quell’area strategica e virtualmente ricchissima, in quanto estremamente provvista di giacimenti di idrocarburi, e ne sentiamo i contraccolpi ancora oggi.
A Versailles l’Italia fu trattata dagli alleati come un parente povero, o come la “figlia della serva”, anche se aveva vinto anch’essa la guerra, avendo tenuto occupato e completamente sfiancato l’impero austro-ungarico per tre anni e mezzo sul suo fronte meridionale, quindi alleggerendo il compito degli altri alleati sugli altri fronti, e aveva sofferto la perdita di 650.000 morti in battaglia e di milioni di feriti e di vittime civili. Ricevette il Trentino e anche l’Alto Adige-Südtirol, arrivando così fino al Brennero e allo spartiacque delle Alpi (più di quanto potesse desiderare, su questo fronte minore); ricevette inoltre il Friuli, la Venezia Giulia con l’importante porto di Trieste e con l’Istria, sul fronte principale dello sforzo bellico. L’Italia era ora completamente “redenta” e unita. In questo senso, come si è detto sopra, la guerra mondiale era stata, per l’Italia, la quarta e ultima guerra d’Indipendenza.
Non aveva ricevuto tuttavia, come era stato invece promesso nel trattato di Londra (1915), la Dalmazia settentrionale con le isole e alcuni altri porti, e i promessi compensi territoriali in Anatolia e in Africa. Francia e Inghilterra si erano di fatto divise tra di loro, escludendone del tutto l’Italia, le colonie tedesche in Africa e i territori del Medio Oriente ex-ottomano.
Gli ambienti militaristi, nazionalisti, interventisti, e reducistici soprattutto dell’estrema destra (che in parte confluirono poi nel fascismo) e gli irredentisti estremisti, soprattutto i Giuliani e Dalmati di etnia italiana, considerarono tuttavia il risultato una “vittoria mutilata”, ingiustamente, a mio parere. Ma era stato soprattutto lo stile e il modo in cui i plenipotenziari italiani erano stati umiliati dagli alleati che avevano offeso profondamente il paese.
Inoltre l’Italia (come del resto la Francia e altri paesi vincitori, senza parlare dei vinti) era uscita completamente sfibrata dalla guerra e dall’epidemia successiva. La gente non ne voleva più sapere, e i soldati e ufficiali reduci si sentivano frustrati e molte volte incapaci di riprendere la vita normale, nella quale del resto erano stati sostituiti nel frattempo dai loro coetanei imboscati e anche dalle donne, che durante la guerra erano state chiamate a sostituire gli uomini richiamati al fronte nelle fabbriche, nel commercio e nei servizi, oltre naturalmente che nella pratica dell’agricoltura.
Intanto le retoriche celebrazioni della vittoria, di stampo nettamente nazionalista, culminarono nel 1921 con la traslazione e la tumulazione all’Altare della Patria a Roma del corpo di un “milite ignoto”, uno dei tanti soldati senza piastrina di riconoscimento, il cui cadavere senza nome era stato raccolto sui campi di battaglia. Monumenti e targhe ai caduti sorgevano in tutti i rioni, borgate e paesi, in tutte le parrocchie. Anche l’Istituto Cavanis di Venezia appose la sua placca, nell’androne delle scuole.
Questo complesso di fatti e sentimenti era foriero della nuova infelice e triste fase della storia d’Italia, quella della cosiddetta “era” e preparava, anche qui, la seconda guerra mondiale. Ne parleremo più avanti.
2.1 Venezia e la prima guerra mondiale
Venezia (e soprattutto il suo settore di terraferma, la città di Mestre) fu un centro e snodo importante della retrovia bellica, in alcuni speciali settori. In arsenale si costruivano soprattutto aerei e idrovolanti, contro la tradizione navale di questa grande e antica istituzione; ma anche naturalmente navi di modeste dimensioni, e particolarmente monitori o cannoniere, cioè pontoni galleggianti provvisti di cannoni navali, trasportati per via di canali e lagune fino a Grado, da dove tiravano sul lato austriaco del fronte dell’Isonzo. Vi si costruivano anche bombe, siluri, munizioni.
Da notare che Venezia fu il primo centro, e poi un centro di eccellenza, di sperimentazione degli aerosiluranti, già dal 1913. Vi si sperimentarono e poi costruirono in serie i barchini siluranti detti MAS, come quelli che attaccarono la flotta austro-ungarica e affondarono la corazzata S. Stefano, per l’azione coraggiosa e anche fortunata del comandante Luigi Rizzo. Si vera il proposito, tra l’altro, il supporto marmoreo del mastro da bandiera sito davanti alla basilica del Redentore alla Giudecca,
Venezia-Mestre era anche un importante centro di smistamento di convogli militari, durante tutto il corso della guerra, e ancor più dopo Caporetto e l’arretramento del fronte sul Piave.
Venezia (e il suo retroterra) fu quindi oggetto di bombardamenti fin dalla notte tra il 24 e il 25 maggio 1915, giorno dell’entrata in guerra dell’Italia. I bombardamenti continuarono durante tutto il corso delle ostilità. Avevano come obiettivo soprattutto il porto della Marittima, le stazioni ferroviarie di Venezia e di Mestre, e l’arsenale. Oltre agli attacchi a obiettivi militari, però, si voleva anche terrorizzare la popolazione (e ci riuscirono benissimo) e interrompere o distruggere quella che si chiamava allora “l’industria del forestiere”, cioè il turismo, di cui Venezia era già uno dei campioni record al mondo. Furono dunque sganciate bombe dall’areo su tutta la città, circa 300 bombe in tutto. Ci furono 46 bombardamenti a Venezia città, con 52 vittime civili. Tristemente celebre la “notte delle otto ore”, in cui circa 300 aerei si dettero il cambio a bombardare la città appunto per otto ore. I bombardamenti erano in genere solo notturni, e la città, al centro della sua laguna, era un obiettivo perfettamente visibile anche di notte.
Il 27 ottobre 1915 una grande bomba aerea sfondò e distrusse completamente il tetto della chiesa di Santa Maria di Nazareth (detta chiesa “degli Scalzi”, ovvero dei carmelitani scalzi) presso la stazione ferroviaria di Santa Lucia, con il bellissimo affresco della traslazione della santa casa della Madonna a Loreto, dipinto da Giambattista Tiepolo, che ne uscì completamente distrutto, e fu sostituito dopo la guerra da una copia (naturalmente meno felice) di cui ebbe la committenza Ettore Tito.
La contraerea all’inizio agiva con gruppi di soldati armati da fucili, in plotoni compatti sulle altane; poi con palloni frenati, spesso del tipo draken; naturalmente con l’aiuto di aerei da caccia. Gradualmente aumentarono i cannoni e le mitragliatrici antiaerei.
La situazione della città e provincia di Venezia peggiorò molto con la rotta di Caporetto e la ritirata degli italiani sul Piave. Il fronte venne a trovarsi, sul basso Piave, a meno di 50 km da Venezia, praticamente a una mezz’ora di distanza in bicicletta da Punta Sabbioni, località sita su una delle tre bocche di porto della Laguna di Venezia, cui si arriva in mezz’ora di vaporetto da Venezia. La laguna fu difesa con barconi, zattere, burchi, peate armate con cannoni navali; i vaporini furono sequestrati ed adibiti al trasporto truppe; trincee furono costruite lungo tutto il Canale Caletta a Jesolo; altre, con lunghe serie di paletti e filo spinato, in piena laguna.
Circa 70.000 veneziani fuggirono da Venezia in un profugato molto scomodo, sia per il pericolo, sia per la mancanza di cibo. Si discusse se abbandonare completamente Venezia al nemico e ritirarsi, ma la Marina Italiana non lo permise.
Il giorno dell’Epifania del 1917 (6 gennaio), la diocesi di Venezia fece il voto di costruire un tempio votivo al Lido, se Venezia fosse salvata dalla distruzione e dall’invasione. Esso fu realmente costruito dopo la guerra, ma il processo di progettazione e costruzione fu molto lento, e in pratica non fu finito completamente fino ai nostri giorni. Per facilitare le cose e stimolare la concessione di fondi pubblici, il tempio fu trasformato anche in ossario per i soldati, marinai e aviatori morti a Venezia e in laguna durante la guerra. Del Tempio Votivo si parla con frequenza nel diario di Congregazione del dopoguerra, e anche l’Istituto Cavanis collaborò con offerte alla sua costruzione.
Un’immaginetta sine data recante l’immagine del modellino-progetto del tempio votivo, trovato tra le pagine di uno di libri conservati in AICV nell’armadio riservato alle reliquie dei Fondatori, e più esattamente in uno dei libri che P. Aldo Servini, postulatore della causa di beatificazione degli stessi, ha localizzato in biblioteca e spostato in AICV, perché recanti l’ ”ex libris” dei “Frateli Cavanis”, reca il seguente testo:
(Recto)
IL TEMPIO VOTIVO DI LIDO
“… Degnatevi di ricevere o SS.ma Vergine … l’umile offerta di un Tempio …da dedicarsi al Signore in onore della Vostra Immacolata Concezione, Tempio di ringraziamento e d’impetrazione (Formula del voto emesso da Venezia nel 1917).
(Verso)
VENEZIANI, RICORDATE….
Dal 24 Maggio 1915, al 27 Settembre 1918, 203 volte il lugubre ululare della sirena vi annunciò imminente la minaccia per le vostre vite, per le vostre case …. 36 volte comparvero sopra il vostro Cielo gli aeroplani nemici, 200 apparecchi lasciarono cadere circa 1380 bombe incendiarie ed esplosive…45 incendi avvamparono di livide fiamme la città; nelle notti paurose…. 26 case furono distrutte, 170 furono colpite …. 11 Chiese, 20 palazzi, ricoveri di vecchi, di bambini e di ammalati ebbero danni talora gravissimi. Eppure pochissime furono le vittime umane. La mano invisibile di Maria deviava i proiettili micidiali, il suo manto di bontà, si stendeva sulla città vostra.
O Veneziani
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VENEZIANI,
La vostra fede di cristiani, il vostro amore di figli, il vostro onore di cittadini, vi impegnano ad attuare quanto prometteste con voto il giorno della Epifania del 1917.
La SS. ma Vergine vi ha mostrato il suo materno cuore salvando la città dalle insidie della guerra; manifestate la vostra riconoscenza a Lei dando il vostro obolo al TEMPIO VOTIVO.
2.2 L’Istituto Cavanis durante la prima guerra mondiale
La Grande Guerra ebbe delle conseguenze dolorose anche per la nostra Congregazione: degli aspiranti, dei novizi, dei fratelli laici, dei chierici e dei sacerdoti Cavanis furono chiamati alle armi e ci rimasero lungamente, alcuni fino alla morte violenta al fronte; ci fu anche l’esilio a Tortona, in Piemonte, di alcuni dei nostri, infatti i religiosi e i seminaristi Cavanis nati nella provincia di Trento benché italiani per lingua e cultura, erano ancora sudditi dell’impero austro-ungarico, e quindi, a causa della vicinanza al fronte, erano considerati dalla polizia italiana come potenzialmente pericolosi durante la guerra contro il suddetto impero. Essi dovettero allontanarsi da Venezia e a Tortona (Alessandria) furono ospiti del beato don Orione, fondatore della congregazione detta oggi degli Orionini e grande amico dell’Istituto.
Una grave carestia colpì tutto il paese e tra l’altro le nostre comunità durante la guerra, ma anche dopo la vittoria finale. In un periodo di profonda miseria e di epidemie mortali, come l’influenza (cosiddetta) spagnola, Venezia e Possagno erano vicinissime al fronte di guerra, e dopo la sconfitta di Caporetto (1917), il fronte si avvicinò ancora di più alle due uniche case dell’Istituto.
Il preposito, P. Tormene, consacrò molto tempo per andare a visitare i “suoi” soldati nelle caserme e anche al fronte, lavorando senza soste per sostenere la loro fede cristiana e la loro vita religiosa in una situazione così difficile e pericolosa da ogni punto di vista. Nell’archivio di Venezia (AICV) c’è la corrispondenza interessantissima, anche dal punto di vista storico, di P. Tormene con i padri e i seminaristi Cavanis che erano stati chiamati alle armi.
Anche il Diario della Congregazione compilato da padre Tormene durante tutta la guerra e fino al ritorno dei prigionieri e degli esuli parla con molta frequenza della terribile influenza della guerra sull’Istituto.
I diari di guerra di P. Alessandro Vianello (un sant’uomo e in seguito grande formatore, profondamente segnato per sempre dalla guerra nel sistema nervoso), di P. Pellegrino Bolzonello e gli scritti di altri religiosi e seminaristi Cavanis sono altrettanto interessanti perché documenti storici, ma anche preziosa testimonianza della loro lotta per mantenere la fede e la vocazione pur se in una situazione di grave sofferenza e di pericolo fisico e morale. Sono documenti che superano la vana retorica bellicistica e nazionalista, tanto in voga a quel tempo in Italia e altrove, e mostrano tutta la miseria, la sporcizia, il terrore e la bruttezza della guerra.
La morte tragica di un ottimo e giovanissimo seminarista, l’aspirante Nazzareno De Piante, che si annegò in un fiume a 19 anni, fuggendo al nemico che l’aveva catturato, durante la fase finale della guerra (27 luglio 1918), fu un evento molto triste per la comunità, come pure la morte tragica sul fronte, senza che si potesse trovarne almeno il cadavere abbandonato nella “terra di nessuno”, di un novizio fratello laico, Corrado Salvadori .
Durante la fase più triste della guerra, dopo Caporetto e fino alla vittoria, i buoni padri, Agostino Zamattio e Giovanni D’Ambrosi della comunità di Possagno, accompagnarono dopo un’odissea dolorosa fino in Sicilia, dall’altro capo d’Italia, gli abitanti di Possagno, inviati là come rifugiati, perché Possagno era ormai fronte di combattimenti, presso il Piave e proprio sotto il massiccio del monte Grappa. Essi pure hanno lasciato un diario interessante.
2.3 Le testimonianze nel Diario di Congregazione
Nonostante la gravità della deflagrazione della grande guerra nella storia mondiale e anche d’Italia, nel Diario della Congregazione non se ne parla direttamente; né a riguardo dell’assassinio dell’erede del trono di Vienna (avvenuto il 28 giugno 1914 a Sarajevo) né a riguardo dell’inizio formale della guerra, il 28 luglio successivo.
Il primo cenno indiretto alla guerra nel diario della Congregazione lo fa P. Augusto Tormene, scrivendo preoccupato sulla “chiamata sotto le armi delle classi 1889 e 90”. Nessuno dei religiosi o seminaristi Cavanis era sottomesso a questa chiamata. Si parla invece dell’inizio della guerra, chiamata nel diario ancora “guerra europea”, come si faceva in questa prima fase, il 4 agosto 1914. S’indicono in diocesi di Venezia, e si terranno anche a S. Agnese, pubbliche preghiere “in tempore belli”. Della guerra “europea” si parla ancora nel diario della Congregazione, e P. Tormene ringrazia il Signore che “l’Italia sia ancora nazione neutrale e tranquilla”; ne parla di passaggio altre due volte in quel primo anno di guerra. Lui almeno non era favorevole alla guerra e non lo sarà mai, anche perché ebbe a conoscerla da vicino.
Degli avvenimenti della guerra, sia pure da un punto di vista dell’Istituto, e quindi in modo piuttosto limitato, si parla con molta frequenza soprattutto nelle pagine dei volumi VI e VII del Diario di Congregazione, che riguardano principalmente gli anni 1916-1918; vi si parla di bombardamenti e incursioni aeree, della partenza di novizi, chierici e padri per visite mediche e convocazione di coscritti; di partenze per il fronte di quelli che erano approvati e convocati; delle difficoltà di comunicazione con gli stessi, ancor più con quelli che si trovavano al fronte in senso stretto sulla linea del fuoco, o con i prigionieri; delle incertezze sulla situazione di coloro che erano dichiarati dispersi, e a volte erano prigionieri, altre volte erano stati uccisi in combattimento o altro. Il diario dà relazione delle visite e della frequente corrispondenza del preposito P. Augusto Tormene ai “suoi” soldati e ufficiali in guerra. Di tutte queste cose si parla più in dettaglio in questo libro nel capitolo sui mandati di prepositura di P. Tormene, e nelle biografie dei religiosi più strettamente interessati agli eventi bellici, nei diari di alcuni di loro.
Finita la guerra, l’Istituto vive tutta una serie di avvenimenti post-bellici, alcuni lieti, altri tristi. È il momento del ritorno, della riunione, del ricongiungimento ma a volte del distacco. È la fine della guerra, ma per i reduci non è la fine della guerra: anche vari dei Cavanis militari rimangono in servizio di controllo del territorio, o in campi di ex-prigionieri, o in altri servizi ancora per mesi o anni.
Il 14 novembre 1918 partono per Venezia da Tortona, il padre e i sei seminaristi Cavanis trentini che vi si erano rifugiati il 22 gennaio 1918 ed erano rimasti ospiti di don Orione e dei suoi confratelli, i Figli della Provvidenza, ora detti Orionini. Con loro ritornavano a Venezia anche venti suore clarisse del monastero della Giudecca. Don Orione, prima della partenza, aveva ottenuto dal papa una benedizione speciale per i Cavanis, e don Sterpi, suo vicario, era riuscito (in quei tempi difficili!) a ottener un vagone speciale di seconda classe gratuito, per il gruppo di religiosi e religiose; vagone “staccabile a Milano e attaccabile al treno da Milano a Venezia”. I religiosi arrivati a Venezia alle 10 del mattino seguente, il 15, si recarono subito alla chiesa della Madonna di Nazareth, detta degli Scalzi, sita a fianco della stazione ferroviaria, per cantare il Te Deum per lo scampato pericolo e ricevettero tutti la comunione. La chiesa doveva mancare del tetto, che era stato distrutto dalle bombe aeree austriache, come si è detto. In serata i “reduci” dalla deportazione visitano il patriarca La Fontaine, che li benedice e promette ai quattro suddiaconi, che facevano parte de gruppo di Tortona, di promuoverli al diaconato ben presto. P. Tormene, a conclusione di questa vicenda scrive: “Ci sono noti molti vantaggi spirituali ricavati: altri segni forse può Essa [=la congregazione] aver avuto, mettendoci sulla strada di un Santo: fiat, fiat!”. Il riferimento al santo, scritto con la maiuscola, riguarda don Orione.
Qualche giorno dopo l’arrivo da Tortona, viene in visita-sorpresa dai padri Cavanis il patriarca Pietro la Fontaine e il diario lo annota con gratitudine. Da notare la familiarità e l’estrema gentilezza e cordialità di alcuni patriarchi veneziani verso l’Istituto Cavanis, particolarmente, in questo primo quarto di secolo, Giuseppe Sarto e Pietro la Fontaine.
Il 24 novembre P. Tormene annota che il fratello del chierico Vincenzo Saveri, più tardi padre, viene a visitare l’Istituto a Venezia e riferisce che “del caro nostro Nazareno (sic) De Piante fu subito, al momento del suo annegamento, trovato il cadavere e riconosciuto, ne fu data partecipazione a suo Padre che poté assistere al funerale. (?)”
Il 28 novembre, P. Tormene visita il collegio Canova a Possagno. Purtroppo lo trova semidistrutto dai soldati. Intende chiedere indennizzo al governo. Il testo è il seguente, e merita di essere riprodotto integralmente: “Colla prima corsa il Preposito partì per Possagno in compagnia dell’Economo del Collegio Pietro Rossi. Trovò il Collegio in condizioni disastrose, peggiori assai del 4 giugno quando vi andò col Rettore; perfino le travi dalle impalcature furono segate recentemente dai soldati di stanza in Possagno, asportato quanto restava di legname in pavimenti, rubata la Cucina economica e le spalliere in ferro dello scalone. Poi altri segni di vandalismo e di insulto, come lo sfregio ai busti dei PP. Fondatori nella Chiesetta. Dio perdoni, e se Gli piace il nostro ritorno a Possagno ci ajuti! – Il Sindaco e il Segretario che da qualche settimana sono stabili a Possagno in Municipio accolsero con molto piacere la visita, e furono presi subito accordi per sollecitare il ritorno dell’Arciprete (soldato), del P. Zamattio colle famiglie dei fornaciai, e per provvedere ai primi restauri, e chiedere d’accordo indennizzi al Governo”.
“Sandrino” Vianello, che aveva fatto la sua guerra di trincea, viene in licenza a Venezia, dove visita la famiglia e rimane brevemente in Istituto, ma poi deve ritornare alla vita militare, ed è alloggiato in uno scomodissimo accampamento di ben 40.000 soldati italiani ex-prigionieri a Gossolengo in provincia di Piacenza. Comunica che il chierico Giovanni Battista Piasentini, anche lui reduce, è stato trasferito a Ferrara. Alessandro Vianello avrà poi il suo esonero e riprende i suoi studi, anche perché in guerra era ufficiale, sottotenente.
2.4 I diari di guerra dei religiosi-soldati Cavanis
2.4.1 Diario di guerra e prigionia di Pellegrino Bolzonello, novizio Cavanis: “I miei ricordi di guerra 1915-1918”
Ecco alcuni brani del diario di guerra di P. Pellegrino Bolzonello, da lui rivisto e pubblicato in un fascicolo ciclostilato nel 1982.
Sono le sette di sera, incomincia ad imbrunire: ci accompagna un silenzio profondo, rotto solo dallo sparo della fucileria e dallo scoppio di bombe e di granate, da lontano… Si passa accanto a batterie di campagna, si toccano le alture: Peuma, Podgora. Io ero tranquillo. Si giunge presso il fiume Isonzo, si infila un viottolo che mena al fiume e sopra un ponte mobile fatto di barche, ad uno ad uno si raggiunge l’altra sponda. Le acque irruenti ed impetuose scorrevano luccicanti al chiarore della luna.
Entriamo in Gorizia con l’ordine severo di non fumare: si percorrono vie protette dalla vista del nemico, mascherate da graticci, ci inoltriamo nella città sepolta in un silenzio misterioso, mentre il cannone si fa sentire da vicino e da lontano. Dove si va?
Ci è indicato un luogo detto “lenzuolo bianco” o “casa bianca”. Era una località così denominata, dove rovine di una casa lasciavano vedere una parete alta, intatta e tutta bianca. Il mio plotone tra le rovine, vicino alla ferrovia di Castagnavizza, stava di fronte al cimitero, a quota 126, e S. Caterina.
Era imminente la prima grande azione offensiva: metà maggio 1917.
Prima dell’azione feci due giorni e due notti di trincea. Era la prima volta che io montavo di vedetta alla notte, sullo spalto della trincea, fatta tutta di sacelli ripieni di sabbia. Provai una forte impressione che non dimenticherò mai!
Solo, col fucile teso, spiare il nemico! Io, novizio, dalla quiete della vita religiosa, balzato in piena attività bellica! Quanti rosari abbia detto non lo so! Dove andavano i miei pensieri? Ai miei cari, alla mia famiglia! Alla mia Congregazione, al mio amatissimo P. Tormene. Ero attorniato dalle tenebre, tra il crepitio e delle pallottole e lo scoppio delle bombe e delle granate. Talora il lancio di razzi illuminava tutta la trincea: il nemico spiava i movimenti e ci costringeva a un’immobilità assoluta per non essere individuati.
Di giorno ci si ritirava per riposare e se c’era possibilità, si dormiva lungo i camminamenti senza nessuna difesa e riparo dalle bombe e dalle granate. L’ordine dell’inizio dell’azione fu trasmesso dai portaordini: “Questa mattina alle ore 4 incomincerà il bombardamento generale”. All’ora stabilita, esatta, un colpo di cannone, sparato dal Monte Sabotino, dà l’inizio dell’offensiva.
Spettacolo terrificante! Dai colli vicini, dalla pianura goriziana, dalle rive dell’Isonzo, tutte le batterie di piccolo e di grosso calibro si mettono in funzione, è un incrocio di proiettili sibilanti nel cielo che sovrasta la città di Gorizia. Il mio plotone era sparpagliato lungo i camminamenti esposto a tutti i pericoli, senza ripari dai proiettili che esplodevano da ogni parte.
Per ben due giorni durò questo infernale fuoco! Io ero tranquillo; non fui colpito neppure da scheggia e da pallottola di fucile. Avevo la corona del rosario tra le mani, quella fu la mia difesa.
Verso mezzogiorno del 16 maggio, dalle nostre trincee i soldati in linea dovevano balzar fuori all’assalto; il mio plotone era di rincalzo; si era pronti a correre in trincea in caso di immediato bisogno. Minuti angosciosi e lunghi; da giorni non dormivo. Mi attendeva il primo scontro col nemico!
Sono le 11 e mezza. Si ode un’improvvisa scarica di fucileria, di mitraglia, un grido forte e selvaggio: i nemici erano usciti prima dei nostri soldati dalle loro trincee. “Su, presto, armatevi, presto fuori!” ci grida l’ufficiale.
Noi in un lampo siamo fuori dal ricovero e corriamo di rincalzo. Dall’improvviso e inaspettato irrompere del nemico, i nostri soldati uscirono dalla linea e si ritiravano…
Il colonnello, che era un po’ indietro, con voce tonante: “Indietro!! Indietro!!” e a forza di minacce degli ufficiali, i fuggitivi si arrestano. La linea è sconvolta!
Quale spettacolo! Io ero in mezzo! si cammina sopra i cadaveri! Chi cade ferito, chi finge d’esserlo… e si ritira, e il bombardamento non cessava. Non so come in quel frangente io sia rimasto tranquillo e sicuro di non venir ferito: sassi, terra mi cadevano addosso; vidi balzare all’aria due soldati slanciati dallo scoppio di una granata e appendersi su rami di alberi.
Verso sera potei ritirarmi lungo un torrentello e ripararmi al margine. Rimasi fino a sera tarda. Giunge l’ordine dalla compagnia di raggiungere il luogo di partenza: “Alla Casa bianca” per il cambio del reggimento di fanteria: il 57.
La compagnia si riunisce presso le scuole del Liceo di Gorizia; si esce dalla città e raggiungiamo il paese di Cerovo, a riposo per parecchi giorni.
Dopo venti giorni di riposo, ritorno di nuovo nel settore Goriziano. Ascolto la S. Messa, faccio la Comunione come fosse l’ultima; mi raccomando al Signore e alla Madonna e parto per la trincea.
Mi avvicino, provo nell’animo un’impressione di stupore: c’era calma generale dovunque. Il mio plotone occupava la linea del cimitero di Gorizia, poi girava verso Quota 126 fino a metà colle: sulla cima c’erano i nemici. Colà dovevo rimanere per alcuni giorni.
Per camminamenti e terreno scosceso e scoperto, tra il bagliore dei razzi e qualche scarica di fucileria, giunsi in linea.
Nessuna difesa, non vi erano trincee; le buche di granata erano la nostra difesa. Io ero in capo alla squadra e mi recai all’estremità del settore con un compagno.
Ci appostammo dietro ad un tronco d’albero scorticato dalle granate e alle sue radici scavammo un piccolo riparo. Lì come talpe, fermi tutto il giorno col sole che ci batteva forte proprio in faccia senza poterci muovere, perché eravamo esposti in vista del nemico.
Le ore erano eterne! Venne la notte, la più terribile che io abbia passato fino allora! Il nemico era a otto, nove metri sopra di noi: si vedevano i soldati austriaci camminare lungo il ciglio del colle.
Venne un buio fitto fitto! Un continuo lanciar di razzi che illuminavano il terreno; le bombe a mano ci cadevano attorno. Talora vedevo accendersi la miccia della bomba per cui potevo seguire coll’occhio la sua parabola e allontanarmi dalla sua caduta.
Però il nemico si accorse del nostro riparo; e tentava di colpirci…, e noi, zitti, immobili. Quando sento un ruzzolar dentro il riparo qualche cosa come di un sasso ed entra: “La bomba” gridai! E tutti e due balzammo fuori d’un salto, come due ranocchi, distesi a terra: la bomba scoppia, ci stordisce, ci copre di terra, ma eravamo salvi.
Mi alzai stordito e mi portai più a destra… Ringraziai la Madonna…, avevo intrecciato tra le mani il suo Rosario. Dietro a me si elevavano il monte Sabotino e monte Santo.
Tenebre e silenzio! Passa la mezzanotte. Nessuno si fa vivo: noi due eravamo lì in attesa. Finalmente viene il cambio nella linea. Prendo il fucile e lo zaino e raggiungo il plotone.
Il 24 luglio ebbi la visita inaspettata del mio Rev.mo Preposito Generale – P. Augusto Tormene – il quale, venendo a conoscenza che io mi trovavo nei pressi di Cividale, da Venezia, volle raggiungermi affrontando i pericoli della guerra. Io mi trovavo a custodia dell’accampamento, quando un soldato motociclista mi si presenta chiedendo del sottoscritto; mi dà un biglietto del P. Tormene invitandomi a recarmi a Cividale dove il Padre mi avrebbe atteso il giorno dopo.
L’incontro rimase indimenticabile: passai assieme al Padre una giornata. Assistetti alla S. Messa nel Duomo di Cividale, pranzai assieme a lui in Seminario, mi accompagnò per la città dandomi notizia della Congregazione. Alla partenza mi regalò un orologio che dovevo riportarglielo.
Finito il riposo a S. Pietro al Natisone, si passa a Prepotto sopra Cividale sul torrente Judrio, in direzione degli Altipiani di Bainzizza: era il nostro fronte, dove rimasi parecchi giorni.
Si era alla metà di agosto: di nottetempo si attraversa l’Isonzo per una passerella, che poteva sostenere un solo soldato in fila indiana: passai anch’io. Il primo villaggio è “Auzzax”; lì vicino c’era la ferrovia. Ci avviciniamo alla prima linea e dopo un giorno e una notte siamo a contatto col nemico.
Si procedeva lentamente sparsi sul pendio della collina; quando una scarica di mitraglia ci arresta improvvisamente e ci atterra… Davanti a me il capitano cadde colpito al ventre da una pallottola, altri vengono feriti. Un’altra mitragliatrice ci spara di fianco; bisognava salire un pendio per essere fuori dal suo tiro, quindi via di corsa e vi giungo per grazia della Madonna: il fucile e il rosario, le mie due armi, sempre alla mano. Il tenente Fiore prende il comando della compagnia (il capitano era caduto ferito): ci raduna e ci fa progredire. Io ero stanco e demoralizzato, avevo realmente paura. Di notte venivamo scaglionati ai fianchi della collina, di giorno si tornava ai nostri posti di riparo.
Alle otto del mattino seguente venne l’ordine di andare all’assalto. Siamo pronti per fare lo sbalzo, ma una mitragliatrice ci arresta… e nessuno avanza. Il giorno dopo viene l’ordine dell’assalto. Io mi ero già rassegnato a quello che il Signore avrebbe disposto della mia vita. Temevo un conflitto corpo a corpo…; ma il nemico durante la notte si era ritirato e fuggiva a vista d’occhio. Si avanzò senza combattere; su per le colline giù per le valli sempre di corsa. Ci disturbava una piccola mitragliatrice, ma via lo stesso… Quattro giorni rimanemmo sparpagliati per le rocce, per le valli, affamati, assetati. Si chiedeva un sorso d’acqua a chi ne aveva e si chiedeva per carità.
Il tempo cambiò. Con la bocca rivolta verso il cielo si attendeva la pioggia per prendere qualche goccia; si rovesciava l’elmetto per raccogliere un po’ d’acqua. Finalmente discendemmo dal colle e trovammo frutta con cui dissetarci. Era notte. All’alba chiesi al tenente Fiore di potermi recare in fureria (ero caporale-furiere) mi fece il permesso al chiarore dei razzi e discesi.
Dopo ore di cammino vi giunsi: mangiai delle patate, e mi misi a dormire sotto la tenda. Pioveva.
Dopo 15 giorni, quando si sperava di non più ritornare nella zona di Gorizia, ci attendeva il Monte S. Gabriele dopo la sua conquista. Furono giorni di angustia. Si sapeva che monte era il “S. Gabriele”; l’avevamo visto in fiamme altre volte sotto bombardamenti precedenti… Io pensavo al grande pericolo, ma dissi “Sarà ciò che Dio vorrà! Sempre avanti col suo aiuto, che non mi mancherà!”
Dopo una marcia di una notte intera ci si accosta di nuovo ancora all’Isonzo e ci si accampa a Plaga: poi si sale il monte Corrada e giù a Cerovo e dopo una tappa ci avviciniamo a Salcano, sotto il S. Gabriele. Siamo sulla sponda sinistra del fiume sul pendio di colline, difesi dalle granate. Là ci raggiungono le bombe lacrimogene; ci difendiamo salendo sulle cime delle alture. Di fronte avevamo il Sabotino e la “Sella” del Dol che unisce il monte Santo al monte S. Gabriele.
Ogni sera avvenivano attacchi e contrattacchi: un fuoco infernale da ambo le parti. Questo era il nostro spettacolo, che vedevamo atterriti e angosciati al pensiero di recarci lassù.
L’ordine di salire venne. La salita fu fatta, si può dire, quasi di corsa, perché si era allo scoperto: non camminamenti, non ripari; l’erta era ripida, faticosa, difficile, ingombra di reticolati. Sono sulla cima del monte: mi accoglie una profonda, stretta e umida galleria. Il luogo non poteva essere più squallido; sconvolto da granate e da costruzioni di trincee. Il tempo piovoso concorreva disgraziatamente a rendere la vita del soldato ancora più disagiata e più faticosa. Io ero dentro nella galleria del comandante: l’acqua filtrava dovunque, il suolo era fangoso. Che facessi in quelle condizioni, non lo saprei. Pregavo, pensavo alla Congregazione, ai miei cari, a tutte le persone a me care. Su una cartolina mettevo due righe di saluti, di raccomandazioni, di preghiere per me, e poi mi lasciavo cadere il capo per dormire, ma nel mio animo piangevo. Fu allora che venni a sapere che mio fratello Antonio ebbe l’amputazione della sua gamba sinistra, colpito da scheggia di granata. Il Signore mi diè coraggio e me ne stetti tranquillo e rassegnato.
Le granate esplodevano vicino alla galleria; una vi piombò sopra e spense tutte le luci. Alla distribuzione del rancio un proiettile scoppia all’imboccatura della galleria; tre rimangono gravemente feriti, dei quali due muoiono poco dopo: io ero dentro il tunnel.
La pioggia non cessava; le trincee, le caverne, le gallerie pure piene d’acqua. Di notte, quando mi recavo a trovare i miei compagni o a prendere il pane, a dare ordini, mi sembrava di essere in un mondo di fiabe: tenebre, il rosseggiare degli spari del cannone, il rombo delle granate… correvo per le trincee, per i camminamenti…, qualche proiettile mi sibilava sopra il capo, facevo uno sbalzo… e poi via…!
Ero vicino al comando del reggimento col cappellano Don Greppi. Un giorno mi chiama: “Pellegrino, vuoi venire a rispondermi alla S. Messa?” “Oh! molto volentieri”, ed entro; e là in uno stanzino c’erano pure gli ufficiali maggiori col comandante del reggimento; io risposi alla S. Messa! Mio Dio! Quai pensieri passavano per la mia mente. Qui poco lungi dal nemico! qui in questa galleria assisteva alla S. Messa! Non ero a digiuno, ma il cappellano mi permise di fare la S. Comunione, perché, diceva, si era sempre in pericolo di morte!
Il monte S. Gabriele rimarrà scolpito per sempre nella mia memoria e rimarrà come il più terribile monte che abbia salito!
Il 25 ottobre viene un ordine improvviso e inaspettato: il ritiro dalla prima linea! Che c’è? Ci sarà il cambio della linea…! Ma questo non viene!
Io seguo i miei compagni; si inizia la discesa di notte per un camminamento erto, pieno di sassi, scavato nella roccia; tutto dà ingombro, fucile, tascapane, coperta, la maschera…, ma si corre giù con cadute e ricadute e si arriva ad una spianata, qui ci si muove alla spicciolata e di corsa per non essere presi a tiro dal nemico sopra il monte Santo. Si fa sosta al sicuro e ci si chiede: (eravamo allo scuro di tutto!). Come mai questa ritirata così precipitosa? senza cambio di truppa? Per noi poveri fanti era una cosa misteriosa…, sebbene consolante! Eravamo fuori pericolo.
Siamo a Salcano, a piè del S. Gabriele, costeggiamo il fiume Isonzo e qui viene l’ordine di ritirarsi dietro il monte Sabotino.
Ma perché? Il fante è curioso e vuol rendersi conto di questo strano avvenimento.
La notizia è che le nostre truppe sono in piena ritirata da tutta la linea di Gorizia. L’avvilimento mi fa nodo alla gola! le lagrime vengono agli occhi. Piango! La disfatta! Ed esclamo: povera Italia!
Inizia la ritirata; per il ponte dell’Isonzo passano le truppe italiane. Poi il ponte è in fiamme. Tutti cercano di fuggire portando con sé quanto possono.
Durante la notte si va oltre il Post sabotino. Si vedono i bagliori delle polveriere in fiamme. A mezzanotte si riparte verso Cerovo, verso Valerisce, i nostri luoghi di riposo.
I magazzini della Sussistenza, i depositi di zaini, di corredo, le stesse baracche di legno, tutto è in fiamme. Non si possono descrivere l’avvilimento e il mio stato d’animo nel vedere tale spettacolo terrificante! Non si dorme, non si mangia; siamo in balìa di noi stessi. A Medea, a Medeuzza si sosta un po’ sotto baracche dell’artiglieria.
Le salmerie ci raggiungono e ci forniscono un po’ di viveri. Sempre accompagnati dalla pioggia si giunge a Palmanova, verso sera. Lungo la via palazzi, case, magazzini sono in fiamme: si doveva camminare in fila indiana nel mezzo della strada per evitare crolli improvvisi di case…
La stanchezza ormai si impadronisce di tutti; ma bisogna darsi coraggio e camminare per raggiungere il fiume Tagliamento.
Si arriva in un luogo, dove la strada è impraticabile per il fango e per materiale sparso qua e là. Quando si sparge la voce che il nemico è alle spalle e ci insegue. Un panico generale invade la massa disordinata dei soldati: chi corre attraverso i campi, chi getta via tascapane, fucile e tutto ciò che gli è di impedimento: è un fuggi fuggi da far piangere… Finalmente il mio colonnello si fa coraggio, sale sopra un carro e rivolto alla folla, grida: fermatevi! Fermatevi! Dove correte? Che fate? Ma dov’è il nemico? e colle braccia fa cenno di arrestarsi; e infatti ritorna la calma e sì prosegue il cammino.
Lungo tutto il percorso della strada, non si vedono che carri rovesciati nei fossi, automobili capovolte, mitragliatrici sparse, ambulanze abbandonate: si sente il gemito di persone rimaste nei veicoli fermi. Solo chi fu presente può credere a tale descrizione che dice la realtà dei fatti.
A poca distanza da Codroipo ci ritroviamo riuniti migliaia di soldati di tutte le armi. Entriamo in paese, proprio nella piazza. Io ero vicino al Generale Brigadiere e il Colonnello e vidi questi due ufficiali piangere. Ci accoglie un ampio cortile di una casa. Una mitragliatrice nemica già sbarrava la strada della piazza. Il nemico era a poca distanza e circondava il paese.
Che si fa? Si deve uscire? Ma chi esce per primo? Si decise di muoversi in massa: spingendo il portone del cortile, sventolando fazzoletti e colle mani alzate si esce. Fuori, un soldato tedesco colla mitragliatrice sulla bicicletta puntata verso di noi, ci guarda impavido, col suo casco di ferro in testa, ci lascia passare e sorride.
Era il giorno 30 ottobre 1917 – ore quattro di pomeriggio.
Da quel momento incominciò la mia vita dell’esilio.
La guerra di trincea, la guerra col fucile era finita.
Non pensavo e non potevo immaginare quello che mi attendeva in terra straniera.
Un giorno me ne stavo fuori della mia baracca a guardare i Francesi che facevano la cucina sui fornelli che avevano alla loro disposizione. Era un affaccendarsi straordinario, un continuo scambio di gamelle e di pentolini, di vari recipienti che andavano e venivano… Io ero là in mezzo a loro, stupito di tanto movimento, con le mani nelle tasche del mio pastrano a guardare, aspettando non so che cosa.
Un francese, di elevata statura, con un pizzo di barba rossiccia, girava qua e là, osservando noi italiani quasi in cerca di qualcheduno…
Interroga uno… poi si rivolge ad un altro; passa vicino a me, mi guarda e sorridendo mi chiede “Vous êtes italien?” “Oui” risposi. “Di quale regione?” e via, altre domande un po’ vaghe. “Che mestiere fate?” “Sono studente”. “Ah! studente!”. Prese coraggio nelle sue interrogazioni. “Che studiate?” “Sono chierico seminarista”. “Ah! seminarista!” e così dicendo mi prende per un braccio dicendomi: “Venga con me! venga con me!”. Cascai dalle nuvole, ma nello stesso tempo lo seguii, e mi condusse in uno stanzino, aderente alla biblioteca francese. Mi fece una grande festa: “Oh! quanto sono contento di aver trovato un seminarista! Era tanto tempo che andavo in cerca e non mi fu mai dato di trovarne uno! Oh! avrete fame, non è vero? Avrete freddo!” e così dicendo apre un cassetto, mi mette dinanzi parecchi biscuit francesi e mi invita a mangiare: poi da un altro cassetto tira fuori un paio di calze e altra roba di vestiario e me l’offre: di più mi porge un libro di devozione, che mi servì per tutta la mia prigionia. Non sapevo come ringraziarlo di tanta carità, e cercavo di rifiutare qualche cosa. “Oh! non, c’est tout pour vous, e poi venite ogni giorno qui…, e se avrò qualche altra cosa ve la darò”. Ringraziandolo me ne partii tutto contento e mi recai dal mio compagno, che mi aspettava. “Dove sei stato? È tanto tempo che non ti vedo”. “Taci! Taci! ho trovato la provvidenza! Vedi!?” e spiegai dinanzi a lui tutto quel ben di Dio! e gli raccontai tutto l’accaduto. “Ah! Il Signore provvede anche a noi!”. E fatto parte del pane, mangiammo.
Andai a riposare, ma non pensavo che a quel buon sacerdote, a quell’incontro, e dicevo tra me e me: guarda un po’: egli andava in cerca di me…, fortunato me che lo incontrai!
Sto alla finestra della baracca e leggo. Mi si avvicina un soldato, si ferma e mi chiede: “Sei studente?” “Sì!” “Anch’io” replicò: e si parlò degli studi fatti. “Dove hai studiato?” “In seminario”. “Ah! in seminario! allora sei un seminarista!”. “Io sono chierico novizio dei Padri Cavanis a Venezia!”.
Questo bastò per stringere tra noi due un’amicizia, che dopo poco tempo diventò tanto stretta che doveva durare fino alla fine della guerra. Era questo giovane Angelo Dalla Caneva, di mugnai di Feltre, che si fece sacerdote e fu parroco in una parrocchia feltrina.
Si unì nella prigionia all’amico Visentin.
Era proibito passare nel campo francese. Un giorno riuscii a passare con la gavetta. Nel ritorno colla gavetta piena incontrai le guardie: feci il disinvolto cercando di eludere la loro presenza. Appena le vidi rivolgersi verso di me, dissi: ora ci siamo! Ed io avanti, sicuro. “Italien? Italien?”. Diedi una risposta evasiva… Non contenti della mia risposta, aprono il mio pastrano, mi guardano le stellette. Arrabbiati mi si avventano addosso. Uno era piccolo, ma feroce e mi prese a pugni sul viso; l’altro mi percuote sulla schiena… Io cerco di difendermi e schivare i pugni sul viso… e di svincolarmi da loro… così facendo giunsi fino alla sbarra… Feci l’ultimo sforzo; mi abbassai e fui al di là, libero dai due assalitori. Le presi, ma la gavetta era salva! Ansante mi porto alla baracca e mi getto sul pagliericcio. “Che hai?” mi chiede l’amico, venuto a sapere l’accaduto: “Ah! ti avevo detto io, di non andarci!”. Ho imparato, a mie spese!
2.4.2 Diario di guerra e prigionia del novizio Alessandro Vianello
-J.M.J-
Omnia ad maiorem Dei gloriam.
Per rievocare più facilmente i tuoi grandi benefici, o Signore!
Sabato 27 Novembre 1915 – Mi presento al Distretto Militare di Venezia: però, ritirata la trasferta, posso ritornare in Congregazione fino alla
Domenica 5 dicembre 1915 – Fino alle 11 della mattina rimango in Congregazione; dopo vado a pranzare in famiglia; Da casa verso le 12 ½, accompagnato dal papà e dal fratello Checchi [Francesco Vianello], mi reco alla stazione ferroviaria.
Ore 15 partenza per Bologna in un carro di IV classe – Viaggio coi chierici di Venezia [diocesani o di altri istituti religiosi]: Poloni Antonio, Ugo Bassi (+ nel 1917) Leandro Ettore, Martin (+ 1916), Marchesan . D[on] G. Puggiotto – D[on] Romeo Muto (Pietro Fabbri) – Valentini.- Arrivo a Bologna ore 0.15; distribuzione della trasferta al chiaro della candela sulla strada, davanti alla Caserma – Casa del popolo – Pernottiamo in un Oratorio attiguo alla Chiesa della Carità –
Lunedì 6 dicembre – Alla Mattina esco con Poloni nella vicina Chiesa della Carità; e posso assistere [pag. 2] alla S. Messa e fare la S. Comunione; subito dopo vado alla Caserma Ugo Bassi, dove si erano riuniti gli altri: veniamo vestiti da soldati ed equipaggiati – Ore 18 partenza per Sacile [cittadina del Friuli]: Alle 23 arriviamo a Mestre in un Magazzino della Stazione –
-Sacile-
Martedì 7 dicembre, sulle otto del mattino arriviamo a Sacile – Dapprima veniamo accasermati nella Caserma de Distretto. Quivi faccio conoscenza col Ch[ierico] di Padova, Meneghello Giacomo; Ci tratteniamo insieme riandando col pensiero ai nostri diletti Istituti e leggendo qualche divoto libretto. Alla sera, nella libera uscita, mi reco in Chiesa e mi accosto alla S. Confessione dall’Arciprete D. Luigi Morelli. Le campane del paese suonano a festa per la solennità dell’Immacolata! …. Il mio pensiero è sempre fisso alla mia indimenticabile Congregazione …. Penso ai miei alunni di 2ª Elem., da me istruiti che nel seguente giorno dovevan fare la loro Iª comunione. Non posso trattenere le lacrime … Accipe, Domine, [3] omne (sic) voluntatem meam!..
Mercordì 8 Dicembre: Festa di Maria S.S. Immacolata!.. Con Meneghello tento di uscire dalla caserma e recarmi in Chiesa; ma veniamo fermati… Pazienza! Dobbiamo rassegnarci a restare senza Messa e Comunione.
Giovedì 9 Dicembre – Ci trasportano per una settimana in un ampio granaio in Campo Marte
Domenica 12 Dicembre – Viene a trovarmi il fratello Checchi – Ottengo il permesso di rimaner con lui dalle 11 del mattino alla ritirata.
(Nella seconda metà di questa pagina e nelle successive Alessandro racconta della sua permanenza a Sacile, con le esercitazioni di tiro, le esercitazioni di marcia “affardellati”, i turni di guardia, il giuramento, del tutto informale, la visita del Vescovo di Udine, Mons. Anastasio Rossi, ai chierici della sua diocesi e anche a tutti gli altri preti e chierici accantonati in quella cittadina; parla anche delle letture pie e meditazioni che va a fare nel cimitero, sempre aperto di giorno, durante le libere uscite; presenta liste di ecclesiastici-soldati, racconta della visita dei suoi genitori, dà relazione delle sue letture.)
[alla fine della pagina 6:]
Bologna
Sabato 18 Marzo 1916 – Ore 7 ½ antim. Partenza da Sacile per Bologna – Ci fermiamo per circa un’ora alla stazione di Mestre, dove posso scendere e stare insieme con i miei genitori e fratelli venuti apposita[7]mente. Arriviamo a Bologna sulla sera – Veniamo accantonati nella Palestra cattolica – Fortitudo – poco discosta dalla caserma U. Bassi.
Domenica 19 Marzo – Festa di S. Giuseppe – Vengo assegnato all’Ospedaletto da Campo Someggiato N° 145 [con vari altri chierici] Capitano Medico Direttore Prof. Alberto Agazzotti di Modena – Cappellano D. Davide Floreani di Udine S. Ten. De Angeli Francesco di Napoli – Mancini Ferruccio. Sergente di Compagnia D[on] Francesco Magnoni!! (della diocesi di Pesaro)-
Durante la permanenza in Bologna, mi è impossibile uscire quotidianamente alla mattina per soddisfare alle pratiche di pietà. Però il Signore provvede: Ogni giorno un [8] certo numero di noi deve recarsi a prendere il rancio all’Ospedale Militare: Approfittando di questa provvidenziale occasione, ogni mattina, mentre si attende il I° rancio all’Ospedale, posso recarmi, anche con Leandro, Bassi, Gianola, nell’Oratorio dell’Ospedale stesso e fare la S. Comunione, trovandovi sempre pronto il Cappellano, figlio di S. Francesco. – Essendo tempo quaresimale, ogni sera, durante la libera uscita posso recarmi al Quaresimale del P. Roberto Nove (Cappuccino) in S. Petronio –
Domenica 26 Marzo 1916 (Domenica Laetare). Prevedendo che la festa di Pasqua avremmo dovuto passarla in altre, e forse più penose, condizioni, Sartori ed io stabiliamo questa Domenica per soddisfare al Precetto Pasquale, e distinguerla anche materialmente. Chiediamo il permesso dalle 11 del mattino alle 10 della sera. Facciamo al mattino la S. Comunione e assistiamo alla S. Messa, poi a piedi facciamo un specie di pellegrinaggio alla marmorea [9] e incantevole Basilica di S. Luca, recitando il Rosario. Visitata la Certosa, in trams (sic) ci rechiamo alla predica in S. Petronio. Di qui passiamo nella Chiesa di S. Bartolomeo e assistiamo all’ora di adorazione, fatta appositamente per indurre i peccatori all’adempimento del precetto pasquale – Chiudiamo la festicciuola con un modesto desinare in una tranquilla trattoria. Sartori compera una piccola focaccia, e la mangiamo con un po’ di vino – Lieti di aver passata questa giornata lietamente riguardo allo spirito e riguardo al corpo, ce ne torniamo in Caserma.
19 Aprile – Mercordì Santo – Ci viene promessa una brevissima licenza di 3 giorni – Vengon apparecchiati i fogli di vi[a]ggio. Il direttore dell’Ospedtto li firma già. Il Giovedì seguente vengon sospese le licenze (ordine del Maggior Generale) Sia fatta la Volontà Divina.
(Alessandro continua la sua relazione della settimana santa, in cui ha ampie possibilità di seguire le sacre celebrazioni e anche di visitare chiese e venerare santi e reliquie, ma a Bologna. Sebbene finora nel diario egli parli quasi soltanto di attività religiose, stava tuttavia prestando servizio di sanità assieme agli altri religiosi:)
[11] A cominciare dagli ultimi di Marzo, per turno dobbiamo prestar servizio giorno e notte come infermieri all’Ospedale militare Principale di Bologna – A me toccan due volte al medesimo infermo.
(segue la descrizione di altre visite a chiese e reliquie).
[12]
-Vicenza-
Mercordì 26 aprile 1916 – Alle 14 partiamo da Bologna per Vicenza – A Padova scendo e posso rimanere col fratello Gigi, venuto appositamente. Arriviamo a Vicenza sulle 22 – Veniamo posti in un fienile di uno stallone in S. Felice. Al mattino viene l’ordine di tenerci pronti per partire; ma sulla sera un contro-ordine. Deo Gratias! Ci trasferiscono in una ex Osteria, quasi dirimpetto alla Chiesa di S. Felice – Alla sera, nella libera uscita, corro all’Istituto Farina delle Dorotee a salutare le [mie] sorelle Suor M. Luigina e S. Maria Santina; Eran sei anni che non vedevo la Iª, tre la IIª – Grande consolazione nel rivederci dopo tanto tempo – La Superiora mi dà il desinare – Accoglienza benevola e paterna di Mons. Viviani –
[13] Ogni sera posso recarmi nella loro paradisiaca Chiesetta dell’Adorazione perpetua e ivi assistere, facendo da turiferario alla funzione della sera: Coroncina dell’Immacolata, canto del Tota Pulchra- , e del Tantum ergo – Benedizione – In questa tanto devota Chiesa ho la felicità di fare più di qualche ora di adorazione – Solo ai piedi di Gesù Sacramentato trovo un grande conforto nel mio esilio –
Miei officii – Nell’Ospedaletto vengo addetto come attendente del Cappellano e come Postino – Come tale ogni mattina alle sette e ogni pomeriggio alle 15 posso uscire di Caserma pel ritiro della posta – Alla mattina posso recarmi nella Chiesa di S. Stefano e ivi assistere alla S. Messa e fare la S. Comunione.
Domenica 30 Aprile: Vengono a trovarmi i genitori: con loro posso rimanere dalle 13 a sera –
Giovedì 11 Maggio: Viene appositamente per [14] trovarmi il mio P. Maestro – P. Francesco Saverio Zanon – con lui posso recarmi alla Basilica di M. Berico per raccomandarmi a Maria S.S. e mettermi sotto il suo Manto –
(Finisce così la prima fase della “guerra” di Alessandro. Finora non si era trattato per lui di vera guerra, sia perché era di Sanità, come molti religiosi e chierici; sia perché la sua attività di infermiere si svolgeva molto lontano dal fronte, anche se doveva vedere ogni giorno i segni tragici della guerra, in tanti commilitoni straziati dalle ferite e dalle amputazioni (di cui non parla nel diario); sia ancora perché senza dubbio era stato occupato lungamente dall’addestramento alla vita militare, alle attività belliche, al lavoro di infermiere. In questa fase, Alessandro era soldato semplice. Aveva avuto tutte le opportunità di praticare la sua vita di preghiera e di pratica dei sacramenti. Le cose tuttavia stavano per cambiare).
-Recoaro-
Domenica 21 Maggio 1916, mentre alle 21 ritornavo in Caserma, dopo aver assistito alla solita funzione nella Chiesa delle Dorotee, trovo l’ordine di partenza pel giorno seguente – La sera ci apparecchiamo zaino ecc. – Alle due del mattino sveglia, carichiamo sui muli il materiale –
Lunedì 22 maggio – Ore 5 ¼ ant. Partenza da Vicenza a piedi con zaino in spalla: polvere e caldo a volontà- Alle 12 arriviamo a Cornedo: si fa una fermata: depositiamo gli zaini: possiamo girare pel paese: con Sartori andiamo a mangiare in una trattoria del paese, dopo aver visitato la Chiesa – Alla sera assistiamo alla pia pratica del Mese mariano, indi andiamo a coricarci in un granaio – Al mattino [15] seguente ore 2 ½ sveglia, carico del materiale e degli zaini – Ore 4 ¾ partenza da Cornedo.
Martedì 23 Maggio – Ore 9 ½ arrivo a Recoaro. Veniamo subito posti nell’ampio Ospedale Umberto I° (costruito dagli Austriaci), Come postino e attendente del cappellano posso uscire ogni mattina e, quando non veniva celebrata la S. Messa nei reparti dell’Ospedale, andare in Chiesa – Ogni sera posso assistere al Mese mariano. Ogni giorno a piedi dovevo recarmi a Staro per la posta d’Ufficio –
(Descrive in seguito le sue devozioni, la sua malattia di gastroenterite in cui è amorosamente assistito nell’ambiente dell’ospedale, la visita del vescovo castrense).
[16]
–Montecchio Maggiore-(Vicenza)
11 Giugno 1916 – Domenica di pentecoste – Viene l’ordine di partire immediatamente – Nè messa nè comunione – Dopo otto giorni di letto, mi alzo il I° giorno: Vengo dispensato dalla marcia, e posso viaggiare nel vagone, portando il materiale – Sulle 19 arrivo a Montecchio – Il Capitano mi concede di dormire fuori –
Veniamo accasermati in due stanze vicino alla Chiesa di S. Vitale; dove possiamo recarci facilmente alla mattina e alla sera: assistere anche a più di una messa –
(prosegue raccontando dell’ospitalità ricevuta presso i Giuseppini di Murialdo, della loro biblioteca, del fatto che ricomincia a studiare S. Scrittura nel tempo libero; della sua licenza a Venezia, dove partecipa come turiferario alla prima messa solenne del P. Michele Busellato in Istituto; ritorna a Cornedo il 25 giugno sera. Il 23 luglio riceve notizia della sostituzione del maestro dei novizi, P. Zanon, di cui tesse le lodi. Molti suoi commilitoni religiosi sono trasferiti ad altre unità.)
[18]
-Brogliano-
Lunedì 24 Luglio 1916: Partenza da Montecchio Maggiore per Brogliano – a piedi. Con lo zaino in spalla, sotto una pioggia quasi continua Veniamo accasermati nell’ex canonica –
(seguono notizie sulle sue pratiche di pietà e sacramenti)
[19]
Per servizio devo recarmi più di qualche volta, in bicicletta a Valdagno e a Trissino –
Ai primi di Agosto, cado ammalato coi soliti disturbi gastrici: devo cedere, anche per l’avenire, l’ufficio di postino a Gattesco – Leggo Fabiola, Confessione e Direzione [spirituale]–
–Ponte all’Asse di Torre Belvicino–
Mercordì 23 Agosto 1916 – Ore 7 antim. Partiamo da Brogliano per Asse di Torre B. a piedi (ci è concesso di caricare gli zaini) – Veniamo posti in una ex latteria – Subito il giorno dopo si devono cominciare i lavori di pulizia e restauro –
27 Agosto 1916 – Domenica. Festa di S. Giuseppe Calasanzio – Dobbiamo lavorare come gli altri giorni: trasportando macerie, raschiando muri – [20] Il mio pensiero è sempre rivolto alla mia diletta Congregazione, in festa pel suo S. Patrono – Che differenza dagli altri anni!!!
(Il diario sviluppa qui temi religiosi, sull’opera del cappellano don Floreani in favore dei militari. Questi viene sostituito tuttavia da un altro cappellano, Don Giuseppe Bozzi di Bari.)
[21] Vengo addetto alla sterilizzatrice e all’Ufficio Notizie –
In Novembre viene l’ordine dal Comando di Divisione di denunciare il titolo di studio (licenza liceale o d’Istituto Tecnico) – Devo denunciarlo anch’io – Prego e confido –
Il 6 Dicembre, sostituisco Gattesco, andato in licenza invernale, nell’ufficio di postino; come tale devo recarmi alla mattina e al pomeriggio a Valle dei Signori per ritiro [22] della posta – a Valle posso recarmi spesso in Chiesa, dovendo attendere, specialmente alla sera, per più di un’ora i giornali –
–Raossi–
Giovedì 21 dicembre: partenza per Raossi – Parto con un’ambulanza, carica di materiale – A Dolomiti l’ambulanza non può andar avanti per la strada ingombra di neve – Devo scendere e pernottare due notti come piantone al materiale (neve, freddo e tormenta a 1200 m. dal livello del mare).
Domenica 24 Dicembre 1916 – Arrivo a Raossi – Siamo posti nell’ampio Ospedale Umberto (costruito dagli Austriaci) – In esso trovasi anche l’oratorio col tabernacolo –
(qui il testo del diario racconta della vigilia e della solennità del S. Natale, più che altro con riferimento ad argomenti religiosi. La frase che ricorda la guerra è la seguente:)
[fine pagina 23] Qui a Raossi, stando a letto perché impossibilitati di alzarsi avendo i piedi congelati, due soldati della Sicilia, fanno la loro Prima Comunione a 20 anni!
Domenica 7 gennaio 1917 – Nel pomeriggio parto con D. Bozzi in licenza invernale. (…)
[24] Lunedì 8 gennaio – Alle 23 arrivo a Venezia. Alla stazione trovo genitori, Checchi e sorelle. Al mattino alle 5 vado in Congregazione [ovvero presso il suo Istituto Cavanis di Venezia], e indosso subito l’abito santo e assisto alla Meditazione del mattino – [il] 12, 13, 14 faccio un po’ di ritiro spirituale. Quanta pace, quanta gioia, quanta felicità fra le pareti del Noviziato! tra le mura della Congregazione, lontano dai rumori osceni, triviali, ributtanti del mondo! Come apprezzo sempre di più il dono della vocazione!
(seguono dettagli sulla sua licenza in Istituto a Venezia, tra l’altro con un incontro con il patriarca Pietro La Fontaine)
[25] Il 25 gennaio, ritorno a Raossi – (…)
–S. Antonio di Valli dei Signori–
1 Aprile 1917 – Domenica delle Palme – A mezzogiorno, partenza da Raossi per S. Antonio in un’ambulanza carica di materiali. Veniamo posti in una ex latteria, dove si principia subito a lavorare per il restauro – Ogni mattina posso recarmi nella vicina Chiesa –
[26] S. Pasqua 1917 – Abbiamo libera uscita fino alle 11 del mattino. Posso assistere a 4 messe – Alla sera, noi 4 Chierici ci ritiriamo nella camera del Cappellano e facciamo una modesta cenetta
Sabato 14 Aprile: Ricevo l’ordine di partire subito pel Corso obbligatorio Allievi Ufficiali a Rivalta di Pesi – La sera i 3 Chierici compagni, nella camera del Cappellano m’offrono un brindisi d’addio.
Domenica in Albis 15 aprile – Ore 14 parto da S. Antonio in camions (sic) sotto pioggia dirotta, in compagnia dei sergenti Rivasi Marco, Immovilli Ernesto e sold. Mantovani Idalgo – Verso le 16 arriviamo a Schio – dove pernottiamo – Alla sera vado ad assistere alla Predica in Duomo –
–Rivalta di Pesi (o: Peri) Ala-
Lunedì 16 Aprile – Sulle 10 arriviamo a Rivalta – Alla sera vado a riverire il Parroco. Funzionerà come Cappellano per gli Allievi Ufficiali [27] un caporale di sanità – D[on] Domenico Loffredo di Caserta – Ogni sera (si descrivono varie pratiche di pietà).
I° Direttore del Corso: Cap.no Marrubini di Milano – Nell’esercizio di lancio di bombe – una bomba scoppia in mezzo a noi; ne ferisce uno mortalmente e 9 gravemente – io resto incolume, quantunque vicino – Un mese dopo viene sostituito dal Cap.no Trivelloni di Verona – (una pallottola di mitragliatrice a pistola ferisce un allievo, Ultimo direttore – Ten. Colonnello Ungania – che divide il Corso in tre Gruppi – Io vengo assegnato al I° (Cap.no Carreras e Ten. d’Amato).
Qui al Corso trovo diversi Chierici coi quali mi trattengo, nei momenti di libero intervallo [28-29] durante le istruzioni.
(segue la lista dei chierici; si parla di cappellani e della visita del famoso predicatore P. Semeria, barnabita, che tra l’altro regala al novizio Alessandro un libro di spiritualità, che poi questi perderà con la sua cassetta, al momento di essere fatto prigioniero.)
[29] Venerdì 29 Giugno 1917 – Otteniamo una breve licenza per la vestizione (3 giorni); l’otteniamo per l’interessamento del P. Semeria, venuto al Corso una seconda volta (in cui fece conferenze e, alla mattina seguente, predica durante la Messa) – Detta licenza era stata negata dal Comandante Divisione – Arrivo a casa sulle 18 inaspettato: Ceno a casa e poi col papà [30] mi reco in Congregazione – Passo tre giorni di paradiso nella mia amatissima Congregazione, in mezzo ai miei cari Padri e Compagni di Noviziato: facendo nel medesimo tempo più di qualche visitina a casa, anzi pranzando più di qualche volta coi miei cari genitori, fratelli e sorelle.
Giovedì 5 Luglio – Arrivo a Peri di ritorno. Trovo la dolorosa notizia della morte del Ten. D’Amato (il Cap.no Carreras ferito) – C’è già la destinazione mia – Vengo destinato al 79 Fanteria (Brigata Roma) – con Cappelli, Gori, Ceresa – Alle 14 partiamo per Verona, io proseguo per Vicenza, dandomi appuntamento coi compagni di ripartire da Vicenza alle 13 del giorno seguente – Alla sera vado subito a salutare le sorelle Dorotee: La Superiora mi fa portare il desinare e mi trova l’alloggio per la notte, in una stanza della casa di ricovero vicino all’Istituto –
[31] Venerdì 6 Luglio – Anche questo I° venerdì del Mese posso fare la S. Comunione – E la faccio nella Basilica di M. Berico, dopo essermi riconciliato dal Superiore dei Serviti – Assisto a due S.S. Messe – Mi affido a Maria S.S.; mi metto sotto il suo Manto, prevedendo a quello a cui avrei dovuto andare incontro –Anche durante il giorno vado a salutare le sorelle. Alle 13 parto per Schio. Arrivo e pernotto quivi.
Sabato 7 luglio – Alla mattina posso assistere alla S. Messa e fare la S. Comunione – Mi trovo coi buoni e cari colleghi Ceresa Silvio e Gori Otello, coi quali mi reco insieme al Reggimento. Alle 17 partiamo in Camions per raggiungere il Reggimento.
Bocchette di Campiglia (M. Maio)
Domenica 8 Luglio [1917]: arrivo alle 11 ½ al Comando del 79° Regg.to Mi presento all’aiutante Maggiore in Iª Cap.no Albano che mi presenta al Colonnello – Mi assegna all’11ª Compagnia: mi fa subito accompagnare – Uscendo dalla baracca del [32] Comando m’imbatto col Cappellano del Reggto.- Mi presento, baciandogli la mano: mi riconosce subito per Chierico,- rivolgendomi uno sguardo e una parola che mi fa subito riconoscere il suo cuore affettuoso: però devo subito staccarmi da lui per raggiungere la Compagnia –
Comandte 3° Batt. Cap.no Picchioni (nell’Agosto promosso Maggiore) – Comandante la mia Compagnia Ten. Moneta Giuseppe (allievo dei P.P. Gesuiti). Mi viene affidato il I° Plotone –
–S.ta Caterina–
Martedì 10 Luglio. Ore 14 partenza da Bocchette di Campiglio per S. Caterina, sotto una pioggia dirotta – Qui posso recarmi in Chiesa, abboccarmi più di qualche volta col Cappellano del reggimento: D. Rosario D’Andrea – Canonico della Cattedrale di Messina, abitante in S. Marco (Messina) – Laureato in Dogmatica all’Università Gregoriana di Roma – Conosco subito il suo cuore affettuosissimo, [33] premuroso; la sua intelligenza pronta – In Reggimento, tutti gli Ufficiali lo amano e stimano assai – Il mercordì celebra la S. Messa all’aperto, presente il 3° Battaglione; al Vangelo fa un discorsetto ai soldati – Posso fare la Comunione –
–Pieve di Torre Belvicino–
13 Luglio arriviamo a Pieve e ci attendiamo tutti Ufficiali e Soldati –
(il diario qui annota varie cose su pratiche religiose e sacramenti)
Mi ammalo due volte con disturbi gastrici: e ambedue le volte l’Arciprete del paese e il Cappellano mi offrono la stanza in Canonica: il che accetto di cuore – [34] (ancora varie cose su pratiche religiose e sacramenti).
In Agosto vengo assegnato, dal Comand.te il Battaglione, alla 3ª Sezione Lanciatorpedini Bettica –
–S. Stefano–
Mercordì 15 Agosto – Ore 2 di notte partenza da Schio, in treno, per S. Stefano – Arriviamo sulla sera – Anche qui, Ufficiali e soldati, dormiamo attendati – Riguardo alle pratiche di Pietà, come a Pieve –
–Altip.no di Bainsizza–
Sabato 25 Agosto 1917 Partenza da S. Stefano per Visinale (a piedi) – Rimaniamo due giorni attendati –
Lunedì 27 Ag – Festa di S. Giuseppe Calasanzio – (…)[35] Al pomeriggio partenza da Visinale in camions fino a Plava; poi a piedi fino a Canale: qui arriviamo di notte, ci sdraiamo sull’erba: oppresso dalla stanchezza, mi addormento soporitamente – La mattina del 28 ripigliamo la marcia fino ad Auzza: viviamo con un po’ di pane e qualche fetta di salame: arriviamo in una specie di bosco e quivi ci attendiamo –
Mercordì 29 agosto 1917- Sveglia alle 2 del mattino: distribuzione ai soldati del caffè, viveri di riserva, bombe a mano e ci rimettiamo in marcia – Durante la marcia, ricevo dal Comandante il Battaglione il seguente ordine: “Appena la nostra artiglieria allungherà il tiro, assalto alla quota 778 – 9ª-10ª – Comp.ª e Rep.to Zappatori Iª ondata – 11ª Compagn. e Sez. Lanciatorped. 2ª ondata”. Fiat Voluntas Dei-! Mi raccomando l’anima a Dio. Arrivato a quota 774, dove avevamo la trincea [36] di partenza, non trovo munizioni: ricevo l’ordine di agire coi miei soldati come fucilieri – Sulle 10 comincia l’assalto: fuoco continuo, orribile d’ogni parte – Ci spingiamo un cento metri oltre la trincea di partenza e qui, vengon tentati varî assalti con nessun esito, per la potenza delle mitragliatrici nemiche – le pallottole mi fischiano rase alle orecchie, sopra l’elmetto: ad ogni momento prevedo di comparire davanti al Tribunale di Dio: Cor Jesu S.S. in Te confido, miserere mei! Sub tuum praesidium confugimus, Sancta Dei Genitrix etc.: eran le mie predilette e continue orazioni. Il combattimento continua tutto il giorno. Verso sera (ore 20) un terribile acquazzone fa intensificare il fuoco della mitraglia nemica. I vestiti, fino alla camicia, si inzuppano d’acqua; l’acqua scorre a rivoli sotto e sopra il nostro corpo: All’ultima [37] ora una pallottola nemica ferisce mortalmente alla tempia il mio Magg.re Picchioni – Durante il combattimento erano morti il Ten. Bertacchi, S. Ten. Ardes [?] – Cap.no Mari (? prigioniero) – feriti moltissimi Ufficiali – Del mio Battaglione di 21 Ufficiali, rimaniamo in 9 – Verso le 22 il 2° Battaglione ci sostituisce e noi ci ritiriamo al posto di medicazione, rigurgitante di feriti. Sia lodato il S.S. Cuore di Gesù e Maria S.S. se uscii salvo da tale combattimento – Al posto di medicazione pigliamo un po’ di cibo dopo due giorni di digiuno quasi completo. Passo la notte seduto sopra una pietra: non si può dormire essendo tutti bagnati e avendo perse le coperte – Il sole del giorno dopo ci asciuga completamente.
Giovedì 30 agosto – Dal Colonnello riceviamo l’ordine di tenerci pronti per ritornare all’assalto. Intanto vedo D[on] Rosario: la sua presenza, il suo parlare mi sollevano un po’ lo spirito – Nelle due notti seguenti con i soldati della mia Sezione [38] vado in linea per i lavori delle trincee –
Domenica 2 settembre: veniamo mandati a Biziak per lavori di trinceramento. A Biziak proibito far tende: piogge continue: più di qualche mattina ci svegliamo con l’acqua che ci scorre su tutto il corpo – Siamo spesso colpiti dall’artiglieria nemica –Ho la comodità di scappare nella stamberga del Cappellano e assistere alla S. Messa e fare la S. Com.
Giovedì 13 settembre: Mentre ispeziono i lavori dei soldati scoppia uno srhapnel (sic); che uccide il mio sergente Petrizzo (muore dopo due minuti tra le mie braccia), ferisce tre miei soldati; io resto incolume, pur arrivandomi ai piedi le scheggie: Come Maria S.S. mi protegge! Siano lodati i S.S. Cuori di G. e di M.
Venerdì 14 Settembre: verso sera partenza in linea per quota 774 – Durante la permanenza in questo tratto di linea sosteniamo due attacchi nemici, facendo [39] con un buon lancio di torpedini un fuoco di sbarramento – Durante questo tempo, il Cappellano, pur trovandosi lui pure in linea, non può avere l’altarino da Campo e quindi non può celebrare la S. Messa, né io ascoltarla, né fare la Comunione.
Mercordì 26 settembre – Riposo a
–Bodrez–
Qui viene il Ten. Generale Badoglio, Comand.te Corpo d’Armate, per elogiarci del contegno eroico tenuto nel combattimento del 29-30 Agosto. Più di qualche mattina posso recarmi ad assistere alla S. Messa, sotto la tenda del Cappellano.
Giovedì 11 Ottobre – Ottengo un permesso di 24 ore. Posso fare una scappata a Venezia – Arrivo alle 10 del mattino, faccio la Comunione agli Scalzi – Alle 12 vado in Congregazione, ma non trovo né il Padre, né il P. Maestro, né il Noviziato (essendo tutti a Possagno per la morte dell’Aspirante Trevisan) – alle 23 riparto da Venezia, dopo aver pranzato in famiglia –
[40] Lunedì 22 ottobre – Ore 17 partenza in linea: Velik Vrk – di rincalzo – Di notte ci restiamo a fare le postazioni per le lancia torpedini-
Mercordì 24 ottobre – continuo e orribile il bombardamento: non possiamo avere neppure la mensa: solo verso tardi arriva un po’ da mangiare –
Mia prigionia
[41] Una grossa pietra, lanciata in aria dallo scoppio di una granata mi avrebbe rotto la testa se non mi fossi gettato a terra; è Maria S.S. che mi difende!! Comando fuoco, ma subito mi accorgo che già parte del nemico si trova ai miei lati – Vistomi circondato, continuo a resistere, rifiutandomi di arrendermi. Mi si spara a bruciapelo. Perchè non vengo colpito?? È Maria che mi copre col suo Manto! Trovandomi ogni via chiusa per la ritirata, vista impossibile e inutile ogni resistenza, mio malgrado sono costretto ad arrendermi –
Genitori, Congregazione, Patria: In questo istante, in cui mi sembro inebetito, questi tre dolcissimi nomi mi si fan davanti alla mente!!!
Perquisizione; vengo inviato in una caverna, dove incontro molti Ufficiali e soldati italiani. Tra essi si trova anche il mio Cappellano D. Rosario – L’aiuto a trasportar feriti nostri e austriaci caduti lungo la via – Dopo di che, ci avviamo….. … verso l’esilio – Do uno sguardo ai nostri monti, al bel cielo d’Italia: quando vi rivedrò? …….. Dobbiamo camminare fino a tarda ora per giungere in un paese, dove ci mettono a dormire sotto le tende… lo stomaco reclama, non [42] avendo nulla da mangiare – Per via ci imbattiamo in un Cappellano militare ungherese, che ci rivolge parole e regala a D. Rosario una scatola di biscotti: ci lascia dicendo: “Amare Ungheresi” Lungo la via incontriamo molti gruppi di soldati Germanici, ritti e composti attorno a un fuoco di frasche cantare l’inno germanico, mentre davano riposo ai cavalli delle salmerie –
Venerdì 26 ottobre – Ci danno mezza pagnotta e un po’ di brodo poi ripigliamo la marcia scortati da sentinelle austriache … Gli stimoli della fame si fanno sentire sempre più … per via non si incontrano né case, nè campi coltivati …. Fortunato chi può trovare qualche rapa o barbabiettola. Panem nostrum eucharisticum et materialem da nobis hodie, Domine! Quante volte e con quanto fervore lo ripeto – A mezzanotte sostiamo presso uno stabilimento.
Stanchi e spossati riposiamo soporitamente sulla nuda terra e a cielo scoperto – Al mattino [43] del seguente Sabato 27, ci danno un vasetto di brodo e partenza … camminiamo fino alle 17, ora in cui arriviamo a Idrio: qui ci danno ¼ di pagnotta e mezza scatoletta di carne: riposo sulla nuda terra.
Domenica 28 – Ci danno il caffè e poi marciamo fino alla sera: Per la fame, proviamo grande difficoltà di andare avanti: fortunatamente trovo una rapa: in quei momenti aveva i migliori gusti del mondo- Quasi tutto il pomeriggio dobbiamo camminare sotto una pioggia dirotta – Verso le 20 arrivo a
Oberlaibak (Lubiana di sotto)
Fortunatamente posso stare vicino a D. Rosario, in un locale vicino alla Chiesa – Ci danno caffè e cavoli – Lunedì 29 – Spedisco una cartolina a casa – Alla mattina riesco con D. Rosario ad andare in Chiesa e fare la S. Comunione. Quale commozione nel trovarmi nella bella Chiesa di Oberlaibak, davanti al S.S. Sacramento, dopo esserne stato privato tanti giorni!!! – Anche quasi tutte le seguenti [44] mattine posso recarmi in Chiesa – Dormiamo sopra paglia: cibo = ½ pagnotta per giorno: a mezzogiorno brodo e carne; alla sera caffè e Krauti (cavoli)
Giovedì 1 Novembre: Festa di tutti i Santi: Assisto a 3 Messe, (una solenne con precedente spiega. Vangelo in slavo – canto magnifico!) Al pomeriggio visito il vicino Cimitero – Spedizione di una cartolina ai Superiori-
Venerdì 2 Novembre: Giorno dei Morti: Messa e Comunione –
Sabato 3 Novembre – Ore 12 partenza a piedi fino alla ferrovia di Bresovick con provvista di pane per tre giorni (una pagnotta e mezza)- Ore 21 partenza in ferrovia da Brezovich, in vagoni di IV classe. Mi trovo sempre unito a Cappelli –
Domenica 4 Nov. Ore 8 arrivo a Steinbruck (caffè e salame)
Lunedì 5 – Ore 8 arrivo a Graz (caffè e salame)
Martedì 6 – Ore 3 arrivo a Neusdat refezione nel Restaurant della Stazione (Minestra, carne, salame, caffè, pane)
Ore 7 arrivo a Vienna: la vediamo dal treno –
[45] Martedì 6 Novembre; ore 21.30 arrivo a Nieder Oestereich
Sigmundsherberg – N. Ö.
Durante la notte bagno e riposo in una baracca comune – Al mattino ci conducono nel reparto contumaciale, in baracche comuni; da questo recinto non si può uscire, quindi niente pratiche di pietà: neppure i Cappellani –
Venerdì 9 – Spedisco Telegramma ai genitori a Venezia –
Sabato 10 – Spedizione lettera ai genitori –
13 Novembre – Devo separarmi da D. Rosario, che con altri prigionieri, viene inviato in Boemia – Spediz. lettera ai Superiori.
Sabato 17 Novembre – Termine della contumacia – Passaggio al I° Rep.to Ufficiali – In stanza separata con Cappelli e Carlin (dopo con Sabot e Burello, Avvocato socialista) – In una stanza poco lontana trovansi i Cappellani militari [segue lista di quattro cappellani militari con dettagli su di loro e su pratiche varie di pietà]
[46] 10-20-21 Ammalato – Visita de un Ten. Colonnello Italiano: Controllato dal medico e Ufficiale Austriaco. 24-25 – Ricado ammalato (disturbi gastro-reumatici). 28 Nov. Mi metto a rapporto col Colonnello Austriaco per ottenere il permesso di uscire ogni mattina coi Cappellani per recarmi nella Cappella dell’Ospedale – Mi concede solo per qualche volta – Leggo Quo vadis – Un autunno in Occidente – 27 Nov. Incomincio un po’ di studio di Morale – sul Piscetta – De actibus humanis – Testo passato al P. Perna da un Cappellano prigioniero dell’Ospedale – Dopo poco devo troncare questo trattato, perché richiesto di ritorno il libro – Comincio trattato De sacramentis – sul D’Annibale – Nei punti difficili ricorro al P. Perna, laureato in Diritto Canonico all’Università Gregoriana – 29 Novembre – Da oggi, ogni mattina viene portata dall’Ospedale la cassetta con l’altarino, sicchè i Cappellani possono celebrare in stanza loro – Io posso [47] assistere e rispondere a tutte queste Messe –Quivi conviene qualche altro buon Ufficiale – Cominciamo in comune la Novena dell’Immacolata. Ogni sera dopo cena, conveniamo nella camera dei Cappellani, e si recita in comune il S. Rosario – Freddo intenso – Mese di Novembre 100 soldati italiani prigionieri morti –
Mercordì 5 dicembre: Con Cappelli spediamo una lettera al Nunzio Apost. di Vienna, Mons. Valfrè di Bonzo, chiedendo di essere ammessi o in un Convento o in un Seminario e poter continuare i nostri studi –
Giovedì 6 – Ritiro spirituale da solo –
Venerdì 7 – Vengo a sapere che nella baracca dei chierici all’Ospedale trovasi il mio attendente Dallari Ernesto –
11 Dic. 10° sotto zero –
12 Dic. Mi vengono ritornati documenti e libretto Manuale Cristianum (sic), consegnati a Oberlaibak (grazie a S. Antonio). Leggo I° libro Confessioni di S. Agostino.
13 Dicembre – Temendo sgombero da Venezia, telegrafo al fratello Beppi a Siena.
14-15 – Ricado ammalato –
16 – Si comincia Novena di Natale in comune nella camera dei Cappellani
[48] Presento al Cav. Menna, Colonnello Comand.te italiano del Rep.to Uffic. Rapporto del come fui fatto prigioniero –
Lunedì 24 Dicembre 1917 – Ore 24 Viene celebrata una Messa nella Sala del reparto – In seguito privatamente, vengono celebrate le altre. Sicchè io posso fare la S. Comunione e assistere a sette Messe-
S. Natale 1917 – Ore 10 Messa come il solito nella Sala- A pranzo siamo trattati meglio-
28 Dicembre – Recandomi all’Ospedale resto impressionato nel veder tanti nostri soldati prigionieri, veri scheletri ambulanti-
2 Gennaio 1918 – Riceviamo risposta da Mons. Teodoro Valfrè di Bonzo, Nunzio Apostolico di Vienna, in cui con frasi affettuose ci promette suo interessamento a nostro riguardo, e una probabile sua visita al nostro lager – a pratiche compiute.
5 gennaio – Ritiro spirituale da solo –
6 – Epifania – Messa solenne ugnolo – del Perosi (Te Deum laudamus) – Cantata da Ufficiali scelti – Nella cella mortuaria dell’Ospedale trovansi 52 nostri soldati, morti pel freddo e per la fame–
Lunedì 7 Gennaio Te Deum laudamus! Dopo due mesi e mezzo [dall’inizio della prigionia] di assoluta mancanza di notizie da casa, ricevo da Siena il seguente telegramma [49] del papà: “Siena, 29 dicembre 1917 – tuoi telegrammi, ricevuti oggi, ci hanno ridato vita – spediremo biancheria, faremo abbonamento, baciamoti tutti intensamente – Santino Vianello”.
Quanta gioia, quanta commozione nel ricevere tale telegramma!! – Recito subito il Te Deum –
9 Gennaio: 19 gradi sotto zero. 71 morti dei nostri soldati, quasi tutti per polmoniti e tisi –
21 Gennaio 1918 – Festa di S. Agnese! In quante ore del giorno il mio pensiero vola alla mia diletta Congregazione, quando passavo queste feste in essa – Un anno fa, pure mi vi ritrovavo, essendo in licenza invernale, quest’anno mi trovo perfino privo di qualsiasi notizia dei miei amati Padri!! Fiat voluntas Dei!
22 Gennaio – Per la Iª volta esco a passeggio; ci rechiamo a Maigen (paesello un 4 Km. da Sigmundsherberg)
23 Gennaio: Ricevo il I° pacco da Siena misto di biancheria e di generi alimentari – È una vera Provvidenza, data la condizione in cui mi trovo – Recito il Te Deum, Telegrafo a Papà a Siena: Inviatemi libri, notizie fratelli – Superiori – Ricevuto pacco – Salute ottima”-
24 – Vengono nel nostro Reparto due altri Cappellani: P. Giuseppe Peirone (diocesi Torino), D. Paolo Cairoli (diocesi Milano) – Celebrante S. Messa in rito Ambrosiano – io gliela rispondo nel medesimo rito
26 – Esco al passeggio e andiamo a Rodingersdorf – paesello a 2 km da Sigmundsherberg –
[50] 1° Febbraio: Ricevo il 2° pacco da Siena, misto di biancheria e viveri – Deo gratias!! Recito Te Deum –
2 Febbraio Purificazione di Maria S.S.. Ricevo la Iª cartolina dal mio P. Superiore (P. Tormene) da Venezia in data 1 Gennaio – Quanta commozione nel leggere quella lettera affettuosissima-Eran 4 mesi che non sapevo nulla della mia amatissima Congregazione, dei miei Padri e Compagni – Che bella consolazione mi riservò Maria S.S. – Recito Te Deum e Magnificat in ringraz. – Non essendo permesso di telegrafare se non per cause urgenti, invio, in risposta una cartolina –
3 Febbraio; ricevo la prima cartolina dal papà da Siena, in data 28 dicembre 1917 – Solo il 28 dicembre avea saputo ch’io era prigioniero – Ringrazio il Signore di questa grande consolazione–
(…)
Il I° Febbraio D[on] Cairoli dà principio ad una serie di conferenze religiose – letterarie – scientifiche – alternate; le dà privatamente in una stanza del lager alla presenza di otto giovani –
Giovedì 7 Febbraio – Partono da Sigmundsherberg per un altro Campo di concentramento una trentina di Ufficiali – Sia lodato il S.S. Cuore di Gesù che evito un trasloco in una stagione straordinariamente fredda –
Venerdì 8 Febbraio. Ricevo una seconda cartolina dei genitori da Siena in data 30 dicembre e una lettera da Venezia del fratello Checchi in data 29 Dicembre, dove mi annuncia la morte del cugino Giovanni, convivente in famiglia –
[51] Lunedì 11 Febbraio – Festa di N.S. di Lourdes! Quante volte il mio pensiero vola alla Cappella del mio indimenticabile Noviziato! Quale dolce e cara solennità celebravasi in questo giorno sotto il P. Zanon!!- Ricevo un 3° pacco da Siena.
Mercordì delle Ceneri – 13-2-18 – Ritiro da solo – Spedisco lettera di auguri per Pasqua al Superiore.
Martedì 19 Febbraio – (…)
Giovedì 21 Febbraio – Viene a Sigmundsherberg Mons. Volpi, però non lo posso vedere.
Venerdì 22 – (…)
Mercordì 6 Marzo – (…) Mi arriva la grammatica tedesca; comincio un po’ di studio di tedesco –
Venerdì 15 Marzo – Freddo e neve – 27 Marzo – 10° di sotto zero! (-dieci) (…)
[52] (quasi tutta la pagina parla delle celebrazioni della settimana santa)
Mercordì – 3 Aprile – Ricevo da Firenze il I° pacco di Pane spedito il 4 Febbraio – È una vera e grande Provvidenza Recito subito il Te Deum in ringraziamento –
Venerdì 5 Aprile – Ritiro spirituale da solo. Spedisco al Superiore una cartolina, con gli auguri pel suo onomastico –
[53] (argomenti religiosi, mese di maggio mariano ecc.)
In Aprile e in Maggio esco spesso quasi settimanalmente a passeggio ora a Rodingersdorf – ora a Meigen – ora a Klein Meiseldorf –
Giovedì 9 Maggio – (Celebrazioni e pratiche di pietà per l’Ascensione e Pentecoste)
[54] Mercordì 22 Maggio – Mi arriva, per mezzo del Comando Austriaco, un dispaccio della Segreteria di Stato di S. Santità (Ufficio provvisorio informazioni sui Prigionieri di Guerra) in data 1° Maggio, che diceva: “Si chiedono notizie salute e si raccomanda vivamente. La famiglia profuga spedisce pacchi e pare che il Prigioniero non riceva – Si prega provvedere =. Cui rispondo, col medesimo mezzo: = La salute è abbastanza buona, dubita fortemente se potrà adattarsi a questo tenore di vita per lungo tempo, stante lo scarso nutrimento – Ho cominciato a ricevere alcuni pacchi – Desidero vivamente entrare in un Convento in Austria per poter proseguire gli studi teologici già intrapresi – Chiede di essere sottomesso a visita medica – A. V.
Mercordì 5 Giugno 1918 – Sacerdote Benito Morbidi, Arcivescovado di Siena, per mezzo della S. Sede in data 8 Maggio 1918 chiede mie notizie: = Non riceve pacchi. Si prega provvedere e si raccomanda = Risposto identicamente come sopra.
(seguono righe sulle pratiche di pietà, specie per il Mese del S. Cuore)
[55] Domenica 16 Giugno – Ricevo il pacco dei libri inviatimi dal mio Superiore per mezzo di mio padre (Grazie a S. Antonio) (Segue lista dei libri e gli orari in cui studia i vari corsi teologici; studia anche francese e tedesco; pratiche di pietà per la Festa S. Luigi Gonzaga)
Martedì 25 – (…) 5 gradi sopra zero!!
[56] Giovedì 27 Giugno – Il Governo Austriaco non mi passa più pane – Sicchè non mi resta che attendere fiducioso i pacchi da casa: Panem nostrum quotidianum da nobis hodie ….
Venerdì 5 Luglio Il Governo austriaco ci ripassa la quotidiana razione di pane di 45 grammi – Continuano giornate fredde e piovose – (…)
Dal 6 al 14 Luglio sono obbligato a letto causa le febbri di Spagna – in soli quattro giorni vengo ridotto a uno scheletro; il primo giorno, in cui mi alzo, non sono capace neanche di reggermi in piedi – Vengo eccitato da molti a chieder visita medica pel rimpatrio – Il colonnello medico italiano mi dice d’aspettare –
Martedì 16 Luglio – (seguono testi su pratiche di pietà) – Non ricevendo pane dal 5 Maggio, ho dalla Beneficenza ½ pacco pane, dietro lo sborso di K. 1,50
Rileggo per intero la Vita dei miei Santi Fondatori: quanto conforto in questo esilio nel rileggere quelle pagine per me tanto belle!
Sabato 20 Luglio 1918 – Vengono nel I° Rep. Altri 5 Chierici – (segue lista)
[57] Domenica 21 Luglio. Passo la visita dal Colonnello Medico Italiano per essere proposto alla visita pel rimpatrio. Mi dà buone speranze, dicendomi di tornare da lui ogni otto giorni per le visite – (Prima di pigliare qualsiasi anche più piccola decisione, mi consiglio sempre col P. Spirit. D. Cirillo di Napoli) –
Lunedì 22 Luglio – Ricevo finalmente due pacchi pane da Firenze; l’ultimo pacco l’avea ricevuto il 6 Maggio. Deo gr.
Giovedì 25 Luglio – Ricevo da Milano il I° pacco pane in data 18 Giugno – (Deo gratias)
Domenica 4 Agosto – D. Cirillo ci porta i 5 primi numeri del =Nodo= periodico privato (manoscritto) quindicinale, pubblicato tra i chierici prigionieri di guerra in Sigmundsherberg sotto la direzione del Rev. Cappellano Ten. D. Paolo Cairoli (di Milano) cominciato a pubblicare il 2 Giugno 1918 – Mi metto a collaborare anch’io scrivendo l’articolo: “Due educatori popolari poco conosciuti”-
Lunedì 12 Agosto 1918 – Per ordine del Ministero Austriaco io con gli altri chierici Cappelli, De Vita, Bonelli e Braida veniamo trasferiti al II° Reparto. Qui ci mettono in una camera tutti insieme – Sia lodato il Signore di questo passaggio, trovandosi qui Cappella e Cappellano, D. Caruso-
Martedì 13 Agosto 1918 – Alle ore 10 ¾ antim. Passo la visita medica per essere dichiarato invalido, presso la Commissione Austriaca, composta di 3 Capitani Austriaci, da un Colonnello, e il nostro T. Colonnello medico italiano. Sia ringraziata Maria S.S. (che mi ottenne questa grazia nell’antivigilia della sua Assunzione) e S. Giuseppe Calasanzio (martedì, giorno a lui dedicato)-
[58] Peso Kg. 48, mentre quand’ero in Italia pesavo Kg. 61-
Giovedì 15 Agosto – Viene nella nostra camera il Cappellano Austriaco Valdemasin: ci manifesta il motivo per cui i Chierici furono riuniti (per l’intervento di S.S. Benedetto XV) per condurre una vita un po’ regolare e poterci dedicare allo studio – Stabilisce di fare una meditazione alla mattina durante la S. Messa, la lettura di un capo del N. Testam. Alla sera dopo il S. Rosario – Viene stabilito un orario per la Dogmatica e Morale (ce la insegna D. Caruso) e per S. Scrittura e Storia Eccl. (ce la spiega Cho S.Ten. Piantelli Francesco di Crema
Abbiamo ogni materia due ore a settimana –
Lunedì 19 agosto 1918 – cominciano le lezioni regolari –
27 Agosto 1918 – Festa di S. Giuseppe Calasanzio –Quanto prego per la mia Congregazione, pei miei Padri e Compagni! Sia ringraziato il Signore che in quest’anno posso assistere alla S. Messa e fare la S. Comunione, recitare l’Ufficio del Santo- (…)
Partono da Sigmundsherberg per un loro convento i S.S.Ten. [sottotenenti] Fra Gervasio Rossato e Fra Idelfonso Roccoberton; partono per Zagreb in Croazia: sicchè rimaniamo in dieci chierici: [segue lista]
22 settembre 1918 ricevo una cartolina dal Padre [preposito] in data 7 Agosto, dove mi annunzia che Nazareno [De Piante] trovasi prigioniero dal 14 – Con quanto dolore apprendo tale notizia. Quanto prego per questo misero Confratello-
[59] 30 Settembre – Ricevo una cartolina del 2 Aprile del P. Rossi; dalla quale per la prima volta apprendo che il caro confratello Pellegrino è prigioniero in Sassonia – Con quanto fervore prego Maria S.S. di tenerci sotto il suo Manto Pellegrino, De Piante e io!
4 ottobre – Freddo e neve!
Sabato 5 ottobre 1918 – Arriva nel Lager la notizia di un Armistizio generale – Che gioia, che frenesia in tutti! Solo il giorno seguente si sa che si trattava di una semplice proposta fatta dall’Imperi Centrali all’Intesa-
10 ottobre – Infierisce la febbre spagnola per tutto il lagher (sic): solo nel II° Rep. Uff. – trovansi 115 ammalati su 350 Ufficiali circa –
Mercordì 16 ottobre Ricevo l’ordine di tenermi pronto per partire per Mautausen per la visita medica di controllo, onde rimpatriare – Devo staccarmi da Cappelli dopo 1 anno ½ di compagnia.
Sabato 19 ottobre – Ore 10 ½ ant. Partenza da Sigmunsherberg con altri 61 ufficiali. Veniamo accompagnati alla stazione con la musica dei nostri soldati – Vengon messi a nostra disposizione tre vagoni: due di 2ª classe per gli invalidi più gravi ed Ufficiali Superiori; uno di 3ª per gli altri.
A Tŭlln 12 ½ (passo Danubio) scendiamo dal treno, ci rechiamo al Restaurant pel pranzo (brodo con un cucchiaio (senza esagerazione) di pasta; cavoli e una bistecchina con 30 grammi di pane – I pranzi che si possono avere in Austria!!) Ad Amstetten alle ore 23 ½ pure scendiamo per la cena (un pezzetto di salame con cavoli, senza pane ed altro) – Passata la St. Vallentin (grande stazione) solo alle 10 ½ della domenica arriviamo a Maŭthausen- In viaggio con Braschi (cattolico militante di Forlì)-
[60]
Maŭthausen – Ober Oestereich (sic)
Arrivo Domenica 20 ottobre 1918 – Appena arrivato chiedo se vi sono e dove si trovano i Cappellani – Ne trovo tre: Don Luigi Rocchi di Crema; D. Diego Ettore (Spoleto); D. Sammartino-
Contento di trovare D. Ettore, che avevo conosciuto a Sigmunsherberg, mi informo da lui delle visite, del Campo ecc. Alle 11 posso assistere alla S. Messa, celebrata per tutti gli Ufficiali – Con mia grandissima consolazione trovo la Cappella, dove si conserva il S.S. Sacramento-
Martedì 22 Ottobre – Passo con un’altra quarantina di Ufficiali la visita presso il Tenente Medico Austriaco –
Mercordì 23 ottobre – Passo la visita (ore 17 ½) davanti alla Commissione austriaca completa di un Colonnello Medico, Capitano Med. E il Ten. Medico che m’aveva passato la visita il giorno precedente – Tra 62 Ufficiali apicitici, veniamo riconosciuti solo in sette, afflitti da apicite di 2° grado – Dobbiamo partire il seguente sabato 2 Novembre –
Sabato 2 Nov. Le partenze per gli apicitici sono sospese, causa la rivoluzione scoppiata in Boemia e a Vienna – (con l’aggiunta successiva:) e la trionfale avanzata dei nostri sulle terre austriache
Il Comando Austriaco cede i comandi del lagher (sic) al Comando Italiano – Non più appello. Le sentinelle austriache vengono ritirate-Si può girare liberamente per Mauthausen e fare sfoggio dei nostri tricolori – Viene nel Reparto la banda italiana a suonare la marcia reale – Temendo la febbre devo mettermi a letto –
Domenica 3 Nov. – Ore 11- Messa solenne in terzo, cantata da una trentina di soldati italiani: Messa a tre voci del Perosi – Al Vangelo D. Ettore fa una predichetta, esultante di gioia: È arrivato il giorno della liberazione: È questo il giorno del Signore: esultiamo ecc. Dopo il canto del Te Deum: a cui fa seguito il suono della marcia reale, e di grida: W l’Italia!!
[61] Alla sera viene la notizia ufficiale dell’armistizio firmato tra Austria e Intesa –
Martedì 5 novembre – Ore 11 ant. Partenza da Mauthausen in carri di 4ª classe. Incontriamo numerosissimi treni carichi di austriaci disarmati, ritornanti dal fronte (allegri e contenti)
Passiamo per Steir, Sultzuhn – Seitz, St. Michel, Kinittelfeldt (In nessun luogo trovasi da mangiare. Qui passiamo in vagoni di 2ª classe) Zeltweck –
A Veit Giovedì 7 Nov.- ci fermiamo tutta la notte e buona parte del mattino . D. Etto(re celebra nella Chiesa, dopo abbiamo accoglienza dal Curato –
Ossiach-Bodensdorf (grande lago). Villach – (stazione climatica – Venerdì 8 Nov arrivo a Tarvis (forte di Malborghetto.
a Pontebba (Pontafel) arrivo alle 11.20 . Con D. Ettorre, Arduino Giuseppe (studente in legge di Torino) e due altri dormiamo e ci cuciniamo nella canonica del Curato – D. Ettore celebra sempre nella Parrocchia Austriaca, essendo deserta quella italiana.
Domenica 10 ott.- Festa del Patrocinio di Maria S.S.
Rimpatrio
Ore 7 antim. Partenza in camions (sic), Come invalido, vengo inviato tra i primi – Passiamo per Chiusaforte, Gemona, S. Daniele del Friuli – Pordenone, Sacile e Treviso (pernotto qui) – telefono a Checchi –
Lunedì 11 Nov. Ore 6 ¾ partenza da Treviso in treno ordinario – Arrivo a Venezia alle ore otto – È vietato uscire dalla Stazione ed entrare in città – Però riesco a uscire dalla parte della Marittima – Alla Stazione trovo papà, mamma, Checchi, Angelina e Maria – Entro in Chiesa dei Carmini a recitare il Te Deum di ringraziamento. Da casa, alla mattina stessa, passo nell’amatissima Congregazione; rivesto l’abito santo: mi pare di sognare: non so ripeter altro che: Gesù, Maria, vi ringrazio – (devo ripartire quanto prima)”
Qui finisce la parte più importante e interessante del diario di guerra e prigionia di Alessandro Vianello. Restano ancora tuttavia 10 pagine e mezza del suo diario, il cui racconto e resoconto si conclude a pag. 74.
Il novizio Cavanis, poi soldato e più tardi sottotenente Alessandro Vianello era stato richiamato alle armi e si era presentato al distretto militare per ritirare la trasferta il 27 novembre 1915 ed era partito per il servizio militare, a guerra già iniziata (per l’Italia) da quasi sei mesi, la domenica 5 dicembre 1915. Era stato preso prigioniero il giovedì 25 ottobre 1917 sull’Altipiano della Bainsizza. La sua prigionia era cominciata in questa data e durata fino alla domenica 5 novembre 1918. Era ritornato a Venezia il lunedì 11 novembre. Il suo servizio militare terminò il 12 febbraio 1919.
Aveva dunque servito nel regio esercito italiano per 3 anni, due mesi e 16 giorni. Di questi, dall’inizio alla fine di marzo 1916, fu occupato nell’addestramento (4 mesi circa); venne addetto alla sanità, come si faceva spesso per i religiosi, preti e seminaristi, prima a Bologna e poi a ridosso del fronte delle Piccole Dolomiti (provincie di Vicenza e Trento) fino al 14 aprile 1917 (un anno e un mese circa); fu poi inviato al corso per allievi ufficiali a Rivalta di Peri da questa data al 7 luglio 1917 (quasi quattro mesi), per essere poi destinato prima ancora brevemente sul fronte delle Piccole Dolomiti, e poi dal 15 agosto 1917 sul fronte Isontino, particolarmente sull’Altipiano della Bainsizza, dove combatté fino al 25 ottobre 1917 quando fu fatto prigioniero. Il suo periodo di ufficiale attivo in prima linea fu di circa tre mesi e mezzo. Il periodo di prigionia durò dal 25 ottobre 1917 all’11 novembre 1918, compreso il viaggio di ritorno (un anno e 17 giorni). Ritornava con la salute molto rovinata: scheletrito, con tendenza alla tubercolosi e con il sistema nervoso scosso, problema quest’ultimo che lo afflisse per tutta la lunga vita. Ma era ritornato vivo, il che non è poco, e ne ringraziava sempre il Signore e la Madonna.
I suoi doveri verso l’esercito non erano però finiti. Dal 17 novembre 1918, una settimana dopo il ritorno a Venezia, dovette rientrare in caserma, per cure mediche negli ospedali militari ma anche per rendere conto del suo operato come ufficiale preso prigioniero, anche con una relazione scritta, davanti alla sottocommissione d’Inchiesta per i prigionieri di guerra con sede a Parma e poi a Gossolengo (Piacenza), in una tendopoli enorme in cui erano accantonati, in uno “stato nervoso e irrequieto”, circa 40.000 soldati e ufficiali italiani già prigionieri di guerra, e questo fino al 13 dicembre 1918, quando ricevette una licenza di sessanta giorni di convalescenza che passò a Venezia. Il 12 febbraio 1919, quando avrebbe dovuto ritornare al reparto, ricevette invece il certificato dell’esonero definitivo dal servizio militare. Attribuì la grazia al P. Marcantonio, cui si era raccomandato, e a Maria Santissima.
2.5 Monumenti e lapidi dei caduti
“29Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, 30e dite: “Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti”. 31Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti.” (Mt 23,29-30)
Una testimonianza triste di questa carneficina mondiale sono i monumenti e le lapidi dei caduti, innalzati nelle piazze e infisse nei muri qualche anno dopo la fine della guerra, a cominciare dal monumento al milite ignoto al Vittoriale a Roma, a tutti i monumenti presenti ancora oggi nelle piazze di città e paesi, non solo in tutta Italia ma in tutti i paesi coinvolti nella guerra, e fino alle più modeste lapidi che ricordano i soldati caduti, in ogni parrocchia a Venezia e altrove. Sono tristi questi monumenti e queste lapidi, e più tristi sono stati i toni epici e retorici, nazionalisti e a volte chiaramente revanscisti e fascisti che sono stati pronunciati nella loro inaugurazione. In questo modo, quei poveri giovani (e non giovani) sfruttati come carne da cannone da vivi, furono sfruttati anche da morti per la propaganda patriottarda e nazionalista e poi fascista.
Anche nelle due case dell’Istituto che esistevano già in quel periodo di guerra, Venezia e Possagno, ci sono le lapidi di marmo con la lista dei nomi degli ex-allievi o anche di membri della comunità religiosa “morti per la patria”, o meglio, mandati al macello, durante la guerra.
Nella casa-madre dell’Istituto a Venezia, la lapide dei caduti, sia membri della comunità Cavanis sia in maggioranza allievi o ex-allievi dell’Istituto, inaugurata il 21 ottobre 1928, si trova nell’androne delle nostre scuole, sulla parete di fondo, di fronte alla porta d’ingresso; vi si leggono 126 nomi, un numero davvero impressionante di ex-allievi e anche allievi morti, per le scuole Cavanis di Venezia che a quel tempo avevano circa 500 alunni; il primo della lista è Nazareno De Piante, nostro seminarista aspirante; il secondo è un religioso Cavanis, Corrado Salvadori, novizio fratello laico; ambedue fuori ordine alfabetico, come membri della comunità Cavanis. È fuori ordine alfabetico anche l’ex allievo Giuseppe Tessari, l’ultimo della lista; la famiglia non aveva voluto inizialmente che il suo nome fosse inserito nella lapide, ma lo accettò più tardi. Della lapide si parla nel DC fin dal marzo 1928 e vedi 4-6 e 24 settembre 1828 e 11.20-22.10.28 e particolarmente nella rivista Charitas.
È strano (e triste) il fatto che i discorsi commemorativi, tenuti in occasione dell’inaugurazione della lapide, anche quello del preposito generale P. Giovanni Rizzardo, almeno nelle ampie porzioni riportate nella rivista Charitas citata, non fanno cenno ai due seminaristi Cavanis caduti. Vale la pena di ricordare, come fa l’articolo citato del Charitas, che Celeste Bastianetto, ex-allievo Cavanis, reduce, mutilato, fregiato di medaglia d’argento, che fu incaricato di tenere il discorso commemorativo dei suoi antichi compagni e commilitoni defunti, ricorda i più conosciuti tra i caduti laici, dei nostri: in particolare “Gino Allegri, che Gabriele D’Annunzio ha chiamato Frate come avrebbe potuto chiamarlo eroe; e i fratelli Stivanello, e i fratelli Duse, e il Banci (…), e ricorda l’ultimo dei figli dei Cavanis morto onorando la Patria: Pier Luigi Penzo – che ai morti in guerra va accomunato – il quale dopo gli eroismi e la costanza nelle ricerche dell’Artide perì miseramente sul Rodano”.
È necessario ricordare che questo Pier Luigi Penzo, veneziano, ex-allievo dell’Istituto Cavanis, aviatore, si distinse durante la grande guerra, sul fronte del Piave. È conosciuto soprattutto perché nel giugno-luglio 1928 andò con il suo aereo in soccorso dei naufraghi della “Tenda Rossa”, l’epilogo della gloriosa e tragica spedizione del dirigibile Italia di Umberto Nobile, che aveva raggiunto per la seconda volta il polo Nord. Penzo partecipò anche alle ricerche dell’esploratore Amundsen, scomparso nel mare di Barents con vari compagni (francesi), mentre lui stesso tentava di portare soccorso al gruppo di Nobile sul pack. Sulla rotta del ritorno, il 31 agosto 1928, nel tratto di volo tra Strasburgo ed Avignone, l’aereo di Penzo e compagni toccò un fascio di cavi elettrici nelle vicinanze di Valence, spezzandosi in due e precipitando nel fiume Rodano. I meccanici Baracchi e Codognotto vennero tratti in salvo da alcuni pescatori, mentre Penzo, Crosio e Della Gatta affondarono insieme alla parte anteriore dell’aereo. Pierluigi Penzo venne decorato con la medaglia d’argento dell’aeronautica alla memoria e fu sepolto nel cimitero di San Michele a Venezia. Un suo monumento, dello scultore Scarpabolla, si trova ai Giardini a Venezia e un altro è il monumento funebre in cimitero. Il nome di Penzo non è tuttavia iscritto nella lapide dell’Istituto Cavanis.
3. La chiesa tra le due guerre mondiali
Dal 1914 al 1958, la Chiesa fu governata da tre papi, le cui personalità e il cui stile di governo sono certo differenti, ma i cui orientamenti di fondo segnano una notevole continuità. Il mandato del primo, Benedetto XV (1914-1922), già citato sopra, corrisponde ai tempi della prima guerra mondiale e al suo immediato dopoguerra e dura solo otto anni, a differenza di quello degli altri due papi, che durerà una ventina d’anni. Il mandato del secondo, Pio XI (1922-1939), corrisponde quasi completamente agli anni intensi dell’intervallo tra una guerra e l’altra (1918-1939); il terzo papa, Pio XII (1939-1958) prese in mano e condusse la Chiesa durante i lunghi anni del secondo conflitto mondiale e per 13 anni dopo il suo termine.
3.1 I tempi di Benedetto XV nella chiesa e nel mondo
Nel 1996, commentando i cambiamenti strutturali e di dottrina avvenuti nella chiesa primitiva tra i tempi delle lettere “protopaoline” di S. Paolo e i tempi successivi, testimoniati dalle lettere pastorali a Timoteo e Tito, B. Brown fa notare: «Poiché la pratica pastorale risponde a delle situazioni concrete, l’accentuazione sulla dottrina ufficiale può frequentemente cambiare in intensità. Nella chiesa cattolica, meno di un decennio dopo il severo accento di Papa Pio X sul controllo della dottrina in reazione alla crisi modernista, il Papa Benedetto XV rigettò l’eccessivo zelo contro le eresie, lo spionaggio e la denuncia. Due decenni dopo l’attenuazione legata al Vaticano II, Papa Giovanni Paolo II sembra avvertire il bisogno di restringere di nuovo certi controlli, specialmente riguardo a questioni pratiche dello stile di vita.”
A questo proposito, si racconta che Papa Benedetto XV, appena eletto, ricevette come d’abitudine e di rito l’ossequio dei cardinali del conclave, prima di presentarsi sul balcone della basilica di S. Pietro per benedire il popolo cristiano. Uno di questi cardinali, che certamente non aveva votato per lui, possiamo inferire, qualche tempo prima del conclave aveva fatto giungere al cosiddetto Sant’Ufficio una denunzia di modernismo a carico del card. Giacomo Dalla Chiesa, cioè appunto colui che a questo punto era il nuovo papa. L’accusato ne aveva avuto sentore. Si narra che Benedetto XV accolse con gentilezza l’omaggio del prelato, e poi accomiatandosi gli disse argutamente: “Eminenza, state pure tranquillo in fatto di ortodossia: vi posso assicurare infatti che il cardinal Dalla Chiesa si trova ora perfettamente d’accordo con il Papa!”. Si può immaginare la confusione del povero porporato!
Se l’episodio è vero, esso indicherebbe già la tendenza del papa recentemente eletto di mettere a tacere i gruppi e movimenti di spionaggio e di denunzia di persone dal pensiero avanzato, che agivano nella chiesa almeno già dall’inizio del secolo; si era dunque a una svolta storica.
Giacomo della Chiesa era nato a Genova il 21 novembre 1854 in una famiglia aristocratica. Segue gli studi di diritto all’università di Genova fino al dottorato, obbedendo così ai desideri della sua famiglia, poi passa a Roma, per seguire la sua vocazione al sacerdozio, compie gli studi ecclesiastici alla Gregoriana, con residenza al prestigioso seminario Capranica, dove viene ordinato presbitero nel 1878, l’anno della morte di Pio IX, e poi prosegue gli studi all’Accademia dei Nobili, avviandosi così alla carriera diplomatica. Segue a Madrid il Card. Rampolla, diviene in seguito minutante alla segreteria di Stato, poi sostituto. Diplomata e amministratore, esercita anche la vita pastorale nelle parrocchie romane. Allontanato dalla santa Sede e nominato arcivescovo di Bologna (1907), il ritardo di sette anni nella sua nomina a cardinale, pur in una sede come quella di Bologna, tradizionalmente cardinalizia, fa pensare che a Roma non tutti avessero fiducia in lui. Riceve il berretto cardinalizio nell’ultimo concistoro di Pio X, e tre mesi e mezzo dopo (3 settembre 1914) è eletto papa dopo un conclave di ben 10 scrutini e sceglie il nome di Benedetto XV.
Il conclave si era aperto quando l’Europa era entrata in guerra da un mese e partecipavano al conclave anche molti cardinali delle nazioni belligeranti. Nella scelta di Giacomo Della Chiesa come papa entrarono senza dubbio la sua personalità, la sua attività all’estero e la sua esperienza di arbitrati internazionali, ma anche e soprattutto il dibattito tra il gruppo di cardinali che volevano continuare nella linea rigida di Pio X, e quelli che, anche ma non solo nella situazione di guerra, volevano che la Chiesa si aprisse di più al mondo e alle questioni politiche e sociali. Fu giustamente questo settore del conclave che appoggiò la scelta di Giacomo della Chiesa.
“Piccolo e timido, d’intelligenza acuta, diplomatico e pastore” inizia la sua attività come vescovo di Roma e della chiesa universale in un momento tragico, quando il mondo era devastato dalla guerra e il conflitto si ampliava di giorno in giorno, da conflitto europeo a conflitto mondiale. Sull’intervento di questo papa coraggioso a proposito dell’“Inutile strage”, che ha fatto di lui un papa incompreso, e ancora oggi poco conosciuto si è detto sopra nel box sulla prima guerra mondiale. Qui giova ricordare gli altri aspetti della sua attività.
La sua prima enciclica “Ad Beatissimi” invitava i cattolici alla concordia e soprattutto ad evitare le polemiche e i titoli che pretendevano di dividere i cattolici in fazioni; indirettamente il papa prendeva di mira i cattolici integralisti “i doganieri della fede”, invitati a lasciare il terreno delle polemiche. D’altra parte il documento suggerisce una conferma alla lotta al modernismo. Ma il tono generale è quello di favorire il dialogo sereno.
Come conseguenza, anche se alcuni personaggi di spicco della curia romana del pontificato precedente mantenevano la carica e l’influenza, come per esempio il cardinal Merry del Val, gli attacchi ai teologi e biblisti avanzati, le sospensioni, lo spionaggio e le denunce diminuirono molto, il Sodalitium Pianum di cui si è parlato sopra fu messo da parte, l’Indice dei libri proibiti continuò a esistere, ma le opere censurate furono dieci volte meno numerose, rispetto al pontificato precedente. Tra l’altro la Congregazione dell’Indice fu eliminata, e il suo incarico conferito al S. Ufficio.
Cosa ancora più importante, fu creata la Sacra Congregazione per le chiese d’Oriente (1° maggio 1917), staccandola dalla situazione, umiliante per le chiese orientali, di essere solo un settore minore della Congregazione della Propaganda Fide. Benedetto XV sottolineava nell’occasione che la Chiesa non è “né latina, né greca, né slava, ma cattolica”. Sulla stessa linea di universalità e supernazionalità della Chiesa, l’enciclica Maximum illud di questo sommo Pontefice (30 novembre 1919) invitava i missionari a predicare il vangelo e a non interessarsi della propaganda, del successo e del vantaggio del loro paese di origine, in genere paesi europei a quel tempo: “Anzitutto è necessario che voi abbiate un gran concetto della vostra eccelsa vocazione. Pensate che l’incarico a voi affidato è assolutamente divino ed è al di sopra dei piccoli interessi umani, perché voi recate la luce a chi giace nelle ombre di morte, dischiudete la porta del cielo a chi corre verso la rovina eterna. Considerando dunque che a ciascuno di voi fu detto dal Signore: «Scordati del tuo popolo, e della casa di tuo padre» (Sal 44,11), ricordatevi che voi non dovete propagare il regno degli uomini ma quello di Cristo, e non aggiungere cittadini alla patria terrena, ma a quella celeste. Da qui si comprende quanto sarebbe deplorevole se vi fossero Missionari i quali, dimentichi della propria dignità, pensassero più alla loro patria terrestre che a quella celeste; e fossero preoccupati di dilatarne la potenza e la gloria al di sopra di tutte le cose. Sarebbe questa una delle più tristi piaghe dell’apostolato, che paralizzerebbe nel Missionario lo zelo per le anime, e ne ridurrebbe l’autorità presso gl’indigeni. Questi, infatti, quantunque barbari e selvaggi, comprendono sufficientemente ciò che vuole e cerca da loro il Missionario, e conoscono, si direbbe al fiuto, se egli ha per caso altre mire all’infuori del loro bene spirituale. Poniamo che egli non abbia del tutto deposto questi intenti umani, e non si comporti pienamente da vero uomo apostolico, ma dia motivo a supporre che egli faccia gli interessi della sua patria; senz’altro tutta l’opera sua diverrà sospetta alla popolazione; la quale facilmente sarà indotta a credere che la religione cristiana non sia altro che la religione di una data nazione, abbracciando la quale uno viene a mettersi alla dipendenza di uno stato estero, rinunciando in tal modo alla propria nazionalità.”. Incitava anche a formare clero autoctono: “Affinché però possa conseguire i frutti sperati, è assolutamente necessario che il clero indigeno sia istruito ed educato come si conviene.”.
L’opera più importante del papato di Benedetto XV fu tuttavia la promulgazione del Codice di Diritto canonico, che veniva a sostituire lo zibaldone disordinato e non organizzato di testi legali che fino ad allora era servito a governare la Chiesa occidentale latina. Tale promulgazione, avvenuta il 27 maggio 1917 con la costituzione Providentissima Mater Ecclesia, veniva ad essere l’adempimento del progetto iniziato nel 19 marzo 1904 da Pio X e già auspicato dal Concilio Vaticano I nel 1870. Il CJC era (ed è, nella nuova redazione del 1981) pratico e, se si vuole, necessario; ma è stato anche il punto alto della centralizzazione romana conseguente appunto al Vaticano I. Tale centralizzazione si concentra soprattutto nella definizione del potere universale, ordinario e assoluto del papa su tutta la Chiesa e nella sua giurisdizione sulla nomina di tutti i vescovi. Questo secondo principio vale soltanto per la Chiesa occidentale latina, mentre il Codice per le chiese orientali, che uscirà molto più tardi, ma per iniziativa e su progetto di Benedetto XV, patriarchi e vescovi di queste Chiese possono essere scelti per elezione, secondo le tradizioni rispettive.
Benetto XV morì il 2 gennaio 1922, dopo breve malattia.
I contatti diretti fra Benedetto XV e l’Istituto Cavanis furono nulli se si eccettua l‘udienza privata concessa al preposito P. Augusto Tormene con il P. vicario Vincenzo Rossi il 25 giugno 1919; e il fatto che il nuovo Codice di Diritto Canonico emanato da lui nel 1917, produsse per l’Istituto la necessità di aggiornare leggermente le costituzioni con opportuni emendamenti, che saranno pubblicati tuttavia solo nel 1930.
3.2 La politica femminile dell’Istituto Cavanis
Questo tema meriterebbe una trattazione ampia, frutto di uno studio speciale, che purtroppo non è stato fatto e sarebbe opportuno svolgere in seguito.
Più avanti, nel capitolo speciale sul ramo femminile dell’Istituto Cavanis, ossia della congregazione delle Maestre delle Scuole di Carità, si spiegherà accuratamente il suo nascere nel 1808, la sua breve vita (55 anni) e la sua estinzione, mediante la fusione con le Figlie della Carità canossiane nel 1863.
Nel capitolo successivo, si parlerà della fondazione della comunità delle pie donne di Porcari, della trasformazione di questa, dopo troppi tentennamenti in ambito maschile, in istituto secolare e poi in congregazione di diritto diocesano. Questo secondo istituto era stato fondato e condotto senza rispettare in alcun modo l’intenzione e il piano dei Fondatori, anzi, probabilmente, senza conoscerlo e studiarlo. Tutto il percorso di questo secondo istituto fu accompagnato da uno stile prettamente maschilista e sovranista da parte dell’Istituto Cavanis.
Ciò che dispiace di più è che, permettendo la fusione del ramo femminile nel 1863 con le canossiane, l’Istituto Cavanis maschile prese a disinteressarsi totalmente dell’educazione delle bambine, delle ragazze e delle giovani, contro l’intenzione iniziale e costante, fino alla morte, dei Fondatori, che avevano fondato appunto due istituti e due comunità, per l’educazione dei due sessi. Ma l’educazione del mondo femminile fu lasciata da parte, sembra con un certo sollievo, fin dal 1863, dall’Istituto Cavanis per circa 115 anni.
In complesso, da questa serie di fatti, l’istituto Cavanis post-Fondatori esce con un aspetto di intensa misoginia. Durante la formazione la distanza dalle donne doveva essere totale; nella vita pastorale tale distanza continuava perché si educavano solo maschi, e il contatto con le donne si riduceva ai contatti con le madri degli allievi (ma si parlava più volentieri con i padri o con la coppia dei genitori) e nel ministero ecclesiastico e pastorale alle suore e monache, i contatti avvenivano più che altro nella celebrazione dell’Eucaristia e nel ministero della riconciliazione. Il motto per i contatti con il femminile era “Cum mulieribus, sermo brevis et rudis”.
Si ammetteva senza dubbio, bontà nostra, teologicamente, che anche le donne erano creature e figlie di Dio, tuttavia esse erano viste piuttosto come oggetto di tentazioni, da Eva in poi; con lodevoli eccezioni, come per esempio la Vergine Maria e le sante; ma perfino nelle Bibbie antiche della biblioteca dell’Istituto il corpo femminile, quando nudo, come succede spesso nelle illustrazioni del libro della Genesi per esempio, erano scrupolosamente cancellate con l’inchiostro, danneggiando così e rovinando opere preziose, perfino cinquecentine.
Qualche tentativo di pastorale mista, anche episodica, con incontri di preghiera, di ritiro, di meditazione, tra istituti maschili e femminili, tra ragazzi e ragazze (anche dell’Azione Cattolica) era impossibile; si è ricordato un caso del genere accaduto nell’anno scolastico 1954-55 nell’Istituto Cavanis di Venezia, e come esso sia stato duramente represso. Illustriamo brevemente questo fatto nella biografia del P. Giuseppe Da Lio.
Del resto, così accadeva in tutta la chiesa, e negli istituti religiosi, e nel laicato cattolico, e appunto nell’Azione Cattolica, nei patronati parrocchiali e in tutte le altre scuole cattoliche. Ciò continuò per lo meno fino agli anni ’60 del XX secolo.
Nei codici dell’Istituto, il primo cenno alla coeducazione si trova nel Decreto sull’Educazione de Capitolo generale straordinario speciale §17, e nella norma 57/e del direttorio del 1971. La coeducazione (=la scuola e l’educazione mista) poteva essere praticata solo con l’autorizzazione del Preposito generale (con il consenso del suo consiglio nel Decreto; udito il consiglio nella norma), e con speciali garanzie. Era un grande passo avanti, che dipendeva largamente dai documenti conciliari (GE ecc.).
A Venezia nella casa-madre e scuola-madre l’accettazione di bambine e ragazze nella nostre scuole si fece nel settembre 1977, all’inizio dell’anno scolastico 1977-78.
La ripresa dell’idea dell’educazione delle bambine (con crèches, asili misti) e ragazze (allenamenti e campionati di basket e volley) fu messo in opera da parte dell’Istituto del S. Nome di Dio, di loro iniziativa, non dell’Istituto maschile.
Un piccolo segno di questa paura delle donne, perfino del loro nome, sta nel fatto che ancora in questa data (2020), un paio di religiosi Cavanis, facendo cenno al sesso femminile, in genere o con riferimento a persone concrete, non dicono “le donne” o “le signore”, come fanno tutti, ma “quelle creature”, oppure “le gentilissime”!
Per capire queste cose, per chi è giovane ed è nato quando la coeducazione era già cosa normale, bisogna ricordare tra l’altro che questo innato disprezzo per le donne non era esclusivo del clero o della chiesa, ma era comune anche in ambiente laico e in generale; in Italia le donne hanno cominciato a votare nel… 1946, al referendum per la scelta monarchia/repubblica. Prima di questa data, la metà (e un po’ di più) della popolazione adulta in Italia non era considerata capace o degna di partecipare del suffragio, che ovviamente non era suffragio universale, ma suffragio maschio.
LA PACE … CON LE DONNE
Vale forse la pena di raccontare qui un piccolo e modesto episodio che rende bene l’idea della posizione delle donne nella Chiesa cattolica ancora verso la fine del concilio Vaticano II, e naturalmente prima di esso. Dopo aver frequentato la Pontificia Università Lateranense per la necessaria licenza in Teologia, ero entrato con gioia e con un po’ di sacro timore nel primo anno di quel centro elitario che era ed è il Pontificio Istituto Biblico-PIB, avendo superato gli esami di ammissione di lingua ebraica, greca e di una lingua straniera. Era l’ottobre 1965 ed era in corso la quarta e ultima sessione del concilio [14 settembre-8 dicembre 1965]. Il 12 dello stesso mese era stata ammessa tra gli allievi del primo anno anche Maria-Luisa Rigato. Questa scrive: “Era la prima volta che una facoltà teologica pontificia immatricolasse una donna. Non lo ripeterò mai abbastanza.”
La messa di inaugurazione dell’anno accademico 1965-1966 del PIB fu celebrata poco dopo quella data, nella chiesa di S. Marcello al Corso. Data la piccolezza della chiesetta, ben proporzionata tuttavia al numero tradizionalmente ridotto degli alunni del PIB, mentre all’altare, già rivolto verso il popolo, da ben pochi mesi, stavano le autorità accademiche; vari professori e gli studenti con gli abiti liturgici presbiterali stavano invece sui banchi nella navata, come concelebranti.
Al momento della pace, come si usava ancora a quel tempo, il celebrante principale scambiava “l’osculo santo” con il diacono o il presbitero alla sua destra, poi con quello alla sinistra (che rappresentava l’antico suddiacono); questi a loro volta passavano l’abbraccio ai vicini, e la “pace” circolava per la chiesa, in ordine, sui due lati, tra tutti i concelebranti. Non raggiungeva ancora il popolo dei laici.
Quando ricevetti l’abbraccio di pace dal prete collega del biblico che stava alla mia destra, mi voltai a sinistra per fare altrettanto con il successivo; e mi trovai davanti a Maria-Luisa Rigato – una donna! –, con la quale del resto ci eravamo presentati all’inizio della messa. Oggi sembra impossibile e ridicolo, ma rimasi totalmente imbarazzato non sapendo come passarle la “pace”. I vicini si avvidero del mio imbarazzo e incominciarono a ridere. Ben presto tutto il popolo del PIB nella chiesetta rideva. La abbracciai, ridendo e un po’ rosso in volto. E fu così che per esperienza personale appresi, pochi mesi dopo l’inizio dell’applicazione della riforma liturgica, che anche le donne potevano avere una presenza attiva nella liturgia.
Durante gli anni di vita missionaria in Congo (2005-2014), in occasione della conclusione dell’anno del giubileo centenario dell’istituzione del PIB da parte di Pio X (7 maggio 1909), nel maggio 2010, mi incontrai a Roma con lei e con altri pochi antichi compagni della stessa annata al PIB: il card. Laurent Monsengwo Pasinya, arcivescovo di Kinshasa (e mio arcivescovo), che era stato invitato a tenere la prolusione della settimana di attività celebrative, il card. Gianfranco Ravasi, P. Mario Barbero, missionario della Consolata in Africa e, tra gli altri aneddoti e ricordi, ridemmo insieme e mi presero in giro amichevolmente ancora una volta per questo episodio.
3.3 I tempi di Pio XI nella chiesa e nel mondo
La morte di Benedetto XV (2 gennaio 1922) e l’elezione e incoronazione del suo successore Pio XI (16 febbraio 1922) trovano il mondo e la chiesa in un momento delicato: finita da poco la prima guerra mondiale, ma non messi da parte gli odi tra nazioni, le frustrazioni e lo spirito di rivalsa e di vendetta, stava sorgendo un ventennio caratterizzato da governi autoritari, da nazionalismi ancora più pericolosi e da totalitarismi, particolarmente nell’Unione Sovietica, in Italia, in Germania. Fascismo, comunismo di stato, nazionalsocialismo erano alle porte e avrebbero causato ai popoli dolori senza numero e senza nome. I ventun anni dal 1918, data della conclusione della prima guerra mondiale, al 1939, data di inizio della seconda, erano stati soltanto anni di preparazione del nuovo conflitto, con l’aggiunta di altri, come la guerra civile di Spagna (1936-1939). In buona parte di questo periodo la Chiesa Cattolica è stata condotta da papa Pio XI.
Nell’Istituto Cavanis, nel 1922 stava per concludersi il suo lungo mandato il P. Augusto Tormene, al quale sarebbe succeduto il P. Agostino Zamattio.
Achille Ratti era nato a il 31 maggio 1857 a Desio, cittadina a nord di Milano, da una famiglia della media borghesia. Suo padre era un piccolo industriale.
Dopo gli studi ecclesiastici compiuti a Milano e a Roma, riceve l’ordinazione presbiterale nel 1879. In seguito è professore di teologia a Milano, diviene uno dei bibliotecari della prestigiosa biblioteca ambrosiana, erudito e storiografo. A Milano assiste agli scontri tra operai e forze armate del 1898, con la sanguinosa repressione condotta dal generale Fiorenzo Bava Beccaris, più tardi alle agitazioni nella Chiesa attorno al modernismo. Conservatore per natura, è però amico di persone aperte.
Fu insegnante, non solo di filosofia e di teologia, ma anche di matematica, al seminario minore, e aveva una grande predisposizione e passione per le scienze. Inoltre, monsignor Ratti, che aveva studiato l’ebraico al corso del seminario arcivescovile e aveva approfondito gli studi con il rabbino capo di Milano Alessandro Da Fano, divenne docente di ebraico in seminario nel 1907 e mantenne l’incarico per tre anni. Come docente portava i suoi allievi nella Sinagoga di Milano, affinché familiarizzassero con l’ebraico orale, iniziativa ardita che era inusuale nei seminari.
È interessante ricordare che un aspetto della sua apertura di spirito è un’attività abbastanza rara in un prete di quel tempo: l’alpinismo. Egli stesso ebbe a definirsi “un Papa alpinista, un alpinista immune da vertigini ed abituato ad affrontare le ascensioni più ardue”. Ci sia permesso svolgere più in dettaglio questo punto, citando Wikipedia: “Ratti fu pure un appassionato alpinista, scalò diverse vette delle Alpi e fu il primo – il 31 luglio 1889 – a raggiungere la cima del Monte Rosa (4527 m) dalla parete orientale; il 7 agosto 1889 scala il Monte Cervino (4478 m), e a fine luglio 1890 il Monte Bianco (4807), aprendo la via successivamente chiamata “Via Ratti-Grasselli”. Papa Ratti fu un assiduo e appassionato frequentatore del gruppo delle Grigne e per molti anni, a cavallo dei due secoli, fu ospite della parrocchia di Esino Lario, base logistica delle sue escursioni e arrampicate. Le ultime scalate del futuro Papa risalgono al 1913. Per l’intero periodo Ratti fu membro, collaboratore e redattore di articoli per il Club Alpino Italiano. Lo stesso Ratti disse dell’alpinismo che “non fosse cosa da scavezzacolli, ma al contrario tutto e solo questione di prudenza, e di un po’ di coraggio, di forza e di costanza, di sentimento della natura e delle sue più riposte bellezze”. Appena eletto Papa il Ratti, l’Alpine Club di Londra cooptò Pio XI come proprio socio, motivando tale invito con le tre ascensioni alle più alte cime alpine (l’invito fu purtroppo declinato, pur con il sincero ringraziamento del Papa).
Ratti, nel 1899, ebbe un colloquio con il famoso esploratore Luigi d’Aosta Duca degli Abruzzi per partecipare alla spedizione al polo nord che il Duca stava organizzando. Ratti non fu accettato come membro della spedizione, si dice, perché un sacerdote, per quanto eccellente alpinista, avrebbe intimidito gli altri compagni di viaggio, rudi uomini di mare e montagna. Nel 1926 e 1928 il papa s’interessò a fondo alle due spedizioni al polo nord nei dirigibili rispettivamente Norge e Italia, ambedue costruiti e condotti dal generale Umberto Nobile dell’aeronautica militare italiana. Alla partenza della seconda spedizione, ricevette in udienza tutti i membri della stessa il 31 marzo, e consegnò a Nobile una grande croce di legno di quercia che fu poi gettata sul polo il 24 maggio 1928, appena passata la mezzanotte.
Nel 1935, venendo meno al rigido protocollo dello Stato Vaticano, durante la cerimonia d’inaugurazione della Scuola centrale militare di alpinismo di Aosta, inviò un telegramma di felicitazioni.
Nel 1911 passa da Milano a Roma, come vice-prefetto (1911) e poi prefetto (1914) della biblioteca vaticana. Queste attività culturali di prestigio e la redazione di importanti e impegnative pubblicazioni di carattere archivistico non gli impediscono di essere anche pastore, confessore, predicatore, catechista, conferenziere.
La sua vita a Roma e in Vaticano lo conduce a una serie di attività più impegnative, che lo mettono sulla strada della diplomazia – una diplomazia pastorale – in difficili missioni: nel 1891 e 1893 in Austria e in Francia; nel 1918 in Polonia, occupata da austriaci e tedeschi, dove è nominato nunzio pontificio e consacrato arcivescovo dopo la fine dell’occupazione e della guerra; in Lituania, dove affronta la difficile questione degli uniati e più tardi in Lettonia. Coraggiosamente, come buon pastore, non abbandona Varsavia quando questa è minacciata dai bolscevichi. In Slesia è inviato a una missione particolarmente delicata, che risulta sgradevole e umiliante per lui. Il 13 luglio1921 è nominato arcivescovo di Milano e cardinale. Cinque mesi dopo la sua entrata solenne nel duomo di Milano è eletto papa.
Il conclave era stato lungo, di cinque giorni (2-6 febbraio 1922) ed egli fu eletto al 14° scrutinio, il 6 febbraio 1922, con i 2/3 + 1 dei voti, come previsto dal nuovo regolamento.
È interessante, per un Istituto che ha la sua origine e la sua casa madre a Venezia, ricordare qui che uno dei candidati più in vista nella seconda fase del conclave era stato proprio il Patriarca di Venezia, il caro Pietro La Fontaine e che fu proprio in base ai suoi accurati (e imprudenti) appunti, ritrovati tra i suoi scritti riservati dopo la sua morte, che si conoscono esattamente l’andamento e i risultati degli scrutini e dell’elezione di Pio XI.
Subito dopo l’elezione, per la prima volta dopo decenni, il nuovo papa esce sul balcone esterno della basilica di S. Pietro “dalla loggia esterna e non da quella interna, come i suoi tre predecessori: affacciandosi rivolto verso Piazza San Pietro e quindi la città di Roma, indicò la sua volontà di risolvere la questione romana, ovvero la controversia relativa al ruolo di Roma, contemporaneamente capitale d’Italia e sede del potere temporale del papa”, e benedice in silenzio la folla. Era una silenziosa ripresa di contatto tra la S. Sede e l’Italia.
Si dimostra subito indipendente – quanto è possibile esserlo a Roma! – efficiente, autoritario, pieno di iniziative e di novità dovute alla sua caratteristica personalità. È ben presto conosciuto, amato, stimato dai cattolici e da altri. La lunghezza del suo pontificato gli permette di nominare a poco a poco quasi tutti i membri del collegio cardinalizio, scegliendoli a suo gusto e a sua immagine e somiglianza.
La sua prima enciclica, programmatica, dal titolo Ubi Arcano Dei annuncia e domanda “la pace di Cristo attraverso il Regno di Cristo”. Fa delle serie osservazioni ai trattati di pace di Versailles, dei quali dice che non hanno scolpito la pace nei cuori ma solo sulla carta; critica il nazionalismo eccessivo, responsabile di conflitti e delle guerre e augura la fraternità tra i popoli. Stigmatizza la piaga del materialismo e l’esclusione della legge di Dio dalla vita pubblica. Mette in luce l’importanza dell’Azione cattolica, cosa che sarà il suo impegno durante tutto il suo pontificato e sarà impegno profondo anche del suo successore, Pio XII.
Nell’enciclica Quas primas (1925) istituisce la solennità di Cristo re – siamo in tempo di monarchie più che di repubbliche, e di autoritarismo. Vi condanna il laicismo, descritto e condannato come “peste della nostra epoca”. È una nuova cristianità che si vuole costruire, e anche qui Pio XI segue l’esempio di Pio X; e Pio XII seguirà le orme e la politica del suo predecessore.
In altri documenti il papa persegue l’unità della chiesa, il ritorno dei lontani (quindi si ricerca più l’unionismo che l’unità della chiesa), la promozione delle missioni, l’integrazione con le culture locali invece dell’imposizione di una cultura occidentale, l’incentivo al clero indigeno.
IL “VICARIO DELLO SPIRITO SANTO”
Gli anziani dell’Istituto Cavanis ci raccontavano un episodio che riguarda in qualche modo la vita di Pio XI. Una volta, un piccolo gruppo di preti, laici e religiosi veneziani andarono a Roma in pellegrinaggio e chiesero un’udienza dal papa, e questa fu benevolmente concessa. Nel gruppo c’erano anche un paio di padri Cavanis. Uno del gruppo dei pellegrini era un prete diocesano veneziano, conosciuto per il suo carattere un po’ strambo, già anziano, che era rettore o, come si diceva allora, vicario della chiesa rettoriale o vicariale dello Spirito Santo, sulla Fondamenta delle Zattere.
Di passaggio, questa piccola chiesa, con l’annesso antico monastero incamerato da Napoleone, era stata più di un secolo prima (1808) la seconda sede provvisoria della comunità religiosa e della scuola del ramo femminile dell’Istituto Cavanis, soltanto per un anno (1808-09).
Alla fine dell’udienza, quando il papa, dopo aver rivolto al gruppo di pellegrini una sua breve allocuzione e data la benedizione apostolica e dopo essere stato ossequiato dal gruppo, riceveva i presenti uno a uno per un saluto personale, si presentò il prete di cui si diceva sopra, e disse a voce alta, in dialetto veneziano a Pio XI, che del resto era lombardo: “Santità, Lu sarà anca el Vicario de Cristo, ma mi son, indegnamente, el Vicario del Spirito Santo!”.
Il vecchio prete voleva essere arguto, ma il papa, che tra l’altro probabilmente non sapeva che ci fosse questa piccola chiesa vicariale a Venezia, non capì la dichiarazione e non apprezzò lo scherzo. Si rivolse a un suo conoscente nel gruppo veneziano e chiese: “Ma chi è questo sacerdote, e che cosa vuol dire?”. Gli spiegarono che era rettore e vicario di una chiesa con questo nome, e non vicario dello Spirito Santo, e che era un tipo strano, e la cosa finì lì.
Così ci raccontavano i nostri anziani presenti alla scena che erano rimasti, come tutti, piuttosto imbarazzati da questa magra figura e da questa impertinenza, probabilmente involontaria.
È Pio XI colui che risolve finalmente la vexata quaestio dei rapporti tra Chiesa e stato italiano, normalizzando questi rapporti e ponendo così fine alla cosiddetta “Questione romana” che da quasi 60 anni, cioè dalla presa di Roma da parte dell’esercito italiano attraverso la breccia di Porta Pia (20 settembre 1870) avvelenava la vita dell’Italia e al tempo stesso faceva del papa, in qualche modo, un prigioniero in Vaticano. La questione romana rendeva anche difficili le relazioni diplomatiche dell’Italia con altri stati cattolici o a prevalenza cattolica. I Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929 sancivano che la Chiesa, o meglio la S. Sede, riconosceva il regno d’Italia con la capitale a Roma e accettava la perdita degli Stati della Chiesa, ritenendo per sé soltanto il Vaticano e alcuni palazzi e basiliche extraterritoriali; lo stato italiano da parte sua riconosceva la sovranità della S. Sede sulla Città del Vaticano, stato puramente simbolico ma con qualità territoriali e politiche di vero stato. Il 7 giugno, a mezzogiorno, nasceva allora il nuovo Stato della Città del Vaticano, di cui il Sommo Pontefice era sovrano assoluto. Nello stesso periodo furono creati diversi concordati con varie nazioni europee.
Ai Patti Lateranensi era unito un concordato tra santa Sede e Italia, Questo garantiva l’insegnamento della religione nelle scuole statali, la presenza di cappellani cattolici nelle forze armate, negli ospedali, la presenza del crocifisso negli ambienti pubblici, dava effetti civili al matrimonio canonico e sacramentale; concedeva inoltre la personalità giuridica agli istituti religiosi. Pio XI senza dubbio intendeva ottenere dal Concordato anche una certa protezione all’Azione Cattolica, di cui osservò “questa è la pupilla dei miei occhi”, e che nel ventennio fascista non aveva la vita facile. Era “un concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti”, secondo quanto aveva detto lo stesso Papa Ratti
In segno di riconciliazione, nel luglio successivo, nella festa del Corpus Domini, il Papa uscì in processione eucaristica solenne in piazza San Pietro. Un avvenimento del genere non accadeva dai tempi di Porta Pia (20 settembre 1870). La prima uscita dal territorio della Città del Vaticano avvenne invece il 21 dicembre dello stesso anno quando, di primissima mattina, Pio XI si recò, scortato da poliziotti italiani in bicicletta, alla basilica di San Giovanni in Laterano, per prendere ufficialmente possesso della sua cattedrale.
Dispiace che la risoluzione della Questione romana e il concordato con l’Italia fascista, in quel momento storico, abbiano posto la S. Sede in una posizione ambigua, dato che patti e concordato erano pattuiti con lo stato fascista, al quale veniva così dato prestigio, appoggio morale e preziosa anche se involontaria legittimazione. Non era probabilmente questa l’intenzione del papa, che pure più volte aveva espresso stima per Mussolini, anche se con vari dubbi per il futuro, preannunciando la possibilità che il suo governo potesse diventare una dittatura assoluta. Nell’infelice discorso del 13 febbraio 1929 – infelice almeno su questo punto – forse in un momento d’entusiasmo per il successo della risoluzione della questione romana, aveva detto di Benito Mussolini «E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare.»
Pio XI d’altra parte, almeno dal 1931, non si faceva più illusioni su Mussolini, a seguito del conflitto a proposito della libertà di vita e d’azione dell’Azione Cattolica e della Federazione universitaria cattolica italiana-FUCI, della devastazione sistematica di sedi dell’A.C. e della FUCI da parte di squadristi, e in genere della pretesa di Mussolini di avere l’esclusiva sull’educazione della gioventù: aveva capito bene che, contrariamente al parere del democratico cristiano don Luigi Sturzo, il fascismo non poteva essere “cattolicizzato”. Il disincanto di Papa Ratti al riguardo del fascismo, di Mussolini e ancor più del nazismo stava aumentando. Nella sua enciclica, scritta in italiano e non in latino “Non Abbiamo Bisogno” (1931) critica aspramente “il proposito — già in tanta parte eseguito — di monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all’età adulta, a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di una ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana non meno in pieno contrasto coi diritti naturali della famiglia che coi diritti soprannaturali della Chiesa”. Per salvare il concordato il papa dovette tatticamente venire a patti con Mussolini: l’Azione Cattolica e la FUCI dovevano occupare i giovani solo in attività educative e ricreative a fine religioso”. Ma a questo punto era finito l’idillio con Mussolini e il fascismo: il papa non accettava totalitarismi.
La tensione crebbe di nuovo nel 1938 con le leggi razziali. Il 6 settembre in un’udienza concessa ai collaboratori della Radio cattolica belga Pio XI pronunciò le famose parole: « Ma l’antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti.» Questo appello contro l’antisemitismo contrasta però con molte frasi e posizioni antisemite del papa stesso. Forse verso la fine del suo pontificato e della sua vita, Pio XI cominciava a rendersi conto dell’ingiustizia intrinseca dell’antisemitismo.
Questa tematica occuperà un posto importante nella riflessione dell’ultimo Pio XI, tanto da giungere a progettare un’enciclica contro il razzismo, la Humani generi unitas, che però non verrà mai pubblicata a causa della morte del pontefice.
Per quanto riguarda il nazionalsocialismo o nazismo, la situazione è complessa ed è difficile chiarire in poche righe la posizione di Pio XI. All’inizio (1933) ne aveva un’idea sostanzialmente positiva, soprattutto perché il nazismo era visceralmente antibolscevico. La S. Sede fu tra l’altro la prima entità internazionale a riconoscere lo stato nazista il 20 luglio 1933, pochi mesi dopo l’ascesa di Adolf Hitler al potere, con un concordato con la Germania, che diede lustro a Hitler e al suo governo. Per altro lato, dopo il 1936, il Papa intervenne varie volte per denunciare la «guerra alla Chiesa» condotta dal regime nazionalsocialista. La condanna al nazismo si fece più chiara soprattutto quando emise (marzo 1937) l’enciclica Mit brennender Sorge, redatta in tedesco e non in latino, con la quale condannava fermamente alcuni aspetti dell’ideologia nazista di stampo pagano e nazionalista, seguita dopo poco, nello stesso mese, dalla Divini Redemptoris, con un’analoga condanna dell’ideologia comunista: “Il comunismo è intrinsecamente perverso, e non si può ammettere su nessun terreno la collaborazione con esso, da parte di chiunque vuol salvare la civilizzazione cristiana”.
Queste due encicliche non hanno tanto il senso e l’obiettivo di difendere i diritti della Chiesa: difendono i diritti dell’uomo.
Nel maggio del 1938, durante la visita di Hitler a Roma, il Pontefice si recò a Castel Gandolfo dopo aver fatto, significativamente, chiudere i Musei Vaticani e spegnere le luci del Vaticano. Disse in seguito Pio XI: “è tra le tristi cose questa: l’inalberare a Roma, il giorno della Santa Croce, l’insegna di un’altra croce che non è la croce di Cristo”, riferendosi alle numerose svastiche (o croci uncinate) che Mussolini fece esporre a Roma in omaggio a Hitler.
L’ultima opera della sua vita fu di preparare, durante lunghi mesi, un discorso che intendeva pronunciare per tutti i vescovi italiani, in cui denunciava la violazione dei Patti Lateranensi da parte del governo fascista e le persecuzioni razziali in Germania.
La morte però colse Pio XI, gravemente ammalato, nella notte del 10 febbraio 1939, alla vigilia di quella riunione del papa con i vescovi e i cattolici che intendeva celebrare il decennale degli accordi del Laterano. Il discorso non venne dunque pronunciato e il testo ne fu pubblicato solo dopo vent’anni da Giovanni XXIII, dato che papa Pio XII aveva purtroppo creduto bene archiviarlo.
La morte del papa Pio XI fu accolta con commozione e quasi con stupore religioso dai cattolici e dagli stati; e una grande stima per la persona e per l’istituzione della S. Sede e del papato fu manifestata anche da parte degli stati laici. Il papato stava emergendo e brillando a livello internazionale. Solo la Germania nazista si permise una riflessione fortemente critica.
3.3.1 Papa Pio XI e l’Istituto Cavanis
Il 14 maggio 1929 Papa Pio XI aveva ricevuto in udienza speciale l’Istituto Cavanis, cioè allievi, ex-allievi, religiosi delle case di Venezia, Possagno e Porcari, guidati dal preposito P. Giovanni Rizzardo, e il papa pronunciò nell’occasione un bellissimo discorso, che lasciò il segno nell’Istituto. Era l’anno del Concordato e dei Patti Lateranensi che riconciliavano l’Italia e la Santa Sede. La data seguiva di quattro anni la proclamazione della regalità di Gesù Cristo e della Festa di Cristo Re, avvenuta 11 dicembre 1925, che aveva lasciato un’impressione profonda anche nell’Istituto Cavanis. L’Istituto celebrava anche il 125° anniversario della prima scuola di Carità Cavanis (2 gennaio 1804), il 10° anniversario dell’apertura del processo canonico per la beatificazione di Fondatori, il 25° di sacerdozio del preposito generale, P. Rizzardo (ordinato nel giugno 1904). Ecco il testo integrale del discorso del papa:
«Udienze come questa che voi, cari diletti figli, piccoli e non più piccoli giovani e non più giovani, Ci portate, sono sempre fra le più gradite al Nostro cuore,- sono in sé stesse sempre fra le più belle, fra le più preziose.
Non molte volte infatti abbiamo ricevuto pellegrinaggi così eletti, e per Noi di tanta compiacenza. La visione di tante giovani e non più giovani vite formate, educate, sotto la protezione della Nostra Madre Celeste, la Santa Chiesa Cattolica, è una visione che Ci allieta sommamente.
Voi appartenete o uscite da un Istituto che tanto bene ha sparso e sparge ancora in mezzo ai nostri figli diletti: un Istituto che ci è e deve esserci tanto caro, poiché è tra quelli che meglio concorrono a compiere la missione della Santa Madre Chiesa,- un istituto che, sebbene modesto, ha fatto un’immensa opera di bene, poiché migliaia di persone sono passate per esso, ricevendo i benèfici frutti della cattolica educazione.
Da Venezia, da Possagno, da Lucca, o da presso, voi venite tutti quanti, allievi ed ex allievi tutti venite da queste belle Scuole Cavanis, un istituto che è tra gli ornamenti più fulgidi, la più bella gemma di Venezia cristiana, di Venezia cattolica,- e questo lo sappiamo di scienza nostra certissima.
Quest’anno voi celebrate l’anniversario, di più di cento anni Ci pare, dalla sua fondazione. È una cosa tanto consolante; non molte infatti sono le istituzioni che possono durare a lungo. Ce ne compiacciamo assai: vuol dire che veramente lo Spirito del Signore sempre lo ha particolarmente protetto.
Non è solo una bella vecchiaia, una bella longevità: è una giovinezza che sempre si rinnova in quello che v’è di più prezioso, e si moltiplica da tanti anni in un’imponente massa di luce, in una varietà di beni, di cui è difficile dare la misura della preziosità, perché supera ogni misura.
Vi abbiamo veduti in questa rapida rassegna, che Ci permise di passarvi ad uno ad uno,- ma in una visione più viva, più efficace, più impressionante abbiamo veduto che voi ricevete tesori inestimabili di educazione cristiana, non di un’educazione qualunque, come purtroppo avviene ai nostri giorni. Ce lo dice anche il vostro contegno, ce lo dicono quelli tra voi che portano delle insegne, un nastro, una medaglia, simboli di tutto un programma, di una vita assiduamente, squisitamente cristiana. Ce ne congratuliamo tanto con voi.
Questa vostra visita è soprattutto una professione di fede, perché, lo sappiamo bene, voi venite a dirCi tutto il vostro attaccamento, la vostra devozione per la Santa Chiesa, il vostro amore, la vostra pietà figliale verso il Vicario di Gesù Cristo, il Papa, Venite a dirci quello che c’è di più caratteristico, quello che c’è di più sentito nella professione cattolica.
Voi venite per il Nostro, per il vostro Giubileo; voi figli alla Casa del Padre, nel cinquantesimo del suo sacerdozio, venite a dirci la vostra partecipazione cristiana ai grandi avvenimenti e l’impegno che voi prendete di pregare per renderli fecondi di tutti i frutti: la gloria di Dio, la santificazione del paese e la salvezza delle anime.
La vostra visita è proprio una professione di fede, e voi venite a testimoniare con l’espressione la più significativa quanto sia prezioso tesoro quello che ricevete dalle mani di questi buoni Religiosi, il più grande tesoro, quello dell’educazione cristiana.
La vostra visita non è come le altre, stavamo per dire, come tutte le altre. Ha un significato che merita tutte le Nostre compiacenze e tutta la Nostra vera consolazione. Infatti voi venite a dire una cosa grande, una grande verità e in forma abbastanza solenne, in un momento che ha una certa importanza storica: venite a dire, a proclamare, in una forma innegabile e proprio indiscutibile, quella parte della grande missione della Chiesa Romana, della Santa Madre Chiesa, che è la missione dell’educazione. Perché, che cosa sia l’educazione cristiana, che cosa deva essere, e come abbia ad impartirsi, chi lo saprebbe meglio di questa Madre Celeste, che la maternità e il magistero suo ha ricevuto da Dio stesso? E per questo la Chiesa tiene a questo suo diritto, a questo suo dovere, a questa sua missione; e per questo Noi pure tanto teniamo e abbiamo sempre dimostrato di tenere, e non lasciamo sfuggirci l’occasione per dire che su questo punto Noi non siamo intrattabili, perché trattiamo con tutti, non intrattabili, ma intransigenti, sì.
Come tutte le volte che si tratta di errore e di verità, di lecito e d’illecito, di giustizia e d’ingiustizia, non è possibile via di mezzo, ma solo l’intransigenza- se non volete dire che due e due non fanno quattro, ma che due e due fanno cinque, qualcuno potrebbe anche dire duecento (applausi).
I vostri applausi vogliono dire che voi C’intendete così bene, e Ci avevate inteso già prima che Noi parlassimo. Ed è questa felice superfluità che Ci dispensa dall’esplicare ulteriormente il Nostro pensiero, sicché passiamo a darvi l’apostolica benedizione.
E ve la impartiamo con tutta la Nostra compiacenza, larga, piena, sovrabbondante, specialissima. Sempre e tutte le benedizioni, scendano sopra di voi tutti e singoli, piccoli e non più piccoli, giovani adulti, vecchi, di queste diverse classi, secondo i bisogni di ciascuno.
Voi piccoli, sapete che oltre ad avere la predilezione del Cuore Divino di Gesù avete anche la Nostra, e di tutti quelli che hanno un cuore per amare.
A voi, giovani, per i vostri studi, per le vostre necessità, a voi, che vi preparate alla vita domestica, sodale, alla vita vissuta, vita lavorata, tutte le benedizioni per questa vostra felicissima età piena di dolcezza e di speranze.
E a voi, che da più o meno lungo tempo siete entrati in questa vita vissuta, lavorata, lavorante, non soltanto usufruendo dell’educazione ricevuta, ma seminando tesori, i tesori della vita cristiana, domestica, sociale, anche su voi tutte le benedizioni per quello che forma la preoccupazione della vostra mente e del vostro cuore. Una benedizione poi del tutto particolarissima riserviamo alle vostre guide, a questi buoni Religiosi e ai loro collaboratori; Noi pensiamo di esprimere in questa maniera i vostri sentimenti di riconoscenza per essi e ciò è anche nell’interesse di tutti, perché le ricchezze di questa benedizione essi le riverseranno a loro volta sopra di voi».
Impartita l’apostolica benedizione, S. S. faceva consegnare al Preposito Generale il dono di belle medaglie di S. Teresa del Bambino Gesù, perché le distribuisse come ricordo, e come le avesse distribuite il Papa con le stesse sue mani. Quindi lasciava la sala fra nuovi e fragorosi applausi.”
Pio XI conosceva già l’Istituto Cavanis personalmente, almeno in modo superficiale, avendo ricevuto una visita del preposito generale P. Giovanni Rizzardo durante un’udienza particolare concessa dal papa il 7 gennaio 1929: si ha l’impressione che lo conoscesse anche meglio, leggendo il testo del discorso, tanto è l’affetto che ne emana e tanta ne è esatta l’informazione, e il papa stesso del resto nel discorso afferma di conoscere l’Istituto di “scienza nostra certissima”. Senza dubbio si era informato, probabilmente con il patriarca Pietro La Fontaine, prima di dare l’udienza.
Nel Diario della Congregazione, P. Aurelio Andreatta scrive circa dieci anni dopo: “ Mons. Ruffini il lunedì 23 alle ore 10 ¾ ha ricevuto il P. Preposito , al quale disse subito queste parole: “Il Santo Padre Pio XI ha molta stima del vostro Istituto; me ne ha parlato recentemente (qualche giorno prima il S. Padre aveva avuto nell’occhio la pratica del Collegio Canova per l’iscrizione all’’E.N.I.M.) e ha detto: questo è un Istituto dove le cose si fanno bene” (…) Il predetto Monsignore congedò il P. Preposito con altre lusinghiere espressione all’indirizzo dell’Istituto ed esortò a sperare nel felice esito della causa.”
Bisogna considerare inoltre soprattutto che questo papa aveva un grande affetto e una grande passione per la scuola e particolarmente per la scuola cattolica – cosa abbastanza rara. Fu lui il primo papa a pubblicare un’enciclica specificamente sulla scuola: la Rappresentanti in terra, di proposito in italiano, del 31 dicembre 1929. Proprio l’anno in cui ricevette l’Istituto Cavanis in udienza. In essa il papa, preoccupato dal laicismo crescente e dal totalitarismo che in vari paesi europei e particolarmente in Italia voleva guadagnarsi il monopolio della scuola e dell’educazione della gioventù, chiarisce la dottrina della chiesa sulla scuola; come fa del resto in modo chiarissimo nel discorso sopra riportato.
Sorprendentemente, e in modo molto moderno, afferma che lo stato ha il diritto e il dovere di intervenire nel campo dell’educazione e della scuola per il bene comune. Ciò non impedisce che tale scuola statale non deve essere né laica, né neutra, né “mista”, cioè non si può ammettere che solo gli studenti dichiaratamente cattolici partecipino all’insegnamento della religione, e che gli altri ne siano esenti; anzi anche nelle scuole dello stato tutto l’insegnamento deve essere “retto da uno spirito veramente cristiano”. Inoltre Pio XI appoggia ampiamente la scuola cattolica, chiede che lo stato lasci ai genitori la libertà reale di scegliere la scuola che vogliono per i loro figli, e che, per dare di fatto tale libertà, contribuisca con giusti sussidi al mantenimento delle scuole cattoliche. Parla qui di “giustizia distributiva”, per la quale tutti i genitori possono scegliere la scuola che corrisponde alla loro fede senza aggravi economici. Sconsiglia inoltre l’educazione sessuale data senza prudenza e condanna la coeducazione.
Il pellegrinaggio era partito da Venezia l’11 maggio sera, in treno naturalmente, con 120 partecipanti, fu ospitato nel Pontificio Ospizio S. Marta, grazie all’interessamento dell’amico monsignor Giuseppe Pescini, dentro le mura nella recentemente istituita Città del Vaticano, cosa quindi particolarmente eccitante, e rientrò a Venezia il 15 successivo. La spesa per la partecipazione, tutto compreso, era di £ 250, di cui £ 100 dovevano essere versate all’atto dell’iscrizione. La pagina di presentazione e propaganda del pellegrinaggio dice, allusivamente, che “i felici pellegrini saranno accompagnati coll’invidiante pensiero dei propri compagni”.
Alla morte di Pio XI l’Istituto Cavanis rimase schioccato e addolorato, e furono promosse speciali e intense celebrazioni di suffragio e di partecipazione.
3.4 Padre Agostino Zamattio, preposito generale (1922-1928)
All’inizio del pontificato di Pio XI, il 24 luglio 1922, fu eletto preposito generale dell’Istituto Cavanis P. Agostino Zamattio, dopo circa sette mesi di governo interino della congregazione da parte di P. Antonio Dalla Venezia, a seguito della morte prematura del preposito precedente, il P. Augusto Tormene, avvenuta il 20 dicembre 1921.
Agostino era nato ad Aviano (Pordenone), sotto il massiccio del Monte Cavallo (m 2251) nelle prealpi carniche, il 25 ottobre 1878, figlio di Vincenzo e di Maria Menegoz, e portava il nome completo di “Zamattio Agnoli Agostino”; Agnoli era probabilmente il soprannome che portava la sua famiglia, per distinguerla da altri Zamattio. Da notare che il suo cognome, anche in documenti ufficiali, come per esempio il foglio di congedo illimitato di 3ª, risulta come Zammatio o Zammattio; ma la forma corretta era Zamattio. Da notare che Aviano è un paese che dette tanti religiosi all’Istituto Cavanis.
Come accadeva a tanti friulani, la sua famiglia si traferì poco dopo la sua nascita a Venezia e egli cominciò a frequentare le scuole dell’Istituto Cavanis. Maturatasi in lui la vocazione religiosa, fu accolto nell’Istituto come aspirante. Il Diario di Congregazione dice che era stato scolaro del P. Giovanni Chiereghin, il quale “se ne ripromette assai bene”; che il giovane Agostino entrò nella comunità di Venezia come aspirante il 13 agosto 1894 accompagnato dal “suo buon genitore, che lo dona volentieri al Signore, e che per l’anno di prova pagherà la dozzina di £. 20 (venti) mensili”. Dopo aver frequentato i corsi liceali e teologici, vestito l’abito dell’Istituto il 16 dicembre 1894, emise la professione temporanea il 16 dicembre 1895 e la perpetua il 18 dicembre 1898.
Ricevette dal patriarca Sarto la tonsura e gli ordini minori dell’ostiariato e lettorato il 19 dicembre 1896; quelli dell’esorcistato e lettorato a S. Cassiano il 14 agosto 1898; fu ordinato suddiacono a Venezia pure dal patriarca Sarto il 23 dicembre 1898; diacono il 22 dicembre 1900, dallo stesso; e ancora da lui fu ordinato sacerdote il 25 luglio 1901.
Conseguì all’Università di Padova il diploma di abilitazione all’insegnamento delle scienze matematiche e fisiche. Si dedicò alla scuola con entusiasmo e in essa profuse genialità di mente e vivezza di affetto, conquistandosi i cuori degli alunni. Si distinse nel ministero del confessionale, nella direzione spirituale, nella predicazione, ottenendo copiosi frutti di pietà cristiana.
Lo troviamo a Venezia dall’estate 1902 al 1904 (probabilmente era lì a Venezia anche negli ultimi mesi del 1901, subito dopo l’ordinazione presbiterale; e forse anche negli anni 1905-1907, anni sui quali non abbiamo ancora notizia di lui, stranamente). È di nuovo sicuramente a Venezia nell’anno scolastico 1907-08; dal 1910 al 1922 è a Possagno, nel Collegio Canova. Nel 1913 gliene viene affidata la direzione, come rettore, che mantiene fino al 1922; tuttavia, fisicamente, nell’ottobre del 1917, dopo la rotta di Caporetto e la ritirata italiana sul Piave, con il fronte ormai a poche centinaia di metri da Possagno sul Grappa e a pochi chilometri sul Piave, la guerra determinò l’esodo degli alunni e ridusse poco dopo l’edificio a sede di un comando militare, sgomberandone così il collegio e la comunità religiosa.
Di passaggio a Venezia, non avendo più dove risiedere a Possagno, il 17 novembre 1917 fu incaricato dal Patriarca La Fontaine, che evidentemente lo conosceva bene, della direzione interina (tempore belli) dell’osservatorio meteorologico e sismologico patriarcale. Assunse subito il nuovo incarico, ma lo condusse per soli nove giorni (!!), per un’attività del tutto differente e molto più pastorale: il settore più modesto e povero della popolazione del paese di Possagno riceveva l’ordine di sgomberare dal proprio paese. P. Zamattio e P. Giovanni D’Ambrosi furono i due padri Cavanis che, al posto del clero diocesano locale, assunsero la cura pastorale, e non solo, degli abitanti (in genere gli abitanti più poveri, gli operai delle fornaci e i contadini), che seguirono ed assistettero da buoni pastori sulle vie del profugato, prima a Ca’ Rainati, una frazione di San Zenone degli Ezzelini in provincia di Treviso, poi, pochi mesi dopo, fino nella lontana Sicilia, anzi fino a Marsala (e altri centri abitati della Sicilia occidentale), una città così lontana da Possagno che, restando in Italia, più lontano quasi non si può! Il loro diario del profugato è di estremo interesse. Per tale benemerenza, il 9 aprile 1920 P. Zamattio ricevette l’onorificenza di cavaliere della Corona d’Italia. Analoga croce di cavaliere della Corona doveva essere attribuita a P. D’Ambrosi.
La fondazione effettuata circa vent’anni dopo di una casa dell’Istituto in Sicilia, a Santo Stefano di Camastra, in diocesi di Patti e Provincia di Messina (1938), dipende forse proprio dall’ esperienza del profugato.
Ritornato nei primi mesi del 1919 a Possagno, dopo la vittoria italiana, P. Zamattio si mise con alacrità mirabile a ricostruire il Collegio. L’edificio era stato pesantemente devastato dalle bombe austriache ma più ancora distrutto e profanato dai soldati italiani che l’avevano occupato, tra l’altro utilizzando come legna da ardere tutto ciò che si poteva bruciare: travi, assi dei pavimenti, scale, banchi e altri mobili della scuola e della chiesa. Per la tenacia di P. Zamattio il collegio, che aveva già visto in passato momenti tristi e momenti gioiosi, risorse a vita più florida. Subito dopo, la sua singolare laboriosità riusciva a edificare il primo vero e proprio probandato della Congregazione, ossia il suo seminario minore, che sorse ai piedi del Colle di S. Rocco. L’Istituto aveva già avuto naturalmente i suoi seminari minori e maggiori a Venezia e a Possagno; a Possagno aveva avuto sede addirittura, dal 15 novembre 1860 al 20 maggio 1867, in un’ala quasi autonoma, legata al corpo principale del collegio Canova da una passaggio coperto; ma in fondo si trattava pur sempre di un’ala o un piano speciale nell’edificio comune; qui invece il probandato aveva il suo edificio proprio, separato e una certa autonomia, pur senza costituire ancora per molti anni una vera comunità educativa specifica, direttamente dipendente dalla comunità generale.
Dal 1919 al 1922. Zamattio, rimanendo a Possagno, era anche definitore generale della Congregazione, 3° per ordine.
Il 29 giugno 1920 “festa grande, spontanea, consolantissima” a Possagno, quando P. Zamattio, rettore di quella casa, ricevette la Croce di Cavaliere della Corona d’Italia, evidentemente per la cura pastorale con cui aveva accompagnato il popolo di Possagno nel profugato a Marsala. Il Diario della Congregazione racconta ampiamente la festa e la gioia del popolo possagnese e della nostra comunità Cavanis. Furono ricordati naturalmente anche i meriti del P. Giovanni D’Ambrosi che pure aveva accompagnato i possagnesi nella loro faticosa “avventura”.
Il 24 luglio 1922 P. Zamattio veniva eletto preposito generale, ufficio che espletò per due trienni con lo zelo suo caratteristico, votandosi ad ogni sacrificio per il bene dell’Istituto fino al 1928.
Qualche dettaglio sul suo mandato:
Durante il semestre di governo interino del P. Antonio Della Venezia, il 5 febbraio 1922 “nella sala del pensionato”, l’associazione dei nostri ex-allievi, nata, si potrebbe dire, come un arbusto fiorito sulla tomba del nostro indimenticabile padre preposito defunto, Augusto Tormene, tenne la prima assemblea plenaria per l’approvazione dello statuto e la nomina della presidenza.
Il 29 aprile 1922 esce il primo numero della nuova rivista “Charitas”, semestrale per allora. “È riuscitissimo, con bellissimi clichè, in 12 facciate”.
Il 9 gennaio 1923, in presenza dei membri del tribunale ecclesiastico, dei confratelli e di molti fedeli, furono esumate le spoglie mortali dei servi di Dio, i fondatori della Congregazione, per la ricognizione giuridica. La conclusione della ricognizione con la riposizione delle salme nella nuova tomba nella cappella del crocifisso si realizza il 22 giugno 1923. La ricognizione era un atto dovuto nel corso del processo di beatificazione dei Fondatori a livello diocesano di Venezia. Tale processo si concluse poi a Venezia il 16 luglio 1925. Nell’occasione, dopo la celebrazione e il pranzo offerto a tutti i membri del tribunale ecclesiastico, a questi fu donata anche una reliquia dei fondatori in teca d’argento, e al patriarca La Fontaine in teca d’argento dorato.
Il 2 luglio 1923, in riunione del consiglio definitoriale, si parla già della società “Georgica”, costituita, pare, in occasione dell’acquisto della fattoria “Le Rive” a Possagno, per uso del collegio Canova e della comunità; se ne parla e se ne approva l’acquisto nelle riunioni precedenti dello stesso consiglio, ma l’atto di acquisto viene compiuto dal rettore (pro-rettore in realtà) di Possagno.
Nella stessa riunione del Definitorio si discute e si approva in linea di massima l’apertura di una casa dell’Istituto ad Arsiero (Vicenza), mediante la donazione di una villa e di un capitale per il restauro e l’adattamento dell’immobile da parte del Commendator Francesco Rossi, amico e benefattore dell’Istituto. La casa doveva essere una scuola e un patronato per la gioventù locale.
Il definitorio decide che per il momento si poteva inviare ad Arsiero, per seguire i lavori e cominciare il patronato, don Marco d’Este, ospite dei padri a Possagno, e questi aveva accettato generosamente l’incarico.
1923 (30 settembre) — Entrata solenne dei nostri padri nella parrocchia di Pieve di Soligo (Diocesi di Céneda, oggi Vittorio Veneto, provincia di Treviso), per assumere la direzione dell’Istituto scolastico di Carità locale Balbi-Valier. L’esperienza di Pieve di Soligo sarà tuttavia di breve durata.
Il 3 dicembre 1923 l’Istituto decide di accettare la proposta del patriarca La Fontaine di mantenere una scuola di Religione per insegnanti elementari preposti all’insegnamento di questa materia.
1924 (23 ottobre) — I padri Cavanis invitati dall’arciprete fecero il loro ingresso solenne nella parrocchia di Conselve (diocesi di Padova) per fondare una nuova casa per l’educazione dei giovani del paese. La decisione di aprire questa casa a Conselve era stata presa definitivamente nella riunione del Consiglio definitoriale dell’11 ottobre precedente, e aveva purtroppo comportato l’annullamento della decisione precedente di aprire una casa ad Arsiero. Anche questa esperienza a Conselve fu di breve durata.
Gli ultimi mesi del 1924 furono duri per la Congregazione e per il preposito P. Agostino Zamattio, per la morte per tisi del caro e buon P. Mario Miotello, e per il ricovero nello stesso sanatorio di Sacca Sessola (sito nell’isola omonima della laguna veneta) dell’altrettanto buono fratel Francesco Vedovato, che in pratica era sempre stato ammalato, pure di tisi, dopo le sue disavventure belliche. P. Antonio Dalla Venezia non poteva ormai più dedicarsi alla scuola, per questione di età e di salute.
A questi dolori, si aggiungeva l’imprevista uscita di Congregazione di un confratello – a quel tempo cosa rarissima e considerata scandalosa – per di più un confratello che tanto aveva ricevuto dalla Congregazione e dai suoi superiori, e che era stato eletto Maestro dei Novizi: il P. Enrico Perazzolli.
Questi era nientemeno che cugino (probabilmente secondo cugino) di P. Basilio Martinelli e voleva seguire l’esempio del suo parente, ma non lo seguì purtroppo fino in fondo. P. Enrico risulta a Venezia dopo la guerra, e a Porcari dal settembre 1921, poi a Possagno. Difese la sua tesi sul “Sentimento religioso nel Manzoni e Chateaubriand” con 100/110 e quindi si laureò in Lettere a Padova il 30 giugno 1920. Egli e i sei chierici furono ospiti di don Orione a Tortona (Alessandria) e a Bandito (Bra, provincia di Cuneo) nella Villa Moffa “con i chierichetti”, come scrive il DC il 3 settembre 1918, con probabile allusione ai seminaristi minori degli Orionini; li visita P. Tormene, preposito, al ritorno da un viaggio a Torino. I quattro chierici teologi Amedeo Fedel, Aurelio Andreatta, Mario Janeselli e Luigi Janeselli continuavano però a Tortona, e anzi ricevettero la loro ordinazione suddiaconale da parte del vescovo di Tortona. Ad essa partecipò anche P. Tormene. I chierici e il padre Enrico profughi presso gli Orionini, i “sette confratelli trentini” otterranno, per opera di P. Tormene, il 7 novembre 1918, tre giorni dopo la fine della guerra, di poter ritornare a Venezia. Vi ritorneranno di fatto il 14 novembre.
P. Enrico fu eletto maestro dei novizi nel capitolo generale ordinario del 22-25 luglio 1922 ed esercitò brevemente questo ufficio, nei primi anni ’20 del XX secolo; ma venne liberato da questo importante incarico perché cominciò a dare segni di squilibrio mentale grave, oltre che presentare forme di disobbedienza e di ricerca del proprio interesse. Fu anche gradualmente esentato dalla scuola e da altre attività pastorali, fu trasferito a quanto pare a Possagno l’11 ottobre 1924; e si diede all’agricoltura (alle “Rive”, si immagina), con poco successo e risultato. Infine dopo vari tentativi di “evitare lo scandalo” dell’uscita, Enrico Perazzolli di fatto uscì di sua iniziativa e senza permessi dalla Congregazione, ritornando al suo paese, cioè Bosentino (TN). Domandò in seguito di essere accettato dalla diocesi di Trento e si rifiutò di ritornare in Congregazione. Fu accettato dall’arcidiocesi di Trento per tre anni.
P. Perazzolli ebbe il coraggio di chiedere che gli inviassero il diploma di laurea, anche se i padri gli avevano sempre fatto notare quanto avessero speso e faticato per i suoi studi e particolarmente per la sua laurea; in questa occasione, P. Zamattio gli scrisse una frase interessante, comparando la sua situazione con quella del P. Mario Miotello, della cui recente morte gli dava notizia: scriveva cioè “che è la gloria del soldato morire al suo posto ed è la gloria del vero eroismo se tal morte è l’epilogo di un lungo martirio”.
Il 25 marzo 1925 usciva, per iniziativa locale ma con l’incentivo e la soddisfazione di P. Zamattio, il foglietto “I piccoli fiori della Madonna del Carmine”, edito dal Probandato di Possagno.
Il capitolo generale ordinario fu tenuto il 17-18 luglio 1925 a Venezia. P. Zamattio fu confermato per un secondo mandato. In questo secondo periodo fra l’altro fu decisa la chiusura della casa di Conselve, appena aperta da meno di un anno, ufficialmente “perché la Congregazione non è in caso di sostenerla essendosi ammalati alcuni individui. Ho scritto e inviato P. Andreatta”, scrive P. Zamattio nel diario.
Nel settembre 1925 P. Zanon, come postulatore generale della causa dei Fondatori, porta a Roma e là in cancelleria (sic) il processo informativo, di livello diocesano, dei PP. Fondatori. Partecipa anche a un’udienza del papa Pio XI per pellegrini veneziani. Poco prima anche il preposito P. Zamattio era stato a Roma e visitò due volte il papa; i due avvenimenti si erano svolti rispettivamente l’8-19 settembre 1925 (P. Zamattio) e 12 ottobre 1925 e giorni seguenti (P. Francesco Saverio Zanon).
Di quest’anno 1925, deve essere ricordata anche la pubblicazione della biografia documentata dei padri fondatori, prodotta e scritta da P. Francesco Saverio Zanon. Essa rimane a tutt’oggi la migliore biografia di questi due venerabili padri. Tra l’altro, l’opera ricevette qualche tempo dopo una “larga e lusinghiera” recensione da parte della “Civiltà Cattolica”.
Nel 1927 fu prodotto e stampato in nuova edizione il manualetto a uso dei novizi (sensu lato), con aggiunte al “Metodo” scritto da P. Casara; a Venezia all’aula di Fisica (in seguito chiamata aula di Scienze, attualmente (2015) aula di informatica), viene aggiunta, su richiesta di P. Francesco Saverio Zanon, un’altra aula, fino a quel momento utilizzata dalla quarta elementare, per costituirvi un museo di scienze naturali. Tale museo fu arricchito gradualmente dai padri Zanon, Aldo Servini, Giulio Avi, Giuseppe Leonardi. Fu purtroppo eliminato nel 2002 e molto materiale fu distrutto.
Il 2 luglio 1928 iniziò a Venezia il 12° capitolo generale ordinario (Venezia, 2-8 Luglio 1928), e al posto di P. Agostino Zamattio fu eletto preposito il P. Giovanni Rizzardo. Nello stesso capitolo, P. Zamattio fu eletto 2° consigliere e rimase in questa carica, essendovi rieletto, fino al 1934; poi continuò come consigliere, ma in prima posizione, e quindi anche vicario della Congregazione, fino alla morte nel 1941.
Nel 1928, terminato il secondo mandato, P. Zamattio fu nominato rettore del collegio di Porcari (Lucca) dove attese ad ampliare notevolmente l’opera educativa mediante la costruzione del vasto edificio del convitto, prezioso da un punto di vista operativo e anche bello da quello architettonico, opera dell’arch. Lino Scattolin.
Qui a Porcari P. Zamattio si dedicò anche alla cura spirituale del gruppo di pie donne che erano sulla via di divenire una comunità religiosa, cammino che a quel tempo si prospettava ancora lungo e incerto.
Uomo veramente apostolico, dotato di un carattere franco e piacevole, di una semplicità cristallina, di una rettitudine a tutta prova, P. Agostino Zamattio rimane anche oggi, a tre quarti di secolo di distanza, un esempio vivo ed una testimonianza.
Una lettera di P. Agostino Menegoz, suo cugino, scritta durante l’ultima malattia dello Zamattio, lo loda per il suo spirito ampio, per il suo desiderio fermo di espandere la Congregazione, per la comprensione che il carisma dell’Istituto non comprendeva solo la scuola ma tutti i mezzi educativi, perché oltre alla scuola classico-umanista credeva nella scuola professionale, e perché incentivava la fondazione e approvazione del redivivo ramo femminile della Congregazione.
Nell’ottobre del 1938, dopo un breve viaggio di ricognizione effettuato assieme al P. Mario Janeselli, a Cammarata (Agrigento) e a Santo Stefano di Camastra (Messina), P. Agostino fu assegnato come primo rettore alla nuova casa fondata proprio in quest’ultimo paese, in compagnia e del P. Antonio Turetta e di Fratel Vincenzo Faliva. L’assegnazione a questa nuova casa del chierico Federico Grigolo, fatta in un primo tempo, fu ben presto annullata. Il primo rettore, P. Agostino, vi rimase solo pochi anni: la sua vita volgeva alla fine. Il 17 febbraio 1941 il diario della congregazione riporta: “Fra Sebastiano Barbot parte per S. Stefano di Camastra (Messina). Donde giungono notizie preoccupanti sulla salute di P. Agostino Zamattio, ormai minato da un male incurabile – Lo accompagnerà a Venezia, dove infatti arriva alle ore 17 del 23, in condizioni pietose.” Sarebbe rimasto a Venezia per circa 70 giorni, fino alla morte.
Il 2 maggio successivo, a Venezia in comunità si sta celebrando la rinnovazione dei voti, quando: “Verso il termine si chiama d’urgenza un sacerdote al capezzale del P. Zamattio, che alla fine della recita del rosario fatta col fratello infermiere, dà segno d’imminente pericolo di vita. Il giorno antecedente, verso sera, gli erano stati amministrati gli ultimi Sacramenti, ricevuti con edificante pietà. Singolare il fatto che prima di ricevere il Viatico ha voluto rivolgere alcune parole alla Comunità inginocchiata, in cui, dopo aver dichiarato con molta semplicità che sperava ancora di vivere perchè gli rimaneva ancora molto lavoro da fare, affermava che se un rammarico si faceva sentire in lui in quel momento era quello di non aver lavorato ancora di più per la gloria di Dio. La memoria però lo assicurava che in tanti anni di vita religiosa trascorsa nell’Istituto non aveva mai perduto, tralasciato una sola ora di scuola assegnatagli dall’orario. Raccomandava a tutti l’osservanza delle Regole, l’amore all’Istituto e la sorte di quell’istituzione femminile, che era stata sempre in cima ai suoi pensieri e la cui realizzazione aveva incontrato continui ostacoli.
Si spense quasi inavvertitamente e dopo […?] agonia, alle 20,30 tra le preghiere dei confratelli, che terminato il rito suddetto erano subito accorsi al suo capezzale.” Era il 2 maggio 1941, anniversario dell’inizio dell’Istituto.
I suoi funerali furono veramente imponenti. La solenne commemorazione fu tenuta a Venezia addirittura nella sala dell’ala Napoleonica, del Palazzo Reale su Piazza S. Marco, dall’Avvocato Celeste Bastianetto, anche lui ex-allievo, e ben presto attivo nella Resistenza veneziana. Attraverso gustosi e caratteristici episodi, l’oratore tratteggiò in modo vivissimo la figura del P. Zamattio nella sua esuberante giovinezza e nei momenti più significativi della sua vita religiosa e sacerdotale, mettendo in rilievo l’ammirabile attività di educatore, guida di anime, Rettore e Preposito.
C’è un suo ritratto di grande bellezza, opera del pittore veneziano Alessandro Milesi, a Venezia, nella galleria dei quadri dei prepositi generali. Il DC, vol. VIII, alla pag. 178 e nella data del 12 novembre 1928, narra la visita del P. Giovanni Rizzardo al pittore, per la committenza di questo ritratto, e del suo incontro con P. Zamattio, di cui doveva fare il ritratto, come pure delle ore di posa.
Fu nell’occasione della morte e sepoltura del P. Zamattio che si realizzerà la cappellina mortuaria dell’Istituto nella chiesa di S. Cristoforo al cimitero municipale di S. Michele a Venezia, per lui e per gli altri religiosi Cavanis.
Recentemente (febbraio 2020), la congregazione, tramite o scrivente, è rientrata in contatto personale con parenti di P. Zamattio e degli altri religiosi Cavanis provenienti da Aviano, mediante una visita alle persone e ai luoghi e ad altri contatti.
3.5 Padre Giovanni Rizzardo, preposito generale (1928-1931)
Nato a Fietta del Grappa (Treviso) il 20 agosto 1881. Compì gli anni della scuola primaria nel suo paese natio, e la famiglia già pensava come fare per soddisfare il suo desiderio di continuare gli studi, per i quali dimostrava grande disposizione, quando il 15 agosto 1892 l’Istituto Cavanis, dopo la lunga forzata assenza, riaprì la casa e il ginnasio di Possagno. Il giovane Rizzardo fu iscritto al ginnasio, assieme ai primi 17 iscritti, dei quali due o tre convittori, gli altri esterni come lui stesso. Lo immaginiamo venire ogni matti a piedi (ovviamente) per scorciatoie e trosi (“sentieri”) dei boschi, e ritornare per la stessa via a casa finite le ore di scuola. “Il soddisfacente profitto e la lodevole condotta dell’assiduo alunno guadagnarono lo speciale interessamento del P. [Vincenzo] Rossi, accorto e squisito educatore, che, penetrata la timida ma fervente anima, ed avvertitane, anche da sua schietta confidenza, una vivida aspirazione allo stato sacerdotale, in un ministero di cristiana educazione dei giovani, l’anno seguente accolse il Rizzardo, promosso, con bell’esito alla 3 ginnasiale, nel convitto quale alunno interno ed aspirante alla vita dell’Istituto. (…) Con un gruppo di bravi e diligenti compagni (…), sotto la guida, oltre che del P. Rossi, del venerando P. Bassi e d’altri volonterosi insegnanti, (…) il Rizzardo nel solo anno 1895-96 svolse l’intiero programma del Ginnasio Superiore, conseguendo a luglio la licenza ginnasiale nel R. Liceo M. Foscarini di Venezia”.
Il diario di Congregazione descrive così il suo primo contatto con l’Istituto: “ Il P. [Vincenzo] Rossi tra le altre cose scrive da Possagno di essere per ricevere il nuovo aspirante Rizzardo di Fietta, giovane di belle qualità, e che entra colla più viva soddisfazione della sua famiglia”.
Vestì l’abito dell’Istituto il 20 dicembre 1896 in S. Agnese a Venezia dalle mani del P. Da Col, compito l’anno di noviziato emise la professione temporanea a Venezia il 21 dicembre 1897, assieme a Enrico Calza; giunse alla licenza liceale al liceo Marco Polo a Venezia nel luglio 1899; emise la professione perpetua il 10 novembre 1901.
Ricevette la tonsura e i primi due ordini minori il 23 dicembre 1899 dal cardinal Sarto; i secondi due dallo stesso patriarca l’8 aprile 1901; fu ordinato suddiacono dal patriarca Giuseppe Sarto nel dicembre 1902; e diacono dal patriarca Cavallari a Venezia il 19 dicembre 1903; dallo stesso fu ordinato presbitero il 2 aprile 1904.
Nel 1902 ottenne il diploma di 2° grado per l’insegnamento della lingua francese presso l’allora Regia Scuola Superiore di Commercio (l’inizio dell’attuale Università di Ca’ Foscari).
Conseguì la laurea in Filosofia e Lettere il 23 novembre 1912. Aveva ricevuto soltanto 90/110. “Il Lavoro [=la tesi] meritava di più perché avea riscosso lode e la discussione dello stesso era proceduta bene. Ma un incidente suscitato dal Prof. Romagnoli che non si ricordava più della tesina da lui affidatagli e pretendeva risposte fuori dai limiti, fece discendere il punto 105 prima proposto”.
Ne ebbe molta più soddisfazione quando pubblicò la tesi nel 1914, con il titolo di “Il Patriarcato di Venezia durante il Regno Napoleonico (1806-1814)”, nel Nuovo Archivio Veneto, a spese della Regia Deputazione di Venezia. Infatti sia lui personalmente, sia il preposito P. Augusto Tormene ne ricevettero numerose congratulazioni da vari sacerdoti veneziani, registrati nel Diario di Congregazione; e l’anno successivo ne parlò con ampie lodi all’autore e all’Istituto anche il giornale “La Difesa”.
Fu docente (probabilmente di lingua francese) fino al 1909 a Venezia nelle classi ginnasiali; poi per cinque anni insegnò varie materie nel Collegio Canova di Possagno. Nel 1914 passò di nuovo a Venezia, dove fu (dopo due anni, e per nove anni) prefetto delle scuole (preside), durante anche i difficili anni della prima guerra mondiale. In questo periodo era difficile mantenere aperta la scuola, perché molti insegnanti laici – e anche religiosi Cavanis – erano al fronte, e molti studenti, dopo la disfatta di Caporetto e fino a ben dopo la vittoria di Vittorio Veneto, erano fuggiti con la famiglia in un incerto profugato. Eppure l’Istituto Cavanis fu la scuola che mantenne in proporzione il maggior numero di allievi, durante tutto il corso della guerra, rispetto a tutte le scuole elementari e medie della città di Venezia.
Il necrologio della Congregazione dice di lui che fin dall’adolescenza si distinse per il suo spirito acuto e una grande misericordia. Si dedicò anima e corpo all’educazione dei giovani per più di quarant’anni, a Possagno e a Venezia. Pur dedicandosi alla scuola non mancò mai di dedicarsi proficuamente agli impegni e alle principali cariche che ricoprì in Congregazione: fu, come si diceva, prefetto delle scuole di Venezia; poi consigliere generale (definitore), preposito generale, e quindi anche rettore della casa di Venezia durante gli anni del suo mandato di preposito. Dotato d’ispirazione poetica, pubblicò delle poesie e dei salmi scritti in italiano e in latino con uno stile molto elegante. Un suo grande merito fu quello di essere stato il fautore e praticamente il fondatore dell’associazione degli ex-allievi nel 1922, alla cui crescita contribuì in tutti i modi, in particolare con il notiziario/bollettino “Charitas”, di cui fu il fondatore.
IL CHARITAS E GLI ALTRI PERIODICI DELL’ISTITUTO CAVANIS
Il Charitas all’inizio, dalla sua fondazione nel 1922 (il vol. I, n°1 è del 2 maggio 1922) e fino alla fine del 1933, fu la rivistina della sola Associazione Ex-allievi dell’Istituto Cavanis. Il titolo, completo di sottotitolo, era: “Charitas. Periodico semestrale. Organo dell’Associazione Ex-Allievi dell’Istituto Cavanis”. Più tardi, a partire dal 1934, dalla fusione di questo bollettino degli Ex-Allievi, Charitas, del “Nostro Foglietto”, che era l’organo di comunicazione della Congregazione Mariana, e de “Il Lievito”, che era un foglietto del Collegio Canova di Possagno, uscito per la prima volta nel giugno 1929, nacque la rivista Charitas vera e propria, il cui nome completo all’inizio (dall’Anno I, N°.1, Gennaio-Febbraio 1934) era: “Charitas – In Charitate Christi radicati et fundati. Bollettino Bimestrale degli Istituti delle Scuole di Carità Cavanis”. Esisteva anche il bollettino « Piccoli fiori della Madonna del Carmine » edito dal seminario minore o probandato di Possagno. Di quest’ultimo bollettino era uscito il 1° numero il 25 marzo 1925. Il fatto che la rivista Charitas sia stata iniziata due volte, il 2 maggio 1922 e il gennaio-febbraio 1934, crea un serio problema di citazioni. La rivista che inizia nel 1934 dovrebbe, essere citata con l’aggiunta della sigla N.S. (=nuova serie), almeno per i primi 12 anni, dove c’è difficoltà di distinguere una rivista dall’altra.
Si veda in proposito l’articolo breve del Charitas, in forma di annuncio, qui di seguito riprodotto:
“AVVISO IMPORTANTISSIMO
TRASFORMAZIONE DEL BOLLETTINO
Nella considerazione dello sviluppo che, grazie alla Provvidenza, hanno ormai raggiunto le varie forme d’attività dell’Istituto, i Preposti a questo sono venuti alla determinazione di adottare un unico bollettino, che fondendo la cerchia di lavoro e di diffusione dei singoli finora in corso per 1’Associazione ex allievi, per la Congregazione Mariana, per la vita dei due Collegi di Possagno e di Porcari, consegua lo scopo di recare a tutti i figli dell’Istituto, ai benefattori e agli amici di esso, alle famiglie di alunni ed ex alunni, la voce della cronaca sia ufficiale che familiare, e inoltre di una direttiva morale che sia quasi la continuità dell’opera educativa svolta nell’ambito delle sue scuole.
Mentre per la parte tecnica e redazionale si sta provvedendo con accordi fra le parti in collaborazione, è ormai fissato un tipo di soddisfacente rivista, che uscirà ogni due mesi, recando il nostro fatidico e felicemente provato titolo: « Charitas ».
Agli affezionati soci la Redazione, che è per cedere o meglio per unire il passo al nuovo promettente organismo, invia il suo saluto più cordiale ed il ringraziamento più vivo per la simpatia e l’appoggio che le si volle dimostrare, sotto due degnissimi Direttori, nel consolante periodo di ormai dodici anni dalla fondazione del Charitas quale organo della nostra associazione Ex Allievi.
Majora et melíora fata trahunt.”
P. Giovanni Rizzardo fu eletto preposito generale, per un triennio come era di regola all’epoca, nel 12° capitolo generale ordinario, il 2 luglio 1928, succedendo al P. Agostino Zamattio, in una forma piuttosto discutibile. P. Rizzardo partecipava al capitolo di diritto, in qualità di definitore. Nella prima fase delle elezioni, secondo il costume dell’epoca, è eletto P. Rizzardo secondo definitore. Eletti i cinque definitori, pure secondo il costume e a tenore della regola 175 di quel tempo, è proposto in primo luogo alla votazione per preposito dal preside del capitolo (cioè l’anziano, in questa prima fase, fino all’elezione avvenuta del preposito) il primo definitore eletto, che era il P. Giovanni D’Ambrosi. La votazione, effettuata per fabas cioè con le palline bianche e nere, sul nome di P. D’Ambrosi, viene ritenuta inconcludente, perché questi riceve quattro voti favorevoli su sette votanti: “Il P. Giovanni D’Ambrosi non è eletto, non avendo raggiunto la maggioranza assoluta, a norma del Can. 101 del Codice di diritto canonico”. Si è trattato di una svista colossale, perché 4 voti su 7 votanti è maggioranza assoluta (anche nel cn. 101 del CJC del 1917), e quindi l’elezione di P. Giovanni D’Ambrosi a preposito generale era assolutamente valida.
Viene proposto allora il nome del secondo definitore, ossia P. Giovanni Rizzardo, pure per fabas, e questi ottiene sei voti favorevoli su sette, ed è proclamato eletto. Da notare, di passaggio, che, a memoria di chi scrive, P. Giovanni D’Ambrosi mai si lagnò di questo fatto, né il fatto fu divulgato da lui o da altri, che io sappia. Altri lo avrebbero fatto.
Qualche dettaglio sul mandato di P. Giovanni Rizzardo:
Il Diario di Congregazione durante questi anni del suo mandato, scritto in bella scrittura dal P. Rizzardo, è piuttosto disordinato, con poca precisione ed esattezza nelle date, che a volte bisogna calcolare con l’aiuto di un calendario universale; inoltre il testo è prolisso e inconcludente, senza eventi che meriti di riportare. Si dà un’eccessiva importanza alla descrizione dettagliata delle celebrazioni liturgiche, delle feste del preposito, delle visite e convenienze sociali, e con un eccessivo e continuo riferimento alla posa della lapide dei caduti lungo tutto il 1928 e oltre.
Il 10 dicembre 1928 c’è nel Diario di Congregazione l’interessante notizia dell’installazione del telefono in Istituto a Venezia, e di quella del termosifone (cioè del riscaldamento centrale) nelle scuole e negli ambienti di comunità di Venezia.
Nell’anno scolastico 1928-29, dall’autunno, si decide, su proposta del P. Preposito, di separare i novizi dai chierici di teologia, alleviando così la fatica del maestro dei novizi, e rendendo i chierici più vicini alla comunità dei padri e più maturi, con un piano diverso di formazione. Agli studenti o chierici, che sono sei, dei quali però due sono assegnati a Possagno, quindi sono solo quattro residenti a Venezia, viene assegnato metà del terzo piano della residenza dei padri, “in quella parte che va dal gabinetto alle scale”; nominarono maestro dei teologi P. Basilio Martinelli.
Nel febbraio 1929 si tennero particolari attività in occasione della festa giubilare del papa Pio XI e soprattutto per far apprezzare in Istituto e ai ragazzi e giovani l’evento della Conciliazione, ossia dei Patti Lateranensi. L’attività principale fu quella del grande pellegrinaggio a Roma e l’udienza con il papa Pio XI, tra l’11 e il 16 maggio 1929. Di questo tema si è parlato con una certa ampiezza nel capitolo sulla situazione dell’Istituto Cavanis nell’Italia del suo tempo, tra le due guerre mondiali.
Attorno al 10 giugno 1929 uscì il primo numero “del giornaletto “Lievito”, organo del Convitto Canova di Possagno, il quale, come è detto nella presentazione che ne dà il Rettore, P. D’Ambrosi, ‘avrà per iscopo d’espandere il regno dei cieli nel cuore di voi, giovani collegiali, ora e poi; specialmente durante le autunnali vacanze, più ancora dopo l’uscita dal Collegio, sempre’”.
L’anno successivo, il 30 marzo 1930 P. Rizzardo scrive: “Ieri uscì e questa mattina dovette essere recapitato il N° 1 del Charitas, sotto la nuova redazione del P. Mario P. Andreatta (sic), curandone la stampa la Libreria Emiliana Quod bonum faustumque sit.
Sotto Papa Pio XI, nel 1930, finalmente si provvide a redigere e a far approvare le Emendationes (Emendamenti) delle costituzioni, per adattarle convenientemente dopo la pubblicazione del nuovo Codice di diritto canonico (1917). Il libretto degli emendamenti sarà unito in un unico volume con le costituzioni in seguito (1954). Le costituzioni approvate dalla S. Sede giunsero a Venezia il 4 giugno 1930 e furono stampate nella tipografia S. Marco nei mesi di luglio-ottobre 1930.
Il 14 maggio 1931, nel 15° centenario del concilio di Efeso, che si potrebbe più tecnicamente chiamare sesquimillenario, si pose sul muro est del cortile di ricreazioni a fianco della chiesa di S. Agnese il bassorilievo della “Mater Dei”, di cui si è parlato nel capitolo sulla casa di Venezia; si vuole ricordare qui che si è trattato anche di una iniziativa di livello della comunità generale. Nell’occasione del centenario suddetto, tra l’altro, il preposito, accompagnato da due fratelli laici (fra Ausonio Bassan e fra Vincenzo Faliva) compì un pellegrinaggio a Roma (16-23 maggio), dove ebbe un’udienza con il Papa Pio XI; lo scopo del viaggio era di rappresentare la Congregazione nelle “grandi celebrazioni Romane di questi giorni, commemorative dei due fatti religiosi-sociali: il 40° anniversario dell’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, e il 15° centenario del Concilio di Efeso”.
P. Rizzardo ricorda, nella sua relazione al Capitolo generale ordinario del 1931, di essersi recato tre volte ai piedi del sommo Pontefice [Pio XI]; come pure le cinque ordinazioni presbiterali avvenute per grazia di Dio nel triennio: quelle dei padri Tamanini, Antonio Cristelli, Gioacchino Sighel, Angelo Sighel, Riccardo Janeselli.
Nello stesso anno 1931, il 20 gennaio, P. Giovanni Rizzardo ricorda nel diario che aveva voluto commemorare il 50° dell’inaugurazione della nuova casa di residenza per la comunità di Venezia, avvenuta il 20 gennaio 1881. Nell’occasione, aveva anche raccolto una serie di scritti, poemi e altri testi nella collettanea: “Profili di Educatori dell’Istituto Cavanis nelle memorie di discepoli e figli riconoscenti”.
Il P. Giuseppe Borghese, discreto, ossia delegato, della comunità di Venezia al capitolo generale straordinario del 1930, nella sua lunga lista di ben undici proposte (datata del 4 giugno 1930, ma presentata al capitolo generale il 9 luglio successivo) manifesta prima di tutto la preoccupazione di quella comunità per la salute del preposito generale P. Rizzardo, che era anche rettore della casa di Venezia, con la frase seguente. “La salute del Reverendissimo Padre Preposito Generale si va accentuando nel suo deperimento fisico. La famiglia di Venezia, che apprezza e ama il suo Superiore, desidera che sia assicurata la sua preziosa esistenza. Prega perciò con tutto rispetto, il Venerando Capitolo Generale straordinario di pigliare seriamente a cuore la cosa e di provvedervi in modo efficace”.
La proposta della comunità di Venezia, nel contesto, ci dice che essa non era solo preoccupata per la salute del preposito P. Rizzardo; ma che si trovava in difficoltà anche per il fatto di avere un rettore (oltre che Preposito) di carattere molto difficile e con i nervi fortemente scossi. Ne può essere di esempio la grave crisi dello studentato o seminario maggiore, allora a Venezia: a metà anno accademico P. Rizzardo interruppe il corso, sospettò che ci fossero da parte dei chierici “fra di loro intese o complotti” contro di lui; disse ai chierici più volte che il loro comportamento gli abbreviava la vita. Alcuni chierici furono “dislocati” nelle case di Possagno e Porcari, con grave danno per la loro formazione, anche se poi, per la grazia di Dio e nella fattispecie, ne risultarono degli ottimi religiosi. Il preposito incaricò P. D’Ambrosi di intrattenersi con tutti i chierici, e di scoprire che cosa stesse succedendo. Questi, pur essendo tendenzialmente molto severo, secondo il ricordo personale di questo autore, dopo aver realizzato quanto richiesto, scrive una lettera dolcissima al P. Rizzardo, assicurandolo della bontà e della fedeltà dei chierici, come pure del loro pentimento di aver causato in qualche modo sofferenza nel loro superiore generale. Eccone un breve stralcio:
“Ci fu persino il Ch° [=chierico] Gioacchino, che con un nodo di pianto ebbe a dire che soprattutto restava addolorato al pensiero che la loro condotta potesse abbreviare la vita al Superiore, come questi s’era più volte espresso con loro”.
La lettera di P. D’Ambrosi più volte citata porta due annotazioni manoscritte: la prima a lapis, a mano del P. Rizzardo e firmata da lui, che scrive di traverso “Esagerazione” sopra le righe che riguardano la “confessione” del chierico Gioacchino Sighel; la seconda a penna, di P. Aldo Servini, dichiara in calce: “Per la verità storica. Confermo che abbiamo tutti sofferto moltissimo per le esigenze impossibili del Preposito perché non riuscivamo a capire che cosa volesse. Il suo sistema nervoso non doveva essere più del tutto normale. 24.XII.1983. P. Aldo Servini”.
Il 13° capitolo generale ordinario del 1931 si svolse in due sessione distinte, la prima il 30 giugno-1° luglio 1931, la seconda il 24 luglio 1931 e fu un capitolo elettivo caratterizzato dal grande numero di scrutini necessari per l’elezione di quasi tutte le cariche.
P. Rizzardo all’inizio, per l’elezione del primo definitore, ricevette durante tre successivi scrutini sempre lo stesso numero di voti (3) che stava ricevendo il più giovane P. Aurelio Andreatta (3). Quindi parità per tre scrutini. Risultò eletto in questa fase e a questa carica, cioè di primo definitore, P. Rizzardo, per anzianità, perché “seniore per professione”. Al momento in cui, eletti i cinque definitori, secondo il costume dell’epoca, si procedette all’elezione del preposito, P. Rizzardo si mostrò subito inferiore al P. Andreatta per numero di voti: tre voti per P. Rizzardo e quattro per P. Andreatta su sette capitolari presenti. La situazione mutò nel secondo scrutinio, e nel terzo, ma senza che si riuscisse ad eleggere il preposito. Si tenne allora un quarto scrutinio, in cui avevano voce passiva solo i padri Rizzardo e Andreatta, per ballottaggio, e fu scelto come preposito mediante postulazione (per difetto di età, avendo 38 anni anziché 40) P. Aurelio Andreatta, con 4 voti a 2, cioè con i due terzi prescritti per la postulazione.
A 62 anni, P. Giovanni Rizzardo venne stroncato da una breve ma violenta malattia, volle ricevere l’eucaristia inginocchiato sul pavimento, anche se morente, e spirò serenamente a Possagno, verso la fine del giorno della memoria della natività della Vergine, l’8 settembre 1943. Il necrologio ufficiale della congregazione commenta che: “I vecchi alunni delle nostre scuole, memori dei benefici, raccolta l’offerta, stabilirono in perpetuo annuali suffragi per l’amatissimo Maestro e Padre.”
Un bel ritratto del P. Rizzardo, dipinto dal grande pittore veneziano Alessandro Milesi si trova nella galleria dei quadri dei prepositi generali a Venezia.
UN POETA NOTTURNO
P. Giovanni Rizzardo era poeta, o almeno scriveva versi. Di lui si racconta che, quando si sentiva ispirato ed era in fase creativa, cominciava a scrivere dopo cena, e continuava fino ad aver terminato il poema.
A quel tempo e fino a tempi recenti, diciamo fino agli anni ’70 del secolo scorso, i religiosi in genere non avevano una sveglia personale e c’era nelle comunità italiane un fratello laico o altro religioso più mattiniero incaricato di passare, alle cinque e un quarto o cinque e mezza, nei corridoi e bussare alla porta dei religiosi per svegliarli e invitarli alla preghiera della comunità, dicendo “Sia lodato Gesù Cristo!” Il religioso, anche per dar segno di vita, rispondeva “Sempre sia lodato!”. E si alzava. Si diceva allora privatamente una bella preghiera, che spesso recito ancora: “Voglio discendere dal letto per amor vostro o mio Dio, che siete disceso dal cielo in terra per amor mio”.
Si racconta che qualche volta, quando l’incaricato bussava alla porta di P. Rizzardo per svegliarlo, questi, invece di rispondere: “ Sempre sia lodato!”, diceva: “Avanti! Che cosa c’è?”. Era così preso dalla foga poetica, che non si accorgeva di aver passato tutta la notte a poetare anziché a dormire, e credeva fosse ancora sera.
4. Il ventennio fascista
“L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani”, diceva, a quanto pare, Massimo D’Azeglio, cui il detto è generalmente associato, con riferimento all’evento unitario del 1861. Questo era il problema non solo per l’Italia, ma anche per altri paesi nuovi, come per esempio la Germania: paesi nati, come stato unitario, a partire dall’unione di molti stati più piccoli e più antichi, in tempi ben più recenti in rapporto alla Francia, alla Spagna, all’Inghilterra. All’inizio del XX secolo si tentò di far crescere questi popoli, e il popolo italiano in particolare, attorno a un ideale nazionale che diveniva facilmente un’ideologia nazionalistica e autoritaria.
In Italia questo accadde già nel decennio del governo di Crispi (1887-1896), che aveva cercato di riunire le classi alte e medie d’Italia attorno a un sistema autoritario, per mezzo d’ideali nazionalisti, militaristi, colonialisti, imperialisti; ma soprattutto dopo la prima guerra mondiale, una guerra dalla quale, come si è visto, l’Italia era uscita vittoriosa, ma anche sfiancata dalla fatica bellica e umiliata dai suoi stessi alleati.
In tutta Europa del resto, accanto e in opposizione a partiti e gruppi ispirati dal socialismo, stavano sorgendo movimenti politici di tipo reazionario, che facevano leva sulle classi sociali medio-basse, come insegnanti, impiegati pubblici, piccoli commercianti, artigiani e tecnici, addetti ai servizi terziari, e spesso anche sulle masse popolari. Ciò che accomunava in tutta Europa questi movimenti, dalla Francia alla Germania, all’Italia, alla Turchia, era un nazionalismo radicale, militarista, un’esaltazione epica della violenza e della guerra, un insieme di paura e di odio rispetto alle masse operaie organizzate nella linea socialista e, molto più tardi, comunista; e spesso (ma non particolarmente in Italia) anche da un viscerale antisemitismo.
Movimenti e partiti di questo tipo reazionario sorsero dopo la guerra del 1914-19 in numerosi paesi: Ungheria (1919), Bulgaria (1923), Grecia e Polonia (1926), Jugoslavia (1929) e poco dopo la Romania; Portogallo (1926) e Spagna (dal 1923).
Ma il vero laboratorio dell’alternativa reazionaria e autoritaria postbellica, che ebbe una grande influenza su tutta l’Europa, fu l’Italia, che si può purtroppo chiamare, in qualche modo, la madre e l’ispiratrice del fascismo, dei fascismi, e indirettamente anche del nazismo.
Don Luigi Sturzo (1871-1959), prete, fondatore del Partito Popolare Italiano (1919), senatore della repubblica italiana a vita, ebbe fin da principio una visione chiara della situazione del paese, nella crisi definitiva dello stato liberale e nella fase di rapida formazione e fondazione del partito-milizia, poi dello “stato nuovo” fascista:
“Dall’armistizio ad oggi, nel decadimento del pensiero liberale democratico, questo stato atomico, centralizzatore, burocratico, portato oggi alla esasperazione, viene assalito da tre forze: – il socialismo, fatto forte dai dolori della guerra prese un’idea mitica, apocalittica, internazionale: la dittatura economica e politica del proletariato; e predicò e predisse la rivoluzione: la sua predizione e la sua predicazione sono cadute, ma la forza negativa ancora è salda nella fiducia delle masse organizzate; – il popolarismo sorse e si affermò in partito di massa saldo e vigoroso; negò la rivoluzione, ammise la costituzionalità dello stato, ma ne volle la riforma organica dal centro alla periferia, dal sindacato al senato; – il fascismo negò lo stato liberale e la sua autorità, creò l’organizzazione e l’azione della forza anche con le armi, più per sostituirsi allo stato borghese contro comunisti e socialisti, che come costruttore di un pensiero che fin oggi sembra sostanzialmente liberale e conservatore nella sua fase anarcoide; però comunque tenda a svolgersi e a consolidarsi questa forza giovane, è anch’essa contro lo stato democratico, parlamentarista, accentratore. E tutte e tre queste forze, nelle contese e nei contatti, maturano nuovi atteggiamenti che accelerano i fenomeni di crisi dell’oggi, tendono a variare le basi dell’ordinamento statale, nella sua costruzione economica, giuridica e organica, nello sviluppo di nuove forze o di nuove idealità, nel fermento di una gioventù che si rinnova.”
Il fondatore del fascismo italiano fu Benito Mussolini (1883-1945), nato a Predappio (Forlì-Cesena), in Romagna, anticlericale anzi probabilmente ateo, in origine membro del Partito socialista, poi espulso perché interventista, a favore dell’entrata dell’Italia in guerra nel 1915. Mussolini nel 1919 aveva fondato i “Fasci di combattimento”, un’associazione radicale e violenta di reduci, di studenti, di piccoli e medi borghesi, che puntava a una rivoluzione politica, lottava contro il socialismo e il bolscevismo, prometteva il raggiungimento di gloria alla patria, il lavoro per tutti, spazio vitale all’estero; in un modo per il momento piuttosto vago e velleitario.
Due anni dopo, i fasci divennero uno strumento di azione violenta e concreta, appoggiato e strumentalizzato dai grandi proprietari e industriali per castigare e sottomettere operai e contadini.
Lo stato italiano e anche la chiesa cattolica, dopo il cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920), erano più preoccupati dai sindacati e dalle leghe contadine, dal comunismo e dal possibile bolscevismo, che da questa nuova aggregazione che pur dichiarandosi rivoluzionaria, era di stampo in fondo conservatore; e stimavano che i fasci fossero solo un fenomeno passaggero, che francamente faceva anche comodo.
Stato e chiesa non compresero a tempo che i Fasci di Combattimento erano in realtà un movimento eversivo, che, in un’Italia indebolita dalla prima grande guerra, frustrata, in crisi economica, condotta fino allora da governi molto deboli ed effimeri, intendeva rovesciare lo status quo e costruire una dittatura. Mussolini riuscì a coinvolgere il malcontento di un numero sempre crescente d’italiani e a organizzare una riuscitissima e imponente marcia su Roma dei fascisti armati (28 ottobre 1922). Il successo di quest’ultima forzò il debole re Vittorio Emanuele III a offrire a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo.
Senza volerlo, avevano collaborato alla presa di possesso del paese da parte dei fascisti anche le sinistre, con la loro triste e costante litigiosità, cioè la natura fortemente ideologica del dibattito politico, che ne indeboliva, e ne indeboliscee fraziona ancora oggi, la causa.
Aveva capito meglio il pericolo costituito dal fascismo, ancora nel 1922, un anonimo articolista di “La Stampa” (18 luglio 1922) che scriveva acutamente che il fascismo “è un movimento che tende con tutti i mezzi a impadronirsi dello Stato e di tutta la vita nazionale per stabilire la sua dittatura assoluta ed unica. Il mezzo essenziale per riuscirvi è, nel programma e nello spirito dei capi e dei seguaci, la completa soppressione di tutte le libertà costituzionali pubbliche e private, che è quanto dire la distruzione dello Statuto e di tutta l’opera liberale del Risorgimento italiano. Quando la dittatura fosse stabilita in modo che non una istituzione potesse esistere, non un atto compiersi, non una parola pronunciarsi se non di totale dedizione e obbedienza al fascismo, allora questo sarebbe disposto a sospendere l’uso della violenza, per mancanza di obiettivo, riservandosi sempre di riprenderlo al primo cenno di rinnovata resistenza.”. Si poteva dunque capire, ma pochi di fatto capirono. Anche nell’Istituto Cavanis, come diremo poi, alcuni ebbero almeno un barlume di questa comprensione, la maggioranza, no, ovviamente, come avveniva del resto per la maggioranza della popolazione italiana e delle persone di chiesa..
Ottenuto il potere, con la simpatia delle forze armate, della maggioranza degli imprenditori, degli industriali, dei grandi proprietari terrieri e anche – ahimè – del papa e di buona parte dell’episcopato nazionale, Mussolini – che prese ben presto per sé il titolo di “Duce” – instaurò un tipo nuovo di dittatura: il fascismo. In soli quattro anni sovvertì la società italiana, rispettandone la forma monarchica in modo superficiale ma in realtà marginalizzando il re e la corte; cancellò le libertà, sciolse i partiti, creò il partito unico ossia il marcia su Roma, controllò pesantemente la stampa, istituì tribunali speciali che perseguitarono e condannarono o inviarono al confino migliaia di oppositori del regime, sostituì i sindacati, principalmente socialisti e cattolici, con una Confederazione dei sindacati fascisti, in forma di corporazioni, più tardi (1934) riunite e unificate nel ministero delle corporazioni.
Il saluto fascista o romano e il passo dell’oca divennero parte dello stile fascista, come le camicie nere, i fez neri e tante altre mode e modismi e tutta una retorica. Dietro questa facciata esisteva e cresceva tutta una mistica e una mitologia, una sistematica e confessata violenza omicida, una pseudo-liturgia e una filosofia e, ancor peggio, tutto un programma regolarmente compiuto di educazione fascista – si direbbe meglio diseducazione – della gioventù.
Intanto squadre di picchiatori, gli squadristi, percorrevano il paese, tipicamente armati di bastoni, di manganelli e di bottiglie di olio di ricino, ma senza esclusione di armi da fuoco, terrorizzando gli oppositori e scoraggiando ogni attività politica e culturale non autorizzata o contraria al regime.
Si trattava di una violenza organizzata, efficace, che contava anche con il tacito accordo della polizia e delle forze armate, e del silenzio colpevole e cieco dei partiti liberali e anche, in genere, della Chiesa. Più tardi le squadre d’azione dei picchiatori confluirono in una “Milizia volontaria per la sicurezza nazionale” , che agiva con gli stessi metodi e che rispondeva soltanto a Mussolini. L’assassinio di Giacomo Matteotti (1924), deputato socialista che aveva avuto il coraggio di denunciare i brogli elettorali da parte fascista, entra in questo schema di violenza organizzata; come vi entrano anche l’uccisione di altri politici, sindacalisti, preti, per esempio don Giovanni Minzoni (Ravenna, 1º luglio 1885 – Argenta, 23 agosto 1923), parroco di Argenta (Ferrara), in Romagna.
All’Italia fascista guardavano come fonte ispiratrice, a questo punto, molti paesi d’Europa che aveva realizzato una svolta autoritaria; e particolarmente la Germania, dove, nella debole e sempre indebitata e inflazionata repubblica di Weimar, Adolf Hitler (1889-1945), già disoccupato cronico e poi caporale dell’esercito tedesco (non austriaco) durante la prima guerra mondiale, aveva fondato l’NSDAP-“Partito nazional-socialista tedesco dei lavoratori” e riproponeva il programma del nazionalismo esasperato, del bellicismo, della vendetta e della rivalsa, come pure quello, anche più pericoloso, della purezza della razza ariana.
Il fascismo aveva anche delle buone intenzioni e dei vantaggi: una migliore organizzazione dello stato, la bonifica di ampie regioni paludose e malariche della penisola – sia pure a prezzo della distruzione di ambienti naturali utili ed interessanti –, la creazione di posti di lavoro.
Sia in Italia che in Germania, tuttavia, si sognava troppo in grande: imperi e spazio vitale. Hitler, che intanto era diventato cancelliere tedesco (1933) sognava e predicava la Grande Germania; Mussolini l’Impero Romano redivivo.
La crisi economica mondiale del 1929 e anni seguenti, nata dal tracollo del sistema bancario nordamericano, indebolì le grandi democrazie occidentali, gli Stati Uniti d’America in primo luogo, e le resi più fragili e meno capaci di resistere agli stati totalitari. Proprio in quegli anni, Hitler con il suo partito nazista e con il controllo del governo tedesco aveva distrutto la Repubblica di Weimar (1933-34) e assunto il progetto dichiarato di nazificare l’Europa intera.
Mussolini, che voleva mantenere l’Italia come stato-guida del fascismo in Europa e nel mondo, reagì con una svolta totalitaria del regime, stringendo ancor più l’Italia in una rete di controllo e di indottrinamento, realizzando la conciliazione con la Chiesa e la Santa Sede, prendendo possesso quasi totale della scuola e dell’educazione della gioventù, nonostante la resistenza (operata tanto quanto era materialmente possibile) da parte di Pio XI, della Chiesa, della scuola cattolica, e, come vedremo, anche della scuola Cavanis.
La gioventù italiana si risvegliò vestita con le uniformi obbligatorie, per lo più nere e lugubri, della Gioventù del Littorio, cioè, secondo il sesso e le fasce d’età, dei Figli della Lupa, dei Balilla, degli Avanguardisti, delle Piccole italiane, Giovani italiane, Giovani fasciste, dei Gruppi universitari fascisti-GUF e così via.
Il regime fascista si decise anche a portare avanti la costruzione dell’impero in Africa, o meglio in quello che restava dell’Africa dopo che tanti stati si erano già impadroniti delle prede più interessanti. Si trattava di un dominio coloniale che comprendeva la Libia, l’Eritrea, parte della Somalia, nell’ambito del vicereame dell’AOI, cioè nell’Africa Orientale Italiana; dominio che si voleva ora aumentare invadendo l’Etiopia, antico stato legittimo, tra l’altro membro della Società delle Nazioni, tra l’altro cristiano, nell’ottobre del 1935 e occupandola, in quella che fu l’ultima guerra coloniale europea di aggressione e occupazione. Lo si fece in pochi mesi, fino al maggio 1936, con dispiegamento di mezzi e con metodi feroci, servendosi anche di armi chimiche.
Il 9 maggio 1936 il Duce proclamò l’Impero coloniale italiano, nel quale il re Vittorio Emanuele III era imperatore d’Etiopia, oltre che re d’Italia e d’Albania. Per ben poco tempo!
L’Italia fu colpita da sanzioni di blocco economico da parte della Società delle Nazioni. Sviluppò allora un’economia d’autarchia, ossia cercò di essere del tutto autonoma nella produzione di tutti i beni. Era in effetti una economia e una situazione di guerra, dalla quale l’Italia non uscì più fino al maggio del 1945.
La guerra per l’impero africano aveva lo scopo di creare dello “spazio vitale” per l’economia italiana e per i suoi mercati, di offrire una possibilità di lavoro ai contadini e ai molti cittadini italiani disoccupati e/o costretti all’emigrazione; aveva anche l’obiettivo morale di “rispondere alla vocazione imperiale di Roma”, come si diceva con poco realismo e con molta insana fantasia. Ma la guerra corrispondeva anche alla necessità di tutti i dittatori, quella di distogliere il popolo dalle preoccupazioni della miseria di tutti i giorni e dalle critiche al governo, cercando di unificare il paese nella retorica nazionalista e bellicista e nei sogni di gloria.
Intanto, un primo scontro a livello internazionale tra mondo fascista e mondo liberale (e anche comunista) trovò il suo terreno di test nella guerra civile di Spagna (1936-1939), cominciata, a livello interno spagnolo, per difendere il governo legittimo spagnolo dall’attacco delle forze antidemocratiche del caudillo Francisco Franco, ma divenuto in seguito un crudele e tragico conflitto più ampio, nel quale confluivano volontari e gruppi organizzati da governi, dai due fianchi della barricata, fascisti e comunisti.
La guerra civile di Spagna indicava chiaramente che l’Europa era, e sarebbe stata ancor più, sottoposta alla pressione di due blocchi ideologici e militaristi opposti, eppure in molti aspetti simili: il fascismo e il bolscevismo, con le relative ideologie e pratiche totalitarie; con risvolti industriali e tecnologici. Si annunciava già la seconda guerra mondiale.
La situazione di belligeranza e le sanzioni della Società delle Nazioni, anche se queste non erano del tutto efficaci, allontanava però l’Italia fascista dalle democrazie occidentali e la costringeva inevitabilmente ad avvicinarsi alla Germania e a Hitler. Concretamente, Mussolini dovette accettare di entrare nell’asse Roma-Berlino (ottobre 1936), cioè in un blocco di stati europei fascisti, ormai dominati da Hitler, e non dal duce. Più tardi a questo asse si aggiungerà anche Tokio, rendendo allora mondiale tale blocco: era il patto “Anticominter”.
La nuova politica aggressiva della Germania nazista, a partire almeno da quella data, metteva in difficoltà il duce: egli si era sforzato finora di apparire, nella politica estera, il moderatore degli stati fascisti o comunque autoritari, l’intermediario tra Hitler e le potenze occidentali, Francia e Gran Bretagna principalmente. Ora si trovava, con l’Anschluss, cioè con l’invasione dell’Austria da parte della Germania nazista (1938), con i nazisti in casa, sul confine del Brennero. L’Italia stava diventando soltanto un satellite della Germania hitleriana, di cui era stata il mentore. Vi si aggiungerà ancora il “patto d’acciaio” tra Germania e Italia (22 maggio 1939, alla vigilia dello scoppio della guerra), un patto di amicizia e alleanza, in realtà una chiara alleanza militare difensiva e offensiva.
La stretta alleanza con la Germania nazista costrinse il duce, che di per sé non aveva una storia personale di antisemita, ad accettare anche la politica razziale dello stato nazista, e di pubblicare il “manifesto della razza” (14 luglio 1938) e le leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei. Gli italiani furono “promossi” ariani o ariano-nordici (termine assurdo da tutti i punti di vista, biologico, linguistico, storico) e cominciò sia pure in modo meno virulento che in Germania la persecuzione degli ebrei, presenti allora in numero di circa 50.000 in Italia, tutti profondamente integrati da secoli nella società italiana, italiani in tutti i sensi.
Il resto della storia del fascismo italiano ed europeo si confonde con la storia della Seconda guerra mondiale e della sconfitta dell’Italia e della Germania, tra gli altri, e con la storia della resistenza in Italia; eventi di cui si parlerà più sotto.
4.1 L’Istituto Cavanis nel periodo fascista
Nel Diario della Congregazione si comincia a parlare di fascismo nel 1923; la prima volta, forse, a pag. 73 dell’VIII volume, il 29 maggio 1923, su un tema marginale, non solo puramente burocratico ma anche politico, relativo a un tale sig. Mainetti, economo (ossia commercialista, probabilmente) del collegio Canova, che era stato nominato commissario prefettizio del comune di Crespano, ed era di famiglia fascista. Il partito nazionale fascista, PNF, come tale era nato il 7 novembre 1921, anche se i fasci di combattimento esistevano già in antecedenza.
A proposito della questione concreta ma anche teorica, P. Agostino Zamattio –preposito generale– scrive nel diario un testo significativo, che può far capire quali fossero la situazione e l’attitudine molto comuni, negli ambienti laici e in quelli ecclesiastici d’Italia, al nascere del fascismo: aderire al fascismo o almeno sopportarlo e rispettarlo era diventato praticamente comodo e a volte sembrava necessario, anche a chi, come P. Zamattio, sospettava che a questa adesione indiretta fosse soggiacente una questione etica. Ecco il testo: “Lettera del P. Basilio [Martinelli] e del P. Mario [Janeselli] da Possagno – Il P. Basilio vorrebbe che chiamassi Mainetti a Venezia. P. Mario propende a lasciar andare e attendere gli eventi. Io penso di non precipitare. Il fatto di essere fascista non significa esser in opposizione ad alcuna disposizione tassativa dell’autorità ecclesiastica. I fascisti furono encomiati da Vescovi e Cardinali. Noi restiamo estranei a ogni partito, perché la questione del Mainetti è puramente personale. Se egli in questo momento si dimette, certamente ne avrebbero gravissime conseguenze per la Casa di Possagno, la quale ha bisogno di tutto l’appoggio del governo per rimettersi finanziariamente. Sono in pendenza il risarcimento dei danni di guerra e la formazione della Colonia agricola. La via non mi sembra affatto immorale – quando tutto sarà messo a posto e si spera fra due mesi, il Mainetti darà le dimissioni dal fascio e speriamo si metta in quiete per formarsi meglio lo spirito. Il Cuor di Gesù ci guidi per non metter il piè in fallo in questa faccenda pericolosa! Lettera di Mainetti relativa a quanto sopra. Recatomi a Possagno ho potuto constatare che intorno a tal fatto vi furono molti pettegolezzi. Il Mainetti è disposto a far la piena obbedienza e troncar tutto. Ho detto intanto di attendere”.
Sarebbe stato meglio, con il senno di poi, aver interrotto le relazioni con il Mainetti già dall’inizio di giugno, come suggerito, in fondo, dalla lettera preoccupata dei padri Basilio e Mario del 3 giugno 1923. Il diario riporta il 24 agosto seguente: “Giungono notizie da Possagno allarmanti riguardo al fascismo. Il Mainetti ritornato da Milano e informato delle rivelazioni sul conto suo, riempì il paese di spavento con le sue minacce-spacconate. Tutto si risolse a parole ed ora che sembra definitivamente partito, tutto si metterà in silenzio e sarà nostra cura far dimenticare la pericolosa burrasca. Il Signore ha certamente permesso questo disordine perchè impariamo l’estrema prudenza prima di accogliere nel nostro Istituto persone non del tutto conosciute. Così pure, essendo stato messo in libertà (ovvero, licenziato) Sandro Vardanega per la sua condotta scorretta e irregolare, per vendetta suscitò una quantità di pettegolezzi contro il P. Superiore. Riceviamo tutto dalle mani di Dio. Egli compatisca alle nostre miserie e ci compensi (?) con l’allargar sempre più il bene del nostro Istituto”.
Il Diario di Congregazione del 1923 si conclude parlando ancora delle malefatte del Mainetti e, di riflesso, del fascismo. Il primo, risulta aver ingannato i padri e aver prodotto gravi ammanchi nel patrimonio dell’Istituto. P. Zamattio, preposito, parla con un tono ben diverso sul fascismo e anche sulla sua precedente attitudine.
Nel 1923 accadde però con ogni probabilità un altro problema originato dal fascismo. Non sembra infatti si possa trattare di una semplice coincidenza il fatto che proprio in quest’anno i padri Cavanis abbiano avuto difficoltà con il loro reparto Esploratori cattolici, di cui P. Zamattio, preposito, scrive alla fine di maggio (probabilmente il 30) 1923: “Da qualche anno abbiamo ospiti i giov. Esploratori del 1° Riparto nel cortile della cappella di fronte alle Scuole. La loro condotta, la disciplina, lasciò sempre molto a desiderare. Dopo carnevale io cominciai a tener loro lezioni di Religione – una volta per settimana – ma notai poca puntualità, anzi avversione; per cui decisi di venire alla decisione di riformare il Riparto, assumendolo sotto la mia diretta direzione. Scrissi due volte a monsignor Mario Vianello e non ebbi risposta. Allora dichiarai di non concedere più oltre ospitalità al Riparto. Oggi ho scritto al M.° Penso (commissario provinciale) esponendo il mio pensiero e la mia ferma volontà che il Reparto passasse sotto la diretta responsabilità del Superiore dei Cavanis, presentando un abbozzo di statuto. Non ho avuto ancora risposta, però questa sera il Prof. Ponti (Commissario Regionale) è venuto a parlarmi e dopo varie spiegazioni mi ha promesso di occuparsi lui, dandomi prima ragione e assicurandomi che il Riparto passerà sotto i PP. Cavanis. Era ora, perché in quel Riparto non si osservava più alcuna delle regole fondamentali della simpatica istituzione ed era ridotto solo ad esercizi di ginnastica, di giuochi, di gite senza l’ombra di spirito religioso e neppure della più elementare educazione”. Il 27 settembre 1923 “Fu presentato al Patriarca un abbozzo di programma pei giovani esploratori”. E il 14 maggio 1924 “Fu colta questa occasione per presentare a S. E. il primo nucleo dei giov. Esploratori del 1° Reparto S. Marco, ricostituito con assoluta dipendenza dal nostro Istituto”; e il 6 luglio successivo: “Oggi si è solennemente inaugurato il 1§ Riparto giov. Esploratori. Oratorio alle 8 ½ . Si cantarono le litanie e poi, preceduti da rappresentanza di altri riparti con bandiere e gagliardetti, entrarono i nostri 25 primi scouti (sic), i quali entrarono in banchette entro il Presbiterio, mentre le rappresentanze si posero nelle prime banche”. E si continua a descrivere in dettaglio la celebrazione liturgica e poi quella ginnastica in cortile.
Ora, proprio nel 1923, il problema a Venezia riguardava non solo il 1° reparto, ospitato dai Cavanis, ma tutti gli Scout cattolici, e nel 1926 vi furono addirittura vere aggressioni contro gli esploratori di Burano, al punto che il Patriarca La Fontaine minacciò due volte di dar le dimissioni da patriarca di Venezia e ricorse ad autorità governative e del partito fascista a Roma. Vi furono del resto attacchi anche ad altre associazioni cattoliche giovanili, dal 1923 al 1926. “All’interno del clima di normalizzazione e di primo smantellamento delle opposizioni succeduto all’avvento al potere del fascismo, un primo duro attacco contro gli esploratori cattolici veneziani era stato portato nel febbraio 1923. Il 3, in conseguenza al decreto istitutivo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, il prefetto di Venezia aveva emanato una circolare “che impediva – accomunandoli coi Partiti Politici – gli Esploratori Cattolici, vietando quindi, che i giovani potessero appartenere a quel corpo dopo i 16 anni. L’ordine era motivato; “perché gli Esploratori sono a servizio di un partito politico”.
Dopo questo primo accenno al fascismo, del resto limitato esplicitamente solo a un caso personale, quello dello squadrista Mainetti, e dei suoi cattivi influssi sull’Istituto di Possagno, di cui era commercialista, non si parla più di fascismo per ben sei anni, nel diario di Congregazione, né in bene né in male. Si riprende a parlarne però il 24 marzo 1929, da parte del preposito P. Giovanni Rizzardo, in modo piuttosto significativo, e corrispondente alla sua predisposizione nazionalistica. Scrive così: “In questo stesso giorno [24 marzo 1929] ebbero luogo in tutta Italia le elezioni dei Deputati, secondo la lista compilata dal Gran Consiglio del Fascismo. La mia assenza da Venezia m’impedì naturalmente di recare il mio povero voto, che sarebbe stato affermativo, conforme i criteri adottati, per le attuali importanti contingenze, dalle dirigenti Autorità Ecclesiastiche, con interpretazione sicura della stessa mente del S. Padre”.
Bisogna tener conto dell’obbligatorietà delle attività fasciste nelle scuole anche non statali italiane. Per esempio, P. Aurelio Andreatta, preposito e rettore della casa di Venezia, scrive nel Diario della Congregazione: “Oggi con la funzione religiosa si dà inizio al nuovo anno scol.co. La Messa è celebrata dal Preposito, che rivolge agli alunni, molto numerosi, parole di circostanza. Il giorno successivo, nel cortile, ha luogo la cerimonia civile, secondo le tassative prescrizioni ministeriali alla presenza di un gerarca fascista. Parla in modo molto pratico il Prefetto delle Scuole, P. Giov. B. Piasentini”.
Il pilo marmoreo dell’alzabandiera al Collegio di Possagno, in forma di fascio, nel cortile prospiciente il Tempio, fu inaugurato e forse benedetto a fine maggio 1936.
Nella celebrazione religiosa e civile per la posa della lapide agli ex-allievi dell’Istituto Cavanis di Venezia, caduti nella grande guerra, nel decennale della vittoria (4 novembre 1928), verso la fine della celebrazione “… cominciò davanti ad essa [lapide] la sfilata dei 500 alunni dell’Istituto che passando salutavano romanamente.” Non mancava sul palco il ritratto del duce, accanto al crocifisso e al ritratto del re. “Marcia Reale e Giovinezza salutarono infine l’uscita delle Autorità dall’Istituto” . Si aveva l’impressione che la posa della lapide dei caduti e le prime celebrazioni del giorno della vittoria (4 agosto) fossero eccessivamente messe in risalto, con un tono nazionalistico e forse filo-fascista, specie dal P. Giovanni Rizzardo, compilatore del Diario di Congregazione in questi anni; si nota però un cambio di attitudine a partire dal 1930: “4, Festa della Vittoria – Vacanza, per la festa nazionale della Vittoria. Le disposizioni per le pubbliche cerimonie sull’argomento, non ci parvero inserire la partecipazione ufficiale delle scuole. Perciò non inviammo quest’anno rappresentanze con bandiera. Un Mazzo di fiori disse il sempre memore pensiero davanti alla lapide dei caduti. Domani non sarà il caso d’alcuno strascico commemorativo coi nostri alunni”. Si ha l’impressione di un netto cambiamento di linea, da parte di P. Rizzardo, sul finire del 1930, che andrebbe approfondito. Forse, come Pio XI e come il card. Patriarca La Fontaine già dopo gli attacchi delle squadre fasciste alle associazioni cattoliche, già in atto a Venezia e in particolare nell’isola di Murano contro le sedi degli esploratori (scout) cattolici fin dal 1923, e tanto più contro l’Azione cattolica e la F.U.C.I. nel 1931, i sentimenti verso il fascismo si andavano notevolmente raffreddando.
Sarebbe anche interessante scoprire, cosa che finora non ci è riuscita, se l’interruzione e la successiva riorganizzazione dell’antica sezione esploratori Cavanis, accaduta nell’intervallo 1923 e 1926, è stata dovuta ad attacchi fascisti alla nostra sezione esploratori.
D’altra parte, a partire dal 1932, nel Charitas si trovano varie fotografie con didascalie del genere: “La centuria degli Avanguardisti delle Scuole Medie, col loro istruttore allievo ufficiale Rodolfo Smeraldi”, con una cinquantina di studenti Cavanis (di Venezia e di Possagno, secondo i casi) in camicia nera e con tutta l’uniforme fascista. Si noti che tale Centuria aveva anche la sua sede in Istituto, e, a Venezia, si era accaparrato niente meno che la sala che era sede della direzione delle scuole prima dell’era fascista, e lo è stata anche in seguito, fino ad oggi. Si legga qui sotto in proposito il box speciale con un articolo del Charitas particolarmente sgradevole, ma strettamente storico su questo argomento.
Il Charitas dell’anno I (N.S.)(1934), 5, settembre-ottobre 1934, a pag. 171, tuttavia, annunzia che “Il fatto più importante è stato il passaggio delle nostre Centurie avanguardisti e balilla alla 571ª Legione Marinara “F. Morosini”, e quindi l’unione dei nostri reparti in una Coorte, la V Coorte Marinara “Istituto Cavanis” “. Si sa che questo passaggio era stato propiziato sia dal fatto che i Cavanis da anni si dedicavano anche all’educazione e all’assistenza spirituale dei marinaretti della nave-scuola Scilla; sia perché questa trasformazione da Centuria a Coorte Marinara permetteva ai padri un maggiore controllo delle attività (e dell’educazione soprattutto) e una qualche maggiore autonomia.
Del resto, in fatto di attività militaristica, già nel 1931, e più esattamente il 7(?) aprile, tre padri (Mario Janeselli, Vincenzo Saveri e Antonio Eibenstein, con 25 giovani delle ultime classi del liceo Cavanis di Venezia, erano riusciti a partecipare a esercitazioni aereo-navali in Adriatico, in mare aperto, a bordo della cacciatorpediniera “Grado”.
Box: attività della Centuria Balilla e Avanguardisti
Il 28 Ottobre 1933 – XII il S. Ten. Rodolfo Smeraldi lasciava il Comando della Centuria a cui aveva dato tutto il suo entusiasmo fin dalla fondazione e lo sostituiva il S. Ten. Bettinello rag. Bruno. I Superiori dell’Istituto provvedevano intanto la Centuria di una sede conveniente: questo fatto servì a intensificare le forme di attività. Si costituì un ufficio sportivo e subito si diede inizio agli allenamenti atletici; si formarono le squadre di palla-canestro (e ricordiamo di passaggio l’ultima affermazione dell’11-3-1934) di palla al volo, di scherma.
Altra manifestazione fu la recita da parte degli avanguardisti di una commedia nel Teatro dell’Istituto. In sede di Centuria i giovanissimi attori cominciarono con pazienza e passione le prime prove drammatiche, che dovevano culminare con due rappresentazioni gratuite per Avanguarditsti (sic) e Balilla bene accolte dai Superiori e dal pubblico.
Il Comando organizzava poi un corso per allievi – capisquadra. A questa iniziativa rispondevano entusiasticamente gli avanguardisti in numero di ben 28. Si dava allora inizio alle lezioni teoriche e pratiche, che non mancheranno certo di dare buoni risultati. Intanto il numero degli iscritti da 190 salì oltre 300; magnifica prova di entusiastica adesione. Non si trascurò poi di organizzare qualche gita a scopo ricreativo e istruttivo insieme. E così col gentile consenso del Comando Militare Marittimo Autonomo dell’Alto Adriatico, ebbe luogo un’escursione in mare a bordo della R. Torpediniera Zenson. Vi parteciparono i capisquadra e gli allievi – capi squadra.
Il 3 Aprile 80 allievi della Centuria raggiungevano con due corriere Valstagna e di lì salivano a Foza e ai monti circostanti, consacrati dalla fiera resistenza dei nostri soldati. Giornata di allenamento fisico e morale.
E poi ci sarebbe da dire di quell’altra opera silenziosa, ma così splendidamente bella, di assistenza agli iscritti bisognosi. Come si vede non mancano le iniziative e non manca neppure la buona volontà di attuarle sotto la guida dei Superiori.
(Charitas, anno I(1934)[N.S.], 2, pag. 5).
VITTORIA!
Il 5 maggio, mentre questo numero del Charitas era pronto per la stampa, la Patria visse una delle sue ore storiche più memorande.
Il tricolore su Addis Abeba – la guerra finita – l’Etiopia italiana !
Cinquantadue nazioni, un impero sterminato, forze oscure, occulte ma formidabili da una parte; l’Italia nuova, giovane, decisa alla difesa dei suoi diritti e del suo avvenire dall’altra.
E fu la vittoria travolgente, folgorante! La vittoria della civiltà sulle barbarie, della giustizia sull’arbitrio, della libertà sulla schiavitù, della lealtà sulle basse ipocrisie e sui vili egoismi.
La Nazione in piedi saluta il rinato impero coloniale e i suoi artefici gloriosi: il Duce chiaroveggente, i Comandanti geniali, i soldati intrepidi, gli operai temprati alle più dure resistenze.
Possiamo esser fieri di questa primavera 1936, che inalza (sic) a luminosa altezza al cospetto del mondo il nome d’Italia e ci mostra ancora una volta le quadrate legioni romane in marcia verso nuove mete di grandezza e di civiltà.
(Altro articolo di fondo, riportato qui pari pari dalla prima pagine della rivista Charitas, III(marzo-aprile1936), 2: 21. Segue alle pagine 22-25 un lungo e assurdo articolo, firmato “p. a.”, dal titolo “Il Cristianesimo Abissino ritroverà la via di Roma!”, articolo molto discutibile, da un punto di vista cristiano ed ecumenico: l’unità della chiesa del Principe della pace si potrebbe mai ottenere con l’invasione e la guerra? Ma siamo nel 1936 e nel ventennio fascista.)
Alla celebrazione per l’inizio dell’anno scolastico 1938-39 nelle scuole di Venezia, in S. Agnese, era presente tra le autorità anche “il Comandante delle Coorti Marinaretti che inquadrano i nostri allievi”, che erano in quell’anno più di 700. Del resto, per dire com’era la situazione di quell’epoca, nello stesso anno, il 6 dicembre 1938, all’inaugurazione della sala di cultura e della nuova palestra dell’Istituto Filippin a Paderno del Grappa, cui partecipò anche P. Aurelio Andreatta, preposito, data la collaborazione dell’Istituto Cavanis con il Filippin, partecipò come ospite d’onore niente meno che il Ministro dell’Educazione Nazionale “S. Ecc. Bottai”.
Oltre che da tradizioni orali, e principalmente da un racconto fatto a questo autore dal P. Fabio Sandri, che a sua volta lo aveva ricevuto dal P. Alessandro Vianello e dal P. Pellegrino Bolzonello, risulta anche dal diario della casa di Roma (DR), che durante la seconda guerra mondiale e più particolarmente negli ultimi anni della stessa, durante la triste epoca della cosiddetta repubblica di Salò, P. Giovanni Battista Piasentini, allora responsabile della casa dall’inizio della guerra ma residente nel Collegio Canova, e poi pro-rettore residente nella Casa del S. Cuore a Possagno, aveva nascosto in questa casa a lungo almeno una famiglia di ebrei, in grave pericolo di essere catturati e deportati nei campi di sterminio. Il diario di Roma sopra citato dice che tra di essi c’era l’ex-allievo dell’Istituto Giorgio Franco e suo padre; probabilmente c’erano altri membri della famiglia, ma mancano per ora dati esatti. Il Diario non precisa per quanto tempo essi sono stati ospiti segreti di P. Piasentini e della casa del S. Cuore; sembra che ci stessero a lungo e che – secondo racconta P. Fabio Sandri, attualmente (2020) rettore della casa di Venezia, ma in passato pro-rettore della casa del S. Cuore –, quando c’erano avvisaglie di pericolo, essi si nascondevano in una specie di stanzetta o cripta sotterranea scavata alla base della caratteristica torretta esagonale appunto del primo modulo della casa del S. Cuore, quella che guarda verso Possagno. P. Fabio Sandri racconta anche di aver saputo dall’ex-allievo di Venezia Giancarlo Degan, fratello di P. Franco Degan e figlio dell’ex-allievo e per lungo tempo presidente degli ex-allievi e della Congregazione mariana di Venezia, che egli stesso, Gianfranco Degan, allora liceale, forse compagno di scuola di Giorgio Franco, viaggiava periodicamente e pericolosamente da Venezia, dove abitava, a Possagno, per mantenere il contatto con Giorgio Franco e la sua famiglia, provvedere alimenti, trasmettere messaggi a parenti nascosti a Venezia e viceversa. E questo senza che lo sapesse la sua famiglia. Un atto veramente eroico per questo giovane; ancora più eroico da parte di P. Piasentini, che avrebbe potuto essere condannato alla deportazione e/o alla morte se la famiglia di ebrei ospite dei Cavanis fosse stata localizzata e scoperta. I Cavanis si incontrarono poi con Giorgio Franco a Roma, poco dopo l’apertura della casa romana dell’istituto, e ne ricevettero una raccomandazione in favore di un piccolo orfano, che desiderava fosse accettato e ospitato nella nuova casa. Il Diario dice: “Nel pomeriggio viene accolto pure il bambino Roberto Vettori presentato e raccomandato dall’ex-allievo Franco Giorgio (già salvato col padre da Mons. Piasentini in Casa del S. Cuore al tempo della persecuzione razziale).”
4.2 Padre Aurelio Andreatta, preposito generale (1931-1949)
Nato a Bosentino (Trento) il 16 luglio (altre fonti dicono il 7 agosto) 1893. La data del 16 luglio, come data di nascita si trova anche nel quaderno di matricola dei novizi, dal 1904, contenuto nel faldone del noviziato, senza numero e senza date nell’etichetta. In questo quaderno, di Aurelio si dice che era detto “Tessadro”, forse un soprannome della sua famiglia, termine che sembra significare “tessitore”. Era figlia di Angelo, contadino, e di Domenica Francesca.
Entrò in Istituto il 12 ottobre 1905, alle ore 16: si noti che il quaderno suddetto, come altri dello stesso faldone, precisano sempre l’ora dell’entrata in seminario, e, nel caso, l’ora di uscita, probabilmente a scanzo di problemi legali. Si registra anche l’ora della vestizione, della professione, quando queste sono annotate. Ed è solo in questo faldone che si trovano tracce di questo stile burocratico e forse legale.
Aveva vestito l’abito della Congregazione il 4 luglio 1909 ed emesso la professione dei voti temporanei il 5 (o 4) luglio 1910 nell’oratorio dei piccoli a Venezia, assieme a tre confratelli, compagni di noviziato; ed emise la professione perpetua assieme agli stessi tre compagni il 5 luglio 1913 in S. Agnese, davanti alla scolaresca.
Ricevette la tonsura, assieme a quattro confratelli Cavanis, dal patriarca Aristide Cavallari nella cappella del Patriarchio il 12 dicembre 1912; i quattro ordini minori nella stessa cappella, e con gli stessi tre confratelli ma dal nuovo patriarca Pietro La Fontaine il 22 giugno 1916, solennità del Corpus Domini; ricevette il suddiaconato dal vescovo di Tortona, monsignor Simon Pietro Grassi, nel suo episcopio, durante il tempo del profugato, l’8 settembre 1918, nella memoria della Natività di Maria; il diaconato, dopo il ritorno a Venezia, il 21 dicembre 1918 dal patriarca Pietro la Fontaine nella cappella del patriarchio; concluse le tappe del corso teologico, ricevette l’ordinazione presbiterale dallo stesso patriarca, nella basilica di S. Marco, il sabato sitientes 5 aprile 1919. Fu una grande festa, con quattro neo-sacerdoti Cavanis, un record; e la presenza di quasi tutti i Cavanis, e anche di don Orione venuto apposta da Tortona.
Dotato di grande acume, laureato in lettere all’università di Pisa, si dedicò per più di 50 anni all’educazione e all’istruzione dei giovani nelle case della nostra Congregazione, soprattutto in qualità di professore d’italiano e latino nei licei. Ottime le sue capacità nel campo dell’insegnamento della letteratura italiana.
Questa attività d’insegnamento non gli impedì di assumere con grande prudenza e sagacia – e con infinita pazienza e bontà – le cariche di prefetto delle scuole, di consigliere generale (definitore), di rettore e di preposito generale per molti anni (quest’ultima carica per 18 anni, cioè per tre sessenni). Fu rieletto, ma restò preposito anche a causa della seconda guerra mondiale, che almeno dal 1943 al 1945, divise l’Italia in due parti totalmente separate dai vari fronti trasversali che tagliavano in due la penisola italiana e rese i viaggi impossibili durante la guerra e molto difficili dopo di essa, tanto che fu impossibile celebrare i capitoli generali. Il periodo dei suoi mandati fu caratterizzato da una grande apertura della Congregazione.
Qualche dettaglio sul periodo del suo triplice mandato:
All’inizio della sua attività come preposito, nel 1931, si trovò a rispondere in modo dilatorio all’invito del Vescovo di Luni, monsignor Giovanni Costantini, che invitava l’Istituto, già dal 4 luglio 1931, con lettera rivolta al P. Giovanni Rizzardo, preposito precedente, a accettare la direzione di un collegio per seminaristi diocesani e per esterni, nella cittadina di Aulla (Massa e Carrara) nella Lunigiana. In pratica la cosa non fu portata ad effetto. Analogamente, poco più tardi fu offerto all’Istituto il Santuario della Madonna dei Miracoli (Lonigo, provincia di Vicenza) e si aveva l’intenzione o più probabilmente l’idea di assumere il santuario e di trasformare l’ambiente in una nostra casa di esercizi spirituali. Nonostante l’accordo di massima del consiglio definitoriale, non se ne fece poi nulla, forse per difficoltà ambientali.
In questo periodo, per vari anni consecutivi, si ricevette con certa insistenza l’invito ad assumere anche il “Real Collegio” nella città di Lucca, ma non si accettò.
Era in corso, e si continuerà a trattarne nel 1932 e seguenti, una convenzione con il comune di Possagno per i rapporti tra comune e Istituto, con molte difficoltà e poco successo.
Nel 1933, il preposito con il suo consiglio decisero di accedere all’invito ricevuto di aderire, nelle tre case dell’Istituto all’Apostolato della preghiera, pratica che è ancora in corso nell’Istituto fino a oggi.
Nei capitoli definitoriali di questi ultimi anni si parla con frequenza dei lavori in corso per la costruzione del nuovo edificio del collegio Cavanis di Porcari, e dei rilevanti debiti contratti per il pagamento dei lavori col permesso della Santa Sede.
In data 11 agosto 1933, l’Istituto Cavanis, dopo vari ritardi, ricevette il riconoscimento giuridico (ossia la personalità giuridica) dal Regno d’Italia, con decreto n°1200, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 21 settembre dello stesso anno e registrato alla Corte dei Conti in data 14 settembre 1933.
Fino a quel giorno – e ancora per qualche anno – i beni della Congregazione e delle sue comunità erano stati intestati a persone fisiche, e cioè a religiosi professi perpetui e particolarmente fidati in senso fisico e morale, sia sacerdoti sia fratelli laici, dato che la Congregazione come tale non era riconosciuta (dal 1866-67) come persona giuridica e quindi non poteva comperare, vendere, possedere, affittare, prendere in affitto e in genere compiere atti legali, dato che per lo stato non esisteva. Quando un religioso cui erano intestati i beni si avvicinava all’età limite (cioè diventava molto anziano), oppure si ammalava, cedeva in genere per donazione tra vivi, se possibile, oppure per testamento, i beni comunitari a lui intestati ad un altro religioso Cavanis scelto dalla Congregazione. Così si faceva del resto da tutti gli altri istituti religiosi. Logico che ad ogni passaggio di proprietà, sia tramite donazione tra vivi, sia tramite eredità, lo stato guadagnava su questi beni le tasse di successione, e l’Istituto perdeva una percentuale molto rilevante sul valore di detti beni.
A questo riguardo, è utile citare per esteso un articolo del Charitas, pubblicato pochi mesi dopo la promulgazione del decreto, ma vari anni prima della sua applicazione pratica all’Istituto Cavanis.
4.2.1 Il riconoscimento giuridico dell’Istituto
La Gazzetta Ufficiale del 21 settembre 1933, N. 220, pubblicava il R. D. 11 agosto 1933, N. 1200, col quale viene riconosciuta la personalità giuridica della Congregazione delle Scuole di Carità, sotto il titolo di «Istituto Cavanis».
La notizia fu ripetuta nei quotidiani locali; e molti amici ci fecero le congratulazioni come di un fausto evento; altri ci chiesero quali fossero gli effetti di un tale decreto, e qualcuno mostrò il desiderio di sapere in quale condizione venissero a trovarsi le nostre Scuole dopo il nuovo fatto.
Diciamo anzitutto un grazie doveroso a chi sottolineò l’avvenimento con espressioni di compiacenza e di augurio.
Infatti la cosa ha la sua importanza e i suoi vantaggi. Tutti sanno che con la Legge 7 Luglio 1866, eversiva delle Congregazioni religiose, anche il nostro Istituto, come tanti altri, cessava di fronte allo Stato Italiano la sua esistenza e perdeva quindi la personalità giuridica.
Siccome poi lo Stato riconosceva ai singoli religiosi, come a cittadini, tutti i diritti civili e politici, cosi essi si valsero del diritto di libera associazione e negli edifici di prima, ricomperati alle aste pubbliche, o in altri, si riunirono di bel nuovo. In questo modo tutte le Congregazioni ripresero le loro benefiche attività e, rinate come associazioni di fatto e non di diritto, furono giuridicamente ignorate dallo Stato.
Gl’Istituti cosi ricostituiti erano incapaci di possedere direttamente, di comperare, di ereditare, per modo che i loro beni dovevano essere intestati ad uno o più membri delle Congregazioni stesse, i quali morendo testavano in favore di altri confratelli. Ma si andava cosi incontro alle spese di successione, che erano tanto gravi, non essendovi tra eredi e testatori vincoli di parentela, che in un breve giro di successioni riassorbivano il capitale.
Vari sistemi escogitati per eliminare questi inconvenienti non si presentavano sempre pratici e sicuri.
A questa situazione incresciosa di cose poneva fine il Concordato dell’11 febbraio 1929. L’articolo 29, lett. b, è così concepito: “Sara riconosciuta la personalità giuridica delle associazioni religiose con o senza voti, approvate dalla Santa Sede, che abbiano la loro sede principale nel Regno e siano ivi rappresentate, giuridicamente e di fatto, da persone che abbiano la cittadinanza italiana e siano in Italia domiciliate”.
Di questo favore credette opportuno giovarsi, come altre Congregazioni in Italia, anche la nostra, e così si giunse al riconoscimento giuridico del settembre scorso.
Pertanto 1’ Istituto, come persona giuridica, è ora capace di possedere in nome proprio, di ereditare, di ricevere legati e donazioni ed è ammesso ad alcune esenzioni e agevolazioni di carattere tributano.
E veniamo ora alla questione scolastica.
Le Scuole sono tutt’altra cosa dall’Istituto: rappresentano l’attività specifica di esso. Quindi non c’entrano per nulla nel decreto di riconoscimento e rimangono sempre nella categoria di scuole private.
Non si deve però escludere che anch’esse non abbiano, almeno indirettamente, un qualche vantaggio. Sono ora scuole innestate in un organismo riconosciuto: perciò non si può loro negare una maggiore valutazione o prestigio morale. Tanto è vero che il Governo stesso, prima di emanare il decreto di riconoscimento, ha chiesto al R. Provveditore agli Studi per il Veneto una relazione sull’andamento delle nostre scuole, relazione che fu inviata in seguito a ispezione avvenuta all’inizio dell’anno scolastico 1932-33.
Inoltre, e questo ci sembra più notevole, l’art. 35 del Concordato sancisce: “Per le scuole di istruzione media tenute da enti ecclesiastici o religiosi rimane fermo l’Istituto dell’esame di Stato ad effettiva parità di condizioni per candidati di istituti governativi e candidati di dette scuole”.
Tale effettiva parità di condizioni dobbiamo confessare che 1’hanno goduta dopo la riforma Gentile i nostri allievi, perchè ai documenti e programmi scolastici la nostra Direzione ha sempre unito (come fanno gli Istituti regi per i loro allievi) le pagelle scolastiche o note informative, bene accolte, anzi desiderate dalle Commissioni governative. Ma quello che per 1’addietro era lodevole accondiscendenza delle Commissioni esaminatrici, ora che 1’Istituto è riconosciuto come ente giuridico, diventa un vero diritto.
Del quale intendiamo valerci in favore dei nostri allievi, ma del quale anche proponiamo di essere in ogni tempo meritevoli, tenendo alto nelle nostre Scuole il prestigio e la serietà degli studi.
Sarà però solo a partire dal 4 aprile 1941 – a quanto si è scoperto finora -, cioè circa sette anni dopo il decreto di riconoscimento della personalità giuridica dell’Istituto Cavanis (14 settembre 1933) – che alcuni religiosi Cavanis di Venezia (quelli cui erano intestati i beni di Congregazione) promoveranno un’azione di “riconoscimento di proprietà” col fine di far riconoscere allo stato italiano che parecchi beni da loro ufficialmente posseduti, tutti nell’area dell’ “enclave” Cavanis a S. Agnese, appartenevano in realtà alla Congregazione di Carità-Istituto Cavanis. La dichiarazione è in carta bollata da lire 200 (un piccolo capitale a quell’epoca), fu fatta davanti al notaro Antonio Tessari di Venezia, con la seguente pittoresca – ma necessaria – introduzione: “Vittorio Emanuele 3° per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia e di Albania Imperatore d’Etiopia”.
I padri erano: Francesco Saverio Zanon, Agostino Zamattio, Alessandro Vianello, e dichiarano che, “Premesso che con Decreto Reale 11 agosto 1933 XI, registrato alla Corte dei Conti venne riconosciuta la personalità giuridica della Congregazione Religiosa delle Scuole di Carità sotto il titolo di “Istituto Cavanis, con casa Madre in Venezia,- i comparenti dichiarano di non aver mai posseduto in nome proprio i beni immobili qui in calce descritti, nonostante risultino in censo parzialmente a loro intestati, beni i quali furono, a suo tempo, acquistati di fatto per conto della Congregazione Religiosa predetta; per cui in conformità a quanto previsto dal Concordato concluso l’11 febbraio 1929 fra la Santa Sede e 1’Italia autorizzano per le quote a loro interesse, che i beni stessi vengano volturati in censo a ditta della Congregazione Religiosa dalle Scuole di Carità, sotto il titolo di “Istituto Cavanis”, di qui. Di questo atto autorizzano, previe le formalità prescritte, anche trascrizione presso la competente Conservatoria delle Ipoteche.”
(segue la lista e descrizione dei beni ossia immobili coperti e scoperti, con i numeri civici e n° dei mappali, che corrispondono ai mappali 2015, 2016, 2017, 2019, 2020, 2021, 2022, 2023, 2026, 2027, 2068, 2884).
Un analogo documento dell’8 maggio 1941 fu dichiarato e firmato davanti allo stesso notaro da don Fabiano Bergamin, e dai padri Giovanni Rizzardo, Aurelio Andreatta rappresentante di Giovanni Barbaro e di don Agostino Menegoz (con relative procure), P. Basilio Martinelli a nome della Società Georgica; dichiararono anch’essi che i beni elencati e descritti sotto non appartenevano a loro ma alla Congregazione della Scuole di Carità, Istituto Cavanis, facendo riferimento anch’essi con formula analoga al concordato. I beni (i mappali) sono in buona parte gli stessi.
In data 22 gennaio 1942 lo stato italiano o Regno d’Italia decreta che “È autorizzato il trasferimento a favore della Congregazione delle Scuole di Carità , sotto il titolo di Istituto Cavanis, dei seguenti immobili situati a Venezia in Sestiere di Dorsoduro ecc.”. Il documento si riferisce ai mappali sopra riferiti, e ai numeri anagrafici 834, 838 e 839 sulla piscina Venier e Sta. Agnese; 898 e 899 sul rio terà Antonio Foscarini, ai numeri civici 904 e 908 in Cale de la Chiesa, ai numeri civici 895 e 896 in Rio terà Antonio Foscarini, più uno o più terreni minori non più dotati di numeri civici. In pratica si tratta di quasi tutto l’ “enclave Cavanis” di cui si parla, però degli immobili situati a est del rio terrà Foscarini, e non dei beni situati a ovest dello stesso, cioè della casetta e del cortile grande.
A partire da settembre 1933 gli studenti teologi dell’Istituto, con eccezione di quelli che si trovano dislocati a Possagno per collaborare con quella casa, passeranno ad abitare nella nuova sede: “Lo Studentato per i Chierici di Teologia sia definitivamente trasportato oltre il rio terà [Antonio Foscarini], nell’antica Casetta dell’Istituto”.
Durante quest’anno si comincia a parlare di nuovo, nelle riunioni del consiglio definitoriale, della possibilità di aprire una casa a Roma, seguendo un suggerimento concreto presentato a suo tempo da don Orione. Il Verbale della riunione del 27 dicembre 1933, su questo punto, merita di essere riportato: “Il Preposito dimostra come per una possibile espansione dell’Istituto sarebbe utilissimo e quasi necessario una Casa in Roma. Le ragioni sono tanto evidenti che non vi è alcuno che abbia a ridire. L’osservazione si fa invece sul possibile modo di una fondazione nella quale si deve tenere sempre presente che lo scopo dell’Istituto è l’educazione della gioventù e che assumere una parrocchia, forma possibile forse per la fondazione, non sarebbe nello spirito dell’Istituto. Si arriva alla conclusione di esporre, in caso, all’autorità ecclesiastica competente questa difficoltà e intanto si autorizza il P. Preposito ad occuparsi di tale fondazione. Messa ai voti l’approvazione di tale proposta, si ottengono cinque voti affermativi: approvato all’unanimità”. Non se ne farà nulla però fino al 1946, cioè tredici anni dopo.
Nel marzo 1934 P. Aurelio Andreatta fece un viaggio a Roma, in occasione della canonizzazione del santo scolopio Pompilio Pirrotti, rimanendo gli scolopi grati della partecipazione dell’Istituto Cavanis; tuttavia P. Aurelio e il suo compagno di viaggio P. Giovanni Battista Piasentini, rettore della casa di Possagno, rimasero ospiti, come altre volte, dei padri Barnabiti sul Gianicolo. L’evento più importante di questo viaggio, fu però l’incontro del preposito generale, P. Aurelio, con due importanti personaggi della curia romana, mirato a risolvere un problema di cui da tempo si era accorto, almeno in ipotesi: “ Approfittando della permanenza nell’Urbe fece visita al Card. Raffaello Rossi, Ponente della Causa dei nostri Fondatori ed il 21 Marzo all’Em.mo Lépicier, Prefetto della S. Congr. dei Religiosi, col quale conferì sul nostro Noviziato ed ebbe la precisa conferma della non liceità del trasferimento dei novizi a Possagno nei mesi estivi. Si provvederà quindi fin dalle prossime vacanze all’osservanza esatta del Codice per evitare l’invalidità del Noviziato e delle successive professioni. Circa le professioni precedenti vedere il libro delle professioni”.
Queste ultime frasi che P. Aurelio Andreatta scrive così, come di passaggio, nel Diario di Congregazione, peccano senza dubbio, coscientemente o incoscientemente, di understatement (considerazione attenuata). E il carattere di P. Aurelio, fin da giovane e come lo ricordo da anziano, era proprio così: aveva una personalità molto impegnata e consapevole, ma calma e fiduciosa. In realtà però, molto prima dell’inizio del suo mandato (aveva cominciato a governare la Congregazione il 24 luglio 1931), l’Istituto Cavanis aveva fatto un grave sbaglio giuridico sistematico, spostando i novizi non solo in occasione delle vacanze, da Venezia, sede del noviziato, a Possagno, in collina, ma anche secondo le necessità del momento, con una certa leggerezza e senza dubbio non per la cattiva intenzione di mancare alla legge, ma più probabilmente per ignoranza grave di questa. Non si era capito (o letto?) che i canoni 555§1,2° e 556§1 del CJC del 1917 definivano invalido e da ripetersi completamente dall’inizio l’anno di noviziato, se i novizi rimanevano fuori della casa canonicamente eretta (con l’approvazione della S. Sede per gli istituti di diritto pontificio, come l’Istituto Cavanis) per più di trenta giorni, anche se con la licenza dei superiori.
In questo modo un’intera generazione di Cavanis non era giuridicamente consacrata con la professione dei voti, sia temporanei che perpetui; esisteva anche il dubbio se erano validi gli ordini sacri che avevano ricevuto i presbiteri di quella generazione Cavanis, dato che i vescovi consacranti avevano avuto l’intenzione di ordinare dei religiosi, ed essi non lo erano.
In effetti, grazie ad una sanatoria, i religiosi che avevano emesso i voti in questa situazione, perché avevano fatto un anno incompleto di noviziato (perché realizzato in parte, ossia per più di 30 giorni, in una casa non eretta canonicamente a noviziato) dovettero ripetere discretamente e segretamente, per non suscitare scandalo, la professione temporanea e anche, naturalmente la perpetua; ma fu loro evitata, per benevola dispensa pontificia, la ripetizione del noviziato. Lo stesso P. Aurelio, preposito generale, dovette sottomettersi – evidentemente con molto imbarazzo per lui e per la comunità – a questo rinnovo. Il fatto sembra sia stato condotto in modo che la cosa non si sia risaputa fuori della Congregazione. Non c’è stata neanche la trasmissione orale dentro della Congregazione, perché era venuta a conoscenza solo dei professi, e questi non avevano alcun interesse di spargere la voce sul fatto che per anni si erano presentati al mondo e nella chiesa (e agli alunni e loro famiglie, tra l’altro) come religiosi, mentre non lo erano.
Un aspetto della personalità di P. Aurelio è la sua grande devozione mariana: scrisse dei poemi su di lei, ne promosse la devozione in Congregazione, e è a lui che l’Istituto deve l’autorizzazione dalla S. Sede di aggiungere alle litanie lauretane l’invocazione “Regina delle Scuole di Carità, prega per noi”.
Ci si ricorderà che il 16 luglio 1919 era stata riacquistata dall’Istituto la “casetta” ossia l’edificio in cui si era formata nel 1820 la prima comunità Cavanis, e dove avevano vissuto lungamente ed erano morti i venerati fondatori. L’acquisto dell’edificio – che in precedenza era stato venduto a terzi – era costato molto caro all’Istituto; questo riuscì a saldare completamente il “debito di £ 100,000 che gravava sull’Istituto da parecchi anni per il riacquisto della prima e antica sede della Congregazione, cioè dell’immobile di fronte all’Istituto attuale. Il Banco di S. Marco, aderendo a vive preghiere del Preposito, aveva abbonato [le ultime] £ 25,000. L’annunzio lo aveva recato l’amico dell’Istituto Avv. Giovanni Gastaldis, consigliere del Banco, pochi minuti prima della funzione domestica. Laus Deo et Mariae!” Durante la festa del 132° anniversario dell’Istituto Cavanis, il 2 maggio 1934, il P. Aurelio Andreatta aveva potuto allora comunicare con gioia ai confratelli, durante la celebrazione eucaristica nella cappella del crocifisso o cappella del centenario, che il debito era estinto.
Il 10 maggio 1934 si realizza la cerimonia solenne dell’inaugurazione della statua al “Cuore di Cristo Re”, a ricordo dell’anno santo della redenzione, 1933-1934, nel cortile grande del collegio Canova di Possagno.
Il 21 maggio, il consiglio definitoriale esamina la proposta di monsignor Erminio Filippin (1899-1991), ex allievo dell’Istituto Cavanis, fondatore e direttore dell’Istituto scolastico Filippin a Paderno del Grappa (Treviso), da lui fondato e condotto, di lasciare il suo istituto in eredità ai Cavanis, parlando di testamento olografo già depositato e che si impegnava di mettere in mano al preposito; in cambio domandava collaborazione da parte di alcuni religiosi Cavanis nella sua scuola. In quella data, il preposito e i consiglieri trovarono la proposta poco convincente e decisero di rispondere negativamente. Con molta saggezza. Più tardi, tuttavia, nell’autunno 1938, accettarono la proposta e vari padri Cavanis per anni si dedicarono all’educazione e alla scuola (magistrale, per il momento) nell’Istituto Filippin. Purtroppo il monsignore sfruttò lungamente il lavoro dei nostri, e cambiò varie volte il vantato “testamento olografo”, sicché alla fine nulla spettò all’Istituto. Tra l’altro, al momento del ritiro dall’attività di direttore e responsabile legale dell’istituto del suo fondatore e proprietario, il Filippin (nel 1958), il collegio era in stato di fallimento e nessuno voleva assumerlo: la Santa Sede dovette imporre ai Fratelli delle Scuole Cristiane di accettarlo e a di rimetterlo in piedi.
Il 1° luglio 1934 iniziò il 14° capitolo generale ordinario, concluso il giorno 3 luglio, nel quale P. Aurelio Andreatta fu rieletto.
Il 26 agosto fu posta la prima pietra del primo edificio eretto dall’Istituto sul Col Draga, sopra Possagno: cioè la Casa Alpina. Si veda in proposito il capitolo sulla casa del S. Cuore di Possagno.
A riguardo delle comunità e opere Cavanis in questo paese, in vari capitoli definitoriali del 1934 e 1935 si parla di lavori edilizi di sistemazione del probandato di Possagno, inclusa la costruzione del muro di cinta.
Negli stessi capitoli di questi anni si parla anche di disporre d’allora in avanti della collaborazione delle suore dell’Istituto della Divina Volontà di Bassano, per dirigere e/o per sostituire le donne di servizio nelle case di Possagno e di Porcari. A Porcari, questo fatto creerà delle difficoltà con le pie donne che alcuni padri avevano riunito come associazione, con l’intenzione di trasformarla in un istituto religioso, e che ora si vedevano alla dipendenza di un’altra congregazione di suore. La situazione tuttavia rimase tale per decenni e rientra nel tema della poca delicatezza dei padri Cavanis verso l’istituto femminile he si stava formando.
A Possagno, il preposito con il suo consiglio stava trattando da tempo e senza raggiungere una definizione – se ne parla più volte nel verbali di questi due anni – con il comune di Possagno per definire la posizione dell’istituto e delle scuole nell’edificio che, dagli anni della soppressione degli istituti religiosi (1866-1867), incamerato o per meglio dire rubato dal demanio all’Istituto, apparteneva di fatto al comune di quel paese. Il verbale del 1° ottobre 1935 spiega, per bocca del preposito, che queste lungaggini e incertezze sulla situazione giuridica dell’istituto a Possagno dipendono dalla “mancanza di buona volontà da parte dei rappresentanti del Comune e dalla prefettura di Treviso”. Il verbale successivo, del 26 novembre 1935 sembra però più ottimista. Si spera di ottenere la cessione dell’immobile all’istituto, cosa che poi non avvenne.
Il 2 maggio 1936 si inaugura l’acquedotto che porta l’acqua, su per un dislivello di circa 300 metri, alla casa del S. Cuore. Nell’agosto 1936 si inaugura poi la prima ala della casa del S. Cuore in senso stretto, con la sua caratteristica torretta, che si aggiunge alla Casa Alpina. Vedi a questo proposito il capitolo su questa casa.
Il consiglio definitoriale del 27 giugno 1936 approva la costruzione nelle scuole di Venezia di un quarto piano nelle ali delle scuole, l’ala antica, cioè il palazzo Da Mosto, e ala nuova, cioè quella costruita circa trent’anni prima, per le elementari. I lavori iniziano il 3 agosto 1936, con l’arrivo dei primi materiali, e sono realizzati dall’impresa Scattolin, su progetto dell’architetto Scattolin, figlio del proprietario dell’impresa ed ex-allievo. Da notare che il terzo piano (quarto se si considera il pianterreno) copre completamente la superficie superiore dell’ala “nuova”, mentre sopra il palazzo da Mosto, per motivo di rispetto all’edificio storico, barocco, rispetto probabilmente imposto dalla sovrintendenza ai monumenti, il terzo piano fu costruito soltanto verso est, cioè verso il cortile piccolo (ora giardino); mentre non lo si vede dalla strada.
Nel frattempo, si era celebrato il 15° Capitolo generale ordinario del 6-7 luglio 1937, in cui P. Andreatta fu rieletto preposito per una seconda volta e ci furono leggere varianti nel consiglio generale.
Il 12 settembre il preposito con il suo consiglio rifiutano varie fondazioni proposte: quella della direzione del patronato parrocchiale di S. Basilio a Venezia (S. Basegio, in veneziano, nel verbale), proposta più volte da monsignor Giuseppe Busetto (si rifiutò la proposta perché non restava chiara la dipendenza dell’Istituto dalla parrocchia); un collegio o scuola ad Asolo (Treviso) proposto da monsignor Brugnoli, prevosto (perché c’erano già varie scuole e collegi in zona, tra cui il nostro a Possagno); un collegio a Urbino, proposto dal P. Pasquale Vannucci (perché la proposta non offriva sufficiente indipendenza all’istituto); una fondazione a Sansepolcro, proposta dal vescovo di quella città, di cui non erano chiare le condizioni e la situazione; su questo punto si incaricano il preposito Andreatta e P. Zamattio di visitare la città e l’opera. I due padri visitarono la città, il vescovo e gli ambienti, e conclusero che la cosa non sembrava possibile e/o interessante per la congregazione. Ne riferirono al consiglio del 1° gennaio 1937.
Nella riunione del consiglio definitoriale del 24-25 aprile 1937 si riprendono in mano le proposte fatte dal P. Giovanni Rizzardo e già esaminate di passaggio nella riunione definitoriale del luglio 1936: “che il Preposito durasse in carica sei anni invece di tre; che i Rettori delle Famiglie fossero eletti dal Preposito col Definitorio; che il Preposito uscente potesse scegliersi la casa per sua prima dimora e avere qualche segno di rispetto”. Il preposito e il suo consiglio avevano deciso, nel luglio 1936, di lasciare la questione per il capitolo generale del 1937: ma P. Aurelio Andreatta, “recatosi a Roma per altri affari”, aveva sentito un consultore della congregazione dei religiosi, e questi lo aveva consigliato di non aspettare il capitolo ma di presentare subito queste e altre utili proposte di mutazioni delle costituzioni alla sacra congregazione. Il preposito e il consiglio allora votarono e approvarono positivamente queste e altre mutazioni (il passaggio dal mandato triennale al mandato sessennale per il preposito generale viene esteso anche ai consiglieri e a tutti gli ufficiali generali, ovviamente; la nomina da parte del preposito con il consenso del consiglio generale viene estesa anche a quella del maestro dei novizi, degli economi locali e dei prefetti delle scuole), e incaricano il preposito di preparare il testo delle mutazioni stesse e di inoltrarle alla santa Sede per l’eventuale approvazione. Nella seconda sessione di questa riunione del definitorio, il 25 aprile, con rara rapidità ed efficienza, P. Andreatta dà già lettura delle mutazioni e della bozza della lettera per la Congregazione dei Religiosi, che sono approvate all’unanimità e firmate da tutti.
Nella stessa riunione, il 25 aprile 1937, il preposito dà relazione del motivo principale del suo viaggio a Roma, che era quello di visitare una parrocchia offerta dal Vicariato di Roma. Si scoprì che si trattava di una parrocchia nella campagna romana, di cui non si dice il nome né il luogo nel verbale; avrebbe bisognato costruire la chiesa, come pure, eventualmente, l’edificio per le scuole. Il preposito e consiglio decidono di non accettare la proposta, troppo gravosa.
Il 24 settembre 1937, con la benedizione dell’immagine del Sacro Cuore impartita dal preposito generale P. Aurelio Andreatta, fu inaugurata la prima ala, con la caratteristica torretta, della casa del Sacro Cuore per gli esercizi spirituali sul Col Draga (o Coldraga) a Possagno, dove già esisteva la “Casa Alpina”, cioè una casa piccola ma di pregiata architettura, per le vacanze estive dei convittori del Collegio Canova che per vari motivi non potevano raggiungere la famiglia durante le vacanze.
Durante il pontificato del papa Pio XI, nel 1937, si arrivò alle Mutationes (“cambiamenti”) delle costituzioni. Seguì un’interruzione della gestione di questo affare, a causa della seconda guerra mondiale e del difficile dopoguerra; il libretto delle Mutationes fu stampato solo nel 1954.
Nel capitolo generale del luglio 1937 il P. Aurelio Andreatta viene riconfermato preposito generale. Il capitolo definitoriale del 27 settembre 1937, immediatamente successivo a quello generale, su proposta del preposito P. Aurelio Andreatta, affrontò la questione della coincidenza tradizionale delle due cariche di preposito generale e di rettore della casa di Venezia. Il dibattito si presenta alquanto difficile, alla fine si decide di fare l’“esperimento” di separare le due cariche per un triennio. Viene eletto quindi rettore di Venezia P. Agostino Zamattio.
Un’altra questione trattata in questa riunione del consiglio definitoriale fu quella delle funzioni dell’economo generale, una figura che era apparsa in congregazione dopo la pubblicazione delle nuove mutazioni delle regole. È interessante trascrivere su questo punto il testo del verbale, per certi versi curioso: “Tornano in argomento le mansioni dell’Economo Generale: secondo il Codice, dovrebbe amministrare i fondi del Preposito [ovvero, della curia generalizia]. Si chiede però anche se non debba avere una sorveglianza sui lavori delle singole Case, lasciati finora alla decisione del Capitolo di Famiglia ed alla responsabilità dei Rettori. Si conclude che il Capitolo [definitoriale o generale] deva essere informato sui lavori di una certa importanza e che comportano spese alquanto gravi nelle singole Case.”
Nella stessa riunione si rifiuta la proposta di una nuova fondazione in Santa Maria in Forbiago.
Il 1938, anno centenario dell’erezione canonica dell’Istituto, fu anche un anno di decisioni importanti per quanto riguarda nuove fondazioni di case, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, nell’anno in cui Adolf Hitler tra l’altro discusse nella “conferenza e accordo” di Monaco di Baviera (29-30 settembre 1938) con il primo ministro inglese Neville Chamberlain, con il primo ministro francese Édouard Daladier e con il capo del governo italiano Benito Mussolini sul passaggio del territorio dei Sudeti alla Germania, su proposta incredibile di Mussolini e con l’inerte accettazione altrettanto incredibile dei rappresentanti del Regno Unito e della Francia.
In quell’anno la comunità Cavanis risultava notevolmente aumentata, con l’ordinazione di numerosi preti e le professioni religiose di laici, e si poteva pensare di uscire dall’ormai storico terzetto di case: Venezia, Possagno e Porcari. Negli anni precedenti si erano rifiutate troppe fondazioni. Ora si poteva cominciare ad aprirne altre. La Congregazione contava nel 1937-38 trentasette preti e dieci fratelli laici, in tutto di 47 congregati, senza contare i professi perpetui chierici, alcuni dei quali molto vicini alle sacre ordinazioni, e gli altri seminaristi. Purtroppo la guerra sarebbe venuta a interrompere il programma di aperture, salvo per quanto riguarda la casa di S. Stefano di Camastra.
Nella riunione del consiglio definitoriale del 18 aprile 1938 il preposito P. Aurelio subito all’inizio lesse la regola 211 sulle nuove fondazioni ed espose “due domande di nuove fondazioni fatte all’Istituto: una in Sicilia e l’altra a Paderno del Grappa per l’Istituto Filippin: il fondatore don Erminio Filippin domanda la collaborazione dei PP. Cavanis per il nuovo anno scolastico.” La fondazione proposta a Cammarata (Agrigento) era di assumere un’opera pia già esistente, provvista di 110 ettari di terreno e 500.000 lire in titoli. Si domandava all’istituto di aprire un ginnasio e un oratorio festivo per la gioventù locale. La proposta era buona e si poteva fare del bene alla gioventù; al consiglio però pareva necessario, per l’accettazione, che la congregazione potesse disporre a suo arbitrio dei beni, senza dipendere dall’opera pia e si sperava di ottenere questa condizione che sembrava indispensabile.
Il 16 luglio 1938, nella festa della Madonna del Carmelo, cara all’istituto, iniziarono le festività del 1° centenario dell’erezione canonica dell’istituto, con la celebrazione di una santa messa nelle case della congregazione.
Della fondazione in Sicilia si parlò di nuovo nella riunione del consiglio definitoriale del 6 luglio 1938; il preposito segnalò che c’era anche un’altra richiesta di fondazione in Sicilia, da parte dell’arciprete monsignor Ignazio Perna di Santo Stefano di Camastra (diocesi di Patti, provincia di Messina). Anche monsignor Antonio Mantiero, vescovo di Treviso, che anteriormente era stato vescovo di Patti, insisteva che l’Istituto accettasse la fondazione. Ma era evidentemente impossibile accedere a tutte e tre le richieste insieme, delle due fondazioni in Sicilia e di quella di Don Filippin; si rimandava la scelta all’agosto successivo.
Per quanto riguarda la collaborazione con don Filippin, ci si rendeva conto che lo sviluppo del Collegio Filippin avrebbe potuto danneggiare con la sua concorrenza il Collegio Canova, che operava nella stessa zona; come di fatto accadde. Tuttavia si accettava di collaborare con tre religiosi come insegnanti, a patto che essi godessero di una certa libertà di iniziativa, e che potessero vivere insieme in comunità: per questo si pensava che potessero abitare, come in una vera comunità religiosa, nella casa per esercizi spirituali per sacerdoti che don Giovanni Andreatta aveva istituito in una casa di sua proprietà a Fietta del Grappa (Treviso). Questa era stata offerta all’Istituto, ma si era in fase di costruzione della casa del S. Cuore a Possagno, e la casa di Fietta sarebbe stata un doppione. La discussione su questa collaborazione fu ripresa nella riunione del consiglio definitoriale del 6 luglio 1938, dopo aver consultato monsignor Antonio Mantiero, vescovo di Treviso, che vedeva di buon occhio che l’Istituto accettasse di collaborare con don Filippin, ma consigliava prudenza – suggerimento significativo – e raccomandava di arrivare a una convenzione chiara e formale. La convenzione fu stesa e firmata durante l’estate e letta dal preposito ai consiglieri o definitori nella riunione del consiglio del 1° ottobre 1938.
Nella successiva riunione del consiglio definitoriale del 22 agosto 1938, il preposito annuncia che c’è un’altra richiesta di fondazione, questa a Bevagna (Perugia), con la proposta di assunzione di un piccolo orfanotrofio e la collaborazione nell’insegnamento di un ginnasio comunale. P. Andreatta, preposito, aveva visitato Bevagna prima della riunione del consiglio definitoriale e non ne aveva avuto una buona impressione. Si risponde quindi negativamente, anche perché si era impegnati in altri numerosi progetti.
Sull’Istituto Filippin, il consiglio definitoriale “accetta la collaborazione per l’anno scolastico 1938-39 e l’oblazione che il Prof. Filippin intende di fare per aiutare l’opera dell’Istituto medesimo”. Dal verbale sembra che si sia arrivati a questa decisione senza che si sia ancora firmata una convenzione con il Filippin. Si stabilisce però già il nome dei tre padri distaccati all’istituto Filippin: i PP. Angelo Sighel, Gioacchino Sighel e Valentino Fedel. Nei verbali del consiglio definitoriale degli anni successivi, si continuano a manifestare delle incertezze sulle buone intenzioni e sulla buona fede del fondatore e proprietario dell’Istituto Filippin, non si vede arrivare l’imminenza di un passaggio di direzione e di proprietà dell’istituto suddetto all’istituto Cavanis, ma si continua a collaborare “in spe contra spem” (Rm 4,18).
In effetti, la convenzione con monsignor Filippin fu firmata a Paderno solo il 9 ottobre 1938.
Nella stessa riunione del 22 agosto 1938 si decide che i padri Agostino Zamattio e Mario Janeselli visitino Cammarata (Agrigento) e S. Stefano di Camastra (Messina), perché si possa arrivare a una decisione ben documentata. Vale la pena di riprodurre integralmente la relazione, a firma di P. Mario Janeselli. Questi da anni fungeva da segretario del consiglio definitoriale e lo sarà lungamente in seguito, e anche in questo caso fu lui a stendere la doppia relazione.
J.M.J
Breve relazione della visita a Cammarata e a S. Stefano di Camastra.
1)
Il giorno 12 settembre, alle 18,30, scendevo dal treno col P. Zamattio alla stazione di Cammarata: nessuna traccia del paese che dista 8 chilometri dalla stazione. Preso posto in una sconquassata corriera, partiti da poco dalla stazione, vediamo un tratto di monte illuminato da numerose lampade elettriche: Cammarata. Arriviamo alla chiesa di S. Giovanni dove c’è la processione, bene accolti dal clero e finita la funzione, anche del Parroco Don Nicolò Giacchino che ci dà cortese ospitalità.
Al mattino del giorno 13, dopo la S. Messa, col Parroco, facciamo una visita al locale offerto all’Istituto per la fondazione della nuova casa. È un locale della lunghezza di una cinquantina di metri per 10 o 12, irregolare, che serviva di abitazione a cinque o sei famiglie con altrettante porte sulla via principale. Ad est vi sono due stanze abbastanza grandi, una adibita a scuola e l’altra a direzione. Tutto il fabbricato è a due piani compreso il terreno [ovvero, il pianoterra]; la luce viene dal davanti perché di dietro ha il monte che presenta una salita alquanto ripida. Dietro e verso oriente c’è un piccolo giardino che potrebbe essere adibito a cortile: le fotografie possono dare una qualche idea del fabbricato e di tutto l’ambiente. Accanto ai locali che verrebbero ceduti vi è la chiesa di S. Domenico che diventerebbe la chiesa dell’Istituto. Impressione: con opportuni adattamenti si potrebbe ottenere quanto basta per un modesto ginnasio, non troppo numeroso e per l’abitazione dei religiosi; per un collegio il locale è al tutto inadatto.
Il Parroco, il Consigliere dell’Opere Pia Don Salomoni, 1’Ingegniere che è parente della fondatrice e membro del consiglio e tutto il clero si mostrano disposti ad aiutare in tutte le maniere, sia per adattare i locali, sia per l’ampliamento, sia anche per una mutazione di sede: questo però avverrebbe in un secondo tempo. Clima ottimo a circa ottocento metri sul livello del mare, acqua buonissima, popolazione di vita patriarcale, formata di cittadini abbastanza agiati, cristiani praticanti, lontani dalla corruzione della città: ambiente sotto ogni aspetto favorevole per fare del bene e per lo sviluppo dell’opera, quando fosse superata la difficoltà del locale.
2)
A S. Stefano di Camastra.
Giungemmo il 15 sera verso le sette e mezzo, accolti alla stazione dal Parroco monsignor Perna, dal Podestà, dal segretario comunale e accompagnati in chiesa dove la popolazione aspettava per la benedizione: qui si corre un po’ troppo e si crede che siamo giunti per restarvi. Dopo la funzione viene fatta la presentazione delle personalità del paese, in attesa della visita del locale che sarà fatta il giorno seguente.
Il locale è a due piani compreso il terreno, fatto nuovo nella parte che prospetta il paese con tre ambienti adatti a scuole a pianoterra; un altro nel piano superiore con un dormitorio capace di dieci o dodici letti. Dalla parte opposta, cioè verso il mare, la casa è vecchia e presenta dei luoghi che possono essere adibiti a cucina, refettorio e stanzette per i religiosi. Accanto vi è una piccola chiesina alla quale si può accedere per una porta interna; dalla parte opposta alla chiesa vi sarebbe un appartamento che sarebbe ceduto all’opera. Verso il mare un giardino di cinquanta metri per trenta, circa, più una parte di cortile che sarebbe ceduta dal Municipio ed uno stanzone a terreno sotto il municipio stesso che potrebbe essere usato come scuola.
C’è qualche cosa di arredamento e di mobilio che sarebbe ceduto in uso e che potrebbe servire in un primo tempo; c’è possibilità di sviluppo perché lo spazio non è troppo, ma sufficiente. Il panorama è incantevole a cento metri sul mare con dietro al paese, un seguito di colline e di montagne che si presterebbero a passeggiate per convittori.
Insistenza da parte del Parroco e del Podestà per 1’accettazione: il primo ha lottato per parecchi anni per avere il locale ed attuare il progetto di una scuola; il secondo, ottima persona che mi ha fatto assai buona impressione, farebbe qualunque sforzo per aiutarci, se non si accetta quest’anno il locale sarebbe irreparabilmente perduto perché già richiesto dalle organizzazioni del regime e sarebbe uno smacco, per il Parroco e una vittoria per i suoi oppositori.
Una difficoltà sta nel fissare il contributo che il Comune dovrebbe passare annualmente per il quale aspettano una risposta, non essendoci noi affatto pronunciati in proposito; ma credo non sarà difficile superarla.
Quello che ho riscontrato è un desiderio vivo della popolazione che si accetti, una possibilità di sviluppo perché la posizione è centrale per la scuola, ma soprattutto per il convitto perché vi sono molti che vanno e studiare in collegi anche lontani.
Per un concetto materiale della posizione potranno servire le fotografie, quantunque fatte con tempo cattivo; per le spiegazioni necessarie potrà sentire anche P. Zamattio; per il resto il Signore ci aiuti per fare la sua divina volontà e per cercare la sua gloria e la salvezza delle anime; è certo che in ambedue i paesi si potrebbe fare tanto bene.
Porcari, 24 Settembre 1938
(firma a mano del P. Mario Janeselli)”
Come conseguenza del viaggio dei due padri e della loro relazione, nella riunione del consiglio definitoriale del 1° ottobre 1938, tutto considerato, si decide di scegliere S. Stefano di Camastra, e di iniziare già. In effetti, il 13 ottobre seguente fu aperta la nuova casa dell’istituto, per l’educazione dei giovani di questa “cittadina importante”, in realtà un paese, su invito dell’arciprete monsignor Ignazio Perna, forse (ma soltanto forse) come conseguenza positiva del soggiorno dei padri Zamattio e D’Ambrosi in Sicilia, con i profughi di Possagno durante la prima guerra mondiale. Come prima comunità, furono inviati a S. Stefano il P. Agostino Zamattio, il chierico Federico Grigolo (immediatamente o ben presto però sostituito già nel programma e di fatto dal giovane P. Antonio Turetta) e il fratel Vincenzo Faliva.
Sette mesi più tardi ci si lamentava che il comune di S. Stefano non aveva ancora “fatto la convenzione richiesta e che quindi la posizione non definita; si attenderà quindi fino al termine dell’anno scolastico per vedere quale piega prenderanno le cose a tale riguardo.”
Nel 1938, in occasione del centenario dell’erezione canonica, l’Istituto riprese il lavoro di valorizzazione dei padri Fondatori, della loro vita e delle loro opere, con la pubblicazione della serie di cartoline “illustranti 50 episodi della vita dei nostri Ven.ti fondatori. Il lavoro, eseguito dalla ditta Pezzini di Milano, incontra l’approvazione di tutti”. “Nei giorni precedenti sono anche arrivate dallo stabilimento Lorioli di Milano medaglie in bronzo fatte coniare con l’effige dei PP. Fondatori da un benefattore nell’occasione del Centenario dell’Ist.to.”
Nello stesso consiglio generale, era nell’ordine del giorno – ancora e sempre – anche la questione del rapporto tra congregazione e comune di Possagno, sul tema del complesso edilizio del Collegio Canova. È utile trascrivere qui i termini della convenzione su cui si stava trovando un accordo, dopo anni di consultazioni e che sarà firmata dalle due parti: “Ritorna in campo la questione dell’accordo dell’Istituto col comune di Possagno: sembra che sia arrivata la conclusione definitiva su questa base: Il Comune accetta di pagare le tasse, le imposte, l’assicurazione e i lavori straordinari. Qualora l’Istituto si ritirasse spontaneamente, il Comune si obbliga a pagare i lavori fatti dopo la stipulazione della convenzione; qualora si dovesse ritirare per volere del Comune, questo pagherebbe tutti i lavori fatti a spese dell’Istituto dal 1892 in poi.” Tale formula non fu però accettata dalla prefettura, perché sembrava che ventinove anni fossero troppi per una convenzione di questo tipo, e si voleva ridurla a nove anni, con rinnovazione automatica del contratto alla fine del periodo.
Alla fine del 1938, il 21 dicembre, P. Aurelio Andreatta, preposito, ebbe un colloquio con un vescovo recentemente consacrato, ex-allievo dell’Istituto, monsignor Ugo Camozzo, veneziano, vescovo di Fiume, “per un primo scambio di idee circa una possibile fondazione (tipo Orat. Festivo-Congregazione Mariana, pure associazioni – senza scuola) nella città di Fiume”. Per fortuna la cosa non andò in porto, altrimenti ci si sarebbe trovati in una triste situazione pochi anni dopo, già prima della fine della guerra. È, questa di Fiume, una proposta di fondazione del tutto ignorata nella memoria storica orale della congregazione.
Rispettivamente il 18 e il 20 gennaio 1939, il preposito con il consiglio, d’accordo con i rispettivi rettori, decide di chiedere per i ginnasi (scuole medie, a quel tempo) delle due case di Possagno e di Porcari “l’Associazione al nuovo Ente per le Scuole Medie” (E.N.I.M.), in pratica una parifica dei ginnasi, che passavano a chiamarsi scuole medie.
Come conseguenza di questa “associazione” o piuttosto iscrizione, il preposito andò a Roma il 22 gennaio 1939 “allo scopo di conferire (consigliato anche dall’Em.mo Patriarca di Venezia) con S. E.za monsignor Ernesto Ruffini, segretario della Sacra Congregazione dei Seminari e degli Studi, circa la situazione nuova, in cui vengono a trovarsi le nostre Scuole di Carità, completamente gratuite, dopo la creazione dell’E.N.I.M., per associarsi al quale c’è l’onere di rilevanti tasse.
monsignor Ruffini il lunedì 23 alle ore 10 ¾ ha ricevuto con molta deferenza il P. Preposito, al quale disse subito queste parole: “Sua Santità Papa Pio XI ha molta stima del vostro Istituto; me ne ha parlato recentemente (qualche giorno prima il S. Padre aveva avuto sott’occhio la pratica del Collegio Canova per l’iscrizione all’E.N.I.M.) e ha detto: questo è un Istituto dove le cose si fanno bene” (sic).
Riguardo poi all’oggetto specifico del colloquio monsignor Ruffini ha soggiunto che il nostro caso era il primo che gli si presentava ed aveva molto piacere, anche perché qualche tempo prima il Commissario dell’E.N.I.M. gli aveva assicurato – in tema di tasse – che se qualche Istituto potesse dimostrare di insegnare gratuitamente, egli concedeva l’esonero da ogni pagamento. Mi suggerì quindi di stendere un memoriale sulla natura dell’Istituto e di presentarlo alla S. Congregazione dei Seminari.
Il predetto Monsignore congedò il P. Preposito con altre lusinghiere espressioni all’indirizzo dell’Istituto ed esortò a sperare nel felice esito della causa.”
Nei giorni seguenti nel DC si parla ancora della cosa, del memoriale inviato alla S. Congregazione dei Seminari e da questa approvato; la domanda di esenzione inviata tramite la S. Congregazione all’E.N.I.M.; si domandava in particolare l’esenzione (e il rimborso, dato che le tasse erano già state pagate per non intralciare l’operazione) della tassa (e della carta da bollo) sulle pagelle, della prima tassa di associazione e delle tasse annuali.
La cosa non andrà in porto. P. Aurelio Andreatta andò a Roma il 17-19 dicembre 1939 e all’ E.N.I.M. e gli fu risposto, in pratica, che legge è legge per tutti. Il preposito si rese conto che anche l’intervento della Congregazione dei Seminari e degli Studi era stato piuttosto debole, come si accorse anche in occasione di una ulteriore visita a monsignor Ruffini.
Tabella: proposte di fondazioni non accettate dall’Istituto Cavanis nella sua storia
ANNO | LOCALITÀ E PROVINCIA | DIOCESI | OSSERVAZIONI |
1814 | Venezia | Venezia | Progetto di aprire scuole Cavanis nei sei sestieri di Venezia |
1815 | Venezia-Castello | Venezia | Richiesta di aprire una scuola nella parrocchia di S. Martino di Castello |
1820 | Vicenza | Vicenza | |
1833 | Modena | Modena | |
1834 | “varie consimili fondazioni” | Varie | |
1834 | Badia Polesine (Rovigo) | Adria | Offerta da un sacerdote ai Cavanis, che non accettano. |
1840 | Villa Franca Veronese (Villafranca di Verona) | Verona | |
1840 | Adria (Rovigo) | Adria (oggi: Adria-Rovigo) | |
1844 | Adria (Rovigo) | Adria (oggi: Adria-Rovigo) | |
1844 | Massalombarda | Imola | (con insistenze successive) |
1845 | Casale Monferrato | Casale Monferrato | |
1845 | Venezia, San Moisè | Venezia | Casa Ritiri |
1848 | Crema | Crema | |
anni 1840-50 | varie richieste | varie | |
1849 | Riva del Garda (Trento) | Trento | |
1850 | “un paese non lungi dalla città” [di Trento] | Trento | |
1850 | Albino (Bergamo) | Bergamo | |
1851 | Massa Lombarda (Ravenna) | Ravenna | |
1856 | Riva del Garda (Trento) | Trento | |
1893 | Badia Polesine (Rovigo) | Adria | Offerta dal vescovo ai Cavanis, che non accettano. |
1897 | Imola | Imola | |
1901 | Portogruaro | Concordia | |
1902 | Parrocchia di Possagno | Treviso | |
1902 | Cittadella | Padova | scuola |
1902 | Nervesa | Treviso | stabile offerto da un ex-allievo per un eventuale collegio |
1907 | Treviso | Treviso | Istituto Mazzarollo |
1908 | Lendinara | Adria-Rovigo | richiesta di riapertura della casa di Lendinara. Non se ne farà nulla. |
1910 | Valdagno | Vicenza | Doposcuola ricreativo. Non si accetta. |
1910 | Feltre | Feltre e Belluno | Un patronato, non accettato. |
1914 | Rovigo | Adria-Rovigo | Collegio dell’Angelo Custode |
1919 | Treviso | Treviso | Possibile scuola |
1919 | Crespano Veneto | Padova | Scuola o collegio |
1920 | Roma-parrocchia Ognissanti | Roma | una scuola da aprirsi nella parrocchia tenuta dagli Orionini, approvata, ma poi rifiutata per la morte del P. Vincenzo Rossi e altro. |
1920 | Este (Padova) | Padova | |
1920 | Padova-Portello | Padova | |
1920 | Feltre (Belluno) | Feltre | |
1920 | Certaldo (Firenze) | Firenze | |
1920 | Lucca | Lucca | Direzione di un orfanotrofio |
1921 | Rovigo | Adria-Rovigo | Collegio dell’Angelo Custode; si chiedeva ancora una volta, come nel 1914 |
1921 | Monselice | Padova | Patronato e ginnasio |
1923 | Arsiero | Vicenza | Scuola e Patronato |
1924 | Lucca | Lucca | Direzione della Casa di Beneficienza di Lucca. |
1928 | Rovigo | Adria-Rovigo | Collegio dell’Angelo Custode; si chiedeva ancora una volta, come nel 1914 e nel 1920 |
1930 | Lucca | Lucca | Proposta di assumere la direzione del Regio Collegio Macchiavelli di Lucca. Forse si tratta della stessa proposta dopra indicata nel 12924; forse di altra. |
1933 | Roma | Roma | |
1931 | Aulla (Massa e Carrara) | Aulla, ora Massa-Carrara | Collegio |
1931 | Massa-Carrara | Massa-Carrara | Direzione di un collegio vescovile; non si precisa se a Massa o a Carrara. |
1931 | Lonigo (Vicenza) | Vicenza | Direzione di un santuario |
1934 | Paderno del Grappa (Treviso) | Treviso | Si tratta dell’Istituto Filippin, poi riproposto e accettato in parte nel 1938. |
1936 | Venezia-S.Basilio | Venezia | |
1936 | Asolo (Treviso) | Treviso | |
1936 | Urbino | Urbino | |
1936 | Sansepolcro (Arezzo) | Arezzo | |
1937 | Bagnacavallo (Ravenna) | Ravenna | Casa di rieducazione per minorenni, offerta dall’arciprete. Fu visitata dal preposito Andreatta con P. Zamattio, e l’impressione non è favorevole e il preposito con il consiglio gen. non accetta l’offerta. |
1937 | “Parrocchia nella campagna romana” | Roma | Parrocchia non precisata fuori Roma, nella Campagna romana, sulla Prenestina. |
1937 | Roma | Roma | Chiesa non parrocchiale “Madonna della Consolazione”. |
1938 | S. Maria di Forbiago (che deve leggersi Borbiago) | ? | Forse si tratta del nome di una parrocchia a Bagnacavallo, come sopra; o più probabilmente di Borbiago (Ve). |
1938 | Cammarata (Agrigento) | Agrigento | |
1938 | Bevagna (Perugia) | Perugia | Orfanotrofio |
1938 | Fiume/Rijeka | Fiume | Su richiesta di mons. Camozzo, vescovo. Oratorio Festivo-Congregazione Mariana, senza scuola. Non accettata. |
1939 | Favara (Agrigento) | Agrigento | |
1939 | Senigallia (Ancona) | Ancona | |
1946-48 | Guaxupé, Minas Gerais, Brasile | Guaxupé | |
1951 | Bogotá, Colombia | Bogotá | |
1951 | Capri (Napoli) | Sorrento | |
1951 | Chivasso (Torino) | Torino | |
1955 | nel Ferrarese | Ferrara | |
1955 | Ponta Grossa (Paraná, Brasile) | Ponta Grossa, | sarà accettata più tardi, nel 1968 |
1956 | Venezia-Lido | Venezia | |
1956 | Donada (Rovigo) | Chioggia | |
1958 | Feltre (Belluno) | Feltre-Belluno | |
1962 | Latina | Latina. Oggi (2019), Latina-Terracina-Sezze-Priverno | |
1962 | Barletta | Barletta. Oggi Trani-Barletta-Bisceglie | |
1962 | Roma, Giardinetti (Casilina) | Roma | |
1957-1965 | Miola di Piné | Trento | L’11 febbraio 1957 si firmò un contratto con il comune di Miola di Piné per l’acquisto di un terreno, con la condizione di istituire un’opera per la gioventù. Il 3 gennaio 1965 il capitolo definitoriale decise di restituire il terreno. |
1969 | Donada (Rovigo) | Chioggia | Il vescovo Piasentini di Chioggia aveva offerto di nuovo, come già nel 1956, la direzione di una scuola professionale, che non fu accettata. |
1969 | Zambia-missione di Milano | — | Nel colloquio del P. Orfeo Mason, preposito generale, coll’arcivescovo di Milano monsignor Colombo, sul futuro della casa di Solaro e la permanenza nella diocesi di Milano, una delle due proposte del vescovo era stata quella che l’Istituto mandasse due suoi preti nella missione della diocesi di Milano in Zambia. La Congregazione accetta la proposta alternativa, di una parrocchia in diocesi di Milano a Corsico. |
1970 | Passo Fundo, Rio Grande do Sul, Brasile | Passo Fundo | Opera per la gioventù abbandonata. Si risponde negativamente, per concentrare l’impegno sulle opere in Paraná |
1971 | Busto Arsizio | Milano | Orfanotrofio. Si risponde negativamente. |
1971 | Curitiba | Curitiba | L’arcivescovo monsignor Fadalto chiede l’apertura di una casa. Risposta negativa. |
1972 | Ponta Grossa | Ponta Grossa | Richiesta di una residenza Cavanis con due padri a Ponta Grossa, per pastorale universitaria e per residenza di P. Mario. Si rimanda la decisione ad altro anno. |
1974 | Barretos | Barretos, São Paulo, Brasile | Il vescovo Don José de Mattos propone all’Istituto di assumere una parrocchia. Non si accetta e anzi neppure si discute la cosa, per mancanza di personale. |
1980 | La Paz, Bolivia | La Paz | In occasione della visita da parte di P. Leonardi, su incarico del superiore regionale del Brasile, P. Guglielmo Incerti. |
1980 | Santa Cruz de la Sierra, Bolivia | Santa Cruz de la Sierra | Idem |
1980 | Cochabamba, Bolivia | Cochabamba | Idem |
1980 | Chapares, Bolivia | Erigendo Vicariato Apostolico di Chapares | Idem |
1989 | Soligo, provincia di Treviso | Vittorio Veneto | Richiesta di aprire o dirigere una casa di ritiri. Da non confondere con Pieve di Soligo. |
1991 | Colombia, varie proposte | varie | |
1991 | Ciudad del Este, Paraguay | Ciudad del Este |
Il 9 aprile 1939 P. Andreatta comunica ai suoi consiglieri riuniti che era stata richiesta una nuova fondazione dell’istituto da parte di monsignor Rovelo, vescovo di “Sinigallia” (Ancona). Inoltre comunica che il vescovo di Agrigento, avendo saputo che l’istituto aveva ricevuto un invito per fondare una casa a Cammarata – il che vuol dire che i padri non si erano rivolti a lui in occasione del viaggio dei due padri in Sicilia, grave errore -, suggerisce che Cammarata non è un luogo adatto affinché l’istituto si sviluppi, e suggerisce invece la città di Favara, nella stessa diocesi. Su incarico del preposito, P. Zamattio visitò Favara e vi trovò ottime possibilità, che corrispondevano bene ai consigli e suggerimenti del vescovo. Il consiglio tuttavia decise di lasciare ulteriori decisioni al capitolo generale che si sarebbe celebrato nel luglio successivo.
Fra le festività per il primo centenario dell’erezione canonica dell’istituto, il 30 aprile 1939 furono organizzate feste solenni nella chiesa di S. Agnese, recentemente restaurata, e nel conservatorio Benedetto Marcello a Venezia. La conclusione solenne del primo centenario dell’erezione canonica dell’istituto, si tenne il 7 maggio 1939, con un pontificale solenne presieduto dal cardinal patriarca Adeodato Giovanni Piazza nella chiesa di S. Agnese. La messa fu seguita da un pranzo tenuto nella sala Bernach, in istituto, nell’edufucio dello scolasticato, con la partecipazione anche del patriarca.
Dal 13 al 20 aprile 1939, sempre nel programma del centenario, c’era stata anche una visita a Roma del preposito P. Aurelio Andreatta, con lo scopo di ossequiare in udienza privata il nuovo Papa Pio XII, succeduto da poco al Papa Pio XI, molto compianto dall’Istituto, e di chiedere la benedizione papale per l’Istituto, i ragazzi, gli ex-allievi. La narrazione della permanenza romana del preposito, dei vari passi per ottenere l’udienza e dell’udienza stessa costituiscono un lungo e bellissimo testo di quasi sei pagine, cosa veramente straordinaria, vista l’abituale laconicità del P. Andreatta nella sua stesura del diario. Un particolare: mentre aspettava nel cortile di S. Damaso per avere istruzioni, nella fase preliminare, il preposito dovette aspettare più di mezz’ora senza muoversi, “essendovi sul cielo di Roma esercitazioni aeree dell’aviazione italiana, a carattere bellico, durante le quali anche il Governatore della Città del Vaticano aveva rese obbligatorie le norme vigenti per i cittadini di Roma circa l’arresto di ogni traffico e movimento”. La guerra si avvicinava.
In occasione del centenario venne anche ampliata e restaurata la grande cappella (l’oratorio dei piccoli, attualmente aula magna), nella quale il card. patriarca Monico aveva effettuato l’erezione canonica della congregazione. Fu posta nella sala la lapide commemorativa:
DEVOZIONE DI FIGLI ED ALUNNI
QUESTO ORATORIO
DOVE
IL 16 LUGLIO 1838
IL CARDINALE JACOPO MONICO
COMPIVA L’EREZIONE CANONICA
DELL’ISTITUTO DELLE SCUOLE DI CARITÀ
FONDATO DAI FRATELLI CAVANIS
A DISTANZA DI UN SECOLO
VOLLE AMPLIATO E ABBELLITO
Il 2 giugno 1939 si celebra la consacrazione della chiesa del S. Cuore nella località di Col Draga a Possagno, per la casa omonima degli esercizi spirituali. La bellissima chiesa era finalmente pronta, e il verbale del consiglio definitoriale del 18 luglio nota che con questo si spera che il collegio possa riprendere la vita normale e che si interrompa la situazione di disagio. Forse anche i collegiali e gli altri studenti, come certamente lo furono gli aspiranti del probandato, erano stati sottoposti a corvée per portare materiali di costruzione “in villa”, come si diceva. Ma certamente il disagio era dovuto anche al fatto che il rettore, P. Piasentini, si occupava moltissimo della casa del S. Cuore e trovava poco tempo per il collegio Canova e la relativa comunità religiosa.
Nello stesso verbale si parla della situazione della comunità e della scuola di S. Stefano di Camastra, non proprio soddisfacente: il comune non aveva ancora preparato la bozza di convenzione e inoltre non aveva provveduto ai lavori di ammodernamento e ampliamento dell’edificio; i membri del definitorio cominciavano a pensare che si era agito troppo in fretta ad accettare la fondazione e a metterla in opera, tanto più che il vescovo di Agrigento continuava a proporre la fondazione di Favara, che sembrava più allettante. Si dà un termine al podestà e all’arciprete di S. Stefano: se i lavori non fossero stati eseguiti e se il comune non avesse passato il contributo stipulato, non si sarebbe cominciato l’anno scolastico ad ottobre. La fondazione di Cammarata, cittadina troppo lontana dalle vie principali di comunicazione, viene definitivamente accantonata. Quella di Favara resta allo studio. P. Zamattio osserva anche che ogni convitto dovrebbe avere annesso un probandato, e afferma che la Sicilia si dimostra promettente come terreno di vocazioni.
La situazione della casa di S. Stefano sembrava viceversa incoraggiante dalla lettura del verbale del 21 settembre 1939, e si assegna un padre in più a questa casa, il padre novello Vittorio Cristelli. Ma era un’impressione ingiustificata.
Il 16 luglio 1939, intanto, si era tenuta una festa a Possagno, con la posa della prima pietra della chiesetta del probandato, intitolata nelle intenzioni iniziali alla Madonna del Carmine. Tale chiesa, costruita, su progetto dell’architetto Fausto Scudo di Crespano del Grappa, dal sig. Pietro Vardanega di Possagno con i suoi figli e con l’opera anche dei probandi di Possagno, fu inaugurata e benedetta dal preposito P. Aurelio Andreatta nella festa del Cristo Re, domenica 27 ottobre 1940. Più tardi, l’abside fu ornata da un bel mosaico di Cristo Re, e la cappella parve cambiare di titolo.
Dal diario di Congregazione si apprende ciò che già era conosciuto nella memoria orale dell’Istituto, cioè che P. Aurelio Andreatta, preposito, era stato incaricato dal patriarca di Venezia Pietro La Fontaine di essere visitatore dei religiosi canossiani. La visita del P. Andreatta avvenne inizialmente a livello patriarcale, dal 23 ottobre 1939, ma a partire dal 3 settembre 1944 essa fu Visita Apostolica, cioè promossa dalla S. Sede e continuò fino a primo capitolo generale di quell’istituto, celebrato dal 23 al 26 settembre 1946. I Canossiani avevano attraversato una fase di crisi numerica e si erano quasi estinti, ma attraversavano anche un periodo difficile di definizione del carisma e della struttura dell’Istituto, mentre si scrivevano le costituzioni; più tardi essi si ripresero e divennero piuttosto numerosi. Si dice che in genere il compito di un visitatore sia sgradito ai “visitati”: “Negli Istituti religiosi, come del resto nelle Diocesi, o nei Seminari, la Visita Apostolica è più temuta che desiderata.” Nel caso di P. Aurelio, la tradizione orale nell’Istituto Cavanis – come chi scrive ha sempre ascoltato – diceva che la sua bontà e umanità lo avevano fatto amare. In realtà pare che non sia così, e che in ambiente canossiano la “visita” di P. Aurelio Andreatta sia stata considerata, nel complesso, un fatto piuttosto negativo.
Tabella: religiosi Cavanis nel luglio 1939
Case | Padri | Fratelli laici |
Venezia | 15 | 3 |
Possagno | 9 | 3 |
Porcari | 10 | 1 |
Probandato di Possagno | 3 | 1 |
S. Stefano di Camastra | 3 | 1 |
Fietta del Grappa | 3 | 1 |
Totale | 43 | 10 |
Totale generale | 53 |
4.3 I tempi di Pio XII nella chiesa e nel mondo dal 1939 al 1958
Pio XII, papa Eugenio Pacelli, fu eletto e, qualche giorno dopo, il 2 marzo 1939, incoronato papa in un momento tragico della storia del mondo, all’immediata vigilia della seconda guerra mondiale, che si sentiva imminente.
Era proprio questa congiuntura internazionale che aveva favorito la rapida elezione del card. Eugenio Pacelli, già segretario di stato di Pio XI, grazie alla sua grande esperienza come legato pontificio e nunzio, la sua energia che sembrava indispensabile per resistere sia all’Italia fascista sia alla Germania nazista, e per far fronte con parresia alla situazione di guerra che si sentiva nell’aria.
Il nuovo papa, proveniente da una famiglia di avvocati e di giuristi tradizionalmente al servizio della santa Sede, era nato a Roma il 2 marzo 1876 , aveva seguito a Roma tutto il corso di studi e vi era stato ordinato prete, poi aveva seguito la carriera completa di incarichi alla santa Sede, cominciando da minutante, divenendo poi successivamente sotto-segretario, pro-segretario, segretario della Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari. Nominato nunzio pontificio a Monaco di Baviera, fu consacrato arcivescovo nella cappella Sistina nel 1917. Rimase nunzio in Germania dopo la fine della prima guerra, della caduta della monarchia, dell’installazione della repubblica di Weimar, in tempi tristi e difficili, e passò a Berlino nel 1925. Ricevette il berretto cardinalizio nel 1929, fu nominato segretario di stato nel 1930. Dei dodici anni trascorsi in Germania conserverà una conoscenza profonda della lingua, della cultura e della politica tedesche e, dicono alcune fonti, una grande simpatia per quel paese.
È un brillante canonista, come di tradizione nella sua famiglia, e un appassionato umanista, un uomo di carriera se si vuole, ma d’altra parte è un buon prete e un vero pastore, che si dedica con semplicità e dedizione pure a confessare e a predicare nelle parrocchie romane, che frequenta abitualmente e conosce a fondo.
Eletto papa, Pacelli rinunciò abbastanza presto (1944) ad avere un segretario di Stato, e diresse personalmente questo importante dicastero, servendosi di due pro-segretari, monsignor Giovanni Battista Montini e monsignor Domenico Tardini. Gradualmente la centralizzazione del suo governo e pontificato raggiunse il culmine, specie negli ultimi anni della sua vita. Accanto e più dei veri ufficiali di curia, guadagnavano progressivamente potere alcuni collaboratori improbabili del suo entourage: alcuni parenti, il suo medico, e la famosa e quasi onnipotente suor Pasqualina (o più propriamente Pascalina) Lenhert, tedesca, segretaria del papa e in qualche modo divenuta governante della casa pontificia, e inoltre vari gesuiti tedeschi. Il papa si isola così ed assume sempre più un aspetto ieratico e autocratico, quasi divinizzato, che non gli impediva tuttavia di essere venerato ed sinceramente amato dal popolo cristiano. Il centralismo romano con lui raggiunse però il suo culmine. La stessa curia romana, dominata per ora da cardinali italiani, diventa quasi dispensabile, non viene riformata, varie cariche vacanti restano tali, il funzionamento diviene discontinuo. Lo stesso monsignor Tardini definisce la curia romana un corpo in cui la circolazione del sangue diviene irregolare.
Per altro verso, il papa nel 1945, alla fine della guerra, nomina un grande numero di cardinali (ben 32), in maggior parte non italiani, rendendo così molto più internazionale e rappresentativo il corpo dei cardinali. Tra loro c’erano per esempio il primo cardinale cinese, un numero notevole di nuovi cardinali americani (10) del Nord (4) e del Sud (6); e il card. Agagianian, patriarca degli Armeni.
I tre cardinali tedeschi nominati in questa occasione erano vescovi che si erano distinti nella pericolosa e preziosa opposizione al nazismo.
Nel 1953 in un altro concistoro il papa rese ancora più internazionale il collegio cardinalizio con altri 24 cardinali. Gli italiani ormai, contro la tradizione, rappresentavano solo un quarto del collegio.
Il pontificato di Pio XII vide la crescita quasi spontanea di riunioni e sinodi di vescovi a livello nazionale e anche continentale, e la formazione di conferenze episcopali in genere di iniziativa locale, ma con approvazione pontificia. Nel 1954 il papa riconobbe l’esistenza di fatto di tali conferenze, che erano 43 alla fine del suo pontificato. Egli stesso aveva istituito una conferenza continentale, la CELAM, ossia la Conferenza episcopale Latino-americana, nel 1955. Delle conferenze episcopali non si parlava nel Codice di Diritto canonico del 1917 (se ne parla veramente troppo poco anche nell’attuale, del 1983!) ma l’Annuario pontificio del 1959, edito poco dopo la morte di papa Pacelli, ha una rubrica “Conferenze episcopali”.
Tra le numerose encicliche e le innumerevoli allocuzioni e altri documenti del suo prolifico magistero, rivolto a tutte le categorie, si vogliono ricordare qui l’enciclica Mystici corporis (29 giugno 1943), un’enciclica che sembra purtroppo voler ridurre il Regno di Dio alla Chiesa, più specificamente alla sola Chiesa Cattolica in senso stretto, ossia la Chiesa cattolica romana; e l’enciclica Humani generis (12 agosto 1950), in cui tra l’altro il papa Pio XII apriva felicemente la strada all’accettazione ufficiale dell’evoluzione biologica da parte della Chiesa, sia pure definendola per allora soltanto come ipotesi scientifica, sotto alcune condizioni dichiarata non contraria alla fede nella creazione. Giovanni Paolo II sintetizza così l’insegnamento del suo predecessore: “Pio XII aveva già affermato che non vi era opposizione fra l’evoluzione e la dottrina della fede sull’uomo e sulla sua vocazione, purché non si perdessero di vista alcuni punti fermi (cfr AAS 42, 1950, pp. 575-576).” Non era ancora molto, davanti agli innumerevoli fatti biologici e paleontologici già a quel tempo incontestabili, ma era un grande passo in avanti, dopo secoli di opposizione del magistero della Chiesa al mondo della scienza, almeno dai tempi di Galileo Galilei (1633: processo, condanna e abiura di Galileo).
In questa enciclica, di passaggio, vorrei ricordare che Pio XII cita implicitamente opere a quel tempo recentemente pubblicate dal paleontologo e geologo Piero Leonardi sul tema della conciliabilità dell’accettazione dell’evoluzione biologica e della fede nella creazione.
Sarebbe molto interessante svolgere i temi del magistero del pontificato di Pio XII nelle aree dell’educazione, della morale familiare, della dottrina sociale della chiesa. Tuttavia, per comprendere meglio la vita, le attività e le reazioni dell’Istituto Cavanis durante il periodo fascista e durante la seconda guerra mondiale e il dopoguerra, sembra più utile qui accennare alla personalità e all’attività del Papa Pio XII durante questo periodo, particolarmente per quanto riguarda la sua attività internazionale nel tempo della guerra e la discussa attività sua e della Chiesa universale a riguardo del nazismo e dell’abbominevole e criminale sterminio degli ebrei d’Europa e, in misura minore, di altri innocenti appartenenti ad etnie definite assurdamente “non ariane”, purtroppo anche in documenti della S. Sede durante gli anni del genocidio degli ebrei da parte della Germania, e degli oppositori del regime.
A questo tema è stato dedicato un dibattito interminabile, e si può consultare una bibliografia infinita. Non è ovviamente possibile né conveniente parlarne a lungo e d’altra parte è presuntuoso riassumere in poche linee un insieme di avvenimenti e di fatti così numerosi e complessi.
Già il 24 agosto 1939, alla vigilia della guerra, papa Pacelli aveva pronunciato delle parole che in fondo riprendevano quelle di Benedetto XV, 25 anni prima, sull’ “inutile strage”: “Niente è perduto con la pace, tutto è perduto con la guerra”.
Dopo l’inizio della guerra (1° settembre 1939), con l’invasione della Polonia da parte della Germania e sedici giorni dopo (17 settembre 1939) da parte dell’Unione Sovietica, la santa Sede, e papa Pio XII personalmente, adottarono una imparzialità che non era neutralità passiva, ma attiva critica evangelica a tutto ciò che era ingiusto, violento, contrario al diritto delle genti e delle persone, da qualsiasi parte venisse; anche se si può chiedersi se era giusto dichiararsi imparziali davanti a fatti tanto spaventosi. Il papa spiegherà accuratamente questo atteggiamento già durante la guerra e più in dettaglio dopo la fine della stessa. Tentò senza alcun successo, ma impiegandovi tutti gli sforzi, di impedire che l’Italia entrasse in guerra. Inviò messaggi di simpatia ai sovrani del Belgio, Olanda e Lussemburgo, vittime dell’invasione e dell’occupazione tedesca, augurando che i loro paesi potessero ritornare all’indipendenza e alla pace. Quando l’ambasciatore italiano, incaricato da Mussolini, reagì formulando una protesta carica di minaccia, il papa in quell’occasione pronunciò la famosa frase che era disposto di andare anche in un campo di concentramento se fosse necessario, e che riaffermava la sua libertà d’azione; ricordò anche le parole di S. Caterina da Siena: che il Papa doveva rendere conto a Dio se non compisse il suo dovere.
Il papa mantenne questa imparzialità anche quando, circa due anni più tardi, fu invitato pressantemente da fascisti e nazisti ad appoggiare la guerra (che i nazisti dichiaravano essere una crociata) contro la bolscevica Unione Sovietica da parte delle rispettive forze armate; e ciò nonostante egli fosse personalmente del tutto convinto della pericolosità di quello stato bolscevico per la Chiesa e per il mondo, e particolarmente per l’Europa orientale e centrale: non voleva che la guerra all’est venisse interpretata come una crociata. Si comporterà d’altra parte nello stesso modo in varie altre fasi della guerra, come pure finita la guerra, durante la guerra fredda, quando saranno gli Stati Uniti d’America a chiedere l’appoggio morale della S. Sede nella lotta contro l’URSS.
Il papa mantenne in genere un silenzio calcolato, evitando di esprimersi in documenti pubblici, quando non era strettamente necessario parlare, soprattutto per evitare rappresaglie verso le chiese locali, i vescovi, i cristiani, e ancor più per evitare di ottenere effetto contrario. Privilegiava invece l’agire piuttosto con contatti indiretti, attraverso i nunzi, gli episcopati dei vari paesi, o per mezzo di cardinali e vescovi di spicco, che accettassero di parlare a suo nome, il che non era sempre facile o possibile. Purtroppo però nel frattempo l’azione della chiesa universale veniva resa più difficile dal fatto che i nunzi pontifici venivano espulsi via via da molti paesi dominati direttamente o indirettamente dalle forze armate naziste (come accadde in Belgio e Olanda il 15 luglio 1940).
Difficile giudicare oggi; certo si sarebbe voluta una condanna esplicita della Germania nazista, del nazismo in sé e del fascismo. Una loro condanna chiara avrebbe dovuto essere accompagnata da una condanna del comunismo sovietico, e non era opportuno farlo dato che al momento l’Unione Sovietica era alleata con le potenze democratiche in lotta contro la Germania e i suoi alleati o piuttosto satelliti. In effetti, dopo l’estate 1941, con l’invasione della Russia da parte delle forze di Hitler, non si trova solo una condanna ma neppure la parola “comunismo” nei documenti pontifici
Per quanto riguarda la persecuzione sistematica e il genocidio degli ebrei, la questione è più dolorosa. Dopo la fine della guerra, Pio XII ricevette molti segni di attestazione e di gratitudine da parte di ebrei, rabbini, enti, per le sue prese di posizione e per i suoi interventi concreti. La polemica cominciò più tardi, nel 1963, cinque anni dopo la morte del papa (1958), con la pubblicazione del dramma teatrale “Il Vicario” dall’autore tedesco Rolf Hochhut, sul tema del “silenzio” di papa Pacelli. Esso dette origine a tutta una storiografia contraria al papa, definito filotedesco e antisemita. La tesi di tali opere drammatiche o storiografiche è che il papa avrebbe evitato di parlare contro lo sterminio degli ebrei e contro il nazismo stesso per non mettersi in urto con la Germania, che egli avrebbe visto come un baluardo anti-sovietico. La santa Sede prese l’iniziativa di pubblicare l’opera “Atti e documenti della Santa Sede durante la Seconda Guerra Mondiale”, di cui i dodicesimo e ultimo volume uscì pubblicato nel 1981.
La lotta della santa Sede contro il razzismo fascista e nazista e più specificamente contro l’antisemitismo fu chiara e insistente sotto il pontificato di papa Pio XI, come si è detto. A questa lotta partecipò personalmente, come collaboratore di questo papa, il monsignore e poi cardinale Eugenio Pacelli. Questi, divenuto Pio XII, riprese vari elementi di questa dottrina nella sua prima enciclica Summi Pontificatus del 20 ottobre 1939. Tuttavia, di proposito, come dichiarano gli editori dell’opera “Atti e documenti” citata sopra, gli interventi della santa Sede in questo campo durante il conflitto mondiale furono “discreti, se non confidenziali”.
Interventi a favore della salvezza degli ebrei, non solo degli ebrei di religione cristiana, ma di tutta la comunità giudaica, tuttavia ci furono e in modo sistematico fin dall’inizio del conflitto e durante tutta la guerra. Tali interventi non ebbero alcun successo per quanto riguarda la Germania, ma ebbero successi anche notevoli quando si trattava degli alleati della Germania, soprattutto fino all’inizio del 1942: almeno in Italia, nella Francia di Vichy, in Slovacchia, in Ungheria. Nella Polonia occupata fin dal 1939 la santa Sede non ebbe alcuna possibilità di intervenire.
La situazione in seguito divenne ben più grave. Il papa venne a sapere chiaramente della deportazione e del piano di sterminio degli ebrei qualche tempo dopo del suo inizio, nella primavera del 1942. In seguito, l’occupazione dei paesi suddetti da parte della Germania resero ancora più difficili o impossibili gli interventi della santa Sede. L’intervento diplomatico del papa in favore degli ebrei di Roma, verso l’ambasciatore tedesco presso la santa Sede e presso le forze armate tedesche di occupazione riuscì a interrompere la deportazione; purtroppo un migliaio di ebrei romani erano già partiti per i campi di concentramento.
Pio XII del resto parlò chiaramente in pubblico in alcune occasioni. Tali dichiarazioni furono esplicite e vennero a conoscenza degli interessati, fascisti e nazisti, e ci furono pure proteste diplomatiche dalla Germania e dall’Italia, il che significa che le parole del papa Pacelli avevano colpito nel segno e che erano state raccolte.
Oggi si desidererebbe che Pio XII avesse gridato più spesso come un profeta, come Geremia per esempio, contro lo scempio del popolo degli ebrei, quelli che oggi chiamiamo a buona ragione i nostri fratelli maggiori: “Una voce si è udita in Rama, grande clamore e pianto. Rachele piange i suoi figli e non vuol essere consolata, perché essi non sono più” (Ger 31,15; Mt 2, 18). Ma bisognerebbe entrare nel cuore di papa Pacelli e nella sua mente per capire il processo che lo portò a scegliere la linea di condotta sopra accennata, ad evitare peggiori eccessi. Avrebbe bisognato vivere quel periodo tanto tragico, essendo papa, per poter giudicare.
Vale tuttavia ricordare la sua frase sopracitata all’ambasciatore d’Italia, quando disse che era disposto ad andare personalmente a farsi chiudere lui stesso in un campo di concentramento; e ancor più le parole drammatiche che il papa scrisse al vescovo di Würzbourg: “Dove il papa vorrebbe gridare alto e forte, è l’attesa e il silenzio che gli sono imposti; là dove egli vorrebbe agire e aiutare, è la pazienza e l’attesa che s’impongono”. E il giudizio va lasciato al Signore, e anche alla storia, da una prospettiva un po’ più lontana.
Pio XII morì dopo più di diciannove anni di pontificato il 9 ottobre 1958. Era stato una figura così imponente, così venerata e così, in certo modo, ormai necessaria, che la sua morte lasciò il mondo stupito e come vuoto. Non si sapeva ancora che cosa avrebbe provvisto in seguito per la sua Chiesa e per la sua gloria lo Spirito Santo!
4.4 Pio XII e l’Istituto Cavanis
L’Istituto Cavanis aveva avuto vari contatti di vario genere con il papa Pacelli e con la curia romana durante questi quasi vent’anni di mandato pontificale. Il contatto più importante e più benefico, fu senza dubbio la donazione, durante il mandato di questo grande papa, da parte della santa Sede all’Istituto del grande lotto con villa detta “Villa Castelli-Eichberg”, al n° civico 600 della via Casilina, nel quartiere popolare di Tor Pignattara, che a partire dal 1946 sarà sede di una nostra comunità e della scuola; più tardi sarà sede del nostro seminario maggiore teologico italiano (dal 1967), della Curia generalizia (dal 2 febbraio 1997) e, nei dintorni, del seminario maggiore internazionale della Congregazione (1999) e della parrocchia dei SS. Marcellino e Pietro, affidata all’Istituto il 12 febbraio 1989. Alla cura dell’Istituto, o meglio alla cura del parroco Cavanis della parrocchia stessa, saranno affidate le splendide catacombe dei SS. Marcellino e Pietro (13 aprile 2014).
4.5 Padre Aurelio Andreatta, preposito generale (seconda parte)
Le cose, a Santo Stefano di Camastra, in Sicilia, non accennavano realmente a migliorare. In proposito, si può leggere nel diario di congregazione la lunga e interessante relazione del viaggio a S. Stefano del preposito, P. Andreatta, che prelude alla chiusura di quella casa. Il 28 aprile 1941 arriva a Venezia la notizia che, contrariamente alle aspettative, sorte a causa delle lusinghiere parole di stima e di apprezzamento di un ispettore ministeriale, non è stata concessa la parifica alla scuola dei padri Cavanis a S. Stefano. P. Aurelio Andreatta annota di seguito che “parla di ciò col P. Zamattio, che va sempre più aggravandosi. Il P. Zamattio scuote la testa ed esprime i suoi dubbi sulla stabilità di quella fondazione.”
La morte prematura di P. Agostino Zamattio, avvenuta pochi giorni dopo, il 2 maggio 1941, porta il preposito, P. Aurelio Andreatta, a porre “in discussione la continuazione dell’opera nostra nella casa di S. Stefano di Camastra, e legge la relazione fatta da P. Zamattio nell’ultimo periodo di sua permanenza in Sicilia. Da questa si ricavano le grandi difficoltà che si presentano per l’incremento dell’opera nostra a S. Stefano e la mancanza da parte dell’Amministrazione Comunale degli aiuti e migliorie promesse. A questo si aggiunge la mancata approvazione dell’ENIM (Ente nazionale Istituti Medi) giustificato dalla mancanza di insegnanti abilitati. In questo ultimo tempo la GIL (Gioventù Italiana del Littorio) domanda che si provveda alla palestra per l’educazione fisica.
Si riconosce il bene fatto dall’Istituto ed in particolare da P. Zamattio nel ministero delle anime; ma si osserva che in queste condizioni l’incremento dell’opera è umanamente impossibile e quindi il Preposito propone la chiusura di detta Casa.
La votazione dà: votanti quattro; voti favorevoli alla chiusura quattro.” Nella riunione successiva, del 9 luglio 1941 il preposito dette relazione delle provvidenze prese per la chiusura effettiva della casa e per il ritiro dei religiosi: “Essendo stato notificato alle Autorità locali la decisione del precedente Capitolo, si è avuta una immediata reazione. Dopo alcune lettere delle Autorità e persone che si interessavano della continuazione dell’opera nostra nel paese, arrivò a Venezia dal Superiore Generale una deputazione alla quale dovette assistere anche il P. Antonio Turetta, con lo scopo di ottenere la revoca della precedente decisione. A tutti questi interessamenti il Preposito ha risposto con la necessaria prudenza. Il Capitolo, conoscendo come sussistano tutte le ragioni che hanno determinato la precedente deliberazione, pur considerando con soddisfazione l’interessamento delle autorità e della popolazione a nostro riguardo, riconferma il richiamo dei religiosi e la chiusura della Casa di S. Stefano di Camastra.”
In molti dei verbali precedenti del consiglio definitoriale si era parlato dell’istituzione della congregazione delle suore; P. Zamattio amava parlare di “rifondazione” perché, insisteva, si trattava di ricominciare ciò che avevano istituito i fondatori e che purtroppo era stato interrotto.
Nella riunione del consiglio definitoriale del 9 luglio 1940 Si parla ancora, ampiamente, della questione dell’Istituto Filippin e del desiderato (non da tutti) ramo femminile dell’istituto Cavanis. Vale la pena di trascrivere integralmente la pagina:
“Viene quindi messa in discussione la domanda del sacerdote Prof. Erminio Filippin. Qualcuno ha manifestato dei dubbi sulla sincerità delle proposte; ma vi sono argomenti molto seri che mostrerebbero la buona volontà da parte del prof. Filippin. Il Preposito dà lettura di una lettera nella quale lo stesso professore, mentre chiede altri nuovi insegnanti per le sue scuole, manifesta chiaramente la sua volontà di cedere tutta la sua opera all’Istituto. I Padri che hanno insegnato per due anni nella scuola del Prof. Filippin hanno riportato la stessa impressione. Viene citato pure come testimonio autorevole Don Giovanni Andreatta il cui affetto per il nostro Istituto non può essere messo in dubbio.
Il Preposito riporta il pensiero più volte espresso del professore: egli cederà tutto ai Cavanis appena avrà finito di costruire l’ultima parte del locale e la chiesa secondo un progetto già esistente. Intanto i Padri, secondo la loro possibilità, svolgeranno l’opera loro nelle scuole per togliere anche interamente l’istruzione impartita dai secolari, entrando anche nel campo disciplinare per assumere in pieno la direzione dell’opera. Il testamento del Prof. Filippin, noto al Preposito, conferma tale proposito e non ammette dubbi su questo punto.
Don Giovanni Andreatta, padre spirituale dell’opera del Filippin, è tanto persuaso del pensiero del fondatore che è disposto a cedere ai Padri Cavanis la sua casa e quanto fu costruito vicino ad essa per lo scopo degli Esercizi Spirituali, nonché il fondo e le adiacenze di sua proprietà, perché ci possano stare i Padri fino a tanto che non avranno il loro conveniente appartamento nell’edificio Filippin. Questo stesso fondo nella località 4 strade ceduto in possesso all’Istituto Cavanis potrà essere adibito ad abitazione per suore o a qualche altro scopo pio a cui l’Istituto vorrà destinarlo.
P. Zamattio espone le favorevoli condizioni proposte all’Istituto per la fondazione di Favara ed insiste perché sia accettata per l’inizio del nuovo anno scolastico. I Padri Definitori sono concordi nel riconoscere le buone condizioni che ci sono proposte; ma l’Istituto, dopo le tristi vicende di questi ultimi giorni, non è in grado di assumere per quest’anno un nuovo impegno per mancanza di soggetti: in questo senso si scriverà ai proponenti rimandando l’accettazione al tempo in cui sarà possibile.”
Nella stessa riunione viene proposta e approvata anche l’erezione come casa o famiglia religiosa formale di Fietta del Grappa, di cui l’edificio era di proprietà dell’amico don Giovanni Andreatta. Vi abitavano da tempo i tre religiosi Cavanis che insegnavano nell’Istituto Filippin e un fratello laico. “Sarà quindi chiesta all’Opera Filippin una sovvenzione mensile di lire millecinquecento. Se queste condizioni saranno accettate, faranno parte della nuova famiglia il P. Gioacchino Sighel e il P. Angelo Sighel. Il P. Valentino Fedel, non ritenuto idoneo per il suo carattere all’ufficio di pro-rettore, potrà essere sostituito dal P. Mario Janeselli. A questi tre sarà assegnato come fratello laico fra Vincenzo Faliva.”
Alla fine della riunione del 9 luglio 1940, si provvide alle cariche e ci furono vari cambiamenti anche se in parte poco chiaramente espressi, e più tardi riveduti in modo piuttosto confuso. Dopo la brevissima esperienza di separazione tra le cariche di preposito e di rettore della casa-madre di Venezia, con il P. Zamattio come rettore, la partenza di questi per S. Stefano di Camastra lasciò la casa di Venezia senza rettore. Probabilmente P. Aurelio Andreatta fu per due anni rettore interino o informale, non si trova traccia infatti di una nomina o elezione. Solo nella riunione di questo consiglio definitoriale si decide di recedere dall’interessante pratica di separare le due cariche, e a P. Andreatta viene affidato anche l’incarico di rettore di Venezia, ritornando così alla forma tradizionale. Inoltre, ci si rese conto che il rettore del Collegio e della comunità di Possagno non poteva essere allo stesso tempo responsabile della casa del S. Cuore a Coldraga, sulla collina a nord di Possagno, “perciò i due uffici saranno distinti”. Non si definisce ulteriormente, per il momento, questa decisione con una nomina e/o con la formazione di una comunità separata.
A Fietta del Grappa, anche se non chiaramente, risulta che P. Mario Janeselli diviene pro-rettore di quella piccola comunità. Un nuovo cambiamento vi avviene nel luglio 1941: il direttore, monsignor Filippin, non era soddisfatto della disciplina e del profitto. Il capitolo definitoriale del 9 luglio 1941 decise allora che P. Goachino Sighel sarebbe stato incaricato come assistente alla disciplina con la collaborazione del P. Angelo Sighel, che passerebbero ad abitare nell’Istituto Filippin, pur rimanendo legati alla non lontana comunità Cavanis di Fietta del Grappa. Inoltre altri due padri sono assegnati all’opera del Filippin e alla casa di Fietta: i padri Pio Pasqualini e Angelo Guariento. Si lavora anche a produrre un ulteriore testo di accordo con monsignor Filippin e alla redazione di un regolamento di disciplina.
Le case della congregazione a questo punto sono diventate abbastanza numerose (sei) e nella riunione del consiglio definitoriale del 1° luglio 1940 si pensa a una migliore organizzazione: “Così sarà regolata uniformemente l’applicazione delle SS. Messe; sarà preparato un libretto di orazioni comuni a tutti i membri dell’Istituto. Saranno rese ancora uniformi le preghiere degli alunni prima e dopo le lezioni. Ciascuno dei Padri apporrà la sua firma ai casi di Morale e di Liturgia che saranno proposti per la soluzione, secondo le Regole e ciascuna casa avrà un libro o quaderno per i Verbali del Consiglio. Saranno date disposizioni per i Diari della casa e per il funzionamento delle biblioteche.”
Il 18 marzo 1941 nel capitolo definitoriale si parla di istituire un’associazione dei “Cooperatori dell’Istituto”; il preposito legge uno schema di statuto. Non se ne farà poi nulla, salvo che nella casa di Roma.
“1941 (19 ottobre) — Fu aperto a Vicopelago (Lucca), nella “Villa dell’orologio”, il probandato (seminario minore) della Toscana, diretto da P. Carlo Donati e trasferito ben presto a S. Alessio, ugualmente in provincia di Lucca, dove continuò l’opera formativa del seminario, con un numero considerevole di aspiranti, fino a una sessantina, sino alla chiusura della casa intercorsa nel 1952. Da questi seminari arrivarono numerosi e preziosi religiosi toscani della nostra congregazione.”
Nel 1942 si arriva alla conclusione dell’esperienza, del tutto fallita, di collaborazione con monsignor Erminio Filippin, a grave danno della Congregazione. Da tempo il preposito e i definitori avevano perso la loro fiducia nel Filippin, al quale avevano dedicato gratuitamente – ricevendo solo le spese del mantenimento – un numero sempre maggiore di religiosi insegnanti, ultimamente i cinque padri Mario Janeselli (pro-rettore), Gioacchino Sighel (Vicario), Angelo Sighel, Pio Pasqualini, Angelo Guariento e Fratel Vincenzo Faliva di appoggio logistico, riuniti in comunità nella casa di Fietta, ma due di loro, i padri Gioacchino e Angelo Sighel residenti nell’Istituto Filippin. Era sempre più chiaro per il governo della congregazione che il Filippin si approfittava della loro opera, e che la promessa del testamento che lascerebbe l’opera intera all’Istituto Cavanis era una pura chimera: un testamento poteva essere cambiato ad ogni momento, come di fatto accadde e come si scoprì più tardi, e altre garanzie furono chieste e mai accettate o concesse. Verso la fine dell’anno scolastico 1941-42 divenne evidente che il monsignore agiva in malafede.
Vale la pena di leggere il testo completo che si riferisce a questo tema nel verbale della prima sessione della riunione del capitolo definitoriale del 2 aprile 1942, vergato dal P. Mario Janeselli, segretario. Subito dopo dei preliminari della seduta si trova il seguente testo: “Ora si viene a trattare la questione più importante dell’Istituto Filippin. Il Preposito ricapitola brevemente le varie fasi della domanda del Sac. Professor Filippin e della nostra cooperazione nel suo Istituto. Ricorda la decisione del Fondatore di cedere l’opera ai Cavanis, le promesse ed il testamento nel quale la Congregazione è lasciata erede di ogni cosa. Ma come circostanze più vicine abbiano voluto la cooperazione di due Padri per la disciplina nell’anno in corso, i quali non sono soddisfatti di quello che è loro permesso di fare; un regolamento disciplinare fatto dal Preposito secondo i criteri educativi dell’Istituto nostro e approvato dal Prof. Filippin è restato lettera morta. Intanto verso Natale, per la mancata applicazione del Regolamento si avvera qualche interferenza tra i Padri incaricati della disciplina ed il Direttore: la cosa fu appianata, ma le difficoltà rimasero.
Intanto per Natale erano comparse le nuove disposizioni per gli esami secondo le quali l’Istituto Filippin, non gestito da un ente pubblico, non avrebbe potuto essere sede di esame. Allora il Prof. Filippin intraprese delle trattative col Vescovo di Treviso per rendere vescovile il suo Istituto. Così, senza consultare i Superiori della Congregazione alla quale aveva fatto tante promesse, conchiuse col Vescovo una convenzione della durata di trent’anni. Di tale convenzione il Preposito legge ai Capitolari la copia che il Prof. Filippin gli ha consegnato a fatti compiuti.
Ogni padre Cavanis un nomignolo
Gli studenti sono terribili! Non c’è quasi padre Cavanis che non avesse il suo bravo nomignolo. Non ne scappavano neanche alcuni professori laici. È un tema che non si troverà facilmente nei libri di storia. Qui ne ricordiamo alcuni più famosi, usati soprattutto nella casa di Venezia.
P. Aurelio Andreatta, insegnante di italiano nei licei, era chiamato “Balocca”, forse perché, dato che parlava una lingua italiano letterario, avrà detto a un ragazzo durante la lezione che “si baloccava” e il nome restò. P Antonio Cristelli, professore di latino e greco, per il suo aspetto bonaccione e il volto rotondo era chiamato “il bonzo”, e c’erano anche due “bonzetti”, per analoghi motivi, P. Vittorio Cristelli e P. Valentino Pozzobon, ambedue insegnanti di lettere e lingue classiche nelle scuole superiori. P. Luigi Candiago era chiamato a Roma, nelle nostre scuole, “Padre Mezza lira” perché, preoccupato con la situazione economica molto debole (cronicamente) di quella casa, che si dedicava a scuole gratuite e realmente popolari, chiedeva 50 centesimi ai ragazzi che volevano giocare al calcetto o altri giochi. A volta proponeva anche l’acquisto, sempre a mezza lira, di squadre, righe o stecche e così via. P. Vittorio Cristelli era chiamato anche “Fango”, perché nelle sue prediche, che in tempi moralistici vertevano molto spesso sulla purezza e la castità, citava più spesso il fango che la purezza. P. Ermenegildo Zanon per il suo aspetto ingenuo e angelico era “Celestino”. L’ottimo P. Francesco Rizzardo, professore di lettere e per lungo tempo segretario delle scuole di Venezia, era chiamato “el Talpa”, per motivi che ignoro; P. Riccardo Janeselli, insegnante di matematica e fisica, per motivi che è meglio ignorare, “il Bocca”. P. Gioacchino Sighel, prezioso insegnante di francese, con la sua pelle un po’ scura, era chiamato “Bozambo”, il nome di un eroe nero della Nigeria, di cui passava un film in Italia negli anni Cinquanta, anche se era stato prodotto nel 1935, in cui Bozambo era il protagonista principale. P. Aldo Servini, valente professore di scienze nei licei, si chiamava “Bettina”, nome che senz’altro non gradiva e che, per conto di chi scrive, non conveniva. Gli veniva dato forse per la voce un po’ chioccia. P. Vincenzo Saveri, che aveva l’abitudine di tenere sulla cattedra il grosso pugno sinistro chiuso, con il pollice alzato e curvato un po’ all’indietro, si chiamava “el ganzo” [il gancio] I due fratelli Mason, P. Orfeo e P. Silvano, forse per un soprannome di famiglia trasferito nella scuola e in comunità (almeno per P. Silvano), si chiamavano in veneto “S-cione” [ganci o chiodi a occhiello]. P. Diego Dogliani era chamato Pollio o Pollioni, per l’assonanza di un nome latino con il suo cognome. L’angelico P. Sergio Vio si chiamava a Roma “Pendolino”, per via del naso piuttosto sviluppato; Bruno Lorenzon, giovanissimo, ancora seminarista nei primi anni Cinquanta, quando era assistente dell’anziano insegnante di disegno P. Giovanni D’Ambrosi, aveva il dolce nomignolo di “Seleghéta” [passerotto] tanto era magro e sembrava sub-nutrito; P. Luigi Toninato, per il suo fisico atletico e piuttosto da pugile, era “Cavicchi”. E infine P. Lino Janeselli, a Chioggia la gente lo chiamava “El prete pescaòre”, cioè il prete pescatore, perché soprattutto dopo essere andato in pensione, si dedicava alla pesca alla lenza dalla riva del Centro professionale Maria Immacolata, sempre seguito da un gatto al quale immancabilmente dava i miseri pesci che pescava.
Un professore laico di arte molto competente alle scuole superiori di Venezia si ebbe negli anni Cinquanta una specie di nomignolo anche lui, e in poesia maccheronica: “Pilo De’ Capacis, barba e mustacis”.
Anche chi scrive ebbe l’onore di avere un nomignolo, ma soltanto in ambiente romano, dai ragazzi dell’Istituto Tata Giovanni: Cannavota, parola che è nome di località a Roma e in provincia di Grosseto e di molti ristoranti e trattorie. Viene chiamata così la canna che i soldati posero per scherno come scettro tra le mani di Cristo nella passione, secondo i discorsi del P. Gregorio Mastrilli (1607); ma suppongo che i callarelli mi chiamassero così perché all’epoca ero molto giovane, molto magro; e “canna vota” vuol dire “giunco”.
I nomignoli erano in uso – contro la regola – anche tra seminaristi teologi, almeno negli anni ’60, ma senza dubbio anche in seguito, ed erano nomignoli amichevoli e scherzosi, perché eravamo realmente molto amici: il chierico Remo Morosin era detto dai suoi pari “Capo”, per essere stato per un certo tempo responsabile della rivista SOS, Guida cinematografica, e all’epoca ci passava fogli di carta bisnca, spago, colla e altre cose utili, a differenza di altri “capi” precedenti; Fernando Fietta “Pig” – per motivi ora non evidenti o ricordati, forse legati ai primi tentativi di studiare inglese, come pure per essere piuttosto grasso; ma anche “Bùgiu”; Giuseppe Leonardi “Braccobaldo”, poi abbreviato in “Bracco”, a partire dal personaggio di un fumetto; Diego Spadotto a volte “orso”, altre “Gatto Silvestro” o “Silvestro”; Fabio Sandri “Strozzius”; P. Silvano Mason, anche in questo ambiente, “S-cione”; Giancarlo Tittoto “Titta”; …..; senza contare qui altri semplici diminutivi e le abbreviazioni.
Del resto, P. Pietro Spernich, “vir simplex et timens Deum”, primo compagno dei Fondatori, da seminarista ancora giovanissimo, attorno al 1820, era chiamato el vecio, ossia il vecchio, dai suoi pari; dato che in effetti era il più vecchio dei membri del nascente Istituto, esclusi i due fratelli Cavanis, e l’unico che fosse nato, per poco, nel XVIII secolo (1798). Lo si chiamava anche sbèzzola o «sbèzoléta», nome che in veneziano fa riferimento a un volto con il mento molto sporgente.
Da tutto questo il Preposito cominciò a dubitare seriamente della promessa del Prof. Filippin e chiese delle garanzie, non bastando il testamento che può essere cambiato colla massima facilità. Mentre anche secondo il giudizio dei legali consultati in proposito non restava altra sicura garanzia che la donazione, questa veniva rifiutata dal prof. Filippin.
Intanto si presentava l’occasione per comperare la villa De Mattia ad Asolo e Filippin comunica le sue idee ed i suoi propositi al Preposito. Questi, anche per risparmiare le tasse di registrazione, suggerisce di mettere il nuovo acquisto in ditta dell’Istituto Cavanis. Filippin approva, ma all’atto pratico fa in nome proprio il contratto, non sentendosi in grado di fare donazione, mentre chiede del personale per aprire la nuova scuola di Asolo, si protesta disposto a dare qualunque garanzia. Il Preposito nel suo colloquio con Filippin in data 21 marzo ha cercato di chiarire le cose e sopra tutto che lo spirito dei Cavanis è diverso da quello del Prof. Filippin ed ha chiesto che la nuova sezione di Asolo potesse essere completamente gestita dalla Congregazione, versando anche, se fosse stato necessario, un materiale compenso; la proposta fu da lui respinta.
Da tutto questo si ricava che le prime intenzioni del Filippin nei riguardi dell’Istituto sono cambiate; che lo spirito nostro è diverso dal suo e che, stando così le cose, l’opera di penetrazione dei membri della Congregazione che prestano la loro opera all’Istituto Filippin è molto difficile e assai scarsa; che la Congregazione dovrebbe aumentare ogni anno il personale dell’Istituto Filippin, soggetto per trent’anni all’autorità e dipendenza dal Vescovo, in attesa della cessione o della morte del fondatore per poter avere quanto questi ha promesso.
Discussa la situazione, i Pp. Definitori sono concordi nel giudicare che questa non è secondo i patti e le passate promesse, né decorosa per l’Istituto nostro, né tale da poter essere ancora continuata e perciò di comune accordo viene scritta la lettera colla quale si avverte il Prof. Filippin che col termine dell’anno scolastico i membri della nostra Congregazione cesseranno qualunque ulteriore attività nel suo Istituto.
Di tale lettera, fatta pervenire all’interessato il giorno 3 corrente, si conserva copia negli Atti.”
Il verbale della seconda sessione di questo stesso capitolo definitoriale, tenuta in data 4 aprile 1942, continua: “Il P: Preposito riferisce sul colloquio avuto col Prof. Filippin il giorno tre. Così legge la lettera di risposta a quella speditagli il giorno precedente: tale risposta passa agli atti. Tanto nel colloquio quanto nella lettera, il Prof. Filippin non fa che deplorare il fatto e l’atteggiamento assunto dalla Congregazione a suo riguardo, ma non porta nessun argomemto che possa modificare la situazione precedente. Perciò si propone l’approvazione di quanto è stato fatto e deliberato. La votazione dà: votanti cinque; voti favorevoli cinque. Viene quindi reddata (sic) una breve lettera di conferma di quanto era stato deciso nella seduta precedente ed inviata al Prof. Filippin: una copia resta agli atti.”
Un incontro del preposito con il vescovo di Treviso monsignor Antonio Mantiero fece scoprire che il vescovo non aveva conoscenza dei motivi e delle modalità della presenza e attività dei Cavanis nell’Istituto Filippin, e che egli si rammaricava che lasciassero l’opera; d’altra parte il vescovo non dimostrò sensibilità verso l’istituto, “non affrontò le questioni scottanti” e non si ottenne da lui alcun aiuto. Il capitolo definitoriale del 16 maggio 1942, il cui verbale narra di questo incontro, non poté allora che confermare il ritiro dei religiosi Cavanis dall’istituto di Paderno del Grappa e dalla casa di Fietta, recuperando così sei religiosi attivi per le altre opere dell’Istituto. La delusione tuttavia era stata grande e l’ingiustizia patente.
Monsignor Filippin e il vescovo di Treviso tentarono ancora con incontri tra maggio e luglio 1942 e varie promesse – considerate vuote dal Definitorio – di ottenere la collaborazione dei Cavanis, cercando poi l’intercessione – non concessa – del P. Piasentini, che il Filippin aveva incontrato a Roma; il Filippin si appellò addirittura al cardinal Giuseppe Pizzardo (1877-1970), prefetto della Sacra Congregazione dei Seminari. P. Aurelio Andreatta, preposito, andò a Roma per spiegarsi con il cardinale; ebbe anche un incontro con il segretario della Congregazione romana, monsignor Ernesto Ruffini, che “approva pienamente l’operato dell’Istituto nostro nei riguardi del Filippin e domanda una lettera di risposta per chiudere definitivamente la pratica. Tale lettera sarà spedita dal Preposito”; e poi, con il suo definitorio, concluse la questione confermando quanto deciso in precedenza. Un’ultima lettera del preposito al Filippin chiuderà definitivamente la triste vertenza.
5. La seconda guerra mondiale: “ la seconda carneficina mondiale” (1939-1945)
“43Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. 44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, 45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.”
(Mt 5,43-45)
Questa guerra spaventosa, che potremmo definire la seconda carneficina mondiale, fu in qualche modo la continuazione della prima. Se ne è parlato sopra, a proposito dei trattati di pace sottoscritti alla fine della guerra a Versailles, Saint-Germain, Sèvres e in altri luoghi e momenti, tra gli alleati vincitori e gli imperi centrali sconfitti; notando come l’eccessiva penalizzazione della Germania, la distruzione e “balcanizzazione” dei due imperi austro-ungarico e ottomano, e ancora il trattamento cui era stata sottomessa l’Italia, uno dei paesi vincitori, trattamento giudicato ingiusto e umiliante dalla stessa, avevano messo le premesse a una nuova situazione bellica a breve scadenza.
L’Italia prese parte alla seconda guerra mondiale dal 1940, sfortunatamente (e con una scelta criminale) a fianco della Germania e del Giappone, quindi in una posizione ingiusta e infelice; alla fine di essa il paese subì (fortunatamente, bisogna dire) una disfatta e una distruzione spaventosa, assieme ai suoi alleati. La sconfitta prolungò il periodo di miseria e di sofferenze della guerra in un dopoguerra difficile e in una faticosa ricostruzione. Si dice alle volte, ancora oggi, che il fascismo aveva fatto anche delle cose buone (tipicamente, e con poca fantasia, si dice che i treni, durante il ventennio, arrivavano in orario!); può darsi; ma chi ha visto le rovine dell’Italia dal 1943 in poi capisce e sa che il fascismo ha soltanto raso al suolo la patria.
Delle sofferenze, della miseria e dell’angoscia della guerra e del dopoguerra risentirono anche le comunità dell’Istituto Cavanis i congregati, gli alunni delle scuole, come si dirà.
Riassumere qui ampiamente la storia di una guerra durata sette anni incompleti e combattuta virtualmente in tutto il mondo, o anche solo limitarsi a descrivere dettagliatamente la partecipazione alla guerra dell’Italia (l’unico paese in cui esisteva l’Istituto Cavanis all’epoca della guerra) o alla partecipazione di alcuni paesi allora combattenti, in cui l’Istituto esiste ora (Italia, Brasile, Filippine, Congo) sarebbe troppo lungo e ambizioso, e anche fuori del tema del libro. Ci limiteremo a qualche concetto generale.
La Germania nazista era riuscita con estrema abilità e sfacciataggine, senza provocare una nuova guerra pur infrangendo molti impegni presi con il trattato di pace, a sviluppare l’industria pesante, a militarizzare di nuovo il paese e ad ottenere un’enorme espansione territoriale, recuperando e occupando militarmente la Renania (1935) e mediante l’Anschluss, cioè con l’invasione e l’annessione dell’Austria alla Germania per formare la “Grande Germania” il 12 marzo 1938; ancora, con l’occupazione dell’area montagnosa dei Sudeti (novembre 1938) e poi di tutta la Moravia e la Boemia (marzo 1939). Parallelamente, l’Italia negli anni ’30 aveva aumentato notevolmente e in modo del tutto ingiusto il suo “impero” coloniale e con la guerra non dichiarata, l’aggressione e l’occupazione dell’Etiopia (3 ottobre 1935 – 5 maggio 1936) e con l’invasione militare dell’Albania (1939).
Germania e Italia avevano anche fatto le prove generali della guerra e delle nuove armi e strategie moderne appoggiando la ribellione e la guerra vittoriosa e ingiusta di Francisco Franco contro le truppe lealiste della repubblica spagnola in una guerra reciprocamente crudele (luglio 1936-aprile1939) e avevano firmato il Patto d’acciaio a Berlino, il 22 maggio 1939. Il Regno d’Italia aveva così abbandonato, ancora una volta, le alleanze cui si era legata nell’anteguerra, cioè l’alleanza con le democrazie occidentali. Queste osservavano, tacevano, si armavano, ma mostravano una straordinaria debolezza e mancanza di discernimento dell’estremo pericolo per la pace.
Quando però, con il pretesto di ottenere il passaggio di un’autostrada e di una ferrovia attraverso il corridoio di Danzica, la Germania si accordò con l’Unione Sovietica con il patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov, stretto a Mosca il 23 agosto 1939, ma con il protocollo segreto di spartizione della Polonia, e subito dopo (1° settembre 1939) invase la Polonia, occupandola in poco più di un mese, con la collaborazione dell’Unione Sovietica dal 17 aprile 1939; la Francia e la Gran Bretagna, legate da alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla Germania il 3 settembre 1939. Era cominciata così la seconda guerra mondiale, considerata, fino a questo punto, una nuova guerra europea.
L’occupazione fulminea della Polonia portò con sé la deportazione di 2 400 000 polacchi come lavoratori coatti in Germania, l’inizio del genocidio degli ebrei polacchi e, da parte dei sovietici, i massacri di ufficiali, intellettuali e altre categorie di polacchi a Katyn e in altre località della Bielorussia e dell’Ucraina occidentale tra l’aprile e il maggio 1940.
La stessa strategia di guerra-fulmine o Blitzkrieg fu applicato con grande successo bellico e di propaganda dal terzo Reich tedesco sui fronti settentrionale e occidentale, sconfiggendo e occupando in pochi mesi Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio, Lussemburgo e Francia. Il Reich poteva contare anche con l’appoggio, solo morale per il momento, dell’Italia fascista, della Spagna franchista e del Portogallo di Salazar non belligeranti ma favorevoli alla Germania nazista, sicché tutta l’Europa occidentale (con l’eccezione della Svizzera) e buona parte dell’Europa centrale erano controllate in un modo o nell’altro da Hitler, con l’eccezione della Gran Bretagna, dove i resti dell’esercito alleato allo sbando si erano rapidamente rifugiati, dopo la battaglia di resistenza di Dunkerque, svoltasi tra i 26 maggio e il 3 giugno 1940. La Gran Bretagna a questo punto era rimasta virtualmente sola, e sebbene potesse contare con l’appoggio morale, economico e tecnico-commerciale degli Stati Uniti d’America, questi per due anni e mezzo rimasero quasi alla finestra, chiusi nella loro attitudine isolazionista.
A questo punto, Mussolini, contro il parere dei suoi consiglieri militari e del comando delle Forze armate italiane, credette arrivato il momento di entrare in guerra, pensando certamente di associarsi, con poco sforzo, alla vittoria nazista che gli sembrava ormai (e non solo a lui) imminente. Ai suoi collaboratori che lo avvertivano chiaramente dell’estrema debolezza e arretratezza militare dell’Italia, avrebbe risposto con la celebre cinica frase: “Mi serve un pugno di morti per sedermi al tavolo delle trattative”. Il 10 giugno 1940 Mussolini annunciò dal balcone di Palazzo Venezia al popolo italiano la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, e aprì ben presto un fronte sulle Alpi occidentali invadendo (con molta difficoltà e con risultati militari del tutto irrisori) la Francia, che era già ridotta in ginocchio. La Francia parlò giustamente di “pugnalata alla schiena”. Tra i soldati italiani che occuparono per qualche tempo il Sud della Francia c’era anche un futuro religioso Cavanis, il soldato Edoardo Bortolamedi.
Inizia anche la guerra dell’Italia in Libia e Egitto, contro la Gran Bretagna, e un tentativo di invasione della Grecia; Mussolini attaccò quest’ultima, senza neppure farne avvisato l’alleato tedesco, con l’ingenua speranza di coprirsi di gloria compiendovi un Blitzkrieg alla tedesca, mentre l’esercito italiano si trovò a combattere in un paese montagnoso, contro le ostinate e coraggiose forze armate greche, per di più a combattere contro un paese a governo filofascista; invece di occupare la Grecia, l’Italia perse una fetta di Albania. Hitler dovette intervenire in Grecia per aiutare l’alleato incauto e per salvare lo scacchiere balcanico. Ne approfittò anche per invadere la Jugoslavia. L’Italia ne guadagnò un nemico in più, e pagherà molto cara questa inimicizia alla fine della guerra.
Il passo successivo di Adolf Hitler fu quello di tentare di sconfiggere e invadere la Gran Bretagna, l’unico paese che gli stava resistendo: ma tra il luglio 1940 e il maggio 1941 perdette la battaglia d’Inghilterra. In primo luogo non riuscì a piegarla con i massicci bombardamenti del Regno Unito e particolarmente dell’Inghilterra da parte della Luftwaffe, coraggiosamente contrastati dalla Royal Air Force-RAF. Si rese conto allora che non riusciva a portare alla resa la Gran Bretagna, nonostante i rilevanti danni inflitti, e nonostante questo paese coraggioso fosse rimasto solo, sia pure con l’aiuto economico degli USA. Hitler fu costretto infatti a rinunciare, dopo vari tentennamenti, a mettere in campo l’invasione dell’isola con l’operazione di sbarco Seelowe, ossia Leone marino, che aveva fatto lungamente preparare. È questo in fondo il punto di svolta fondamentale nella seconda guerra mondiale.
Nel frattempo l’Italia stava combattendo, con successive avanzate e ritirate, sul fonte del nord Africa, al confine tra Libia ed Egitto, ma non riusciva a concludere. Fu costretta a chiedere ancora l’aiuto della Germania, che inviò in Libia l’Afrika Korps nel febbraio 1941, intervenne in Grecia e, poco più tardi, anche in Jugoslavia.
L’Italia aveva combattuto anche per la difesa dell’A.O.I., l’Africa Orientale Italiana (Eritrea, Somalia ed Etiopia), ma la controffensiva inglese non aveva perdonato e l’Italia aveva perso le battaglie e anche la guerra in quel settore, anzi aveva avuto la vergogna di soffrire la prima vera sconfitta dell’Asse nella seconda guerra mondiale. Il 10 aprile 1941 le truppe regolari britanniche e quelle irregolari dell’Etiopia entravano in Addis Abeba. Il 5 maggio il negus negesti [Re dei re] Hailé Selassié, appoggiato dagli inglesi, rientrò trionfalmente nella sua capitale. L’Etiopia, paese da sempre indipendente, membro della Società delle Nazioni, oltre al resto un paese a maggioranza cristiana, ridiveniva indipendente a soli cinque anni dalla conquista italiana. I superstiti delle forze italiane guidati dal governatore dell’Etiopia, il duca Amedeo d’Aosta, si erano ritirati su un altopiano roccioso isolato, l’Amba Alagi, dove furono costretti alla resa ottenendo l’onore delle armi, offerte e presentate cavallerescamente dalle forze inglesi. I prigionieri si avviarono ai campi di concentramento in Kenia.
Il secondo maggiore sbaglio di Hitler fu quello di aver deciso l’invasione dell’immensa Unione Sovietica, e di aprire quindi un terzo o quarto fronte a est, pur non essendo riuscito a concludere la guerra sul fronte occidentale. L’avanzata pur formidabile e condotta nello stile del Blitzkrieg, si impantanò già nella neve dell’inverno del 1941 senza aver raggiunto gli obiettivi principali, cioè Leningrado, Mosca e i giacimenti di petrolio del sudest dell’Unione Sovietica. Il 5 dicembre 1941 questa iniziò la sua prima grande controffensiva invernale contro la Germania e i suoi alleati.
Anche l’Italia stava contribuendo alla guerra sul fronte sovietico con il CSIR, Corpo di Spedizione Italiano nell’Unione Sovietica (10 luglio 1941-8 luglio 1942), più esattamente in Ucraina, fino al Don, di circa 62.000 uomini, formato il 10 luglio 1941, schierato e messo in attività sul fronte ucraino meridionale nell’agosto successivo. L’intervento italiano fu ampliato nell’anno successivo con la costituzione dell’ARMIR, Armata Italiana in Russia (9 luglio 1942-marzo 1943), forte di 230.000 uomini. L’armata italiana combatté con coraggio e determinazione, ma con una “guerra da poveri”, provvista com’era di un armamento obsoleto, di uno scarsissimo sistema di trasporti e assolutamente priva di vestiario adatto al rigidissimo clima invernale ucraino e russo.
Parallelamente all’invasione della Polonia e dell’Unione Sovietica, la Germania nazista portava avanti la terribile guerra contro il popolo ebraico, uno dei maggiori, probabilmente il maggiore genocidio della storia. Di questo tema si è parlato sopra.
Il 7 dicembre 1941 la guerra subisce una svolta importante con il proditorio e devastante attacco del porto di Pearl Harbour nelle isole Hawaii e con la distruzione di buona parte della flotta ivi stazionata da parte della flotta nipponica e dei suoi aerei imbarcati. Gli Stati Uniti d’America, assolutamente scioccati, entrarono formalmente nella guerra nella quale si erano finora ufficialmente negati di immettersi, pur avendo aiutato la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica, la Francia e la Cina con la fornitura di armi, navi, aerei e carri armati, fin dal 1941, tramite una semi-fittizia “Legge Affitti e prestiti” o Lend-Lease.
Gli USA dichiararono guerra al Giappone (ma non ancora alla Germania e ai suoi alleati) il giorno dopo l’attacco, cioè l’8 dicembre 1941. Il Giappone, notoriamente, non aveva dichiarato la guerra prima dell’attacco. Fu invece la Germania che dichiarò guerra agli Stati Uniti subito dopo, l’11 dicembre 1941. Fu una decisione personale, irrazionale, non necessaria e praticamente suicida, di Adolf Hitler. Forse il dittatore sperava che dichiarando guerra agli USA, il Giappone avrebbe attaccato l’Unione Sovietica, alleata degli Stati Uniti, alleggerendo così la terribile pressione che l’Armata rossa cominciava a far sentire sui tedeschi con la controffensiva invernale, iniziata il 5 dicembre 1941 sul fronte di Mosca. Gli USA impiegarono del tempo per armarsi e intervennero con tutto il loro peso in Europa solo nel 1944. Ma sia il Giappone, sia la Germania sia, per quanto ci riguarda, l’Italia, avevano chiaramente sottovalutato la potenza economica, industriale e, più tardi, militare degli USA.
Il Giappone, avendo neutralizzata buona parte della flotta USA del Pacifico, poté portare avanti le operazioni nel Pacifico sud-occidentale, nell’Indocina, Indonesia (allora Indie Orientali Olandesi) e nell’Oceano Indiano senza serie interferenze navali, e con il prezioso appoggio delle loro portaerei. Non avevano potuto tuttavia colpire a Pearl Harbour le poche portaerei statunitensi, che costituivano l’obiettivo principale e che, salvate perché si trovavano al largo durante l’attacco, ebbero un ruolo decisivo nelle successive battaglie.
Il 1942 fu per molti versi l’anno della svolta della II guerra mondiale. La battaglia aereo-navale del Mar dei Coralli nel maggio 1942 e ancor più quella di Midway, svoltasi tra il 4 e il 6 giugno 1942, interruppero l’avanzata del Giappone nel Pacifico e dettero inizio a una lenta ma continua fase di ritirata dei nipponici verso le basi di partenza. In nord Africa, la seconda battaglia di Al ‘Alamayin (23 ottobre-4 novembre 1942), in cui gli inglesi e loro alleati sconfissero tedeschi e italiani, che ormai erano arrivati a circa 100 km da Alessandria d’Egitto, dette inizio alla loro ritirata attraverso tutta la Libia e la Tunisia, fino a quando, pur dopo la vittoriosa battaglia italo-tedesca di Kasserine, ma dopo un continuo sfinimento delle loro forze, anche per lo sbarco americano in Marocco e Algeria dell’Operazione Torch, a partire dall’8 novembre 1942, dovettero arrendersi o, in piccola parte, imbarcare i resti dei loro eserciti per raggiungere la Sicilia nel maggio 1943.
Il 1942 era stato anche l’anno che aveva visto un nuovo fenomeno decisivo: l’immenso impegno degli Stati Uniti a livello finanziario e industriale, con un aumento esponenziale della produzioni di navi, aerei, carri armati, veicoli da trasporto e da guerra, armi e munizioni. Il presidente Roosevelt tra l’altro approfittava della situazione mondiale di guerra per uscire dalla grande recessione degli anni ‘30, garantendo una piena occupazione nel suo paese.
L’autunno e l’inverno del 1942 segnarono inoltre l’inizio della grande controffensiva sovietica a Stalingrado, che condusse alla resa della sesta armata tedesca di Von Paulus (il 2 febbraio 1943) e al crollo di tutto il fronte meridionale; nella rotta fu coinvolta l’armata italiana-ARMIR, costretta a una tragica ritirata, a fianco di contingenti tedeschi, ungheresi e rumeni in fuga. Con alti e bassi inizia qui la ritirata generale della Germania e dei suoi alleati impegnati sul fronte sovietico, ritirata che si arresterà solo all’interno di Berlino nella primavera del 1945.
Il 1942 era stato invece forse l’anno più felice per la Germania nella battaglia dell’Atlantico, ossia nella campagna per l’affondamento di navi statunitensi e di vari altri paesi che trasportavano materiale bellico ma anche merci varie dalle Americhe all’Europa. Tale battaglia, durata tutta la guerra, era aumentata dopo che la Germania aveva potuto stabilire le sue principali basi sulla costa della Francia occupata, aveva avuto i suoi momenti migliori con l’entrata in guerra degli USA alla fine del 1941, con la formazione di immensi convogli. Aveva cominciato però il suo declino quando le forze alleate e principalmente gli USA surclassarono tecnicamente la Germania con l’invenzione del Radar e del Sonar. Già dal maggio del 1943, detto in questo fronte marittimo “il maggio nero” fu chiaro che la Germania, per la sua inferiorità tecnologica e quindi per le immense perdite di vascelli e di personale, aveva perduto anche questa battaglia che tuttavia continuò in tono minore fino alla fine della guerra.
Sconfitta sul fronte russo, o più propriamente ucraino, e sul fronte africano, costretta a cedere l’iniziativa ai tedeschi in Grecia e in Jugoslavia, divenuta semplicemente, del resto quasi dall’inizio della guerra, zimbello di Hitler, l’Italia fascista doveva subire ora l’invasione da parte degli alleati, subendo la lunga Campagna d’Italia, che continuerà fino alla fine d’aprile 1945. Questa cominciò con lo sbarco in Sicilia e la presa dell’isola. In Italia già da tempo dilagavano la miseria, la fame, la frustrazione, la quasi totale sfiducia nel governo e, finalmente, nel fascismo.
L’inizio della Campagna d’Italia e la caduta della Sicilia in mano agli Alleati, costituiva l’inizio dell’attacco alla “Fortezza Europa”, da cui essi si erano ritirati dopo Dunkerque; questo attacco cominciava dall’Italia, militarmente molto esposta, anche per l’uso troppo prudente e spesso improprio e incapace della sua flotta virtualmente molto potente, tra le maggiori del mondo d’allora. La penisola era, come si è detto molte volte anche in seguito, il “ventre molle dell’Europa”.
L’inizio della campagna d’Italia segnò anche la fine del fascismo come tale: la notte sul 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo sfiduciò Benito Mussolini, probabilmente con l’appoggio surrettizio del re. Il re stesso lo fece arrestare e incaricò del governo il generale Pietro Badoglio. Il fascismo era morto, ma purtroppo per l’Italia e per tutti, la guerra continuava, come ebbe a dire in una trasmissione radiofonica secca e dura lo stesso Badoglio.
Il re, il suo consiglio, Badoglio con il suo governo, avevano a questo punto senza dubbio l’intenzione di sganciarsi dalla Germania e da Hitler e di ottenere una pace separata con gli alleati, ma agirono con troppa lentezza e nel frattempo i tedeschi ebbero il tempo di spostare in Italia altre 17 divisioni – oltre a quelle già presenti – che cominciarono a scendere lungo la penisola, mentre due divisioni di paracadutisti scendevano nella zona attorno a Roma. Il 3 settembre fu firmato a Cassibile, in provincia di Siracusa, l’armistizio con gli alleati (in pratica una resa senza condizioni) e solo l’8 settembre questo fu annunciato alla popolazione italiana per radio, purtroppo senza dare istruzioni alle forze armate.
Il re Vittorio Emanuele III, con la regina Elena e, peggio, il principe ereditario Umberto, parte della corte o casa reale e del governo con il suo primo ministro Pietro Badoglio, fuggì furtivamente, all’alba, il 9 settembre 1943 in un convoglio di automobili scortate da autoblindo fino a Pescara e poi proseguì il viaggio, in una situazione di caos, dal piccolo porto di Ortona, in provincia di Chieti, sulla corvetta Baionetta, fino a Brindisi, città non ancora occupata né dagli alleati né dai tedeschi. Per il re e per la dinastia di Savoia, questa vile fuga costituì l’inizio della fine: Vittorio Emanuele III fu costretto all’abdicazione il 9 maggio 1946 e all’esilio in Egitto, dove morì il 28 dicembre 1947; per suo figlio Umberto II la sua fuga con il re e il governo contribuì con ogni probabilità alla perdita della possibilità per lui di continuare il suo brevissimo regno (dal 9 maggio al 18 giugno 1946) e il 13 giugno 1946 lo condussero al suo quarantennale esilio a Cascais in Portogallo, dopo il referendum celebrato in Italia il 2-3 giugno 1946, in cui il popolo italiano scelse la repubblica come forma istituzionale di stato.
Dalla fuga del re e del governo senza lasciare un governo provvisorio o almeno delle istruzioni per le forze armate e per l’apparato di stato (una scelta davvero irresponsabile, incosciente, indecorosa e assurda) seguì una serie di mali per l’Italia. Fu il caos; lo si chiamò “la morte della patria”. Ne seguì il dissolvimento delle forze armate e dell’apparato statale, il disorientamento totale degli italiani, l’impressione da parte degli alleati (e analogamente da parte dei tedeschi) di aver a che fare con un interlocutore volubile ed inaffidabile; e avvenne ancora l’immediata feroce reazione dei tedeschi che invasero completamente l’Italia, la dispersione dei militari, molti dei quali si dettero alla macchia e in grande numero fornirono un considerevole contributo, anche a livello professionale, alla resistenza armata. L’alternativa, per i militari italiani, era del resto quella di essere rastrellati dai tedeschi e deportati nei campi di concentramento nel Reich, come di fatto avvenne a centinaia di migliaia di loro.
L’Italia era ora spezzata in due, presa in mezzo tra forze tedesche e forze anglo-americane e di altri loro alleati. Queste ultime, sbarcate in Calabria, a Salerno e a Taranto dal 3 settembre 1943 in poi, cominciarono la lunga e non facile risalita della montuosa penisola italiana, accolti in genere favorevolmente e aiutati dalla popolazione, del tutto stanca di fascisti e di truppe germaniche, e particolarmente dalle forze della resistenza. Tra le truppe alleate erano presenti naturalmente non solo anglo-americani, ma indiani, marocchini, algerini, polacchi, australiani e neo-zelandesi e, si sarebbe potuto dire, tutti i popoli, lingue e nazioni. A partire dalle basi aeree dell’Italia meridionale, l’Italia centrale e settentrionale fu sistematicamente bombardata dagli alleati. Durante la risalita della penisola da parte delle forze alleate e la corrispondente resistenza delle forze tedesche, l’Italia fu pressoché rasa al suolo, sia dai combattimenti terrestri, sia e più dai bombardamenti.
A Napoli la città fu liberata dal popolo nelle Quattro Giornate (27-30 settembre 1943), a Roma occupata dai tedeschi si consumò tra l’altro la strage delle Fosse ardeatine (24 marzo 1943), nella quale le forze tedesche di occupazione uccisero 355 civili come rappresaglia, e gli ebrei romani furono rastrellati e in parte deportati. In tutta Italia sorsero gruppi di resistenza, sia di carattere di disobbedienza civile passiva, sia di resistenza armata, soprattutto nelle zone montuose, lungo gli Appennini e sulle Alpi, sia ancora di gruppi di sabotaggio, soprattutto nel campo delle ferrovie, dei trasporti, delle comunicazioni. Si costituirono in tutta Italia Comitati di Liberazione regionali e soprattutto a livello di tutta l’Italia il Comitato di Liberazione Nazionale-CLN.
La Resistenza in Italia aveva un carattere e un compito speciale e differente, rispetto agli altri paesi dove essa aveva operato. Nel nostro paese essa non era solo una conseguenza storica della dispersione delle forze armate italiane e dalla ritirata alla macchia di civili perseguitati e di giovani e uomini renitenti alla leva o al richiamo alle armi, non volendo collaborare con la Repubblica di Salò. Gli italiani infatti non dovevano soltanto liberarsi da un nemico invasore, occupante e feroce: dovevano pure in qualche modo redimersi, riscattarsi agli occhi degli alleati, meglio, delle democrazie occidentali e di tutto il mondo dalla grave pecca di aver fondato, in gran parte sostenuto o almeno accettato passivamente per più di vent’anni, con numerose lodevoli eccezioni, un regime dittatoriale iniquo, che aveva fatto scuola ai movimenti e regimi fascisti e nazisti in altri paesi, che aveva dichiarato guerra agli alleati, che aveva collaborato con il Reich nazista, che aveva ingiustamente invaso e occupato altri paesi, che aveva commesso gravi e sistematici crimini di guerra, che aveva firmato e applicato leggi razziste inique.
Per lavare questa grave pecca, gli italiani più coscienti, di vario orientamento politico e ideologico, divenuti partigiani, a volte rimanendo pericolosamente nelle loro città e paesi, spesso invece ritirandosi “in montagna” in una situazione di grave sacrificio e pericolo, combatterono i nazisti e i fascisti non solo per liberare il paese, ma anche per dimostrare che non tutta l’Italia appoggiava il fascismo, che non tutta l’Italia era amica dei tedeschi, nemica delle democrazie, antisemita. Che c’era una minoranza attiva e vivace che rappresentava un’altra Italia, moralmente libera e degna, che rischiava la vita lottando contro il nazifascismo, che meritava considerazione e rispetto e, anche, un trattamento più favorevole al momento in cui essa sarebbe stata giudicata. Non è per caso che in Italia, grazie alla Resistenza e certamente non grazie al re, al principe Umberto e a Badoglio, non ci fu un processo sul tipo di quello di Norimberga, che non ci fu una lunga occupazione militare e che l’Italia ricevette un trattamento di favore nell’aiuto alla ricostruzione.
La guerra, particolarmente la guerra civile, genera odi che non si estinguono facilmente con un trattato di pace. Questi odi generati dall’oppressione del ventennio fascista, da cinque anni di sofferenza dovuta alla guerra e, soprattutto nel nord Italia, da venti mesi di completa e crudele dominazione nazifascista, di massacri, di torture, di razzie, di rastrellamenti, spiegano anche se non giustificano numerosi omicidi e stragi commessi dopo la guerra, per vari anni, da gente armata, ex-combattenti, ex-partigiani e altri, soprattutto comunisti. Ne furono vittime fascisti, repubblichini, collaborazionisti, a volte anche preti e religiosi. L’odio dettato dalla guerra e dall’oppressione spiega solo in parte però questa continuazione di violenza. C’entrarono anche vendette private, invidie, rese dei conti, spesso anche l’ideologia, il desiderio di eliminare tutti quelli che non erano stati puniti dei loro delitti o del loro essere fascisti da processi regolari e ancora il programma e la speranza di istaurare in Italia una repubblica di tipo comunista e/o sovietica.
Tali fatti di sangue si devono condannare tanto più perché commessi in tempo di pace, ma non bisogna dimenticare che a portare l’Italia alla guerra, alla rovina del paese e al caos successivo non erano stati i comunisti ma Mussolini e i fascisti, con una grave responsabilità anche da parte del re e della Casa Savoia.
In tutt’altro teatro di guerra, episodi particolarmente dolorosi accaddero in Istria e Venezia Giulia, dove i partigiani comunisti guidati da Josip Broz detto Tito infierirono sugli italiani anche civili, residenti, a volte con radici secolari risalenti alla serenissima Repubblica di Venezia, in queste regioni; in molti casi gettandoli nelle foibe, vivi o morti. Bisogna dire che gli italiani, particolarmente ma non esclusivamente nel ventennio fascista e anche durante la guerra di cui si parla, avevano trattato molto duramente gli sloveni, dentro e fuori del territorio italiano, con un vero genocidio culturale, a volte con elementi anche di genocidio fisico.
Del resto, già sul finire del secolo XIX, monsignor Luigi Cesare Pavissich, dalmata sloveno vissuto in seguito (1887-1905) a Gorizia, rosminiano, amico e corrispondente del religioso Cavanis P. Sebastiano Casara, riferendosi soprattutto alle lotte tra liberali friulani e sloveni a Gorizia, scriveva nel 1899: “Più terribile di tutte le altre piaghe è l’odio reciproco fra friulani e sloveni. Quelli non vogliono concedere che questi pur vivano. Questi ogni dì più si ribellano e la finirà male per i friulani”.
Mussolini, liberato dai tedeschi e portato inizialmente in Germania, sfinito e incapace di governare, con l’aspetto quasi di un fantasma allucinato, divenuto ormai un fantoccio di Hitler, è nominato capo della sedicente Repubblica Sociale Italiana-RSI, fondata dai tedeschi il 23 settembre 1943, repubblica detta popolarmente dei “Repubblichini” o Repubblica di Salò, con un governo fantoccio, militare e poliziesco, che rende impossibile la vita agli italiani del nord e più che combattere gli alleati combatte i propri compatrioti. La guerra contro gli alleati è diventata a questo punto una crudele e terribile guerra civile. Il cosiddetto “Regno del Sud”, presieduto ufficialmente dal re Vittorio Emanuele III e dal governo da lui nominato, è costretto da una condizione dell’armistizio a dichiarare guerra alla Germania il 13 ottobre 1943, guadagnando non il titolo di “paese alleato”, naturalmente, come speravano il re e Badoglio, ma quello piuttosto strano di “paese cobelligerante”. La dichiarazione ufficiale di guerra serviva tuttavia, non solo per poter inviare al fronte gli uomini dell’esercito regolare stanziati nel sud del paese (al centro nord molti italiani combattevano già contro i tedeschi nella Resistenza, come combattenti irregolari), ma soprattutto per attribuire lo status di prigionieri di guerra – per quello che poteva servire, nella situazione – ai 600.000 soldati italiani che erano stati catturati e deportati dai tedeschi nei territori del Terzo Reich dall’8 settembre, dopo la proclamazione del cosiddetto “armistizio corto” con il quale si cessavano le ostilità contro gli Alleati.
Il Re e Pietro Badoglio avrebbero voluto, con tale provvedimento, evitare anche le dure clausole della resa incondizionata.
Gli alleati, dopo la lunga sosta e le quattro battaglie a Cassino e lungo tutta la linea Gustav tra il 12 gennaio e il 18 maggio 1944, liberano Roma il 4-5 giugno 1944, senza incontrare opposizioni e accolti trionfalmente dalla popolazione e soprattutto dai contingenti della resistenza. In poche settimane tutto il centro Italia viene abbandonato dai tedeschi, che si attestano sulla linea gotica, da Massa e Carrara a Rimini, accompagnando per circa 300 kilometri lo spartiacque della catena settentrionale degli Appennini.
Fu questa la prima volta in cui una delle case dell’Istituto Cavanis, quella di Porcari (LU), conobbe l’occupazione prima dei tedeschi e poi degli alleati.
Il 1944 fu l’anno del collasso delle forze dell’Asse. La Germania fu accerchiata e sentì chiaramente che la guerra era persa, anche se Hitler continuava a parlare di rivalsa e a promettere le sue famose armi segrete, alcune delle quali reali e molto dannose, come la V1, V2 (in uso bellico dal 13 giugno 1944) e altri razzi, ma ormai inefficienti a cambiare le sorti della guerra. Lo sbarco in Normandia (6 giugno 1944) e poi in Provenza (15 agosto 1944) permisero alle forze alleate di conquistare e liberare la Francia, di passare il Reno e di entrare in Germania all’inizio del 1945. Ma era soprattutto sul fonte orientale che il rullo compressore dell’Armata rossa stava spazzando via le forze germaniche e costringerle, con innumerevoli battaglie e con perdite spaventose da ambedue i lati, a rientrare nei confini originari della Germania e poi a marciare verso Berlino.
Nel frattempo, la resistenza nei diversi paesi occupati dal Reich nazista conduce una coraggiosa, pericolosa e sanguinosa guerra di guerriglia, di sabotaggio, di informazione e a volte combatte vere battaglie campali, tra l’altro impegnando lontano dai fronti militari numerose divisioni tedesche.
L’avanzata sovietica nell’Europa orientale e centrale porta a scoprire con orrore i lager o campi di concentramento organizzati dal Reich tedesco e a liberare i relativamente pochi sopravvissuti, più simili a scheletri o spettri che a persone umane.
Nel teatro del Pacifico intanto le forze aeronavali degli USA e alleati proseguivano nella sistematica e sanguinosa distruzione delle principali basi giapponesi situate nelle isole strategicamente più importanti, fino a giungere nel territorio vero e proprio del Giappone, con lo sbarco nell’isola di Okinawa nell’arcipelago giapponese delle Ryukyu tra il marzo e il giugno 1945. Analogamente le forze alleate avanzano nelle regioni del continente asiatico occupate dalle forze giapponesi.
All’inizio del 1945 la Germania è sotto assedio e parzialmente occupata. I bombardamenti a tappeto radono al suolo la maggioranza delle città e dei centri abitati in genere. È rimasto particolarmente memorabile la distruzione totale della città di Dresda. Gli americani e i loro alleati occidentali invadono tutta la Germania occidentale e meridionale, fermandosi all’Elba, mentre i sovietici, che hanno sopportato lo sforzo bellico maggiore sul continente, conquistano via via la Cecoslovacchia, la Polonia, l’Ungheria, la Germania orientale e dopo una terribile battaglia urbana casa per casa, si può ben dire, prendono Berlino. Hitler si suicida il 30 aprile, con altri, nel bunker della cancelleria.
Nel frattempo in Italia gli alleati, principalmente statunitensi e britannici, scendono dagli Appennini tosco-emiliani e dilagano nella Pianura padana appoggiati e spesso preceduti dalla resistenza italiana, che libera Bologna il 21 aprile, Genova il 23, Milano, Torino e Venezia il 28 aprile. Le truppe tedesche si ritiravano in confusione verso i valichi delle Alpi. Benito Mussolini, dopo molte incertezze, aveva cercato di ritirarsi con un convoglio di gerarchi repubblichini, rinforzato da armati fascisti e poi da soldati tedeschi, verso il lago di Como, forse con l’intenzione di raggiungere la Valtellina, forse la Svizzera. Fu catturato dai partigiani e sommariamente fucilato nei dintorni di Dongo il pomeriggio del 28 aprile. La triste, drammatica, violenta, disastrosa, ma spesso anche ridicola, avventura di Mussolini e del fascismo terminò con questo fatto di sangue e con la tragica esposizione dei corpi di Mussolini, della sua amante Claretta Petacci e di alcuni gerarchi fascisti a Piazzale Loreto a Milano, dove un anno prima i nazifascisti avevano esposto i cadaveri di 15 giovani partigiani da loro trucidati.
La resa delle forze tedesche e delle altre forze poste sotto il comando o il controllo del Comando Tedesco Sud-ovest in tutta Italia, comprese le forze armate della Repubblica di Salò, fu firmata a Caserta il 29 aprile 1945.
Pochi giorni dopo, la guerra in occidente era finita, con la resa della Germania tra l’8 e il 9 maggio agli Alleati sul fronte occidentale e ai Sovietici sul fronte orientale.
Sul teatro del Pacifico invece, la guerra durò ancora alcuni mesi. Vista l’estrema difficoltà di attaccare e conquistare il territorio nazionale giapponese, dopo la durissima e tragica esperienza della presa di Okinawa, e prevedendo la perdita di ulteriori centinaia di migliaia di soldati statunitensi e alleati, gli Stati Uniti d’America sganciarono due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, rispettivamente il 6 e 9 agosto 1945, ottenendo così la resa incondizionata dell’Impero giapponese il 15 agosto 1945. Le due giornate di Hiroshima e Nagasaki, anche se entrano perfettamente nella logica della guerra, rimangono una macchia indelebile (per fortuna non ancora ripetuta) sulla storia degli Stati Uniti e dell’umanità.
La guerra si concluse con il processo di Norimberga, svoltosi dal 20 novembre 1945 al 1º ottobre 1946, che vide condannati i principali gerarchi della Germania nazista per crimini di guerra e specialmente per gli omicidi di massa, chiamati impropriamente “olocausto”, mentre si dovrebbe chiamarlo genocidio e strage, e con un analogo processo per i gerarchi del Giappone a Tokyo, svoltosi tra il 3 maggio 1946 e il 12 novembre 1948, per crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità; e ancora con l’occupazione temporanea della Germania, dell’Austria e del Giappone da parte delle quattro nazioni alleate principali: Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e, per qualche motivo non proprio comprensibile, Francia. Con il contributo del piano Marshall (USA) comincia la lenta e faticosa ricostruzione dell’Europa occidentale rasa al suolo e ridotta in miseria dalla guerra. La Società delle Nazioni che aveva fallito il suo compito viene sostituita dall’Organizzazione delle Nazioni Unite-ONU.
Le potenze storiche dei grandi paesi dell’Europa occidentale perdono grande parte della loro influenza nel mondo, entrano in decadenza e iniziano tra l’altro a perdere gli imperi coloniali, mediante un movimento di liberazione dei popoli soprattutto asiatici e africani che culminerà nel 1960. Nelle aree occupate durante la guerra dall’Armata rossa sono gradualmente installati regimi comunisti filosovietici: si parla di una “cortina di ferro”. Le due grandi potenze sono ora gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che da alleati (sia pure sospettosi) che erano, passano in breve a spartirsi il mondo in due e a comportarsi francamente da nemici. È l’inizio della Guerra Fredda.
L’Italia rimase libera dalla guerra e dalla tirannia fascista, e in complesso fu trattata generosamente dai vincitori, probabilmente meglio di quanto meritasse. Dovette però pagare ingenti debiti e inoltre le furono chieste riparazioni di guerra per US$ 360 000 000, destinati principalmente a Grecia, Jugoslavia e Unione Sovietica. Oltre alle sue colonie africane e nel Dodecaneso, già perdute di fatto, militarmente, nel corso della guerra, l’Italia dovette cedere alla Jugoslavia Fiume, il territorio di Zara, le isole di Lagosta e Pelagosa, quasi tutta l’Istria, buona parte del Carso triestino e goriziano, l’alta valle dell’Isonzo; e cedere alla Francia limitati territori nell’area alpina.
Il 2 giugno 1946 nel referendum istituzionale l’Italia, con circa due milioni e settecentomila voti di differenza, scelse la repubblica e ripudiò la monarchia. Per la prima volta in Italia, le donne parteciparono al voto.
5.1 La seconda guerra mondiale e l’Istituto Cavanis
Nel diario di Congregazione non si trova alcun cenno allo scoppio della guerra. Se ne parla per la prima volta, dopo nove mesi, il 10 giugno 1940: “Il Duce dichiara la guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. I benpensanti ritengono intempestivo ed inconsulto l’intervento italiano. L’avvenire parlerà. Dio intanto protegga e salvi la Patria.” L’anno scolastico si chiude in anticipo “in clima di guerra”.
La rivista ufficiale della Congregazione, il Charitas, che nel progresso del ventennio fascista si era sempre più manifestamente impregnata di fascismo, mette in prima pagina, con parole folli, l’appoggio all’adesione di Mussolini alla guerra della Germania contro il mondo.
P. Bruno Marangoni viene richiamato come cappellano militare in data imprecisato, probabilmente a giugno 1940. Era stato destinato provvisoriamente, probabilmente per la necessaria formazione specifica, a Conegliano, dove P. Aurelio Andreatta, Preposito, va a visitarlo il 4 luglio. Si parla della guerra ancora solo verso la fine dell’anno, a Natale, scrivendo la strana frase “La solennità del Natale sembra quest’anno, nel rumore della guerra, più dolce e sentita”. Alla fine dell’anno il diario dice: “Si chiuse l’anno con l’ora di adorazione. Si sente proprio il bisogno di ringraziare Iddio che finora ci ha risparmiato le tristi esperienze della guerra, e di affidarsi anche pel nuovo anno alla sua misericordiosa bontà. L’ora [di adorazione], data la legge dell’oscuramento, si è tenuta non dalle 23 alle 24, ma prima di cena”. Questo diario è veramente laconico sulle cose di guerra, che durava già da un anno e quattro mesi.
Il diario nel 1941 è pure particolarmente laconico su questo tema: il 15 maggio 1941 troviamo: “Ultimo giorno di lezione. La guerra fa sentire il suo peso.” L’ora di adorazione per la fine d’anno si svolge “mentre sull’Europa pesa il flagello della guerra, con le sue gravi incognite”.
Nel 1942, subito all’inizio troviamo questo testo: “13 gennaio, lunedì. Causa la guerra, per scarsità di combustibile, si protraggono le vacanze [di Natale] nelle scuole governative. Noi riprendiamo oggi le lezioni”. Si commenta anche che il freddo è intenso. Immaginarsi quanto più intenso era il gelo sul fronte ucraino per gli alpini e i fanti italiani del CSIR, tra i quali c’erano anche vari ex-allievi dell’Istituto! Il 1° ottobre: “la guerra prende una piega sempre più preoccupante.” E il giorno del Natale del Signore, dopo la celebrazione in oratorio con il concorso di molti ex-allievi ed amici, oltre naturalmente a tutti gli allievi: “L’anelito alla pace interna ed esterna è in tutti fortissimo”, e alla fine dell’anno: “Si fa netto il presentimento che si avvicinino giorni gravi per la Patria.” Il versetto finale, che era abitudine inscrivere alla fine di ogni anno, questa volta è molto significativo: “Da pacem, Domine, in diebus nostris”.
Nel 1943 il diario di congregazione esordisce con il motto e preghiera “Deus autem pacis sit cum omnibus (nobis). Amen. (Rom. 16, 33)”. E continua: “Per ragioni dipendenti dalla guerra (mancanza di combustibile per il riscaldamento) ci troviamo di fronte ad un lungo periodo di vacanze: sino al 15 febbraio.” Una notizia molto significativa si trova al 24 marzo: “Per ordine delle Autorità militari continua l’asportazione dai campanili dei sacri bronzi. Oggi è la volta di due campane della Chiesa di S. Agnese. Il popolo apertamente ripete: ‘Campane a terra – persa la guerra!’ ”.
Un’altra notizia è relativa all’affitto della Villa Lange a Costasavina (Pergine, provincia di Trento), per l’istituzione del primo seminario minore in Trentino, ma anche alla situazione economica in tempo di guerra: “S’è dovuto accettare – data l’instabilità della moneta – la clausola onerosa che aggancia il prezzo di affitto al valore annuale, all’ammasso del grano. Quindi secondo tale prezzo il canone della pigione è ritoccabile ogni anno.” Più importante l’annotazione al 25 luglio, come ci si aspetterebbe: “Dimostrazioni di giubilo in Piazza S. Marco per la caduta di Mussolini. Il Preposito apprende la notizia in quella mattina a Cortina d’Ampezzo, dove trovavasi di passaggio: Da per tutto e in tutti un senso di grande sollievo”.
L’8 settembre il diario nota che in viaggio per Possagno “Il Preposito verso le ore 18 a Montebelluna sente un festivo suono di campane che si diffonde di paese in paese: è l’annuncio dell’avvenuto armistizio tra il governo di Badoglio e gli Alleati. Il lieto scampanio prosegue fino a Possagno.” Ma la guerra continuava: “L’orario delle lezioni per il pericolo di incursioni aeree non si protrae più in là del mezzogiorno.” Il diario di congregazione non ha altre notizie sulla guerra per il 1943; si nota tra l’altro che non si parla affatto dei vari fatti e dei teatri di guerra; e se ne ha anche la falsa impressione che membri dell’Istituto, ex-allievi, amici, non fossero coinvolti personalmente alla guerra nei vari fronti. In realtà era pericoloso esseresinceri, oralmente e tanto più in scritto.
Nel 1944 il diario nel primo giorno dell’anno riporta: “In queste ore cruciali della guerra tutti sentiamo un grande bisogno di luce e di sostegno”. Ma della guerra si parla poco e in modo alquanto minimalista o di understatement: “Maggio 4. S. Giuseppe Calasanzio pro pueris. Interviene al mattino l’Em.mo Card. Patriarca. Le contingenze belliche non consentono la colazione di fichi e bussolai. [ciambelle]”(!). Non si parlerà invece di un altro evento, senza dubbio più rilevante, quello dello sbarco degli alleati in Normandia e poi in Provenza, e ancora sulla risalita degli Alleati lungo la penisola, il fatto tragico delle Fosse Ardeatine. Forse alcune di tali notizie erano filtrate dalla censura della RSI, certamente non tutte; certune, e certi giudizi, era senz’altro imprudente metterli in iscritto. Si conoscono e si registrano però notizie di carattere regionale, come è annotato soprattutto il 24 settembre 1944: “Si ha notizia del grande rastrellamento della zona del Grappa operato dai Tedeschi e Brigate nere. Si viene a sapere che anche il Collegio [Canova di Possagno] ha subito delle perquisizioni e che i Padri sono tenuti come ostaggi. L’apprensione è grande nella Casa di Venezia. Le notizie si fanno più chiare e si ha la percezione del pericolo corso dai nostri Religiosi e dalle opere nostre di Possagno in quei terribili giorni. Con la Casa di Porcari le relazioni sono bloccate dalla linea gotica: le ultime notizie di quella Casa si sono avute il 3 sett. [1944] per un gentile messaggio del cappellano germanico.”
L’11 ottobre si registra: “… il Preposito ha indetto un “anno mariano” allo scopo di ottenere la protezione della nostra Madre celeste sull’intera Congregazione nella fase più pericolosa della guerra. E il 5 novembre: “Ufficiatura funebre in S. Agnese per gli ex-allievi, militari e civili, caduti finora nella guerra.” L’8 dicembre: “Ha luogo la principale festa dei Figli di Maria: non cose esterne, ma soprattutto intimo fervore di pietà. Le condizioni in cui si trova l’Italia, causa la guerra, impone a tutti riflessione e austerità”.
Alla fine del 1944 si avverte progressivamente la sofferenza e la difficoltà e le si riporta in un caso nel diario: “31 Dic. Dom. Si tiene la festa del Presepio [in istituto a Venezia]. Il Preposito non arriva a tempo: partito da Pergine il 30, a causa della linea ferroviaria bombardata, fa con mezzo di fortuna il tratto Primolano-Bassano; a piedi quello più lungo Bassano-Castelfranco-Resana; da Resana, non funzionando il treno, giunge a Piazzale Roma [a Venezia] sulla macchina di un rappresentante di commercio il 2 gennaio 1945. Ormai non si può più viaggiare (e con grandi pericoli) se non per cause di forza maggiore.” Senza dubbio che in quella zona e di quei tempi, il viaggio era stato estremamente pericoloso e faticoso. P. Aurelio Andreata aveva a quell’epoca 52 anni, e non era certo un giovanotto!
Nel 1945, stranamente, dopo il 2 gennaio il diario di congregazione parla della guerra, in questo che era l’anno della sua conclusione, il settimo incompleto per l’Europa e il mondo e il sesto incompleto per l’Italia, solo il 21 marzo: c’era voluto veramente un grande botto per stimolarne l’autore; botto di cui si ricorda anche chi scrive queste pagine. “Alle ore 15 ¼ la stazione della Marittima è sorvolata da apparecchi anglo-americani che sganciano bombe. Alle 15 ½ , in seguito a deposito di munizioni colpito in pieno, uno scoppio tremendo che cagiona parecchi danni in città, specialmente agli edifici sacri. Nel nostro Ist. rimangono infrante circa trecento lastre [di vetro, si intende, NdA]; divelte anche le finestre di S. Agnese. Alla sera nella vicina parrocchia dei Gesuati c’era la stazione quaresimale: sospese per la rottura e lo scardinamento completo degli ampi finestroni. Nell’Istituto anche qualche parete e soffitto ebbe a soffrire. Le lastre vengono subito sostituite per la somministrazione di materiale nuovo da parte del Comandante dell’Arsenale che ha suo figlio nelle nostre scuole.” Mancava poco più di un mese alla fine della guerra.
E il 27 aprile 1945 P. Aurelio scrive: “Oggi si è fatta la scuola come al solito, ma sin dal mattino incomincia il movimento per la liberazione. Ormai i tedeschi non possono più resistere sul Po e sono in ritirata. Si ha la sensazione, aumentata dalle trasmissioni della Radio alleata, che siamo alla fase risolutiva della guerra.
Si dà vacanza fino al 1° maggio compreso. Ci sono sparatorie per la città, anche in vicinanza dell’Istituto. Dal canale delle Zattere un pontone armato tedesco spara contro le case causando danni e spavento. Una pallottola ha forato un vetro dell’ultima classe elementare sopra la Chiesa.
Giornata di movimento e di attesa febbrile. I fascisti sono partiti. Anche i Tedeschi si arrendono ed ottengono di partire.
La Domenica 29 continua qualche sparatoria isolata. Ormai la città è libera ed al Piazzale Roma affluiscono le prime truppe alleate ed i primi Italiani dell’Armata Badogliana.
Qualche morto. Parecchie vendette contro fascisti. In giro però s’incontra troppo rosso. Meno male che l’amministrazione del Comune è affidata al Prof. Ponti della Dem. Crist., [Democrazia Cristiana, partito cattolico] e nostro ex-allievo.”
La guerra era finita davvero, almeno in Italia, anche se innumerevoli italiani erano ancora prigionieri in Germania, Austria, USA, Kenya e altrove, e la vita doveva riprendere regolarmente. Un avvenimento sorprendente e commovente che permise la ripresa di comunicazione tra le case venete (Venezia, Possagno Collegio Canova, Casa del S. Cuore, Probandato e seminario minore di Costasavina) e quelle di Toscana (Porcari e seminario minore di S. Alessio), fu un viaggio e un arrivo che è descritto nel diario in data 2 maggio 1945: “Mentre la comunità è in refettorio e festeggia l’ [anniversario] annuale dell’Istituto, comparisce P. Turetta Antonio, che da Porcari a Venezia compie dietro le truppe alleate il tragitto in bicicletta, superando ostacoli e pericoli d’ogni genere. Si rimane sbalorditi alla venuta quanto mai inattesa, e si sentono con immenso piacere le notizie dei nostri Confratelli di Toscana, dei quali nulla più si era saputo, neppure attraverso la Croce Rossa e la S. Sede, dal 3 sett. 1944. Deo Gratias.”
Il DC non dice che il lungo viaggio in bicicletta di P. Antonio Turetta dalla casa di Porcari (Lucca) alla casa madre di Venezia era di circa 350 km, con in mezzo la catena degli Appennini. P. Turetta a quella data aveva circa 31 anni. Bisogna anche spiegare il perché della necessità di ristabilire le comunicazioni con la casa-madre: nell’Italia semidistrutta dalla guerra, il paese era ridotto senza treni né trasporti pubblici, senza telefono o telegrafo. Del resto, ancora nel 1948 in Italia si viaggiava a volte anche su percorsi ferroviari importanti su vagoni-bestiame a volte adattati con panchine di legno, a volte no, e ci si sedeva per terra.
Il diario, stranamente, con l’eccezione dei brani in cui parla di mancanza di carburante per il riscaldamento e di bussolai, non parla delle gravi strettezze dettate dalla situazione bellica, dei gravi problemi della difficoltà di procurarsi il cibo, l’acqua, il gas, la luce elettrica, abiti e scarpe e tutto ciò che serviva per la vita; la situazione peggiorò continuamente durante i cinque anni della guerra. In particolare era davvero difficile trovare cibo necessario per i religiosi e per i seminaristi, specie nella casa di Venezia, in una città completamente isolata dalla campagna, in mezzo alla sua laguna.
Grazie a Dio, non ci furono né morti né feriti nelle comunità Cavanis, a differenza della prima guerra mondiale. Tra l’altro in Italia i religiosi, preti, consacrati, non erano più chiamati sotto le armi dopo i Patti del Laterano, salvo che, eventualmente, come cappellani militari, come è successo, forse per primo, a P. Bruno Marangoni nel 1940; poi ad altri padri Cavanis e, in questo caso soprattutto per religiosi che stavano allontanandosi dalla vocazione Cavanis.
A leggere il diario di Congregazione del tempo di questa disgraziata guerra, compilato con una certa regolarità e con gusto letterario da P. Aurelio Andreatta – professore di letteratura italiana –, con il tono di understatement e di calma di cui si à parlato, sembra di rivedere vivo il caro padre, uomo pacifico ma attivo, semplice ma molto colto, troppo intelligente per essere filofascista, o filotedesco o filo-bellicista, più interessato all’educazione della gioventù e alla scuola che alle vicende del mondo. Oltre alla coraggiose dichiarazioni contro la guerra scritte nel diario il 10 giugno 1940 e altrove, scrive, alla fine dell’anno 1943: “Et mundus transit et concupiscentiae ejus. (Jo I – 2, 17).” Anche negli anni in cui sembrava ingenuamente che l’Italia fascista potesse dare un buon contributo alla guerra della Germania e del nazismo, P. Aurelio si dimostrava “Vergin di servo encomio”.
Diverso invece è il tono che si trova dappertutto durante la guerra nella rivista Charitas, periodico trimestrale (quando possibile in tempo di guerra) ufficiale/ufficioso dell’Istituto Cavanis.
Prendendo come esempio il numero 3-4 dell’anno VII della rivista, il 1940, si trovano varie frasi di sapore bellicista e nazionalista, piene della consueta retorica, forse dovute alla necessità dell’ora, “per necessità familiari”, a difesa della comunità Cavanis; forse anche ci se ne serviva a conforto delle famiglie in lutto, che avevano perduto figli, mariti, genitori sul fronte.
Per l’ex-allievo Mario Spada, aviatore, morto in guerra e in particolare in missione di salvataggio, si riporta un articolo pieno di retorica del Gazzettino di Venezia: “Un’ala azzurra nostra è ascesa al Cielo degli Eroi: Mario Spada, veneziano, alla cui memoria è stata conferita la medaglia d’argento al valor militare “sul campo”. Percorsi gli studi classici nell’Istituto dei Padri Cavanis, giovanissimo, Mario Spada entrava a far parte dell’armata del cielo, animato dal più ardente entusiasmo. (…) Tutti i suoi amici veneziani sanno con quanta impazienza anelasse lo scoccare dell’ora della nostra guerra, per provare la sua audacia di combattente nel cielo del Mediterraneo. Ecc.” La rivista poi continua di proprio: “Egli cadde non in un incidente qualunque, ma nel servizio della Patria e nell’adempimento del suo dovere. L’ultimo suo atto di soprannaturale carità ne esalta cristianamente la figura, che rimarrà indimenticabile ai suoi educatori e monito ai nostri allievi di oggi e dell’avvenire. Alla mamma dell’eroico caduto rivolgiamo un pensiero di rispettosa commozione”.
La rivista dell’Istituto nel 1941 dedica una pagina a ricordare gli ex-allievi caduti in guerra con queste (tristi!) parole: “Abbiamo riservati ultimi gli Ex-allievi che immolarono la loro vita nell’attuale guerra o sulle balze petrose del confine greco-albanese, o nelle steppe russe, o nel mare o sulle infuocate sabbie africane, o nei cieli. Ecco i nomi di quegli eroi, per i quali sentiamo una particolare fierezza: (seguono 14 nomi). Fulgida schiera che ancora una volta dimostra come la scuola cristiana è creatrice di eroi.
È poi doveroso ricordare il disperso S. Ten. di vascello Andrea Menegoni, decorato di 4 Medaglie d’argento ed il Ten. di Vascello, Gattoni Salvatore, protagonista della dura lotta sostenuta in un battellino di gomma, con altri ardimentosi compagni, per 80 e più ore, sulle onde del mediterraneo e superata con la tenacia suprema della volontà e con l’ardore indomito della fede e della preghiera. L’Associazione si inchina commossa davanti a prove sì eloquenti di amor patrio.”
Nel numero successivo troviamo tra l’altro: “IN MEMORIA DI UN EROE. (…) Il Cap. Munaro, da noi ricordato nel numero precedente, immolava la sua vita a Petrowka (Russia) il 21 Febbraio 1942. Aveva accolto la guerra contro il bolscevismo con entusiasmo di italiano e di cristiano. “Parto contento, aveva scritto alla mamma, Sento questa guerra come una nuova Crociata”. E si conclude dicendo che l’Istituto “mentre onora chi ha amato la Patria fino al sacrificio supremo è ispiratore di sensi generosi nel cuore dei nostri allievi attuali.”
C’è qui un saggio di tutta la retorica fascista, nazionalista e bellicista, e per di più anticomunista, condita di retorica cristiana dell’epoca. Purtuttavia, dietro questi testi della rivista Charitas, c’era anche una realtà alquanto differente.
5.2 La resistenza dei Cavanis
Non è chiaro quanto l’Istituto Cavanis abbia partecipato alla Resistenza. In genere, un’eventuale resistenza ai tedeschi occupanti, al nazismo, al fascismo, alla Repubblica di Salò cioè ai repubblichini, non si registra nei diari della Congregazione e delle case mentre i fatti stanno accadendo, perché sarebbe molto pericoloso mettere in iscritto cose del genere. Dopo la fine della guerra si tende poi a dimenticare anzi a rimuovere. Manca di fatto una chiara registrazione al riguardo. Di questo procedimento fanno testo, in altro tempo e in altra guerra, le sette pagine tagliate nel diario della casa di Lendinara, tagliate ed eliminate, e poi riscritte da P. Giovanni Battista Larese in un modo più politically correct durante la III guerra di Indipendenza, probabilmente perché autodenuncianti e inopportune nella situazione politica dell’epoca.
E tuttavia il preposito P. Aurelio Andreatta, come si è visto, scrive il 10 giugno 1940 nel diario della Congregazione “I benpensanti ritengono intempestivo ed inconsulto l’intervento italiano”. D’altra parte, la rivista Charitas, organo di comunicazione ufficiale/ufficioso dell’Istituto Cavanis, dell’aprile-maggio-giugno 1940 (XVIII !) aveva in prima pagina il seguente proclama:
ITALIA SCHIERATA
L’Italia è scesa in campo per la difesa suprema dei suoi vitali interessi di grande Nazione.
Chiamata a rapporto dal Duce la sera del 10 Giugno essa ha chiara ormai la visione delle alte mete che deve raggiungere con coraggio, tenacia, valore.
L’Italia non ismentirà il suo passato glorioso ed eroico.
Il nostro pensiero in questo rapido incalzare di eventi abbraccia la spirituale famiglia che fa capo al nostro Istituto: allievi, ex-allievi, amici.
Tutti saranno degni della grande ora storica, tutti compiranno il loro dovere.
Ce ne assicura la lapide che fregia l’ingresso delle nostre scuole e che reca incisi i nomi degli Ex-allievi caduti per la grandezza d’Italia sui campi dell’ultima grande guerra, dell’Impero, della Spagna.
La fede che ispira ed illumina l’opera educativa dell’Istituto è viatico di obbedienza, di sacrificio, di eroismo.
Anche la prima pagina della stessa rivista Charitas di qualche mese dopo, del resto, porta il seguente triste testo:
La scuola e l’ora presente
La parola “sacrificio” deve risuonare incontrastata in quest’ora severa, non solo per il soldato che impugna l’arma, ma anche per lo studente che mobilitato in altro campo, quello della scuola, deve affrontare la conquista della scienza e formare virilmente il carattere alle prove del domani. Il sacrificio è il crisma dei forti, è il crisma degli eroi. Non è solo la Chiesa che lo addita come fulcro insostituibile per ogni elevazione morale e religiosa, ma è la stessa dottrina dello Stato fascista che insegna alle generazioni italiane come la vita comoda è una contradizione per chi voglia raggiungere un ideale di grandezza e di potenza. Oggi per i giovani c’è il sacrificio della scuola, il sacrificio dello studio, della rinuncia a ciò che può spezzare il nobile sforzo verso il raggiungimento del sapere; A QUESTO SACRIFICIO ESSI DEVONO ORIENTARE DECISAMENTE TUTTE LE POSSIBILITÀ DEL VOLERE. A tutti la scuola chiede disciplina e lavoro, a tutti tenacia di propositi, a tutti docilità ed obbedienza. Anche gli scolari sono agli ordini del Capo [chiaramente, si allude al duce Mussolini], come il soldato. Lo Stato ha cure particolarissime per i giovani e la recente Carta della Scuola, che trova quest’anno la sua prima realizzazione nell’ istituzione della prima classe Media, è un documento di alto valore politico ed educativo, poiché mentre va incontro ai bisogni nuovissimi della gioventù italiana, mira a promuovere la formazione dell’uomo, la formazione del cittadino soldato. La Scuola è un vero servizio che contribuisce efficacemente alla grandezza della Nazione. Quanto più l’Italia avrà uomini nutriti di solidi studi, di forti pensieri, di magnanimi ed onesti caratteri tanto più si imporrà all’ammirazione dei popoli e, come l’antica Roma, diverrà “caput mundi”.
C’erano evidentemente, anche all’interno della Congregazione, idee diverse; ma era anche diverso quello che si pensava, quello che si scriveva (con prudenza e moderazione senza dubbio) in privato, e quello che si pubblicava. È vero che senza dubbio, se P. Piasentini, come prefetto delle scuole (e come direttore responsabile della rivista Charitas in quegli anni di guerra), avesse fatto quel giorno un discorso antifascista o contro la guerra in corso, alla presenza di un gerarca fascista, l’Istituto sarebbe stato chiuso e lui stesso ne avrebbe avuto seri problemi. Tuttavia, il contrasto è qui un po’ eccessivo.
Certamente si può ascrivere alla Resistenza il comportamento dello stesso P. Giovanni Battista Piasentini, tre anni più tardi direttore della Casa del S. Cuore a Coldraga di Possagno, che nascose dal 1943 al 1945 almeno due ebrei, Giorgio Franco e suo padre, nella sua casa, avendo come ricorso in caso di emergenza quello che si chiamava “il bunker”, cioè un piccolo ambiente sotterraneo, invisibile all’esterno, alla base della caratteristica torretta del primo modulo della casa. P. Piasentini aveva anche lasciato detto ai suoi collaboratori: “Se io non ci sono, chiunque venga in casa a chiedere aiuto, alimento o altro, aiutatelo.” Si riferiva soprattutto ai giovani partigiani che vivevano e si nascondevano nelle casere del M. Palon, dei Campini, del Archeson e dintorni, sulle pendici del M. Grappa. Come si dirà più sotto, ci fu anche una visita di ispezione, a quanto pare anche una temporanea residenza, di elementi nazi-fascisti, che non scoprirono nulla e, forse in quanto ambiente sacro, la casa del S. Cuore fu l’unica casa che non fu incendiata dagli occupanti tra tutti gli edifici di quel settore della montagna. Anche se motivo ce ne sarebbe stato, ma non fu scoperto.
L’avvocato e giornalista Giobatta Bianchini, ex-allievo come si è detto, mi riferiva che P. Piasentini, prefetto delle Scuole dell’Istituto a Venezia, in occasione di una visita di Mussolini e di Hitler a Venezia (l’incontro avvenne alla Villa di Stra e a poi a Venezia, saremmo quindi nel giugno 1934) si era lamentato che gli organizzatori dell’evento a Venezia, che comprendeva anche un saggio ginnico, particolarmente, dato che gli allievi Cavanis non erano Balilla ma marinaretti, un saggio con bandierine di segnalazione, avevano costretto i ragazzi che dovevano partecipare al saggio a partecipare alle prove anche domenica mattina. In particolare il padre reagì dando una sospensione di tre giorni ai ragazzi che non avevano partecipato all’obbligatorio oratorio domenicale; e commentò pubblicamente, riferendosi a detti organizzatori: “Ma sono matti? Devono capire che non si può interrompere l’attività degli oratòri”.
P. Mario Janeselli, per testimonianza di P. Valentino Pozzobon, contrastava attivamente le leggi razziali.
Don Bruno Bertoli, ex-allievo dell’Istituto Cavanis di Venezia, nel suo libro sui cattolici nella Resistenza veneziana, ricorda che i Padri Cavanis erano stati accusati di formare i loro studenti all’opposizione al fascismo; più esattamente scrive: “Si deve ricordare anche l’Istituto Cavanis per il riserbo in materia politica che lo mantenne “vergin di servo encomio” e “per certi insegnamenti critici rispetto alla cultura dominante che valsero a qualcuno dei padri l’accusa di formatori al sovversivismo”. Nelle note poi Bertoli spiega che tale specifica accusa “venne formulata dal papà di Dante Gardani, in seguito all’arresto del figlio tradotto in campo di concentramento a Bolzano”.
Lo stesso libro ricorda pure un certo numero di ex-alunni dell’Istituto Cavanis impegnati nella Resistenza in senso stretto: tra i “resistenti del ventennio”:
Tra i resistenti, ex-allievi Cavanis, che si disposero a entrare in un modo o nell’altro nella Resistenza dopo l’8 settembre 1943, Bertoli registra la presenza di:
A questi ex allievi resistenti, ricordati dal citato libro di B. Bertoli, vanno aggiunti da altre fonti i seguenti:
Rimane da vedere se gli ex-allievi Cavanis che hanno partecipato alla Resistenza in un modo o nell’altro, lo hanno fatto anche per l’influenza dell’educazione ricevuta nell’Istituto Cavanis in cui studiavano o avevano studiato, o per altre influenze, particolarmente dell’Azione Cattolica giovanile, della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana), naturalmente delle famiglie, e così via.
Occorre aggiungere che i pochi ricordati sopra sono tutti ex-allievi dell’Istituto Cavanis di Venezia.
Della casa e scuola di Possagno, risulta che sono stati ex-allievi almeno questi due: Fiorino Basso, partigiano sul Grappa, di cui si parla più sotto nella sua biografia, dato che dopo l’esperienza bellica e di resistenza entrò nell’Istituto Cavanis e ne fu religioso e sacerdote; e Leo Menegozzo di cui pure si parla più sotto.
Anche un buon numero degli ex-allievi di Porcari avevano aderito alla Resistenza: in quella borgata, durante la loro ritirata verso nord le forze armate tedesche e particolarmente la S.S. avevano occupato il complesso di edifici del Collegio di Porcari con un comando di tappa e avevano sloggiato religiosi e allievi convittori: “I soldati delle S.S. avevano riempito di attrezzature belliche il cortile del Cavanis ed i locali tra la sala del teatro e la chiesetta dell’Istituto. Il 20 e 21 Gennaio [1944] il Collegio Cavanis corse il rischio di essere bombardato proprio per la presenza del comando tedesco, ma venne poi risparmiato pare grazie all’intervento dei Partigiani, di cui molti ex-allievi del Cavanis, appartenenti al gruppo ‘Poggiocaro’ comandato da Arcangelo Toschi che intervenne mediando con gli Alleati”.
A conclusione di queste pagine sulla dura esperienza di guerra e di resistenza dell’Istituto Cavanis, delle sue case, dei suoi religiosi, dei suoi allievi ed ex-allievi, e prima di passare a raccontare, per mezzo della trascrizione di interviste, alle vicende di singoli membri della congregazione, vale la pena di riprodurre integralmente l’articolo “Bilancio di guerra” pubblicato come articolo di fondo anonimo nel primo numero post-bellico della rivista ufficiale/ufficiosa dell’Istituto, il Charitas. Esso, molto oggettivo e privo di retorica, aiuta a fare il punto sulla situazione, e tra l’altro a render conto di certe apparenti ambiguità e di molti silenzi, purtroppo necessari nel clima del triste regime fascista, repubblichino e bellico.
5.3 Bilancio di guerra
Innanzi tutto i nostri amici saranno desiderosi di conoscere il tributo di sofferenze e di perdite dato dalla nostra Congregazione alla grande guerra chiusasi nelle prime settimane del maggio 1945.
Tale tributo a Venezia è stato sopra tutto morale; i danni materiali si ridussero a due o tre centinaia di lastre rotte e ad alcune finestre e porte scardinate in seguito al bombardamento alleato sullo scalo marittimo della città il 21 marzo 1945. Cose dunque non gravi. Più preoccupante invece l’atmosfera di sospetto e di spionaggio che si avvertì attorno all’istituto ed alle sue scuole dopo l’8 settembre del 1943.
I Padri erano considerati come fautori indiretti o quasi ispiratori ideali di una parte almeno dell’antifascismo e della cospirazione che in citta serpeggiava tra la gioventù. Ciò si collegava al fatto che non pochi dei nostri giovani ex-allievi subirono per ragioni politiche arresti o interrogatori. Circolavano negli ambienti fascisti e polizieschi voci tendenziose sul conto dei nostri Insegnanti, alcuni dei quali furono apertamente accusati presso le autorità locali, sicché per sottrarsi ad un probabile arresto dovettero scomparire per qualche tempo da Venezia. Una denuncia formale arrivò sino al Ministero repubblicano dell’Educazione Nazionale, che fu sul punto di applicare una sanzione oltremodo grave: la chiusura delle nostre Scuole. Per le quali si fecero frequenti e seccaginose (sic) le ispezioni da parte di qualche funzionario ministeriale, molto zelante della repubblica di Salò.
Si dovette quindi camminare per mesi e mesi, fino alla primavera liberatrice del ’45, sul filo di un rasoio, imponendosi un atteggiamento di grande prudenza e vigilanza, sempre sotto l’incubo di improvvise arbitrarie perquisizioni o di arresti.
A Possagno fino al settembre del ‘44 le cose si erano svolte in una tranquillante normalità. Esclusa una parziale requisizione di locali, per uffici ministeriali dislocati da Roma, che non impedì l’efficienza scolastica del convitto, non si ebbero disturbi di una qualche entità.
La bufera scoppiò d’improvviso il 21 settembre. S’iniziava in quel giorno il rastrellamento del Grappa, che inchiodava le popolazioni della zona pedemontana sotto una tremenda ondata di terrore e faceva penzolare, macabro spettacolo, da alberi, da pali telegrafici, da poggioli di case tanti miseri cadaveri di eroici patrioti.
Il Collegio Canova fu minutamente perquisito; i Padri e i religiosi radunati nei cortile e minacciati di gravi rappresaglie se non consegnavano le liste dei partigiani, infine condotti sotto scorta armata nelle scuole del Comune, dove fecero per quasi una settimana, dormendo sul pavimento col sussidio di una coperta e di un cuscino, la vita poco sicura dell’ostaggio o del prigioniero.
Nel Convitto, dove era stato lasciato il Rettore e qualche Padre per la custodia del locale, si dette intanto la caccia a stoffe (fu trovata la saglia di lana nera per vesti talari), a biancheria, oggetti vari, scorte alimentari ecc. Il bottino accumulato disparve sui camion tedeschi. Il danno fu rilevante: a tradurlo in cifre bisogna parlare di parecchie centinaia di migliaia di lire.
Il Probandato ebbe la visita di una pattuglia tedesca, che cercava dei prigionieri inglesi che si dicevano nascosti colà; molta trepidazione, ma nessuna cattiva conseguenza.
La Casa del S. Cuore dovette ospitare per due notti una sessantina di Tedeschi inviati a bruciare le “casère” della montagna, ma essa rimase indenne.
Un ultimo allarme si verificò per il Collegio Canova verso la fine dell’aprile 1945: ormai gli avvenimenti precipitavano, gli anglo-americani comprimevano sempre più decisamente le forze tedesche in sfacelo al di qua del Po. II Collegio fu scelto dal Comando tedesco come sede di un ospedale per feriti leggeri o in via di guarigione. I Convittori furono rinviati in fretta alle loro case; i feriti giunsero, ma sloggiarono precipitosamente dopo qualche giorno, mentre giungevano all’orecchio gli spari dei partigiani e delle truppe liberatrici.
Nella Toscana i segni della guerra furono più profondi ed i pericoli più gravi.
Dopo una breve occupazione da parte dell’esercito italiano, fino all’8 settembre 1943, i tedeschi occuparono il Collegio di Porcari quasi di sorpresa poco dopo l’inizio dell’anno scolastico 1943-44 e d’allora esso fu adibito ininterrottamente a quartiere delle SS. e di altre truppe dirette o provenienti dal fronte, finche la battaglia si portò sulla cresta dell’Appennino tosco-emiliano. Più sotto ne parleremo in dettaglio.
Vi sostarono anche per breve tempo dopo il settembre 1944 gli Inglesi con un ospedale indiano e con truppe pure indiane.
I nostri Padri, ad eccezione di qualche religioso rimasto nella casa attigua al Collegio per compiti di sorveglianza e per servizio della Chiesa, si ritirarono a Vicopelago, dove poterono continuare la scuola ad un gruppo dì allievi interni e dove rimasero, assistendo alle varie fasi dell’avanzata anglo-americana, finché prima del Natale 1944 riebbero il Collegio. Ma in quali condizioni! I muri e pavimenti malconci, vetri infranti, la caldaia del termosifone e la macchina della lavanderia rovinate, i motori dell’acqua inservibili, la suppellettile non potuta occultare sparita o guasta, più di cento letti asportati!… Ma bisognava ancora ringraziare la Provvidenza, perché eravamo sfuggiti al peggio ed all’irreparabile. S’era infatti risaputo che il Collegio doveva esser oggetto di un bombardamento di grossi apparecchi anglo-americani, appena i patrioti operanti sui Monti Pisani avessero segnalato l’arrivo della colonna di paracadutisti «Hermann Goering», che nella ritirata da Montecassino aveva ricevuto l’ordine di raggiungere il Collegio. Invece giunta all’Arno essa cambiò direzione e la grave iattura si abbatté sopra un’altra località.
La cronaca del Probandato di S. Alessio non registra fatti degni di rilievo: la guerra gli è passata accanto senza alterarne il ritmo di vita e di lavoro.
Molto grave invece la sorte subita dalla nostra proprietà al Cinquale di Massa. Quivi si è fermata per parecchi mesi la linea di resistenza tedesca e si sono sviluppati accaniti combattimenti citati anche nei bollettini ufficiali. Le conseguenze per la nostra colonia marina, che era ancora nella sua fase iniziale, furono disastrose: distrutti i padiglioni in legno già adibiti a dormitorio, cucina, cappella e direzione, i pini divelti o massacrati, il terreno sconvolto da fosse, da mine, da apprestamenti difensivi. La località non è più riconoscibile.
Il Probandato di Pergine (Costasavina) attraversò il periodo più acuto della guerra senza risentirne notevolmente. Ci fu un momento di trepidazione quando gli sganciamenti degli aerei anglo-americani si fecero più frequenti sulla ferrovia del Perginese. Qualche bomba scoppiò nelle vicinanze della casa. La quale subì danni di una certa entità qualche mese dopo la cessazione delle ostilità per l’esplosione di un deposito di munizioni situato a poca distanza.
Non sono quindi mancate nel grave cataclisma che sconvolse l’Europa ed il mondo le prove dolorose alla nostra Congregazione. Però nessuna vittima si ebbe a lamentare tra i nostri Religiosi, nonostante i pericoli a cui non pochi si trovarono esposti, specialmente in Toscana. Due nostri Sacerdoti prestarono servizio nell’esercito come Cappellani: uno fu quasi subito congedato per ragioni scolastiche, l’altro, dopo essersi trovato per assistere spiritualmente i suoi soldati più volte di fronte alla morte nella campagna di Sicilia, poté quasi miracolosamente ripassare con pochi superstiti lo stretto di Messina e rientrare incolume nell’istituto.
Questo il nostro bilancio di guerra, dinanzi ai quale siamo pronti a riconoscere che il Signore ci ha trattati con molta benignità: le nostre sofferenze e ferite svaniscono raffrontate con quelle di milioni e milioni di nostri fratelli in Cristo. Nè possiamo dimenticare che Dio permette le prove, anche le più gravi, sempre per uno scopo di bene, che il più delle volte rimane nascosto agli occhi dei mortali, ma è certissimo.
Per queste ragioni in tutte le nostre Case, chiuso il ciclo delle ostilità belliche, si sentì il bisogno di ringraziare con un solenne Te Deum l’Altissimo di ogni grazia elargita all’Istituto ed ai suoi amici.
Il rito assunse solennità maggiore a Venezia ed a Porcari.
A Venezia il 20 maggio, giorno prescelto a tale scopo, la nostra Chiesa di S. Agnese era gremita di alunni, ex-alunni e benefattori, ai quali rivolse parole di circostanza il Preposito dell’Istituto.
A Porcari precedette un triduo di preparazione, che servì a rinfocolare gli animi nel sentimento della riconoscenza.
La funzione conclusiva culminò nella processione eucaristica fatta a tarda sera attorno ai cortili del Collegio, con l’intervento della popolazione, che si sentì solidale coi Padri nel beneficio della incolumità e nel dovere del ringraziamento. Nella processione furono portati anche, a scopo di riparazione, due Crocifissi dell’Istituto che le SS. Germaniche avevano durante la loro permanenza sacrilegamente mutilato.
Ed ora, rassodati dalle prove incontrate nei propositi della loro santa vocazione, i nostri Religiosi hanno ripreso il loro antico e modesto lavoro, sicuri che la loro attività educatrice non sarà inutile per la sanazione di questa società del dopoguerra più che mai divisa tra bene e male, tra verità ed errore, tra Cristo e Anticristo.”
5.4 Vita di una comunità Cavanis nell’Italia in guerra nel 1943
J.M.J
ISTITUTO CAVANIS – SCUOLE DI CARITÀ
ASSOCIATE ALL’E.N.I.M.S.
PORCARI – LUCCA
27 luglio 1943
RELAZIONE SULLA FAMIGLIA RELIGIOSA DELLA CASA DI PORCARI (LUCCA)
La Famiglia di Porcari, in complesso, è osservante, ma, come in tutti i gruppi di uomini, ci sono dei pregi e dei difetti sia nell’insieme che negli individui.
C’è la Carità = I Confratelli si aiutano volentieri, anche a prezzo di sacrificio e senza misura, nel compiere i vari ministeri pur accennando talora qualcuno a indulgere alla pigrizia e quindi all’egoismo; ma i più “tirano i meno” e l’ “ambiente” rimane caratterizzato da tale virtù.
I ministeri cui i Padri sono applicati sono anche troppo onerosi talvolta, per la loro molteplicità. Sono caratteristiche della Casa: frequenti chiamate ad amministrazione di Sacramenti cui non si può rifiutarsi; insegnamento del Catechismo finalmente e felicemente iniziato nel 1943 nelle Scuole Elementari Comunali (3^, 4^, 5^, ); frequenza di fedeli alla nostra Chiesa e conseguenti impegni di Confessori e celebranti di pie pratiche tradizionali edificanti; nel campo materiale sorveglianza vigile e competente del podere in Padule, fonte in questi anni dì guerra di approvvigionamento di alimenti alla Casa e al Convitto; mancanza di collaboratori secolari; tutto ciò oltre a quanto si richiede al funzionamento normale di ogni Convitto.
La riduzione di personale assistente ai Convittori, indusse ad affidare tali mansioni ai RR. Padri. Da tutto ciò deriva “pluribus intentus minor est ad singula sensus“; ma essendo tutto necessario, si giunge all’altra conclusione che la Casa ha bisogno di maggior numero di personale.
Posso dire che c’è l’osservanza della disciplina religiosa.
Lo spirito d’obbedienza si rivelò in forma esemplare in quasi tutti i Padri, fatta eccezione di P. [Amedeo Fedel] che obbligò il Superiore a deviare “pro bono pacis” da direttive e ordini di ministero ecclesiastico e scolastico già emanati, con cattivo esempio degli altri. Dei Fratelli, Santin Luigi obbedisce sempre; [Luigi Gant] va compreso nel momento e ora opportuna e allora fa la volontà del Superiore. Ammirabile è l’esempio di osservanza e di obbedienza di P. MartineIli Basilio che edifica la Casa colle sue virtù religiose. = Si accentuò in quest’anno la tendenza a fumare. Furono date norme precise: occasionalmente, qualche sigaretta, con giovani, nil vetat; ex professo, con deposito in cella o rifornimento da amici, no. P. Sighel Gioachino dice che ne ha bisogno fisico e fu obbediente nel lasciare in Direzione il rifornimento, cui attingere con licenza particolare del P. Rettore.
Nei riguardi delle Scuole devo dire cosi: ordine e disciplina furono bene osservati sia nel Convitto che nell’esternato; quanto al profitto è da rilevare che parecchi Padri non sono forniti di titoli di Studio sufficienti all’insegnamento nelle Scuole parificate; ma specialmente che per lacune nel cursus studiorum e per mancanza di amore allo studio dimostrano in pratica poca cultura con scapito del profitto degli alunni che rimangono chiusi e lenti, e con poco decoro dello stesso Istituto.
In particolare, a malgrado d’istruzioni frequenti e Insistenti non sono riuscito che a grande stento a trainare specialmente i più giovani, al senso del dovere e di responsabilità nei riguardi della parte burocratica che oggi le Scuole, specilamente (sic) la Media e parificata esige ad ogni costo. (Tenuta dei Registri vari; formulazione dei giudizi; informazione legislativa essenziale pur avendo fornito ogni insegnante del fascicolo stampato; compilazione di pagelle scol/che [scolastiche]; di relazioni; schedari, ecc.). Si va alla buona, all’impreciso, per non dire “alla carlona”.
Per quanto riguarda il lato educativo, il principale, ho rilevato come dissi sopra, dedizione cordiale da parte di quasi tutti e buono spirito.
Lo spirito di pietà fu in capo ad ogni altro studio e, coll’aiuto di Dio, si fece da tutti del proprio meglio per informarne i giovani. Si ottennero risultati confortanti (Deus unus scrutat corda et renes) a giudicare dall’esterno e umanamente e speriamo che siano coronati da Dio e dalla Madonna SS. con alcune vocazioni all’Istituto (due sono a Possagno, altri 4 o 5 sono in preparazione), e altre al Seminario diocesano (7 sono gli ex-allievi attuali in Seminario di LUCCA; uno fu ordinato Sacerdote lo scorso mese).
Nei riguardi della Liturgia, il culto del Signore è lodevole nei RR. Padri, volonteroso ma grossolano nel Fratelli, non soddisfacente nel “piccolo clero” [chierichetti o inservienti dell’altare] perché non abbastanza accurato.
Tutto l’arredamento e la suppellettile ecclesiastica è conservata bene con diligenza dalle ven/de [venerande] Suore addette alla guardaroba.
Finanziariamente la Casa procedette regolarmente e sistematicamente verso un deciso miglioramento della sua posizione sicché, pur avendo acquistato la “Villa S. GIUSEPPE.” in Vicopelago (LUCCA) i conti si chiudono a tutt’oggi senza debiti di nessun genere e una giacenza di alimenti computabili sulle centomila lira italiane, valore corrente.
Il P. Economo fu vero economo; gli fu lasciata una certa libertà di manovra data la sua competenza e la premura per custodire i beni dell’Istituto, pur dipendendo in tutto dal P. Rettore, in questo P. Janeselli Mansueto meritò bene della Casa, coadiuvato dal solerte e diligente P. Sighel Luigi.
In conformità alla Regola, il Consiglio di Casa fu sempre interpellato prima di fare le spese e Dio ha benedetto lo spirito di povertà di tutti i responsabili dell’amministrazione e non fece mancare nulla al bisogno del vitto, vestito e letizia dei Confratelli.
Chiudo la Relazione pregando II Capitolo Generale di tener presente che per la (sic) attuali circostanze non mi pare opportuno mutare tanti Confratelli della Casa o di tener almeno presente che Direzione, Amministrazione e Corpo insegnante non possono essere mutati contemporaneamente senza un grave disguido andamento della nuova Famiglia e specialmente delle SCUOLE.
HOC TANTUM IN DOMINO
Il P. Rettore uscente
(P. Saveri Vincenzo)
[firma]
[timbro]
In piena guerra, il 31 agosto 1943 fu aperta dalla congregazione nel paese di Costasavina, frazione del comune di Pergine, (diocesi e provincia di Trento) una nuova casa nella «Villa Moretta », per metterci il noviziato e il piccolo seminario (Probandato), sotto il patrocinio del Cuore immacolato di Maria.
Si discusse la possibilità, proposta dal preposito, di “collocare le nostre pie donne di Porcari, nucleo delle future Suore dell’Istituto e di parlarne al Vescovo di Treviso come assistenti – oblate – per una Casa femminile di Esercizi Spirituali alle mamme dei nostri Convittori e anche alle donne della Diocesi di Treviso. La proposta è accettata”. Non se ne farà poi nulla.
Il 1° luglio successivo “Si apre il Capitolo Generale dopo l’esperimento di un sessennio come durata delle cariche maggiori (=generali). È confermato il Preposito uscente. – Per il resto vedere i regolari Verbali.”
Della situazione delle “pie donne” di Porcari si parla anche nella prima riunione del capitolo definitoriale del nuovo triennio 1943-1946, tenuto il 6 luglio 1943. Il vescovo di Treviso (qui chiamato arcivescovo) non aveva accettato l’idea della fondazione di un istituto religioso femminile “Cavanis” nella sua diocesi. Ecco il testo del verbale su questo punto: “In primo luogo si vorrebbe una risposta definitiva sulla possibilità di dare una forma concreta al disegno di fondazione di un istituto femminile di pie donne che da anni attendono pazientemente nel servizio del Collegio di Porcari. I vari tentativi fatti negli anni scorsi non ebbero buon esito e la negativa dell’arcivescovo di Treviso ha impedito che potessero riunirsi nella casa di Fietta ceduta in dono all’Istituto da Don Giovanni Andreatta. Discusse diverse opinioni e proposte, sembra opportuno chiedere a sue tempo il permesso al Patriarca di Venezia e di realizzare la fondazione in Venezia stessa: di questa pratica resta incaricato il Preposito”.
Sullo stesso tema delle “pie donne” di Porcari si ritorna più lungamente nella riunione del capitolo definitoriale del 23 aprile 1944, in piena guerra.
Nel verbale della riunione definitoriale del 16 settembre 1944 si decide di cambiare la sede del noviziato dalla Villa di Costasavina (Pergine, Trento) a Coldraga, sulle pendici del Monte Grappa sopra Possagno, rimanendo però lì il seminario minore o probandato: “Il P. Preposito, munito del necessario permesso della S. Sede, propone la sistemazione definitiva del Noviziato nella Casa Alpina. Questa cesserà di essere la villeggiatura del Collegio [di Possagno] e con opportuni adattamenti diventerà la Casa del Noviziato alle dirette dipendenze del Preposito. Il direttore della Casa del S. Cuore penserà agli esercizi ed il Maestro si occuperà del Noviziato. La proposta è messa ai voti: votanti cinque; voti favorevoli cinque. Il Collegio di Possagno dovrà pensare al mantenimento dei due padri e dei novizi, fino a tanto che la Casa si manterrà da sé.” La lettera del preposito generale P. Aurelio Andreatta al rettore del Collegio di Possagno del 16 settembre 1944 stabilisce l’erezione della casa del noviziato e la sua data: “La Casa Alpina dal 1° ottobre 1944 è eretta in Casa a uso del Noviziato.”
L’8 dicembre 1944 ebbero inizio i lavori per la costruzione dell’ultima ala, quella maggiore, della casa del Sacro Cuore a Possagno. Fu una scelta coraggiosa, quella di continuare lo sviluppo edilizio di questa casa, nonostante si fosse in anni durissimi, verso la fine della guerra. Poco dopo, il 30 marzo 1945, il diario della Congregazione narra che anche altri pensavano a edificare case di esercizi. Il parroco francescano (probabilmente OFM) aveva comprato dall’arciprete di Possagno la sommità del colle di S. Antonio, dirimpetto a Coldraga, per costruirci una casa di esercizi, cosa che sembrava inopportuna ai padri Cavanis, che temevano la concorrenza a breve distanza. P. Aurelio Andreatta ebbe dei colloqui infruttuosi con il provinciale di Treviso, e si rivolse al vescovo di questa diocesi, mons. Mantiero, che comprese la preoccupazione dei padri e interdisse l’opera e anzi fece interrompere i lavori. P. Aurelio si propose di comperare il terreno, ad evitare altre imprese del genere, ma la somma proposta per l’acquisto era realmente eccessiva: £ 1.300.000, contro un valore che un perito aveva stimato in £ 150.000. Non se ne fece nulla, ma la casa di ritiri non fu costruita. Strano che sulla cima del colle non si vedono attualmente resti di mura. Forse i francescani avevano soltanto iniziato gli scavi per le fondazioni della casa.
Il 1945 fu l’anno della fine della guerra (data convenzionale, per l’Italia, il 25 aprile 1945), di cui si è raccontato nel capitolo sulla guerra e l’Istituto. Ci fu anche una vacanza straordinaria delle scuole l’8 e il 9 maggio, in tutto il Paese, per la resa incondizionata della Germania.
Mentre si svolgevano questi fatti in Congregazione, in realtà, la seconda guerra mondiale infuriava, ormai da circa cinque anni per l’Italia, sei anni abbondanti per le principali nazioni europee coinvolte. Eppure negli atti dei capitoli definitoriali (Consiglio generale) si trova per la prima volta un riferimento all’immane conflitto, di passaggio, nel verbale del 23 aprile 1944, quando ormai l’Italia era stata sloggiata dall’Africa, dalla Russia, dalla penisola balcanica, dalla Grecia, dal Mediterraneo; gli alleati si avvicinavano a Roma, avendo conquistato le isole e tutto il meridione d’Italia: le forze dell’asse Roma-Berlino erano ormai al collasso e la guerra era virtualmente persa da tempo.
Nel diario della congregazione vi si fa riferimento con maggiore frequenza, particolarmente alla fine di ogni anno, ma sempre con poco risalto, come si dirà. L’Istituto Cavanis soffriva senza dubbio per la guerra, vedeva morire ex-allievi, amici, parenti dei suoi membri: dal terrazzo più alto della casa-madre a Venezia si potevano vedere a occhio nudo le colonne di fumo che salivano al cielo dalle rovine di Porto Marghera e della stazione di Mestre; tutte le notti e spesso anche di giorno si udivano le sirene e si correva ai rifugi antiaerei; ma la congregazione continuava la sua vita religiosa e pastorale con costanza. Cecità storica, autocensura per evitare controlli e problemi, o invece molta fede e speranza nel Signore? Difficile a dirsi. Sarà comunque necessario fermarsi un po’, e parlare ancora della guerra mondiale e anche di ciò che accadde all’Istituto e ai suoi membri, come pure alla sua popolazione studentesca nel periodo dal 1° settembre 1939 al 25 aprile 1945 e giorni successivi.
5.5 Microstorie Cavanis nella macro-storia della seconda guerra mondiale
5.5.1 La guerra e la prigionia di Edoardo Bortolamedi
Edoardo Bortolamedi, trentino della Valsugana, fu chiamato alle armi a circa 30 anni come soldato semplice nel battaglione Trento degli Alpini durante la guerra mondiale del 1940-1945; fu inviato sul fronte francese sulle Alpi e poi si trovò tra le forze di occupazione del sud della Francia; fu fatto prigioniero dai tedeschi il 9 settembre 1943, quando essi invasero e occuparono anche il sud della Francia, che prima era stata la repubblica semi-autonoma di Vichy. Rimase prigioniero di guerra prima dei tedeschi, poi degli alleati, vivendo duramente in successivi campi di concentramento, costretto a lavoro di manovalanza in appoggio alle forze armate tedesche e poi alleate, sempre in situazioni di grande pericolo e di sofferenza, sopportata con grande pazienza, speranza, aiutato da una grande e preziosa spiritualità di laico cristiano molto devoto ma non bigotto.
Un ampio cenno merita il suo lungo e dettagliato diario della prigionia, nel quale, anche in mezzo a mille sofferenze e difficoltà ambientali, riuscì a prendere nota laconica, quasi telegrafica, degli avvenimenti di quasi ogni giorno dei due anni di prigionia (8 settembre 1943-21 settembre 1945), trascorsi prima in mano ai tedeschi, poi agli americani. Il diario relata soltanto gli eventi della prigionia, purtroppo non quelli della guerra, e non ci è dato di sapere se l’alpino Edoardo Bortolamedi, soldato semplice del battaglione Trento, avesse partecipato alle battaglie sulle Alpi – del resto molto mal organizzate e del tutto deboli e in buona parte inconcludenti –, o se era stato inviato, come sembra più probabile, tra le forze di occupazione dopo la débacle francese. Dato che Edoardo al tempo della guerra non apparteneva ancora alla Congregazione e non era conosciuto dai suoi membri prima del 1947 (o poco prima), non troviamo dati a suo riguardo nel Diario o in altri documenti dell’Istituto, e non sappiamo nulla sulla sua “avventura” bellica fuorché quello che fratel Edoardo ha lasciato di suo nel suo resoconto scritto.
Dal diario stesso, a pag. 13, in data del 19 marzo 1944, si viene a conoscere che nella stesso mese e giorno, l’anno prima (1943), Edoardo era di guarnigione e di guardia ai ponti di Digne.
La prigionia di Edoardo comincia a Grenoble, a seguito dell’assalto dei tedeschi alla caserma dove la sua unità si trovava acquartierata, nella tarda serata e nella notte tra l’8 e il 9 settembre 1943, la sera stessa dell’annuncio dell’armistizio di Cassibile tra l’Italia e gli Alleati. Alla mattina del 9 gli alpini depongono le armi e si danno prigionieri dopo aver resistito tutta la notte, con vari caduti. Dal 22 settembre l’unità viene trasportata a “Sallon”, più probabilmente Salon-en Provence, in Provenza, poi nel campo di concentramento e di smistamento di Camp Les Milles (26.9.1943), presso Aix-en-Provence; pochi giorni dopo sono a Troyes in Champagne (2.10.1943) e i prigionieri lavorano nei dintorni, divisi in squadroni, spesso a Romilly. Il 27 marzo 1944 i prigionieri sono trasportati in camion a Châlons e di qui, in treno, a Pont-Audemer in Alta Normandia. Vi andavano a collaborare, per forza, non per amore, certo, alla fortificazione del Vallo Atlantico. Edoardo non lo sapeva ancora, come del resto gli altri prigionieri italiani e gli stessi militari tedeschi, ma doveva lavorare nella regione di uno dei più grandi sbarchi della storia, quello del D-day, il famoso sbarco alleato in Normandia.
Durante il lavoro gli Alpini prigionieri erano costretti a lavorare anche se sorvolati con frequenza da stormi immensi di bombardieri, ma avevano più paura dei caccia, che passavano mitragliando tutto ciò che si moveva. A volte vedevano passare sopra di loro le V1 e le V2 che andavano verso l’Inghilterra per causare morte e distruzione. Si buttavano allora nei fossi o nella boscaglia, e poi erano costretti a riprendere subito a lavorare.
Il 3 e 4 giugno 1944, e in altri giorni frequenti, si parla di intensi bombardamenti e di cannonate, e il semplice alpino Edoardo accenna nel Diario solo di passaggio che era avvenuto il grande sbarco il 6 giugno. Gli Alpini partono a piedi per una lunga ritirata di vari giorni attraverso Serquigny, raggiungendo Evreux, soffrendo parecchie perdite di commilitoni durante la marcia. Vivono ormai in mezzo alle rovine e alla morte, acquartierati sotto tende e mal provvisti di cibo e di acqua, e lavorano di qua e di là nei dintorni, soffrendo ancora perdite da parte degli aerei alleati sia che fossero caccia sia bombardieri. Sono vicinissimi al fronte che avanza verso Parigi e poi verso la Germania.
Dopo il 24 agosto 1944 i prigionieri – e i tedeschi – sono in ritirata verso levante e verso la Germania: gli Alleati avanzano, e tra l’altro sono sbarcati anche nel sud della Francia, come nota Edoardo il 17 agosto. Gli Alpini prigionieri passano per Bussy, Aulnai-Sette, Somme-Fevre, Saint-Menekould, Verdun, dove passano il 29 agosto, spostandosi quasi sempre a piedi, raramente in camion colpiti spesso da mitragliate o spezzonamento da parte degli aerei, autocarri così pieni di prigionieri che Edoardo sviene durante il viaggio, come altri. Il distaccamento passa ancora per Étain e si acquartierano a Eronville. Evidentemente i tedeschi che controllavano questo distaccamento di prigionieri italiani cercavano di raggiungere con loro la Germania e di evitare le linee di avanzata degli Alleati. I prigionieri in questa fase di ritirata non lavoravano più, si spostavano ora verso sudest, raggiungendo la Lorena, a piedi e per i tratti più lunghi in camion. Edoardo parla di una “marcia alla disperata”, sotto le bombe e le mitragliate.
Raggiungono così la città di Metz passando per Buck. A Metz “sentiamo che difficilmente si potrà passare in Germania essendo presto chiuso il confine dagli americani”. I prigionieri vengono abbandonati dai tedeschi in un bosco presso il confine. “Il tenente Miller ci dice che ha ricevuto l’ordine di ritirarsi e noi resteremo fino a domani e poi forse verranno a prenderci con i camion. Si capisce che resteremo soli. Ci saluta cordialmente e ci lascia quanto può di viveri e tabacco che viene distribuito subito”.
I prigionieri ormai in qualche forma liberati rimangono vari giorni nascosti nel bosco, nella terra di nessuno, sentendo cannonate e bombardamenti da tutte le parti, minacciati da altri gruppi di tedeschi in ritirata, con il pericolo d’altra parte di essere uccisi dai soldati alleati in avanzata. Manca l’acqua, ma non si può uscire dal bosco in queste condizioni di estremo pericolo. Si dorme su fronde tagliate dagli alberi.
Il 9 settembre però sono ripresi in servizio dai tedeschi e ritornano al lavoro a Buck, passano la Mosella in barcone e scaricano rotoli di filo spinato. Sembra che i tedeschi abbiano ripreso in mano la situazione e abbiano bloccato il fronte sulla Mosella.
Il distaccamento passa a piedi a Rorchingen, poi a Albersville, a Hallinghen, a Chicourt, villaggio con il nome tedesco di Disinghen (27 settembre 1944) a Marten (1° ottobre). Segue il “periodo più brutto che abbia passato da quando sono prigioniero”, scrive Edoardo: dal 6 al 25 ottobre, quando sono costretti a lavorare sul fronte, tra una pioggia di obici, bombe, schegge, proiettili. Nei lunghi trasferimenti a piedi dai cantieri di lavoro alla loro base devono buttarsi a terra “ogni due passi”. La notte del 10-11 novembre si spostano a Morchingen/Moreau. Sono a distanza di tiro delle cannonate dei carri armati americani e inglesi, ma devono ugualmente lavorare sotto il fuoco. L’11 novembre da una finestrella di una casa in rovine in cui si erano riparati, vedono “passare i primi carri armati americani”. Escono dalla casa perché sotto tiro da parte dei cannoni tedeschi, e le pattuglie di fanteria americana colpiscono alcuni di loro prima di accorgersi che stavano sparando su prigionieri di guerra. Fuoco amico! Diventano allora prigionieri delle forze Alleati e passano alcuni giorni e notti sotto le cannonate tedesche, poi vengono allontanati dal fronte e gli americani li sistemano a Stenay, in una tendopoli di tende aperte, su un terreno fangoso, mentre il clima si fa molto freddo. Seguono varie notti mal dormite, non potendosi sdraiare nel fango. Il 27 novembre 1944 sono trasferiti a Compiègne “la città degli armistizi ‘18 e ‘40”, passando per Reims e Soissons. Il 2-3 dicembre continua il trasferimento in treno a Cherbourg, passando per Parigi, Versailles, Chartres, Le Mans, Laval, Vitre, Saint-Lô. A Cherbourg il gruppo di prigionieri tra i quali Edoardo sono sistemati in un campo di concentramento situato in un altipiano sopra il porto, vi trovano altri italiani e prigionieri tedeschi e di altri popoli che avevano combattuto come alleati della Germania. È un campo misto. Vengono a sapere che dovevano attendere la commissione italiana per decidere della loro situazione e del rimpatrio. La cosa sembrava imminente, invece dovranno attendere l’arrivo del commissario italiano e del suo seguito fino al 26 marzo 1945! I soldati italiani prigionieri sono interrogati allora lungamente da un colonnello italiano, uno per uno, tra fine marzo e aprile. Intanto, a Natale le tende dove sono alloggiati i prigionieri si ornano di ghiaccioli, per il freddo e il vento intensi. Per tre mesi dormono per terra, sul suolo bagnato o ghiacciato; solo a marzo riescono a costruirsi delle specie di brande con pezzi di legno raccolti qua e là.
Il 6 maggio il reparto parte sui camion e attraverso Valognes, Montebourg, Sainte-Mère-Église, Carentan raggiungono Isigny, in un campo più libero, senza sorveglianza armata. È finito anche il regime di fame, spesso provata nel campo di Cherbourg.
Sotto regime tedesco, i soldati italiani prigionieri non capivano, e Edoardo lo registra nel suo diario, perché mai, anche se l’Italia aveva firmato l’armistizio del settembre 1943, essi dovevano essere catturati come nemici, condotti in lager e costretti a lavori forzati, per di più molto pericolosi, sul fronte; analogamente ora, sotto regime alleato, non comprendevano perché dovevano rimanere in prigionia e al lavoro forzato, anche se l’Italia aveva firmato un armistizio, era stata liberata e la guerra era finita. Non avevano capito nella loro semplicità e ignoranza che l’Italia aveva perso ignominiosamente la guerra e che anche loro ne stava pagando il fio.
Il 16 settembre 1945 finalmente il reparto di Alpini di Edoardo partì dal campo, salì su una tradotta a Carentan, passarono vicino a Parigi, di cui videro da lontano la torre Eiffel (turismo forzato!), seguirono la stessa strada percorsa all’andata, attraverso Dijon e Lyon, e il 19 settembre arrivarono a Anemasse dove attesero le carte per uscire dalla Francia ed entrare in Svizzera. Il giorno successivo passarono il confine franco-svizzero, videro il lago di Ginevra e per la galleria del Sempione arrivarono con gioia inesprimibile alla prima stazione ferroviaria italiana. Era il 20 settembre 1945 e erano passati due anni e undici giorni dall’inizio della prigionia, e molto di più dall’inizio della loro guerra. Per Domodossola e Milano giunsero a Verona, e qui Edoardo, per la fretta di arrivare a casa, salì su un vagone di un treno merci carico di carbone fino a Trento; qui domandò un passaggio su un camion fino a Cirè, frazione di Pergine, e poi a piedi, di notte, stracciato e annerito dal carbone, col suo zaino in spalla, compì a piedi gli ultimi chilometri fino a Roncogno, suo paese natale, frazione di Pergine. “Passo sotto il Campanile nel mentre l’orologio batte le 23 del 21 settembre”. Con questa frase si conclude il diario, che è completato però da varie mappe e accompagnato da una copia del diploma dell’esercito italiano-distretto militare di Trento, rilasciato il 17 febbraio 1969, che gli conferisce la Croce al Merito di Guerra.
Secondo il Diario, durante i 14 mesi di prigionia da parte dei tedeschi, i trasporti dei prigionieri su lunga distanza erano effettuati in treno, in vagoni bestiame senza panche e estremamente affollati, al punto che i “passeggeri” dovevano sedersi per terra a turno; i trasferimenti su piccola distanza, per raggiungere i cantieri, avvenivano in camion. Lo stesso più o meno accadeva sotto il regime alleato. L’alloggiamento era molto vario, in ambedue i casi: in caserme, in scuole, in chiese abbandonate o requisite, in baracche, sotto tende in tendopoli, più tardi per un certo tempo all’aperto nel bosco.
Il lavoro effettuato sotto il controllo tedesco per i soldati semplici consisteva in manovalanza: sterro di strade, ripristino di linee ferroviarie e particolarmente di aeroporti militari, dopo (e durante) i bombardamenti, scarico di vagoni ferroviari e di camion, soprattutto di materiale da costruzione (si parla spesso di sabbia e cemento, evidentemente usati per costruire i bunker, che Edoardo chiama “i fortini”, e altre opere difensive), scavo di fossi anticarro, posa di sbarramenti di filo spinato. Ci si serviva della mano d’opera prigioniera per rinforzare il confine tra Francia e Germania e più tardi la costa della Manica, preparandosi per l’invasione degli Alleati in Francia.
Durante la prigionia sotto il regime militare degli Alleati, il lavoro principale dei prigionieri si svolgeva lungo la costa NE della penisola del Cotentin, nella Bassa Normandia, esattamente nella fascia di spiagge e di territorio dove erano avvenuti gli sbarchi alleati e nei luoghi famosi dei combattimenti più accaniti realizzati per creare la testa di ponte in Europa, ma Edoardo non si diffonde in spiegazioni storiche. Il lavoro era molto pericoloso e come conseguenza ci furono numerosi morti e feriti tra i suoi compagni. Si trattava di effettuare la bonifica del territorio teatro di combattimenti, e quindi di recuperare mine, bombe, obici, proiettili vari ancora inesplosi, depositi di munizioni, riunire il materiale in magazzini provvisori, caricarli su zatteroni e battelli e scaricarli in alto mare, a quanto pare in pieno oceano Atlantico, molto lontano dalla coste. Non risulta dal diario se dovevano anche disattivare le armi raccolte prima di gettarle a mare. Più probabilmente questo compito molto tecnico doveva essere riservato ad artificieri professionisti. Ma, da certe pagine del diario, sembra che le armi fossero gettate a mare così com’erano. Ci furono varie esplosioni, a terra e sui battelli, ma Edoardo rimase sempre indenne, anche in mezzo alle schegge che volavano tutto attorno.
L’alimentazione all’inizio era discreta, ma quando la guerra divenne più dura e le forze armate alleate cominciarono a premere sui tedeschi, essa divenne più scarsa. La cibaria rimase scarsa e ci furono periodi di fame anche nella prigionia nei campi degli Alleati. Nella fase di prigionia sotto i tedeschi, all’inizio i prigionieri avevano qualche libertà, per esempio di andare a volte in chiesa per quelli che lo desideravano, ed erano molti; in seguito, con l’aumento della resistenza francese e con l’avvicinarsi del fronte, ci fu più controllo e meno libertà. Nei campi degli alleati avvenne il contrario: più controllo in veri lager nei primi mesi, più libertà dall’aprile i945 in poi.
Uno dei problemi più seri della prigionia fu il freddo terribile nei due lunghi inverni, la pioggia frequente in tutte le stagioni, quell’anno, e in genere in quella regione di tipico clima atlantico, l’umidità terribile che entrava nelle ossa quando bisognava dormire per terra nel fango o in terreni pantanosi. Edoardo ci si ammalò di dolori reumatici.
La presenza costante con i prigionieri durante tutta la prigionia di un buon cappellano militare italiano e alpino, molto amato dai soldati, li confortò e incentivò in loro la speranza cristiana durante la loro lunga passione ed odissea bellica e post-bellica. Edoardo lo definisce “caro ed eroico” e purtroppo non ne dice il nome.
Due cose fanno più impressione nel lungo “Diario della prigionia” di Edoardo Bortolamedi, più tardi nostro fratello in Istituto.
La prima è la sua pazienza e, direi, l’atarassia. La sua narrazione è priva di lamenti, serena, degna di essere comparata, dal punto di vista narrativo, al prologo e all’epilogo del libro di Giobbe. Non maledice né tedeschi né francesi né alleati, anche nella versione compilata dopo il ritorno in patria, finita la guerra e la prigionia, che pure doveva averlo sfiancato fisicamente. Afferma che tutti li trattavano bene, sia i carcerieri e guardiani tedeschi, specialmente alcuni, sia i francesi, sia ancora gli americani. Vedi per esempio il caso commovente dei bambini francesi di Pont Audmer in Normandia, che la domenica delle Palme del 2 aprile 1944, “tornando dalla Chiesa ci portano qualche ramoscello di palma benedetta passandola attraverso i reticolati”.
La seconda caratteristica che imbeve tutte le pagine del Diario in modo assolutamente edificante, è la sua spiritualità cristiana, di laico legatissimo a Dio, ai santi e alla Chiesa. Evidentemente da giovane, prima della guerra, era “tutto casa e chiesa”. In guerra e in prigionia, approfittava di tutte le occasioni per visitare le chiese cui poteva accedere, frequentare la S. Messa, quando veniva celebrata nelle domeniche e feste nei vari campi di concentramento, e non sempre era permesso celebrarla, molte volte infatti si lavorava anche di domenica; praticare la confessione frequente, recitare spesso la corona del Rosario. Uno dei suoi pochi lamenti, ma è un lamento frequente, è quello di non poter frequentare la chiesa e i sacramenti come avrebbe voluto fare.
Qualche frase dal suo diario può illustrare questi sentimenti.
10.9.1943 “Alle 3 vi furono i funerali dei nostri compagni che morirono durante e dopo l’assalto. Tutti siamo commossi nel dare l’ultimo addio ai nostri compagni morti per la nostra libertà. In particolare mi sento commosso quando il Ten. Cappellano con voce alta recita l’ultimo salmo, dove in un punto si dice: ‘Salutem ex inimicis nostris et de manu omnium qui oderunt nos’. Spero proprio nel Signore perché solo Lui ci può salvare”.
12.9.1943 “Festa del Nome di Maria. La S. Messa viene celebrata in cortile dal Ten. [tenente] Cappellano. Oggi leggendo un tratto del libro che trovai, mi colpirono le parole: ‘In Lui siamo, viviamo e ci muoviamo’. Dunque confidenza in Dio che certo non permetterà alcun vero male. Se siamo destinati a soffrire voglio soffrire con Lui, se devo morire, voglio morire sempre unito a Lui. S. Giovanni Grisostomo confinato in Armenia per 4 anni andava dicendo: ‘Una cosa sola è da temersi: il peccato e poi per il resto penserà il Signore.’ Questa sera mi sono confessato dal nostro Cappellano che per grazia di Dio sembra possa restare con noi”.
13.9.1943 “Questa mattina S. Comunione. Quanto conforto si sente quando si è uniti al Signore. È proprio vero che Lui è il Padre delle misericordie e il Dio di ogni consolazione. Affido a Lui tutte le mie apprensioni per mio avvenire come pure per i miei cari lontani. La sera torno in Cappella per una visita di ringraziamento.”
15.9.1943 “Questa mattina ho assistito alla S. Messa e ho offerto tutto in onore dell’Addolorata di cui oggi è la Festa. Questa sera in Cappella si recita la Corona e poi si va a riposare”. E più tardi, lo stesso giorno: “Dopo como il solito un bel gruppo ci siamo trovati assieme al Ten. Cappellano per la recita della Corona. Si sente tanto il bisogno della protezione della Madonna per noi e per i nostri cari lontani che chissà in quali tribolazioni si trovano”.
Così continua il buon Edoardo lungo tutta la sua prigionia e il suo diario, via via in maggiori difficoltà e sofferenze, ma sempre nella fede, nella speranza e nella devozione.
A lui, o almeno al suo diario di prigionia, si possono applicare le parole di S. Teresa d’Avila: “Nulla ti turbi, nulla ti sgomenti. Tutto passa, Dio non muta. Con la pazienza tutto si acquista. A chi possiede Dio nulla manca. Dio solo basta.”
5.5.2 Memorie di guerra di P. Armando Soldera: un noviziato diverso
Il 15 agosto 1943 Armando Soldera, nato nel 1925, fece la vestizione e cominciò il suo noviziato a Venezia. Era entrato al seminario minore di Possagno nel 1939. I suoi compagni di noviziato erano Luigi Toninato, Antonio Magnabosco, Luigi Rito Cosmo (in seguito tutti e tre padri Cavanis come P. Armando) e inoltre Pietro Pompeo (uscito di congregazione come professo temporaneo, ancora al liceo), Celestino Brentel (sempre malato, uscì) e un altro chiamato Dante. Il maestro dei novizi era P. Alessandro Vianello (27 luglio 1892-24 gennaio 1971), che aveva all’epoca 51 anni; anche i suoi collaboratori erano molto buoni: P. Angelo Sighel e P. Cesare Turetta, fratello di P. Antonio Turetta, di cui abbiamo parlato sopra, quello della bicicletta.
Qualche settimana dopo l’inizio del noviziato, probabilmente il 31 agosto 1943, l’intero gruppo dei novizi e il loro maestro e collaboratori furono trasferiti nel nuovo probandato e noviziato di Costasavina (frazione del comune di Pergine, provincia di Trento), nella Villa Moretta, probabilmente per motivo della situazione di guerra.
Dopo avvenuta la comunicazione alla radio dell’armistizio dell’Italia con gli alleati (8 settembre 1943) il preposito, P. Aurelio Andreatta, inviò a Costasavina fratel Sebastiano Barbot per avvertire il maestro che la situazione a Costasavina era pericolosa per i novizi e per gli altri giovani, perché i tedeschi erano alla ricerca di giovani da inviare come lavoratori stranieri obbligati a lavorare in Germania per l’organizzazione Todt.
Il gruppo partì subito (forse il 10 settembre) con un treno speciale fuori orario pieno di gente dalla stazione di Roncogno (piccola stazione vicino a Pergine) in Valsugana, al pomeriggio. Arrivarono a Bassano (Vicenza) alle 22. Durante il viaggio avevano visto molti soldati italiani vestiti in uniforme o più spesso in borghese mentre scappavano dal Trentino, provincia più vicina alla Germania, e che all’epoca era governata già da un gauleiter tedesco, e tentavano di raggiungere le loro case. Pensavano che la guerra fosse finita e al momento del comunicato del maresciallo Badoglio, capo del governo, le forze armate non aveva ricevuto alcuna istruzione (in una maniera francamente criminale). Neanche gli alti ufficiali sapevano a che santo votarsi.
A Bassano del Grappa, trovarono una folla alla stazione: tutti chiedevano informazioni su che cosa stesse succedendo in Trentino e quale fosse la posizione dei tedeschi, mostravano foto di soldati loro figli, fratelli, mariti chiedendo se qualcuno li aveva visti. Non c’erano autobus per Possagno e, in quei tempi di guerra, non c’erano veicoli privati. Il maestro e i novizi cominciarono a camminare verso Possagno, distante 21,5 km. Durante quella notte, in una situazione di incertezza totale, tutti nel gruppo erano preoccupati e avevano una certa paura. P. Alessandro fece loro recitare (per farli restare calmi e gioiosi?) dei Requiem aeternam alle anime del Purgatorio per tutto il lungo viaggio. Si fermarono nel paese di Romano o a Semonzo, in un’osteria, per mangiare un po’ di pane e formaggio, riposarono un po’ dato che erano molto stanchi e P. Armando ricorda ancora di come i giovani si impietosissero per P. Alessandro, che alla sua età sembrava non resistere più. Ripresero il cammino.
In seguito furono fermati assai gentilmente da soldati italiani su un blindato, che controllarono i documenti, ma soprattutto fecero delle domande sulla situazione a Bassano e in Trentino: non sapevano che fare, come tutti, quel giorno. Il noviziato «ambulante» arrivò a Possagno verso le tre o le quattro del mattino.
Dopo qualche settimana rientrarono a Costasavina e ci restarono sino al mese di maggio, quando il noviziato tutto fuggì ancora perché alcuni giovani tra i novizi avevano ricevuto l’avviso di comparizione dalla Todt. Con un lungo viaggio in treno (il famoso treno della Valsugana), arrivarono stavolta a Venezia, alla casa madre e di lì, il giorno dopo, il noviziato al completo partì per Possagno e fu ospitato provvisoriamente nel nostro collegio Canova, dove fra le altre cose c’era un ufficio della repubblica sociale italiana-RSI, i malfamati «Repubblichini», i fascisti convinti e fanatici, che non avevano mai accettato la fine ufficiale dell’era fascista (25 luglio 1943) né l’armistizio; questo stato effimero era chiamato «Repubblica di Salò», da qui il nome di repubblichini, non privo di disprezzo, dato il diminutivo, e la distinzione dal nome di “repubblicani”. Si trattava di uno stato-fantasma o fantoccio, istituito da Benito Mussolini, duce decaduto, per ordine di Adolf Hitler. Nell’ufficio di Possagno, una delle impiegate o segretarie era la sorella del nostro P. Giuseppe Pagnacco.
Verso la fine dell’estate, con precisione dal 20 al 28 settembre 1944, ci fu un famoso e tristissimo rastrellamento nelle zone montagnose a nord di Possagno per mano dei repubblichini, comandati e appoggiati dai soldati tedeschi delle SS, in cerca o piuttosto a caccia di partigiani. Un gran numero di questi ultimi furono catturati, e un giovane di Possagno, un tale Menegozzo, fu impiccato nella piazza del paese. Trentun altri giovani e uomini furono impiccati fuori dei bastioni della città di Bassano il 26 settembre 1944, altri a Pederobba e altri ancora in vari paesi alle pendici delle Prealpi venete. I novizi come tutti gli altri furono terrorizzati da questi tristi eventi.
Essi stessi ne furono in qualche modo delle vittime e rischiarono la morte. All’inizio delle operazioni militari di rappresaglia, il noviziato era terminato, i novizi con il loro maestro si preparavano a salire (a piedi naturalmente) quel pomeriggio verso la casa del Sacro Cuore per il ritiro finale in preparazione alla professione religiosa. Proprio quel giorno però furono chiamati nel cortile del collegio Canova, con tutti i religiosi e i professi temporanei del liceo. Dei soldati tedeschi li fecero tutti prigionieri e li condussero quasi tutti all’Albergo Socal, sulla strada principale del paese, e poi alle scuole elementari, trasformate per l’occasione in prigione. Si lasciò in collegio il padre rettore, P. Pellegrino Bolzonello e il vicario, P. Mario Janeselli, a guardia dell’edificio; e ancora il vecchio (e buonissimo) fratel Angelo Furian, P. Alessandro Vianello, abbastanza anziano e il novizio Celestino Brentel, che era malato. Con la comunità religiosa e i seminaristi c’era tra i prigionieri anche P. Samuele, passionista, che era giunto a Possagno come predicatore del ritiro e fu preso prigioniero anche lui con gli altri.
Tutto il gruppo, cui si aggiunsero in seguito degli uomini di Possagno, fu sorvegliato da un distaccamento di soldati italiani, sotto la responsabilità di un sottoufficiale tedesco. I primi giorni dovettero dormire sul pavimento delle stanze senza neanche una coperta. Poi gli si diede il permesso di portare delle coperte e del cibo dal collegio. C’erano fuori dell’albergo le mogli degli uomini di Possagno e dintorni che erano imprigionati con i religiosi; P. Armando si ricorda ancora le loro grida e i loro pianti. Terminato il rastrellamento si lasciò libero tutto il gruppo dei Cavanis; ma tutti rimanevano impauriti. Le cose potevano andare peggio.
Nonostante la tristezza di quella situazione, P. Armando ricorda tuttavia degli episodi buffi: fratel Furian, che era stato mandato a Possagno dal preposito affinché gli si evitassero, alla sua età avanzata, i pericoli e gli incomodi della guerra, si lamentava ridendone in dialetto di Possagno: « Tu scampe dal bò e la vaca te trà!». P. Guido Cognolato, come al solito faceva ridere i confratelli e i giovani e collaborava a mantenere più serena l’atmosfera con le sue barzellette e le sue battute. Il caro P. Gioacchino Sighel, seppur trentino e di lingua italiana, era e rimase sino alla fine austrofilo; quindi, nel momento della prigionia da parte dei tedeschi, tutti si prendevano gioco di lui e dei suoi amati tedeschi in maniera scherzosa; lui, si scusava dicendo che non erano proprio tedeschi o austriaci ma degli alto-atesini. Gli si perdonarono le sue preferenze verso i tedeschi sia per il suo carattere amabile, sia perché parlava tedesco e ciò fu d’aiuto in quella situazione.
P. Armando si ricordava ancora oggi, dopo quasi 70 anni, che P. Samuele, il predicatore passionista caduto per caso nella trappola fascista e nazista con i nostri, propose di recitare il salmo imprecatorio 109(108) contro i tedeschi e i repubblichini!
Ultimato il rastrellamento alla fine di settembre, la nostra comunità religiosa venne liberata dalla prigionia; i novizi e il loro maestro poterono nuovamente salire al Monte santo di Coldraga e partecipare al ritiro predicato da P. Samuele CP. Emisero la professione dei voti e poi si trasferirono a Venezia, a piedi fino a Bassano, come al solito, accompagnati da P. Valentino Pozzobon, e dopo in treno.
Questo noviziato 1943-1944 fu dunque probabilmente il più complicato e difficile della storia dell’istituto, e senza dubbio anche degli altri. La sede venne spostata sette volte. Parafrasando il detto, si potrebbe dire che la guerra giustifica i mezzi!
P. Armando si ricorda poi che vari giovani delle nostre scuole di Venezia e anche dei suoi colleghi del liceo, furono chiamati dalla Todt e andarono a lavorare in Germania nel 1944 e nel 1945. Ricorda ancora che P. Livio Donati era sospettato di essere amico di qualche gruppo di giovani partigiani di Venezia (e lo era), e dovette fuggire e nascondersi. Narrava ancora che aveva ascoltato a scuola – il rettore del seminario minore o probandato era padre Giovanni D’Ambrosi – il discorso di Mussolini in occasione della dichiarazione di guerra agli alleati il 10 giugno 1940, ed altri discorsi; che al ginnasio, negli anni 1942 e 1943, il rettore del collegio Canova, allora P. Eibenstein, gli faceva ascoltare i bollettini di guerra alla radio alle 13.00. A quei tempi, inoltre, i presidi delle scuole erano obbligati a fare ascoltare agli allievi i discorsi del «Duce» Mussolini così come tutte le altre trasmissioni ufficiali.
5.5.3 La guerra di Marino Scarparo
P. Marino Scarparo è nato il 1° Marzo 1930 a Conselve, in provincia di Padova, ed è entrato nel seminario minore dell’Istituto a Possagno, chiamato allora il Probandato, il 15 Agosto 1940. Aveva dieci anni. La sua vita di seminario minore si intreccia con la sua esperienza della seconda guerra mondiale, di cui racconta argutamente nelle sue memorie. Suo fratello maggiore Vittorio era già stato richiamato nel mese di marzo precedente, quindi in casa sua si respirava già il clima di guerra prima della sua partenza. La guerra del resto era avvertiva e si annunciava già in qualche modo dalla scoperta delle trincee, delle postazione di cannoni in grotta, dalle munizioni, dalle bombe e da altri residuati bellici che i piccoli e i giovani seminaristi trovavano ed esploravano durante le gite sulle montagne a ridosso di Possagno, quindi sullo storico massiccio del Monte Grappa. Erano i ricordi della prima guerra mondiale.
Citiamo qui vari tratti delle memorie di P. Marino su questo tema, riportati di seguito, come una narrazione continua e letteralmente.
“Alle “Porte de Salton” si poteva giocare liberamente in mezzo a tanto spazio. Una volta ci spostammo verso i “Solaroli”: le pendici di questi monti erano tutta una petraia, causata dalle bombe della 1ª Guerra Mondiale. In mezzo a quelle pietre trovammo qualche pezzo di teschio e di costola umana, forse di qualche povero soldato. Li raccogliemmo e li coprimmo di sassi, piantandovi sopra una specie di croce, fatta con due bastoni rinvenuti sul posto.
Un’altra volta, passeggiando da quelle stesse parti, ci fermammo ad osservare delle caverne, che servivano da postazioni di cannoni di quei tempi. In una vi scoprimmo un mucchio di bombe (forse una trentina), della lunghezza di una spanna e mezza e del diametro di cinque o sette centimetri. Erano della prima Guerra Mondiale. Quella volta le guardammo incuriositi, ma poi ce ne allontanammo a gambe levate. Su quelle montagne non era raro imbattersi in residui bellici. Per esempio, sul ciglio della mulattiera, che porta al “Monfenera”, per diversi anni si poté vedere un grosso proiettile di circa 50 cm, che spuntava tra le erbacce del terreno.
Una volta, alle “Porte de Salton”, probabilmente nell’estate del 1941, dopo il pranzo al sacco, si giocava liberamente nell’ampia vallata di alta montagna. Alcuni di noi, in prossimità di anfratti e di dirupi, scovarono una bomba di circa 40 cm. Un mio compagno, un certo Da Re, di Revine, un vero pazzerello, la raccattò e gridando ad alta voce: “Tutti a terra!”, la scagliò giù per il pendio, fatto di scarpate e di gradoni. Noi ci buttammo distesi a terra, aspettando chissà quale deflagrazione. Ma la bomba non scoppiò e si arenò su di uno spiazzo sottostante a una ventina di metri di distanza. Quel
matto, visto che la bomba rimaneva ancora intatta, decise di scendere per quel terreno impervio a raccattare l’ordigno bellico. Noi lo seguivamo trepidanti con gli occhi sbarrati. Il ragazzo, dopo varie peripezie, si avvicinò alla bomba, con cautela la raccattò e tutto trionfante ritornò da noi. Gli chiedemmo quale sensazione provasse sulle mani. Sghignazzando rispose che gli pareva un po’ calda e subito gridò ad alta voce come un urlo di guerra: “Tutti a terra!”. La scagliò di nuovo giù per quei dirupi. Anche questa volta noi aspettavamo ansiosi chissà quale boato. Invece, per fortuna, non successe nulla e l’avventura si concluse con l’ordine di tenere il più stretto silenzio su tutto l’accaduto.
Un giorno un mio compagno (…) aveva portato a casa da una passeggiata una specie di coperchio di metallo lucente, fornito di diversi accessori. Durante l’intervallo alcuni di noi ci sedemmo con lui sulla gradinata d’accesso del Seminario per osservare e giocherellare con quell’oggetto curioso. Ad un certo momento arriva per caso una persona estranea, sale la gradinata, suona il campanello per essere ricevuta dal Superiore. Però, mentre saliva, si era fermata un po’ a guardare noi e la cosa che tenevamo tra le mani.
Poco dopo che era stata accolta nella sala d’aspetto, si spalancò improvvisamente la porta d’ingresso e scese rapidamente verso di noi il Superiore, che ci ordinò di consegnargli subito l’oggetto, che attirava la nostra curiosità. Con tono di rimprovero ci chiese: ”Dove avete trovato questo oggetto? Non lo sapete che è molto pericoloso? Noi restammo a guardarlo con gli occhi sbalorditi e non sapevamo cosa rispondere, anche perché non conoscevamo davvero un tale arnese. In realtà avevamo tra le mani un autentico detonatore di una bomba, che poteva scoppiare da un momento all’altro.
Intanto la guerra si faceva sentire anche nel suo aspetto alimentare. Con il 1941 la frutta a pranzo e a cena non la vedemmo più sulle nostre tavole. Il pane venne distribuito secondo le carte annonarie: un pane al mattino, mezzo a pranzo e mezzo a cena. I minestroni erano abbondanti e così pure le patate. Ma spesso la pasta, nei singoli piatti ripieni di minestrone, si trovava presente con cinque o al massimo dieci penne. Con la polenta si tirava avanti meglio, perché ci levava la fame.
A quell’età si era sempre tormentati dall’appetito. A seconda delle stagioni o delle circostanze, durante le passeggiate in montagna, si approfittava di cogliere e mangiare i frutti di bosco, che ci sembravano molto saporiti. Erano nostro bersaglio i ciliegi, i meli, i nespoli, i castagni, i susini, le fragole, le more… I loro siti diventavano spesso le vere mete di tante scorribande. Si mangiavano i frutti sul posto; se ce n’erano in abbondanza, li portavamo a casa, cercando poi di nasconderli in luogo segreto, perché era proibito tenere a propria disposizione quelle vivande, oppure offrendone qualcuno a quelli che erano rimasti in sede.
Spesso, durante le vacanze, venivamo suddivisi in piccoli drappelli, a ciascuno dei quali veniva assegnato uno di noi (un po’ più anziano) con l’incarico di responsabile; e si partiva alla ricerca di funghi. Quante allegre camminate in mezzo ai boschi! Sembravamo cani segugi dal fiuto fino, sempre all’erta per afferrare la preda. Tutti tornavano con il loro bottino, che veniva poi selezionato dalle Suore o da qualche altro competente. Con quei funghi venivano preparati risotti alla boscaiola e pietanze gustose. Una buona parte venivano messi ad essiccare per la stagione invernale.
Erano tempi in cui certe compravendite non si potevano fare agli occhi di tutti. Un giorno una ventina di noi (dei più grandi) uscirono di buon mattino, avvolti da un ampio mantello nero, per una destinazione ignota. Era inverno. Tornarono dopo alcune ore, come se fosse stata una semplice passeggiata. In realtà ciascuno sotto il proprio mantello portava a tracolla uno o due sacchetti di farina, che io non seppi mai dove e da chi venne acquistata per il Seminario.
Non mancava chi, per saziarsi, si allontanasse di nascosto e si recasse a prelevare qualche prodotto dell’orto. Una volta, quando frequentavo il Ginnasio, alcuni miei compagni progettarono di appropriarsi di alcune verze rape; scesero con cautela nella zona coltivata, con il temperino tagliarono i ciuffi fogliacei superiori nel punto più vicino al tubero e ne asportarono il rizoma o la patata, ricollocando poi sullo stesso posto i ciuffi e fissandoli con un po’ di terra. Il giorno dopo Suor Giustina pensò di fare qualche provvista nell’orto, ma con sorpresa costatò che la parte fogliacea di alcune verze rape si poteva sollevare senza sforzo; sotto però non c’era più la rapa. Allora la Suora riferì indignata tutto l’accaduto al P. Rettore, che con la sua sagacia riuscì a capire chi fossero i ladruncoli e li ammonì severamente.
Anche la scuola come tale subì l’influsso dei tempi di guerra. Nel 1943 le vacanze natalizie si protrassero per tutto il mese di Gennaio per disposizione ministeriale: si doveva risparmiare sulla spesa pubblica del riscaldamento scolastico. Per questo motivo, al mattino, in campo nazionale venivano programmate delle trasmissioni radiofoniche adatte agli alunni della Scuola Media per favorire la loro preparazione e la loro cultura. Noi del seminario, benché fossero regolari le nostre lezioni, partecipammo più di qualche volta a queste trasmissioni secondo il tipo di classe, a cui erano dirette. Ci raccoglievamo in Direzione, ciascuno con i suoi libri e quaderni, e seguivamo attentamente gli argomenti delle varie lezioni impartite. Posso dire che risultò un’esperienza interessante.
Quando nel Giugno del 1944 scattavano per noi gli Esami di Licenza Media, si dovettero seguire le norme di un decreto ministeriale, che riduceva tutte le prove al solo esame orale. Quando mi presentai in Commissione, vi rimasi solo per venti minuti. Tale era l’Esame di Terza Media, che si svolgeva in tempi ridotti per motivi di guerra.
[A casa mia,] papà era sempre preoccupato per suo figlio [Vittorio], perché sul fronte Greco-Albanese i bollettini di guerra avevano annunciato diversi attacchi sanguinosi. Le lettere, inviate dal fratello, erano spesso segnate da cancellature, operate dalla censura militare. Così per pochi giorni mi godetti anche della compagnia del fratello granatiere. Non l’avrei, poi, più rivisto se non dopo la guerra e la sua prigionia in Germania.
[Intanto in seminario] il Padre Rettore ci teneva sempre al corrente sull’andamento della guerra nelle varie parti dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa. Spesso ci radunava in direzione e nel vano antistante, per ascoltare, via radio, i bollettini di guerra. Noi seguivamo, con l’aiuto di un atlante, le vicende belliche. Ricordo ancora bene come erano vissuti amaramente i segnali di crisi dopo la terribile battaglia di Stalingrado. Si stava sempre in ansia per una eventuale catastrofe, dato che erano entrati in guerra anche gli Stati Uniti, le cui formidabili forze armate erano già sbarcate ad Algeri. Le truppe Italo-Tedesche si trovavano così tra due fuochi in Africa: tra quello Inglese e quello Americano. Dopo la caduta del territorio Africano in mano agli Anglo-Americani, si prevedeva un loro sbarco in Sicilia.
Il 25 Luglio 1943 il P. D’Ambrosi venne nel nostro refettorio. Era veramente contento e volle comunicarci una notizia straordinaria, appena trasmessa dalla radio. Ci disse che Benito Mussolini, Capo del Governo, durante una drammatica seduta del suo Consiglio, era stato dimesso e rinchiuso in prigione. Dopo l’annuncio di questa notizia, intonò un’ Ave Maria di ringraziamento. Seguì lo scoppio di un lungo applauso da parte di tutti. Sembrava che fosse terminata la guerra. In realtà la cosa non fu così. Anzi cominciarono tempi ancora più duri e paurosi, che ci travolsero tutti. Il nuovo Governo Badoglio cercò di stabilire dei contatti segreti con gli Anglo-Americani, che avevano già occupato la Sicilia, per un armistizio. Secondo le trattative, era stata fissata la data verso la metà di Settembre 1943; quand’ecco la sera dell’8 Settembre 1943 Radio Algeri [cioè le forze armate degli USA], di sua iniziativa, comunicò l’avvenuto armistizio, anticipando di una settimana il tempo stabilito, senza avvertire il Governo Italiano.
La notizia giunse anche a noi, che ci trovavamo in cortile per la ricreazione della sera, mentre già un’altra notizia ci stava rattristando per la morte del P. Giovanni Rizzardo, già preposito generale, avvenuta proprio in quel giorno storico nel Collegio Canova. L’annuncio dell’armistizio ci fu comunicato dai Padri, dai quali comprendemmo che la situazione dell’Italia diventava davvero drammatica per la fulminea reazione degli alleati Tedeschi, che cominciarono a invadere la nostra terra.
Buona parte dell’esercito italiano si trovava nelle caserme in attesa di nuovi ordini, ma ai Generali non giunse nessuna comunicazione particolare, per l’improvvisa divulgazione dell’armistizio. Dunque si notava un senso di sconcerto e di preoccupazione. Alcuni, ottimisti, pensavano che la pace sarebbe arrivata presto, altri, pessimisti, invece prevedevano tristi conseguenze per tutti. La paura era generalizzata, anche perché gli Americani avevano già occupato la Sicilia e stavano tentando uno sbarco a Salerno.
Diverse famiglie vennero a prelevare i figli dal Seminario, per trovarsi insieme in qualunque catastrofe potesse capitare. Erano giorni veramente carichi di paura. Il 12 Settembre, nel primo pomeriggio, arrivò in Seminario mio padre. Fui subito convocato in Direzione e nel giro di un brevissimo spazio di tempo mi trovai pronto con i miei bagagli. Mio padre era venuto da Bassano facendo la strada a piedi fino a Possagno (18 km), perché non c’erano corriere di linea. Per il ritorno era prevista per le sedici una corsa da Possagno in direzione di Bassano.
Approfittammo di questa opportunità per prendere il treno in quella cittadina. Il convoglio arrivò in ritardo; tra la calca di gente che saliva, riuscimmo a sistemarci abbastanza bene e così avviarci verso Padova. Sia in corriera che in treno si sentiva parlare della situazione drammatica di quei giorni. Alcuni dicevano che a Bassano, come in altre città, erano arrivati i Tedeschi. Tutti stavano in attesa di novità per potersi regolare. Man mano che si proseguiva il viaggio, ad ogni stazione saliva un gran numero di persone. Si notavano giovanotti e uomini delle varie leve militari, che erano scappati dalle caserme. I più fortunati avevano trovato la possibilità di indossare vestiti civili, ma la maggior parte erano ancora con la divisa del soldato. In treno ci trovavamo sempre più pigiati a causa dei nuovi viaggiatori.
Finalmente arrivammo a Castelfranco, quando il sole era vicino al tramonto. Restammo bloccati un bel pezzo in stazione. Ad un certo punto arriva un treno merci, costituito da parecchi carrozzoni da bestiame con i finestrini intrecciati da ferro spinato. Il treno si ferma. Scendono da quei carrozzoni alcuni soldati tedeschi, armati fino ai denti. Scendono poi, a turno, drappelli di uomini e di giovanotti, vestiti malamente con indumenti incompleti o stracciati, e vengono condotti a una fontanella della stazione ad abbeverarsi come il bestiame. Noi, attoniti, guardavamo la scena dal nostro treno. Ed ecco, si avvicina a noi un uomo con una croce pendente dal collo. Era un cappellano militare. Ci guarda e ci implora: “Fate la carità! Se avete qualche cosa da mangiare, consegnatela a me per quei poveri uomini e giovanotti affamati. Sono due giorni che non mangiano. Vengono dalla Liguria. Sono stati rastrellati dai Tedeschi per essere portati prigionieri in Germania”. La scena era veramente pietosa. Con una specie di asciugamano, disteso e tenuto dalle mani, il Cappellano si accostò ai finestrini del nostro treno per raccogliere l’offerta dei viaggiatori. Ed ecco piovere pani, biscotti, dolci, tutto quello che uno poteva avere a disposizione per donarlo a quegli sventurati. I soldati tedeschi videro il gesto appassionato del cappellano, ma non glielo impedirono. A me veniva da piangere. Altro che guerra finita! Dopo che i prigionieri, scortati da soldati armati, si dissetarono alla fontana, quella specie di tradotta si mosse e se ne partì per altre destinazioni.
Anche noi aspettavamo la partenza, ma da tutte le circostanze si comprese che il viaggio fino a Padova avrebbe richiesto lungo tempo. Finalmente si parte. Il treno è affollatissimo. Ad ogni stazione si nota un viavai di persone; si odono frasi secche, a volte un vocio confuso, si avverte di frequente la parola “tedeschi”. Alle 23,00 siamo nelle vicinanze di Padova e precisamente a Vigodarzere. Il treno è talmente zeppo di passeggeri che le porte neppure si possono chiudere e la gente, stando in piedi sui predellini, cerca di rimanere aggrappata a qualche appiglio. Per fortuna il treno viaggiava, sia pur lentamente. Si avvertiva, però, qualcosa di strano e di pauroso. A Vigodarzere riuscì a salire qualche viaggiatore. Salì pure un uomo piuttosto anziano e cominciò a parlare con un tono alto e preoccupato: “Attenzione! A Padova ci sono i Tedeschi!”. Era come un grido d’allarme.
Ed ecco, il treno riparte, percorre qualche chilometro, ma poi si ferma in mezzo alla campagna. Allora numerosi uomini e giovanotti, vestiti da militari e in borghese, approfittano di quella fermata per scendere dal treno e sparpagliarsi per le terre coltivate. Io, muto, guardavo il tutto dal finestrino. In cielo splendeva una bellissima luna, che illuminava i campi di granoturco e i filari di vite. Si vedevano le persone allontanarsi rapidamente per la campagna, quasi scomparendo nel nulla, per paura di essere arrestate dai Tedeschi a Padova. Che desolazione!
Quando il treno ripartì, le carrozze erano mezzo vuote: si vedevano solo uomini anziani, donne e bambini. La maggior parte dei viaggiatori erano spariti nelle distese agricole, sperando chissà quale sicurezza per la loro vita. Noi proseguimmo fino a Padova. Era quasi mezzanotte. Il treno si fermò all’inizio della stazione. Scendemmo. La stazione di una volta non c’era più. I bombardamenti
l’avevano completamente distrutta. Non c’erano più le pensiline, i binari erano sconvolti; qualche rotaia si elevava minacciosa da terra verso l’alto in mezzo a fosse e a cumuli di macerie. Solo qualche binario era stato riattivato. Scesi dal treno, si dovette seguire un percorso obbligato, tutto recintato da reti improvvisate. Non ricordo se ci fosse qualche fanale acceso, ma penso di no, perché di note bisognava tenere tutte le luci nascoste. Anche nelle case le finestre venivano ben tappate da balconi o da persiane con l’aggiunta, magari, di qualche coperta, per non offrire nessun obbiettivo agli attacchi degli aerei nemici.
Mentre si camminava in quel passaggio obbligato, si sentiva qualcuno che sussurrava: “Attenzione! Dobbiamo passare sotto il controllo dei Tedeschi!”. Alla fine del percorso, dove oggi sorge il palazzo della stazione, alcuni soldati tedeschi ci controllavano uno ad uno. Donne, bambini e persone anziane non destavano sospetti; ma giovanotti e uomini al di sotto della quarantina venivano fermati e interrogati. Però, non so che fine venisse loro riservata. Anch’io non destai alcun sospetto: avevo tredici anni. Neppure mio padre trovò difficoltà a causa della sua età: aveva compiuto in quei giorni 58 anni. Anche i bagagli furono perquisiti.
Usciti dal luogo della stazione, ci incamminammo frettolosamente per la città verso l’abitazione di altri nostri parenti. Fummo accolti con un sospiro liberatorio, perché da diverse ore erano in attesa di noi secondo gli accordi presi prima da mio padre. L’appartamento era costituito da quattro o cinque stanze. In tutti eravamo probabilmente in dieci o dodici persone. Alcuni giovanotti erano dei militari fuggiti dalle caserme. Ci distribuimmo sui pochi letti messi a disposizione. Sul mio dormivamo in cinque persone. Sembrava che tutto dovesse concludersi in santa pace, quand’ecco verso le tre di note si sente gridare: “Attenzione! Fuggite! Ci sono i Tedeschi!”. Sei o sette dei presenti balzano fulminei dai loro letti e scappano, cercando un rifugio più sicuro. Fu una note veramente agitata. Probabilmente si trattava di un falso allarme, perché ogni momento la situazione pullulava di ansia e di paura.
Al mattino, salutati i parenti con i più vivi ringraziamenti, mio padre ed io riprendemmo il viaggio. Finalmente per il pranzo ci trovavamo a casa insieme ai nostri familiari. E adesso, mi domandavo, per quanto tempo sarei rimasto qui? Mio padre pensava che la guerra si sarebbe conclusa rapidamente con l’invasione degli Anglo-Americani: per questo era venuto a prendermi. Invece la storia prese un altro risvolto. In famiglia trascorsi una bellissima vacanza, perché spesso per me non pareva che ci fosse la guerra. Era il tempo dell’uva, delle pesche e di altri frutti. Io ne mangiavo a sazietà ogni giorno. In quel periodo crebbi del peso di sette chili. Poco prima di lasciare il seminario pesavo 42 chili, ma dopo 25 giorni, quando appunto giunse l’ordine del rientro, ne pesavo 49.
La guerra, nonostante la mia spensieratezza, ogni tanto mi faceva stare soprappensiero. Infatti del fratello Vittorio, che al tempo dell’armistizio si trovava in Grecia, si avevano poche e confuse notizie; le lettere erano sempre soggette alla censura. In questo periodo, probabilmente nel 1944, venne chiamato sotto le armi anche il fratello Bruno, che entrò nel Corpo dei Carabinieri. Fu assegnato alle caserme di Torino (Moncalieri). La sua posizione all’inizio sembrava abbastanza tranquilla, perché l’arma dei Carabinieri era sostenuta dal Governo provvisorio in vista dell’ordine pubblico. Però, anche le notizie di lui non erano sempre chiare. Un giorno, probabilmente nel Giugno del 1944, ci giunse da Torino una sua lettera, che, dopo i soliti convenevoli iniziali, era tutta piena di numeri e di cifre. I vari numeri non superavano il 21, anche se erano ripetuti molte volte. Allora compresi che ogni numero significava una corrispondente lettera dell’alfabeto. Sostituii ad ogni numero la sua lettera e lessi le varie parole, che in questo modo erano balzate fuori.
Il fratello ci faceva sapere che come carabiniere doveva essere condotto a fare il servizio in Germania; un tale dislocamento non gli garbava affatto, anzi nutriva la speranza di rimanere in Italia, approfittando di qualche circostanza favorevole. Noi tutti eravamo soprappensiero. Poi notizie di lui non ne arrivarono più. Solo a guerra finita si seppe che il fratello Bruno aveva tentato la fuga vestito da carabiniere. Sempre indossando questa divisa, aveva viaggiato in treno fino a Padova. Poi si era recato a Cartura (paese a sud di Padova) dallo zio Berto, presso il quale visse in clandestinità, per paura delle spie fasciste, fino ai giorni della liberazione. La divisa era stata nascosta in una zona segreta.
Durante il breve soggiorno in famiglia del 1944, potei osservare che anche per la nostra strada passavano ogni tanto delle camionette di Tedeschi, cariche di grosse bobine di filo metallico, protetto da gomma. Si trattava di cavi elettrici per mettere in comunicazione, via radio, i vari comandi tedeschi dislocati nel territorio. Venivano poi chiamati obbligatoriamente gli uomini anziani della zona a fare il servizio di guardia di quegli impianti. Anche mio padre dovette per qualche tempo sottostare a quest’ordine. Noi, anche se eravamo ancora ragazzi, ci rendemmo conto che erano cose serie e che in tempo di guerra non si poteva scherzare.
A volte, spinti dalla curiosità, andavamo a vedere che cosa stessero facendo i Tedeschi. Siccome io in Seminario avevo imparato a balbettare qualche parola della loro lingua, mi azzardavo a dir loro in tono cordiale: “Gut morgen!”. Ed essi mi rispondevano sorridendo. Verso il 7 Ottobre 1943, mentre stavo trascorrendo quella bellissima vacanza autunnale, arrivò una lettera da Possagno, che avvisava i miei genitori di ricondurmi in Seminario, dato che la situazione non era precipitata, come certuni avevano pensato. Ed io, un po’ a malincuore per l’improvvisa interruzione della vacanza, ritornai sui monti per iniziare la Terza Media.
Lo spettro della guerra si rifletteva non solo sull’oscuramento notturno e sulla qualità e quantità del cibo giornaliero, ma pure sugli urli delle sirene che di tanto in tanto si udivano anche da lontano. Erano i segnali di allarme per la popolazione in caso di bombardamenti. Di notte si sentiva a volte rombare un aereo solitario, senza fari, (tutti lo chiamavano “Pippo”), che mitragliava posizioni prestabilite, operando soprattutto là dove imprudentemente si lasciavano delle luci accese allo scoperto. Con il suono delle sirene si era facilmente stimolati a guardare in alto per scoprire formazioni di aerei da bombardamento. Ricordo che una volta, in pieno giorno, verso le dieci del mattino, avvertimmo un brontolio, che diventava sempre più chiassoso e pauroso. Le sirene urlavano da far venire i brividi. Sul nostro cielo stavano passando parecchi aerei, le famose fortezze volanti. Sembravano un immenso stormo di corvi. Ne contammo più di trecento. Il rumore era così cupo e intenso, che si sentivano vibrare i vetri delle finestre. Erano diretti verso Nord, al di là dell’Archeson e del Monte Grappa. Echeggiavano pure sinistramente diversi colpi di artiglieria, provenienti dalle postazioni di Bassano. Finalmente il brontolio si attutì con la scomparsa degli aerei dietro le montagne. Se non che, neanche mezz’ora dopo, scoppi e rumori paurosi ci colsero di sorpresa, mentre la terra tremava come se ci fosse un terremoto. Poi tutto tacque. Ma alla sera venimmo a sapere che era stata bombardata dagli Anglo-Americani la città di Trento. Quanti morti? Quante distruzioni? Era il linguaggio infernale della guerra.
Il fenomeno dei bombardamenti in quegli anni era diventato quasi un fatto giornaliero: urli di sirene, fischi acuti di proiettili lanciati dalle postazioni antiaeree, rimbombi lontani, improvvisi e brevissimi terremoti. Dai nostri cortili del Probandato si godeva un ampio panorama: da una parte i monti, dall’altra i Colli Asolani, in mezzo l’incantevole Val Cavasia. Dai nostri punti di osservazione si poteva spaziare fino al Piave e oltre. Ed ecco i soliti sibili di guerra. Arriva uno stormo di aerei, che calandosi rapidamente dall’alto colpiscono con le bombe una località sul Piave. L’azione dura pochi minuti. Poi un’immensa colonna di fumo si alza dalle vicinanze del fiume. In seguito si venne a sapere che l’obiettivo colpito era il Ponte di Vidor, sul fiume Piave.
Ormai, nel settembre 1944, mezza Italia, da Roma alla Sicilia, era invasa dai cosiddetti Alleati. Da parte tedesca e fascista si stava tentando un’ultima linea di difesa e di resistenza con la famosa Linea Gotica. L’esercito regolare italiano, dopo l’8 Settembre 1943, per mancanza di ordini militari era andato tutto in sfacelo. Tanti uomini e giovanotti dell’ex-esercito italiano si rifugiarono sui monti, dandosi alla macchia come partigiani e creando grossi problemi agli occupanti Tedeschi.
Anche il Monte Grappa e i suoi contrafforti divennero rifugio di partigiani, che ogni tanto scendevano a valle a molestare la presenza tedesca nel territorio. Nel Collegio Canova risiedeva un Comando tedesco, come pure altri Comandi si erano installati nelle cittadine del territorio, per esempio a Bassano e a Castelfranco.
Come era avvenuto in altre regioni dell’Alta Italia, anche per la nostra zona venne decretato il rastrellamento dei partigiani. Correva la penultima settimana del mese di Settembre 1944: passò nella storia dei nostri ricordi come la “Settimana Nera”. Venne ordinato il coprifuoco per tutti i paesi della Pedemontana. Nessuno poteva uscire liberamente dalla propria abitazione, se voleva salva la vita, perché si sparava a vista contro chiunque non si adattasse alle disposizioni emanate. Soltanto a una o due persone per famiglia era permesso di uscire all’aperto per un’ora, da mezzogiorno alle tredici, per fare le spese o compere necessarie. Naturalmente si trattava di donne, anziani e minorenni.
Sui Colli Asolani erano stati sistemati dei cannoni che sparavano contro obiettivi del Monte Grappa, dell’Archeson, del Monte Palone e del Monfenera. Questi obiettivi potevano essere le strade di montagna, le casere o malghe e qualunque cosa che potesse destare sospetto. Noi eravamo chiusi in Seminario con un sacco di paura: ci pareva di essere catapultati in mezzo ad una battaglia. Durante il giorno, in determinati momenti, sentivamo lo sparo dei cannoni, ad un ritmo ben preciso. Noi, spiando dalle finestre che guardavano verso i colli, vedevamo la fiammata dei cannoni e poi sentivamo il rombo dello sparo. Allora ci spostavamo rapidamente dalla parte delle finestre rivolte verso i monti, per vedere dove sarebbe scoppiato il proiettile. Era paura, ma nello stesso tempo divertimento di ragazzi inconsapevoli, sorpresi in qualche modo dalla guerra. Quei cannoneggiamenti erano accompagnati da truppe tedesche, vestite con divise mimetizzate, che con grande circospezione avanzavano per le strade di montagna. Noi ne vedevamo anche sulla stradina delle Rive e intorno ai nostri cortili. Il P. Rettore P. Giovani D’Ambrosi ci richiamava al silenzio e alla calma. Quando s’accorse che la situazione poteva precipitare, si ricordò di tenere nella sua stanza una pistola della Prima Guerra Mondiale e se la nascose nelle tasche della tonaca. Si ricordò pure che in soffitta c’era qualche sacchetto di polvere da sparo, che veniva adoperata per fare le mine sulla roccia, che ostruiva il viale della chiesetta del Probandato. Bisognava farla sparire. Pensò a un ragazzo grande, furbo e capace: Giuseppe Cortelezzi. Lo chiamò e gli consegnò il materiale pericoloso nel più grande segreto perché lo nascondesse negli anfratti del pendio del Colle di S. Rocco, a ridosso della chiesetta e fuori del Seminario. Il ragazzo si dimostrò molto abile e non diede alcun segnale di sospetto ai soldati tedeschi.
Dopo qualche giorno la cosa si fece molto seria. Vennero in Seminario i Tedeschi, forse una decina, e ordinarono il raduno delle persone maschili adulte, che vivessero nella nostra abitazione. Erano tre: il P. D’Ambrosi e altri due Padri. Dopo un breve interrogatorio, lasciarono libero il P. D’Ambrosi, che era anziano, ma fecero prigionieri gli altri due Padri, che erano giovani, perché i Tedeschi sospettavano che fossero dei partigiani travestiti. Insieme ad altri Padri e ai Chierici del Collegio Canova li rinchiusero nelle Scuole Elementari del paese. Poi perquisirono tutto l’Istituto per rendersi conto se ci fossero armi; salirono anche in soffitta. Per fortuna la polvere da sparo non c’era più. Per grazia di Dio, non perquisirono il P. Rettore, che teneva in tasca la famosa pistola; altrimenti avrebbero dato alle fiamme tutto il seminario. Noi stavamo asserragliati nelle stanze del secondo piano. Ma il comandante tedesco, un omone di quasi due metri, volle vederci tutti personalmente. In silenzio ci mettemmo in fila e cominciammo a scendere le scale. Tre Tedeschi, al primo piano, ci guardavano attentamente, mentre passavamo a due a due davanti a loro. Quando cominciarono a scendere i più grandi, il Comandante volle levarsi un sospetto alla vista del giovanotto Giuseppe Cortelezzi. Lo fermò, lo fissò negli occhi e gli intimò seccamente: “Quanti anni hai?”. Ma anche il ragazzo interpellato rispose seccamente: “Sedici!” E il Comandante lo lasciò andare. In realtà aveva diciott’anni; per di più, proveniva dalla provincia di Belluno, che da poco tempo era stata annessa alla Germania. Il pericolo era grande. Essendo infatti, da poco, classificato in qualche modo di cittadinanza tedesca, a motivo dell’età sarebbe stato considerato un disertore. Il P. Rettore ci condusse in Chiesa, dove cominciammo a pregare e a recitare il S. Rosario sotto la guida di uno dei più grandi. Mentre stavamo in preghiera, entrò in Chiesa dalla porta principale un drappello di tedeschi in assetto d’assalto. Indossavano grossi scarponi da montagna con i chiodi. Avanzando sui marmi lucidi del pavimento, sembrava che si tenessero in equilibrio come chi stesse camminando sul ghiaccio. Salirono sul presbiterio e si portarono in sacristia, seguiti dal P. Rettore. Sembra che abbiano sequestrato qualche vaso sacro piuttosto prezioso. Poi se ne andarono, continuando il rastrellamento.
Noi eravamo veramente impauriti. La settimana fu lunga e penosa. In seguito venimmo a sapere altre vicende piuttosto dolorose. Nelle scuole, adibite come prigioni, stavano insieme ai Padri e ai Chierici anche giovani rastrellati nella zona. I Padri e i Chierici furono liberati, ma alcuni prigionieri insieme ad altri della Pedemontana furono condotti a Bassano. Vennero sottoposti ad un interrogatorio alla presenza di alcune donne spie, che parteggiavano per i fascisti e i Tedeschi. Se fossero stati riconosciuti come partigiani, avrebbero potuto subire la condanna dell’impiccagione agli alberi del Viale presso la Stazione di Bassano.
Tra questi c’era un giovanotto, da poco partigiano, che, prima di essere interrogato, fece un voto: si sarebbe fatto prete, se si fosse salvata la vita. La donna spia lo conosceva; lo guardò e poi, rivolta ai Tedeschi, dichiarò che non era uno di “quelli”. Così ebbe salva la vita. Nacque però un nuovo problema: era fidanzato. Bisognava avvertire la fidanzata. Costei, quando seppe tutto il dramma dell’amico del cuore, gli diede piena facoltà di seguire la propria scelta. Divenne mio compagno di Noviziato e si fece padre Cavanis. È il P. Fiorino Basso.
La settimana si faceva sempre più nera. Di fronte all’assalto dei Tedeschi, parecchi partigiani riuscirono a salvarsi scendendo dalle Meate verso la Valle di S. Liberale. Ma un certo Leo Menegozzo di Possagno, ex allievo del Collegio Canova, accusato di chissà che cosa, venne impiccato a un palo della luce davanti alla Gipsoteca Canoviana, alla presenza dei genitori. Si voleva dare una terribile lezione a tutto il paese? La mamma non resistete al dolore e svenne sul posto. Tutte queste notizie ci rattristavano profondamente. Eravamo travolti dalla guerra.
Passata questa bufera, si cercò di riprendere la vita normale, cominciando il nuovo anno scolastico. Frequentavo la Quarta Ginnasio, nell’aula prima della “galleria” del Collegio Canova, dalla parte delle scale. Era nostro insegnante di Lettere il P. Federico Grigolo. La scuola proseguiva abbastanza bene, ma la guerra era sempre nei nostri discorsi. Dopo Natale, si cominciarono a sentire sempre più i cannoneggiamenti del fronte, che si spostava sempre più verso Nord e quindi verso le Alpi.
Un giorno capitò improvvisamente in classe un soldato tedesco, disse alcune parole ad alta voce, ma nessuno capì quanto aveva detto. Allora se n’andò sbattendo la porta. Cos’era successo? Eravamo verso la fine dell’Aprile 1945. L’ultimo giorno di scuola fu il 26, ma nessuno se lo sarebbe immaginato. Il giorno dopo giunsero a Possagno più di un migliaio di autoambulanze, piene di soldati tedeschi feriti. Tutto il Collegio divenne un immenso ospedale: feriti nelle aule, feriti nelle camerate, feriti nei corridoi, feriti nella Galleria. Erano Tedeschi in ritirata, che cercavano di aiutare quei poveri soldati. Rimasero lì tre giorni, poi il 30 Aprile partirono per altre destinazioni.
Ormai a scuola in collegio non si sarebbe più potuto andare. Il fronte dei tedeschi in Italia era in sfacelo. Colonne blindate di automezzi militari si ritiravano verso l’Austria, tentando di incanalarsi nelle valli del Brenta o del Piave. Anche i Comandi tedeschi erano stati tolti dalla zona.
Qualche convoglio nella ritirata aveva sbagliato strada ed era pervenuto a Possagno. Intanto i partigiani si facevano coraggio e si organizzavano per tendere insidie ai Tedeschi. Ne ricordo uno di Possagno, di cognome Possagnol, che giunto nei cortili del lato Est del Collegio, dove si era radunata diversa gente (compresi alcuni di noi), incitava i suoi compagni con questo motto: “Tutti per uno, uno per tutti!”. Io non so che cosa volesse fare. Quel giorno i partigiani vollero attaccare un convoglio in ritirata, che si era smarrito nelle strade della Pedemontana. A Caniezza ci fu battaglia: noi dai nostri cortili potevamo assistere a quello scontro. La mischia in realtà durò poco. I Tedeschi, armati fino ai denti, ebbero la meglio e poterono fuggire verso Pederobba e la valle del Piave. Però, non so che conseguenze disastrose dovette subire la popolazione del luogo. Mah! Erano Tedeschi in fuga; sarebbe stato meglio lasciarli andare. Così pensava tutta la gente nei giorni successivi.
Nel mese di Giugno quelli di Quinta Ginnasio dovettero affrontare gli Esami di Stato, mentre a noi di Quarta furono notificati gli esiti degli Scrutini Finali. Io e i miei amici risultammo promossi.
Dopo le brevi vacanze in famiglia (furono le ultime; le ripresi solo dopo che fui ordinato sacerdote), durante i mesi estivi rifiorì la nostra vita giornaliera, vita resa a volte difficile per la situazione critica del dopoguerra. Riuscimmo a programmare e a realizzare una gita sul Monte Grappa e così potemmo osservare le varie postazioni di difesa, che aveva costruito la “Todt”, impresa militare tedesca. Quindi con il nuovo anno scolastico completammo la nostra dimora in Seminario minore.
5.5.5 Vita di seminario nel Probandato di Possagno (1940-1945)
Il probandato è stato per lunghi anni il seminario minore Cavanis di Possagno. Come esempio della vita in questo seminario, prendiamo dei tratti del libro di memorie del P. Marino Scarparo, cuciti insieme in forma di racconto, che rende molto bene l’idea e soprattutto l’atmosfera della vita seminaristica di quell’epoca, ma lasciando intatta la forma originale del testo. Il piccolo Marino, come si diceva, era entrato nel seminario minore dell’Istituto a Possagno, chiamato allora il Probandato, il 15 Agosto 1940. Aveva dieci anni. Ecco il suo racconto.
Era il 15 Agosto 1940, una bellissima giornata d’estate. Quella mattina i miei genitori ed io ci alzammo presto, prima della levata del sole. La mamma ci preparò una rapida colazione e controllò la valigetta e il sacco che contenevano tutto il necessario. Dentro la valigetta c’era anche il vestito nero (la montura) da seminarista. Era certamente il primo vestito nuovo della mia vita, con tanto di calzoni lunghi. Io avevo sempre usato calzoni corti; era naturale che mi sentissi un po’ più grande per quella novità.
A Possagno scendemmo dal taxi nei pressi del Seminario e ci avviammo verso l’entrata. Venne ad aprirci il P. Giovanni D’Ambrosi, che era il Rettore e che in seguito avrei conosciuto molto bene. Il babbo si trattenne un po’ di tempo con lui, mentre io venni accompagnato giù in refettorio. Giunto davanti all’entrata della sala da pranzo, vidi una sessantina di ragazzi dai 10 ai 16 anni, seduti alle tavole, disposte a ferro di cavallo. Erano allegri e chiacchieravano con grande spensieratezza. Appena notai che quegli occhi di sconosciuti venivano improvvisamente puntati su di me, provai un senso di vergogna e mi ritirai indietro; però quello che mi accompagnava mi fece coraggio e mi sistemò su una tavola, accanto agli altri della mia età.
Io mi adattai alla nuova vita con molta facilità, vivendo lietamente il senso dell’amicizia, specialmente con i miei coetanei. Giochi, passeggiate, ore di studio, di preghiera e di riposo si susseguivano con un ritmo impeccabile. Eravamo una sessantina, divisi secondo l’età in tre gruppi così denominati: Grandi (4° e 5° Ginnasio), Mediani (2° e 3° Media), Piccoli (5° Elementare e 1° Media). Questa distinzione valeva specialmente per l’uso dei cortili, per le aule di studio e per i dormitori. Ma spesso ci trovavamo insieme durante le passeggiate o in altre occasioni particolari. Ai Piccoli e ai Mediani veniva assegnato uno dei Grandi con la carica molto importante di Prefetto.
In breve tempo presi molta familiarità con tutti e cominciarono a spuntare le prime birichinate, legate alla mia vivacità. Una sera, come il solito, in silenzio salimmo in dormitorio (nella camerata dei Piccoli) per il riposo notturno. La luce grande restava accesa per poco tempo, finché tutti fossero andati sotto le coperte. Poi per la note rimaneva accesa una piccola lampadina, dalla luce molto tenue, per qualunque evenienza. Quella sera mi coricai più svelto degli altri, mentre dominava intorno un grande silenzio, interrotto da qualche leggero calpestio o da qualche scricchiolio dei letti. Su di noi vigilava il prefetto Armando Soldera, un ragazzo del Ginnasio.
Improvvisamente mi venne la voglia di combinare una bizzarria. Sgattaiolai sotto le coperte, disponendomi con la testa dove si mettono i piedi e posando i piedi sul cuscino, che di solito è riservato alla testa. Mi misi a giocherellare con i piedi. Se n’accorsero i compagni vicini di letto, che scoppiarono in risate. Io ritirai immediatamente i piedi. Ma il prefetto, colto di sorpresa, si volse verso il gruppo, che schiamazzava e intuì l’accaduto. Alzò le coperte del mio letto dalla parte del cuscino e gli apparvero i miei poveri piedi. Subito capì dove poteva trovarsi la mia testa e cominciò a picchiarmi di santa ragione. Una risata generale concluse la scena. Dovetti saltare giù dal letto e rimanere, per punizione, in piedi. Si spense la luce grande, apparve la luce piccola ed io ero lì mogio mogio, in piedi, a scontare la pena. Quando il sonno aveva reso immobili tutti i miei compagni, mi fu concesso di andare a riposare dietro una sfilza di rimproveri.
D’estate erano frequenti le gite di un giorno su per i monti di Possagno. La terza domenica del mese era la domenica attesa da tutti, da vicini e da lontani. Era il giorno in cui erano permesse le visite. I parenti di chi proveniva dalla zona pedemontana portavano qualche abbondante provvista di pane e di companatico, che sarebbe servito per il pranzo all’aperto sotto un bel pino. Sicché quel giorno i ragazzi fortunati potevano permettersi di fare i generosi, regalando il proprio pane agli altri, che provenivano da paesi lontani e che non potevano godere tanto facilmente della visita dei propri cari, come era appunto il caso del sottoscritto. Infatti i miei familiari venivano a trovarmi una volta o due all’anno. Ricordo che la prima visita risale all’Ottobre del 1940, quando venne la mamma. Verso sera il distacco riusciva piuttosto doloroso, per la partenza delle persone care e non mancava qualche lacrima di nostalgia. Tuttavia le relazioni con i propri familiari erano normalmente mantenute con una lettera mensile, che veniva consegnata aperta al P. Rettore, dandogli la possibilità di aggiungervi un saluto o qualche informazione. Seguivano le risposte, che riuscivano molto gradite. Ricordo le lettere del babbo, che erano piccoli capolavori per il contenuto, largo di consigli e di notizie su tutta la parentela.
Spesso ci era richiesto di collaborare ad alcune necessità del momento. Un gruppetto era scelto per la coltivazione e la manutenzione dell’orto, un altro era incaricato alla cura dei fiori e del giardino, altri (i più grandi) davano una mano alle suore per le pulizie, altri ancora (sempre tra i più grandi) si prestavano a provvedere qualche materiale, che i muratori avrebbero usato per la sistemazione della Chiesetta e dei muri di cinta. In quest’ultimo caso i giovanotti più robusti, che sapevano adoperare la scàriola, trasportavano dalle cave di S. Rocco le pietre necessarie, mentre i più piccoli scendevano al torrente vicino e con strumenti adatti prelevavano la sabbia, che veniva insaccata in contenitori di stoffa da trasportare a tracolla fino al luogo indicato. Tutti questi lavoretti venivano eseguiti con serietà e tranquillità, specialmente d’estate.
L’orario giornaliero era osservato fedelmente. Alle 6,30 scattava l’alzata, seguiva la S. Messa preceduta da una breve riflessione; quindi si sistemavano le camerate e si scendeva per la colazione.
Alle 8,00 cominciava la scuola: i Piccoli e i Mediani in Seminario, i Grandi (alunni del Ginnasio) scendevano nel Collegio Canova. Dopo la scuola era fissato il pranzo, a cui seguivano due intervalli con due tempi dedicati allo studio. Dopo il primo studio, ci si recava in Chiesa per una breve visita eucaristica. Così pure, dopo il secondo studio, si scendeva in Chiesa per la recita del Santo Rosario; seguiva la cena, poi un bellissimo intervallo, che si concludeva con le ultime preghiere della sera. A volte (specialmente per i Grandi) veniva programmato un altro tempo di studio, che però durava poco, perché alle 21,00 o al massimo alle 21,30 si andava tutti a riposare.
Nella scuola, ben presto venne alla luce tutta la mia impreparazione scolastica. I miei compiti d’Italiano, dopo la correzione, sembravano campi di battaglia: guardavo con orrore e con dispetto tutte le sottolineature o le aggiunte scritte in rosso. Questo avvenne in 5ª Elementare. Ricordo che nel comporre i pensieri mi imbattevo in una difficoltà insuperabile a causa della mia povera cultura dialettale. Dovevo descrivere, per esempio, un mio passatempo in bicicletta, quando ero alle prime armi; se non che combinai un grosso capitombolo. Ma questo vocabolo non mi veniva in mente neanche per sogno, perché ero inchiodato nel termine scopijata, che in dialetto sta appunto a indicare “capriola, caduta, capitombolo”. E così avvenne per altri vocaboli o per altre espressioni.
Dopo il Natale di quell’anno ebbi come insegnante il P. Ferruccio Vianello, con l’arte del quale feci dei passi da gigante sia nella grammatica sia nell’analisi logica.
La prima media mi riuscì abbastanza bene anche in Italiano, ma soprattutto in Latino. Verso la fine dell’anno il P. D’Ambrosi ci diede da fare una versione dal Latino di tredici righe, prelevata dallo scrittore Sallustio. Un punto cruciale non fu capito da nessuno di noi 21 alunni di prima media. Soltanto quando fui interrogato io, l’insegnante si complimentò della mia traduzione e mi assegnò un bel “nove”.
Quando nel Giugno del 1944 scattavano per noi gli Esami di Licenza Media, si dovettero seguire le norme di un decreto ministeriale, che riduceva tutte le prove al solo esame orale. Quando mi presentai in Commissione, vi rimasi solo per venti minuti. Tale era l’Esame di Terza Media, che si svolgeva in tempi ridotti per motivi di guerra. Ricordo che per la prova di Latino mi era stata proposta da tradurre la seguente frase: “Spero di essere promosso”. Io sul foglio scrissi subito: “Spero me probatum iri”. Ne usci con un “Buono”, il che non era piccola cosa. Ciò non vuol dire che trovassi tutto facile nelle scuole superiori, anzi dovevo veramente sgobbare.
L’8 Dicembre 1942 venne benedetta una nicchia dedicata alla Madonna a ricordo della consacrazione di tutto il mondo alla Vergine di Fatima. Era collocata nella parete, all’inizio del vano delle scale principali. Per l’occasione venne organizzata una gara di brevi componimenti poetici ad onore della B. V. Maria. Volli provarci anch’io. Mi ricordo ancora la prima strofetta del mio componimento:
Santa Maria,
sei Madre mia;
in questa festa
esulta il cor.
Non raggiunse la prima classifica, ma rimasi soddisfatto per aver partecipato al concorso. In seguito tentai di realizzare altri componimenti di mia iniziativa. Ricordo che composi una lunga serie di sonetti, tanti quante erano le invocazioni alla Madonna nelle litanie lauretane. Li composi durante le ore notturne di riposo, cercando di lavorare con la sola mente pur rimanendo sotto le coperte. Alla mattina tentavo di ricostruire e di trascrivere i versi composti. Questa faticaccia durò per parecchio tempo. Peccato che non li abbia conservati! Certamente mi potevano fornire un’idea di come la pensassi in quegli anni dell’adolescenza.
Durante l’estate, quando non c’erano lavori in corso, si trascorrevano alcune ore di studio, leggendo libri bellissimi o scrivendo qualche appunto su argomenti interessanti. Erano messi a disposizione dei libri a fumetti con racconti meravigliosi, come la “Piuma verde” che rilessi parecchie volte, perché mi piaceva moltissimo.
Nei cortili del Seminario si svolgevano diversi giochi a squadra. Bisognava allora sorteggiare i partecipanti con una certa avvedutezza, in modo che i gruppi risultassero abbastanza equilibrati. I giochi privilegiati erano: “La Bandiera”, “La Palla Avvelenata”, “I Mestieri Muti”, “Rimpiattino”, “Il Gioco a darsela”, “Le palline” e tanti altri ancora.
Veniva programmato anche il gioco del pallone, ma per la limitatezza di spazio e per altri motivi non si poteva svolgere nei nostri cortili. Allora, tempo permettendo, si andava in Villa (Casa del S. Cuore), dove per i ragazzi villeggianti era stato sistemato un bel campetto da calcio. (Poi divenne un frutteto; in seguito fu trasformato in parco con quattro file di cipressi; lungo il viale centrale venne installata una “Via Crucis”; in un angolo del campo venne collocato un grande Crocifisso in legno che proveniva dall’Istituto Dolomiti di Borca di Cadore).
In quella struttura calcistica si passava qualche ora di gioco, circondati dai boschi di montagna. Ma spesso ci mancava un vero pallone di cuoio: era troppo costoso e i tempi di guerra non lo permettevano. Allora noi ci industriavamo a costruire con pezzi di stoffa e con stracci una specie di sfera e con quella si giocava allegramente. Il mio ruolo era quello di difensore e qualche volta di portiere.
Per la mia vivacità avevo fatto impensierire il P. Rettore P. Giovanni D’Ambrosi, che dopo i primi quattro mesi della mia permanenza in Seminario aveva pensato di spedirmi a casa. In seguito venni a sapere che la decisione definitiva fu rinviata per la mediazione del P. Angelo Pilon, il quale era dell’idea che fosse meglio aspettare la fine dell’anno scolastico e poi trarne le debite conclusioni. E così la cosa passò liscia. A proposito di abbandono della strada iniziata o di rimando a casa senza ritorno, non c’è nulla da dire da parte mia, perché non voglio giudicare nessuno. Infatti a causa della poca costanza o della nostalgia o di altre vicissitudini, durante quegli anni, diversi miei compagni lasciarono il Seminario. Io ne provavo ogni volta grande amarezza, perché venivano troncate per sempre tante belle relazioni di amicizia e di compagnia. Anche questo faceva parte della nostra vita in Seminario.
Frequentavo la Prima Media. Durante le ore di studio, che passavamo insieme in un’aula sotto lo sguardo di un Padre o di un Prefetto, mi permettevo di disturbare un mio compagno di Trieste, un certo De Zorzi. Il suo tavolino era davanti al mio, accanto alla parete, nella quale era sistemata la porta di accesso. Ogni tanto, senza farmi vedere da nessuno, io allungavo il braccio e gli scuotevo le spalle o la testa, facendolo arrabbiare. Era tempo di silenzio; perciò, voltandosi di scatto, mi diceva sottovoce con due occhiacci: “Smettila!”. Ma questo era il mio losco divertimento e ci ridevo sopra.
Un giorno, dopo averne combinate non so quante sulla sua pelle, entra in aula il P. D’Ambrosi, in punta di piedi e in silenzio. Quasi nessuno se ne accorge. In quel momento io me ne stavo al mio posto, tranquillo come tutti gli altri. Il P. Rettore dà uno sguardo ai miei lavori, poi si avvicina al tavolino, dove stava studiando il mio compagno De Zorzi, che da tutti era ritenuto un ragazzino molto buono e simpatico. Il Padre gli posa una mano sulla testa, quasi per fargli una carezza d’incoraggiamento. Se non che lui, credendo che fossi io, afferra con tutte e due le mani la mano del Superiore e se la porta alla bocca per addentarla e così tirare il saldo di tutte le mie bricconate.
Allora si ode una voce improvvisa e cavernosa che esclama: “Non avrei mai creduto che tu fossi una bestia feroce!”. Il povero De Zorzi lo guarda con due occhi sorpresi e confusi, mentre brontolando diceva che la causa era tutta mia. Ma il P. Rettore si portò davanti agli occhi il dito addentato e forse non afferrò il senso delle parole, che il ragazzo aveva pronunciato a sua difesa e discolpa. Potete immaginare le risate dei vicini di tavolo, specialmente del sottoscritto, che vide improvvisamente ingrandito lo scherzo sulla pazienza di De Zorzi!
Durante le ricreazioni in cortile potevano succedere delle tensioni e dei dispetti. Allora il padre di sorveglianza o il prefetto potevano intervenire rimproverando il colpevole o comminando qualche punizione come quella di restare fermi, in piedi, vicino al muro dell’edificio. La sentenza veniva pronunciata così: “Mettiti al muro per dieci minuti!”. Se poi si mancava a qualche disposizione disciplinare, si poteva ricevere la punizione di scrivere magari cento volte una frase, che faceva allusione alla norma trasgredita, come per esempio: “Non devo andare in giro per la casa senza permesso”.
Se, però, qualcuno ne combinava una di grossa, poteva essere condannato a mangiare, in refettorio, stando in ginocchio davanti a una cassetta, che faceva da mensa, mentre tutti erano seduti al loro posto. Di solito in refettorio si mangiava in silenzio, mentre uno di noi, a turno, aveva il compito di leggere un breve passo del Vangelo, il Martirologio del giorno e alcune pagine di un racconto che poteva interessarci. Solo verso la fine del pranzo e della cena veniva concesso il permesso di parlare liberamente. Nel corso di quegli anni incappai più di qualche volta in trasgressioni, che si concludevano con le rispettive punizioni. Mi permetto di osservare che i metodi educativi rievocati nella mia avventura rientravano nella normalità di quei tempi. Passata la tempesta, il cielo ritornò sereno e io non ci pensai più.
I Padri ci insegnavano a leggere e a parlare con correttezza e schiettezza. Per questo si leggeva a turno in refettorio ad alta voce, mentre gli altri mangiavano. Si sa che erano belli i racconti, ma a volte dovevamo sopportare qualcuno che ci annoiava per la difficoltà o poca chiarezza nel pronunciare le parole.
Una realizzazione, che incarnai con soddisfazione, fu quella dell’attore. Per certe occasioni ricorrenti durante l’anno, alcuni di noi venivano scelti a rappresentare i personaggi di qualche commedia o di qualche dramma. Una volta, quando frequentavo la 2ª Media, partecipai allo svolgimento di un melodramma; ero inserito nel gruppo del coro, che accompagnava il personaggio principale della rappresentazione. Un’altra volta fui scelto a drammatizzare sul palco le bravate di un comico. Il componimento era un monologo e quindi dovevo vivacizzare con la voce e con i gesti tutte le avventure che raccontavo. Mi ricordo che, quando mi preparavo per la recita sotto la guida del P. Giuseppe Fogarollo, gli confidai che provavo paura a dover fare il mio debutto davanti a tutti i miei compagni.
Allora egli mi incoraggiò dicendomi che in quei momenti di rappresentazione io dovevo considerare tutti gli spettatori come zucche, di fronte alle quali nessuno prova paura. Insistendo su questa considerazione, misi in fuga ogni apprensione e ogni incertezza, cercando di rivivere il meglio possibile il personaggio, che rappresentavo. E penso che gli applausi mi piovvero addosso proprio per questo. Tutto merito del P. Fogarollo!
Il giorno di visita delle famiglie i miei si facevano vedere una volta o due all’anno per varie ragioni: il viaggio era costoso e penoso (bisognava partire il giorno prima), in più l’andare in treno a quel tempo era soggetto a pericoli come quello del mitragliamento da parte di aerei nemici. Un giorno mio fratello Bruno ed Elio Molon, fratello del P. Guerrino, prima di essere chiamati alle armi, pensarono di venire a trovarci, adoperando come mezzo di trasporto un tandem. Non so per quante ore abbiano dovuto pedalare per arrivare fino a Possagno, ma li vidi veramente soddisfatti.
Ogni anno, a Giugno, terminato l’anno scolastico, veniva concessa una breve vacanza di cinque giorni in famiglia. Di questi cinque giorni io ne perdevo praticamente due: uno per l’andata e un altro per il ritorno, a causa delle poche corse delle corriere di linea e dei treni, nonché delle lunghe attese nelle stazioni. Sicché in famiglia mi soffermavo solo tre giorni.
L’anno scolastico 1944-45, interrotto a causa degli ultimi mesi di guerra, non fu più ripreso. Nel mese di giugno quelli di Quinta Ginnasio dovettero affrontare gli Esami di Stato, mentre a noi di Quarta furono notificati gli esiti degli Scrutini Finali. Io e i miei amici risultammo promossi. Dopo le brevi vacanze in famiglia, durante i mesi estivi rifiorì la nostra vita giornaliera, vita resa a volte difficile per la situazione critica del dopoguerra. Quindi con il nuovo anno scolastico completammo la nostra dimora in Probandato.
5.5.6 La guerra a Porcari, annotazioni di P. Vincenzo Saveri
“Sfogliando una vecchia agenda
“Si tratta di una agenda del 1943, su cui P. Vincenzo Saveri, Rettore del Collegio Cavanis di Porcari, appuntava gli impegni giornalieri. Su questa agenda peró a un certo momento appaiono notazioni di tutt’altro genere, destinate a documentare le vicende belliche, in cui venne a essere coinvolto il Collegio stesso in quell’anno. Non si tratta di un vero e proprio diario, ma di semplici appunti, sempre interessanti.
Anche queste vicende infatti fanno parte della storia del Collegio iniziata 75 anni fa.”
“Prime avvisaglie
Mercoledì 7 luglio 1943
Maggiore 35° Fanteria manda tenente Marzocco con soldati per entrare in Istituto. II P. Rettore fa presente che occorrono i permessi delle autorità competenti, Religiosa e Scolastica, e previ accordi.
Giovedì 22 luglio
Ulteriore richiesta del Comando Presidio per avere il Collegio per soldati. Non si può.
Nella sala del teatro ospitiamo banchi e mobili scolastici delle Elementari Comunali, requisite dai militari.
Domenica 25 luglio
Benito Mussolini si dimette. Deo Gratias”.
La cosa comincia a farsi più seria
Martedì 27 luglio
S.E. il Prefetto telefona che bisogna accettare soldati e collocarli in modo da conciliare quanto più è possibile Scuola e accampamento. Si risponde: Pronti.
Mercoledì 4 agosto
Visita all’Istituto del Colonnello e del Capitano medico Dott. Grassi del Comando Ospedaliero Militare territoriale di Marina di Pisa – [sono] gentili.
Mercoledì 11 agosto
Entra un centinaio di soldati della 83a Batteria. Teatro-Camerata S. Luigi e due servizi in casa della Cherubina [Giometti-Toschi].
Ore 22.30 primo allarme;
ore 1 notte secondo allarme.
Giovedì 28 agosto
Visita del Colonnello Direttore di Sanità Militare del Corpo A. di Firenze. Dice che in caso di emergenza, a (sic) scuola chiusa d’autorità, preferenza sarà data alla Sanità per installazione di un ospedale.
Mercoledì 8 settembre
Alle ore 20 giunge notizia di Armistizio tra l’Italia e gli Angloamericani. Tripudio, si va alla funzione. Chiesa piena. L’Artiglieria canta bella preghiera a Maria.
Venerdì 10 settembre
Visita del Comando tedesco al nostro Istituto per requisirlo. Gentili – educati – chiedono.
L’Artiglieria consegna le armi e va a casa sciolta.
Sabato 11 settembre
Visita Comando Tedesco con ordine scritto da Comando Tedesco del Presidio di Lucca:
“II Comandante del Presidio Lucca
Secondo l’ordine del comandante del Presidio e l’accordo col Prefetto l’istituto Cavanis a Porcari è da occupare da un comando tedesco”.
Sua E. il Prefetto dice che bisogna lasciar fare, perché anch’Egli ormai non comanda, ma obbedisce al Comando Tedesco.
Domenica 12 settembre
Visita del Comando Tedesco, portando ordine scritto per fissare modalità consegna e raccolta corredo Convittori e nostro materiale scolastico insieme. Domani verranno in mattinata per fare il lavoro e in serata per stanziarsi. Vedremo.
Inizia l’occupazione tedesca
Lunedì 13 settembre
Continua ad entrare tanto materiale tedesco. Alla sera tutto è in ordine nel 2° e 3° piano. Silenzio quiete. Dominus nos custodiat.
Martedì 14 settembre
Nuovo afflusso di materiali per 2 altre squadriglie. –
A Lucca non si sa (Provveditorato) se vi saranno esami di riparazione.
Mercoledì 15 settembre
Festa dei dolori! della Madonna.
Alla sera, ore 20, Rosario, Canto di Stabat Mater. Benedizione Eucaristica. P. Rettore con il consenso di tutti i Padri e Fratelli affida al S. Cuore Immacolato di Maria tutto l’Istituto di Porcari e lo stabile del Collegio con voto di un giorno di digiuno da farsi ogni anno in data da fissare dal Rettore pro tempore prima della festa del S. Cuore Immacolato di Maria, qualora la Madonna ci conservi intatto lo stabile e incolumi le persone della Famiglia Religiosa. Mariae SS. Cor nos protegat. Amen.
Domenica 26 settembre
Visita Pastorale a Porcari.
S.E. rimanda ad altra occasione la visita alla nostra Chiesa, essendo l’Istituto occupato dai Tedeschi.
Lunedì 4 ottobre
Oggi partono i Tedeschi. Si ferma una sola squadriglia fino a domattina.
Il Comando Tedesco diffida di disporre dell’Istituto per scuola, perché può averne ancora bisogno.
Martedì 5 ottobre
Oggi sono partiti gli ultimi tedeschi.
Mercoledì 6 ottobre
A sera ore 18 entrano 150 Artiglieri Tedeschi con una cinquantina di cavalli. Bivacco in cortile interno.
Giovedì 7 ottobre
Ore 8 partenza dei Tedeschi. Got mit uns!
Venerdì 8 ottobre
Liberi e tranquilli “Non par gnanca vero”!
Illusione e delusione
Venerdì 15 ottobre
Entrano altri 60 Tedeschi della fanteria. Maresciallo molto burbero.
Martedì 19 ottobre
Partono i Tedeschi, ma ne entrano altri 90 tutti anziani e tranquilli. Gott mit uns!
Venerdì 22 ottobre
P. Rettore dal Comando Tedesco per ottenere libero il Collegio. Comandante ci sarà alle 16.
Ritorna alle 16. Comandante è a Firenze. Torna domattina alle 9.
Sabato 23 ottobre
Ore 9. P. Rettore al Comandante Tedesco. Comandante Randolf bene intenzionato. Verrà ufficiale con interprete all’Istituto.
Ore 20. Ufficiale con interprete. Prende nota. Domani o lunedì si saprà.
Domenica 24 ottobre
Annuncio in Chiesa che si fanno le iscrizioni.
Mercoledì 10 novembre
Parte la staffetta di guardia delle truppe Germaniche e si licenzia gentilmente dal P. Rettore. Si delibera l’apertura totale della scuola, consultata la R. Prefettura.
Nel pomeriggio si lavora in pieno per assestamento di materiale di Convitto. È edificante la dedizione totale della Famiglia Del Carlo (Zuccotti).
Domenica 14 novembre
Ingresso dei Convittori. Tempaccio da ladri. Pochi alunni (una trentina).
Lunedì 15 novembre
Inizio delle lezioni anno scolastico 1943-44. S. Messa, poi due ore di lezione. Funzione ufficiale viene rimandata a giovedì.
Giovedì 18 novembre
Funzione religiosa solenne d’apertura dell’anno scolastico. Alunni quasi tutti presenti (150). Convittori 63 il resto esterni. Si mostrano compresi e pare si dispongano con pietà e buona volontà al lavoro.
Venerdì 3 dicembre
Giunge gruppo Ufficiali Tedeschi delle SS. e dà ordine di sgomberare l’Istituto. Deve essere occupato dalle truppe Germaniche per urgente necessita militare.
II capo della Provincia interpellato a voce dal P. Rettore risponde: “Siamo morti! Non c’è che da essere pronti a seguire anche i loro desideri. Si prendano le misure del caso”.
Sabato 4 dicembre
Celebra all’Oratorio il R. P. Rettore. Dopo la S. Messa annuncia la notizia ai ragazzi. Scuola chiusa per tutti e il Convitto chiuso fino a nuovo ordine che ci auguriamo possa giungere presto. I Convittori in gruppi secondo la destinazione, vengono affidati a Padri che li accompagnano fino a casa a mezzo due autocorriere gentilmente fornite dai Carabinieri e dalla Questura.
Domenica 5 dicembre
Viene intimato lo sgombero di tutto l’Istituto. Non valgono ragioni. Non ci devono essere civili dove ci sono SS. Non c’è che rassegnarsi – Genitori ritirano piangendo il corredo dei Convittori.
Mercoledì 8 dicembre
Solennità ridotta all’estremo.
Messe ogni ora dalle 6 alle 9 e 1/2. Si inaugura una pianeta nuova, lavoro a mano delle Suore Agostiniane di Vicopelago – Concorso considerevole di popolo – Sera: Rosario, discorso di P. Rettore e Benedizione solenne con bacio della Reliquia. Canto canzoncina Chiesa piena.
Lunedì 13 dicembre
Viene vietato a tutti l’accesso all’Istituto Cavanis dal Comando delle SS.
Martedì 14 dicembre
Il capo della Provincia ordina a mezzo rappresentante del fascio di Porcari di prestare al Comando Tedesco la macchina dattilografica. Si fa così.
Lunedì 27 dicembre
Si apre a Vicopelago l’Istituto trasferito con approvazione del Provveditorato. II piccolo convitto è pieno – 56 alunni.
A sera (a Porcari) i Tedeschi chiudono con lucchetto il cancello di accesso alla Chiesa.
Ultima annotazione
Martedì 28 dicembre
Questa mattina Chiesa aperta – cancello chiuso – nessuno a Messa. II P. Rettore interessa S.E. Arcivescovo che ne è molto dolente e interpellerà il Capo della Provincia. Va in udienza dal Capo della Provincia che ne prende appunto. Per i danni e malanni risponde che non c’è da far niente, saranno pagati (!?); si trattino gentilmente i Tedeschi.”
5.5.7 Memorie di Guerra del Probandato di Vicopelago
(Intervista del 2012. Testo di P. Diego Dogliani; note di G. Leonardi)
Il 12 ottobre 1941 entrai in probandato dei PP. Cavanis. Era una villa cinquecentesca acquistata dal P. Vincenzo Saveri allora rettore del collegio di Porcari (Lucca); la casa era chiamata dai padri Villa S. Giuseppe, ma era chiamata anche villa dell’orologio per il grande orologio che sovrastava la facciata principale rivolta verso la pianura lucchese; era visibile da lontano e dal cortile sottostante si poteva vedere in lontananza la città di Lucca con le sue torri campanarie. La villa si trova addossata ai Monti Pisani, come dice Dante: “Per cui i pisan veder Lucca non ponno”, in collina verso la piana lucchese.
Entrai con altri pochi ragazzi, mi pare otto. La prima persona che incontrai fu P. Marco Cipolat che mi impressionò col suo fare gioviale e gentile, con il suo parlare tranquillo e sorridente; ero insieme al mio parroco che aveva fatto di tutto per farmi entrare nel seminario diocesano ma le circostanze finanziarie della famiglia non lo permettevano. Così guidato dalla situazione, la Provvidenza mi fece trovare il seminario Cavanis. Il P. Marco ci condusse dal P. Rettore, il P. Carlo Donati, figura sulla quarantina, dai grandi occhi sereni che rivelavano il suo grande cuore, che ci tenne nella direzione fermandosi a parlare con il parroco e facendoci festa come persone che già si conoscessero e di fatti era così.
A pochi giorni dalla nostra entrata, il gruppo dei seminaristi si ingrandì con la venuta di dodici ragazzi provenienti dal seminario di Possagno, della nostra stessa età. Eravamo diventati un bel gruppo, circa una ventina.
Nei giorni successivi iniziò la scuola. Le nostre famiglie non avevano pensato che si continuassero gli studi dopo la scuola elementare anche perché, la Scuola Media, unico corso dopo l’elementare esigeva, a quel tempo, un esame di ammissione per frequentarla e si trovava nelle città e quindi bisognava allontanarci da casa.
Iniziammo perciò l’anno scolastico per prepararci all’esame di ammissione alla Scuola Media per l’anno successivo. I nostri insegnanti erano i due Padri, P. Carlo che ci preparava in Italiano e P: Marco che ci faceva Matematica, Storia, Geografia e nozioni varie.
La giornata era scandita dalla scuola al mattino e nel pomeriggio dal tempo di studio e lavoro.
Ogni piccolo gruppo di aspiranti era responsabile di qualche impegno: pulizie di ambienti, di cortili, tutto era curato da noi e aiutati dalla presenza vigile di P. Marco assistente e dal P. Carlo che ci seguiva nelle preghiere e alla S. Messa giornaliera e lettura spirituale.
In cucina c’era la paziente Nunzia ( Annunziata ) che si faceva aiutare da noi nel curar le patate o la verdura che veniva preparata per il pranzo. Più tardi la signora Nunzia si unì alle suore del S. Nome o suore Cavanis all’inizio della associazione religiosa ora “Suore del S. Nome “.
Nel nostro piccolo eravamo organizzatissimi e autonomi. Nella stanza vicina alla cucina c’era un piccolo mulino che incominciava a funzionare molto presto al mattino, l’impastatrice per il pane e il forno. Era il regno di fra Giorgio [Vanin] che quando ci alzavamo era già pronto col pane fresco e partiva per lavorare in uliveto.
Era interessante la vita di famiglia che ci rendeva molto varia la giornata e non solo ma ci legava ai nostri padri e al seminario che sentivamo come se fosse casa nostra.
Nel lavoro manuale dell’orto e dell’uliveto il nostro istruttore era fra Giorgio, figura spigolosa, austera e virtuosa che faceva oltre l’orto e l’uliveto anche gli altri lavori pesanti.
I momenti della giornata più attesi erano, come tutti i ragazzi, la ricreazione del pomeriggio. P. Carlo era un animatore eccezionale dei nostri passatempi, correva con noi nella partita a schiavi o all’uomo nero. Lo ammiravamo perché era velocissimo. Era bello giocare tutti insieme sotto il grande cedro secolare; era il più grande cedro di tutta la Lucchesia. Quando dopo tanti anni cadde per la vecchiaia ed una mattina lo trovarono sradicato a terra, fu fotografato e presentato nella sua solenne grandezza dal Corriere della sera con un titolo e un articolo a tutta pagina.
Altri bei momenti era quando nevicava. C’era una grande e lunga strada erbosa che saliva fino alla sommità dell’uliveto. Serviva per trasportare la legna e con la neve diventava un divertimento per noi e una lunga pista di sci. Si partiva scivolando con i nostri zoccoli di legno e si arrivava fino in fondo; qualche ragazzo era un ottimo “sciatore”; ma quanti ruzzoloni e cadute tra tante risate e allegria. I nostri passatempi erano molti e li sapevamo costruire con poco; la gioia era alimentata anche dalla serenità dei due padri e delle persone che vivevano con noi e dalla fiducia con cui ci accoglievano e accompagnavano. Ci sentivamo valutati e noi eravamo disponibili al fare.
Durante il corso dell’anno venivano alcuni padri dal collegio di Porcari che saltuariamente completavano i nostri studi. Uno di questi era P. Michele Busellato. Ci insegnava disegno. Ricordo le sue lezioni interessanti per riportare dal vero la realtà e mettere ciò che vedevamo in proporzione di grandezza o in prospettiva ad angolo sul foglio di disegno. Era anche un compositore musicale e suonava il piano. Ci insegnava i primi elementi musicali come leggere musica, solfeggio, canto, come si doveva modulare la voce. Le sue cavatine musicali con parole inventate da lui erano gioiose e da ridere, accattivanti e comprensibili a noi ragazzi semplici e sereni.
Ricordo P. Valentino Fedel in mezzo ad un nugolo di api in mezzo agli olivi, senza maschera, che le curava con passione. Ogni tanto mi chiamava ad aiutarlo e, a me, faceva indossare una maschera che mi rendeva irriconoscibile. Imparai a trattare gli alveari e le api e mi parlava delle qualità medicinali del miele, me lo faceva anche assaggiare dopo averlo aiutato e arrischiato anche qualche puntura; ero molto contento di dare questo aiuto e anche del premio così dolce.
La domenica , dopo aver ascoltato la messa nella nostra cappellina, quando il tempo lo permetteva, si usciva per la passeggiata nei boschi addossati alla villa. Si visitavano i paesetti della Lucchesia letteralmente arrampicati sul pendio della collina. Si raggiungeva, con P. Carlo, il paesino di Gattaiola, si continuava verso Pozzuolo e si raggiungeva la sommità della montagna fino alla località chiamata Quattro Venti proprio sulla sommità dei Monti Pisani. Era fantastico, di lassù spaziare nella pianura sottostante con, in lontananza la città di Pisa con il campo dei miracoli per il suo duomo, il battistero, la torre pendente che si stagliavano candidi nel cielo azzurro. In fondo, all’orizzonte, la costa frastagliata, delineava come un merletto azzurro il mar Tirreno.
In autunno, nei boschi, si raccoglievano le castagne e, in estate, le piante di corbezzolo ci offrivano il loro frutti gustosissimi per noi ragazzi che avevano poche cose semplici.
L’inizio ufficiale del seminario fu il 19 marzo 1942 solennità di S. Giuseppe, in quel tempo era festa solenne di precetto. Da quel giorno la villa venne chiamata con un nome nuovo: “ Villa S. Giuseppe”. Però rimase semprela villa dell’Orologio.
Intanto i giorni trascorrevano tra preghiera, studio, lavoro, passatempi e arrivò la fine dell’anno scolastico. Il nostro studio annuale venne regolarizzato legalmente nella scuola del collegio di Porcari. Nel giugno 1942 fummo alloggiati in collegio a Porcari, presentati agli esami e fummo tutti promossi.
Riuscivo abbastanza in tutte le materie. La materia che il P. Marco era riuscito a farmi amare maggiormente era la matematica. Mi ricordo che durante l’anno scolastico si gareggiava tra noi per arrivare primi a terminare i problemi. Mi successe così anche all’esame di ammissione. Finìi tra i primi ma, quando mi confrontai con gli altri, mi risultava differente il risultato finale del problema. La fretta mi aveva tradito, avevo trascurato una equivalenza finale. Corressi l’errore nella interrogazione orale.
Terminato l’anno i miei compagni veneti ci lasciarono e ritornarono a Possagno.
Nel frattempo durante le vacanze ci fu un grande cambiamento: P. Carlo ci informò che dovevamo cambiare casa; Villa S. Giuseppe era infatti la residenza estiva dei collegiali di Porcari che durante le vacanze estive venivano a studiare o prepararsi alla riparazione delle materie che dovevano superare agli esami di ottobre. Allora, le materie con risultato non sufficiente dovevano essere portate almeno alla sufficienza con un esame al termine delle vacanze. Dalla villa S. Giuseppe si passò alla villa Massoni a S. Alessio appena in collina nelle vicinanze di Lucca. Ormai si affacciava l’anno 1942-1943, l’anno in cui la guerra avrebbe raggiunto anche la Lucchesia.
La villa Massoni era una villa settecentesca abitata da una famiglia di nobili ormai decaduti. Al piano nobile abitava la vecchia Marchesa novantenne e la figlia anche lei anziana sulla settantina.
Noi ragazzi con i Padri Carlo e Marco seguiti dalla Nunzia ci trasferimmo nella nuova abitazione.
La villa era circondata da un giardino spazioso anche questo in stile settecentesco, abbellito da grandi prati verdi, da piante secolari e da statue in terracotta rappresentanti i mesi dell’anno lungo i viali. C’era anche una chiesetta barocca con un bell’altare di marmo prospiciente alla strada principale, dove si pregava. La domenica veniva aperta al pubblico e, di solito, P. Marco celebrava la messa molto frequentata. Il commento della gente era; “È molto bravo, ma quanto è lungo”. Tutt’intorno, all’interno del muro di cinta si estendeva un vasto spazio di prati verdi dove si scorrazzava durante le ricreazioni. Molto amata da noi era la lecceta, bosco di lecci che formavano una specie di pergolato esteso dove si giocava, si prendeva il fresco e si studiava durante specialmente nel tempo estivo. L’ alto muro separava l’abitazione dalla strada bianca che portava sulle colline dove alla sommità si trovava il paesino di Pieve S. Stefano e che poi scendeva al paese di Mutigliano.
Si passò nella nuova sede, mi pare nell’estate del 1942 e ci sentimmo subito a nostro agio perché trovammo da lavorare, da preparare studio e ambiente sempre guidati dall’occhio vigile e premuroso dei nostri padri. La villa era condivisa tra la marchesa e sua figlia che abitavano il primo piano, il piano nobile; noi aspiranti occupavamo con una famiglia sfollata dalla città a causa della guerra alcune stanze del piano terra e il terzo e quarto piano. Al piano terra, in cucina faceva il suo lavoro di cuoca la Nunzia; in guardaroba, ultimo piano si aggiunse la Aladina servizievole e gentile con noi che poi si unì anche lei alle suore del S. Nome. Al terzo piano erano sistemate le scuole al quarto le camerate nostre di ragazzi.
Intanto il numero degli aspiranti era cresciuto e le classi per il prossimo anno scolastico erano due: Ammissione e Prima Media. Ai due padri si aggiunse P. Angelo Guariento che prese ad insegnare lettere e matematica in prima Media nel frattempo frequentava come laureando l’università di Pisa. Era sacerdote giovane vicino a noi, ottimista e allegro; bravissimo insegnante.
P. Carlo si dava da fare per risparmiare e nella piccola stalla vicino alla villa, noi più grandicelli incominciammo a prenderci cura di un piccolo pollaio con galline e conigli. Toccava a noi portare da mangiare e procurare l’ erba. Ma non erano impegni lontani da una nostra mentalità in quanto tutti venivamo da queste esperienze di vita contadina.
La lavanderia nei primi tempi la facevano i nostri genitori in famiglia che ogni settimana venivano a trovarci. Negli anni successivi era necessaria una organizzazione migliore per renderci indipendenti e autonomi. Uno dei passatempi più aspettati da noi era proprio la lavanderia perché venne fatta in collegio a Porcari. Si portava la biancheria in collegio settimanalmente con un asinello regalato a P. Carlo, che custodivamo nella stalla e tirava il carico lentamente. Per noi più grandi che si faceva il viaggio era una vera avventura perché per il servizio si partiva al mattino e quindi vacanza da scuola, ma anche perché a circa metà strada si faceva sosta. All’Arancio, così si chiama ancora quella località, c’era la casa dove abitavano i parenti della nostra cuoca, la Nunzia, che ci rifocillavano con una abbondante merenda e là davamo anche da mangiare al nostro asinello.
Più tardi, ci venne regalato un cavallino da corsa con un calessino con le ruote di gomma. P. Angelo Guariento ne prese subito possesso con passione e simpatia. Era sistemato nella stalla e si può immaginare la nostra curiosità. Una volta alla settimana si caricava la roba di lavanderia sul calesse e da allora non si andò più con l’asinello ma col cavallino. Trottava continuamente e noi, contenti, sul calesse, lo guidavamo col P. Angelo che ci faceva compagnia. Era il premio per i più studiosi e laboriosi. Ma a Porcari c’era un’altra persona molto amata che ci accoglieva; il P. Gioacchino Tomasi, insegnante di Francese in collegio. Ci conduceva in un’aula e ci proiettava le filmine di Craveri: Giraffone, Porcellino. Quante risate e come ci tenevamo a queste piccole cose.
Ma avevamo anche altri impegni personali molto importanti. Alcuni ragazzi, noi più grandi, di terza media e di quarta ginnasio, venivano iniziati a suonare l’armonium (tra questi c’ero anch’io ), altri frequentavano un calzolaio e un falegname vicini che ci insegnavano il mestiere, altri aiutavano i contadini vicini nella vita dei campi.
Quello che era importante e che i nostri padri ci facevano crescere responsabili attraverso i piccoli impegni che ci venivano affidati.
Noi più grandi dovevamo prenderci cura anche dei più piccoli, dovevamo mantenere l’ordine e la disciplina secondo i momenti e gli ambienti; chi doveva preparare il refettorio, chi doveva pompare l’acqua perché non mancasse mai in cucina, al mattino il responsabile della camerata doveva scendere all’aperto e distribuire le catinelle con l’acqua per lavarsi, altri doveva portare l’acqua pompata dal pozzo, insomma tutti eravamo occupati in qualche cosa.
Gli anni successivi furono anni di guerra; nel 1943 era il tempo della seconda guerra mondiale e noi continuammo la nostra vita normale. Nel 1944-45, per non far occupare la villa S. Giuseppe a Vicopelago dai militari tedeschi venimmo divisi in due gruppi. Una classe ritornò a villa S. Giuseppe gli altri a S. Alessio. Nel 1945, durante l’occupazione noi più grandi eravamo a Vicopelago, i ponti del fiume Serchio furono fatti saltare dai Tedeschi. P. Carlo passava il fiume a guado e veniva a fare scuola a noi; un giorno da una parte e un giorno dall’altra.
Durante l’occupazione tedesca, gli uomini adulti erano nascosti in montagna per paura di essere portati in Germania e noi quattordicenni e quindicenni, i più grandi, sostituivamo e aiutavano i contadini delle famiglie vicine nei lavori dei campi. Gli uomini adulti, a causa dei rastrellamenti delle truppe tedesche, si erano nascosti sulle montagne vicine. Se venivano trovati venivano deportati in Germania o costretti a scavare trincee sugli Appennini per preparare la resistenza tedesca sulla linea detta Gotica. I nostri aiuti venivano ricambiati con pane che era allora a tessera e con frutta e ortaggi. Non ci mancò mai niente neanche in tempo di guerra. Eravamo molto operosi e i nostri padri ci davano l’esempio per primi.
Tutto terminò con l’occupazione americana (mi pare dopo l’armistizio dell’8 settembre 1945) e allora fummo tutti riuniti alla Villa Massoni a S. Alessio; ritornarono anche gli aspiranti che vivevano temporaneamente a Vicopelago.
Gli americani con la ritirata tedesca occuparono per un certo tempo il prato dietro la villa. Per noi fu una novità. Incominciammo ad avvicinarci ai militari, ci davano la gomma americana per noi scoperta per la prima volta, ci davano cioccolate e biscotti, incominciammo a parlare con i militari con gesti facendo loro anche piccoli piaceri. Essi ci davano la benzina per il camioncino rosso di P. Carlo, anch’esso regalatogli perché la gente lo conosceva e tutti gli volevano bene. Si rivolgevano a lui per ogni difficoltà ed egli aiutava tutti per qualsiasi necessità senza mai negare l’aiuto. Procurava ai contadini la tessera annonaria per il pane e per la pasta e loro contraccambiavano con ortaggi, frutta, uova e altro. Ricordo che anche da una certa distanza, anche da Ponte a Moriano i contadini ci chiamavano a raccogliere la frutta. E noi si partiva col nostro carretto e si ritornava con carichi di pesche, e di pere che non riuscivamo neppure a consumare subito e che la brava Nunzia sapeva conservare ed essiccare per l’inverno.
P. Carlo ci seguiva con i Padri e ci educava. Ricordo che alcuni di noi si lamentarono per il mangiare e specialmente per la scarsa quantità di pane. La tessera ne prescriveva due etti a testa ogni giorno. P. Carlo non batté ciglio né sgridò gli scontenti. Al mattino successivo trovammo per colazione tutto il pane che doveva durare tutto il giorno. Mentre consumavamo la colazione mi ricordo che entrò P: Carlo in refettorio e disse con voce pacata e seria: “Il pane è tutto quello che la tessera assegna ad ognuno di noi ogni giorno e per oggi non ce n’è altro”. Due parole semplici e chiare e questo ci bastò. Avevano capito la lezione. Eravamo legati a lui e rimanemmo rattristati per la nostra mancanza.
Ormai cominciavano a farsi vedere le jeep americane e tutto divenne più tranquillo e la vita riprese come prima della guerra. Si lavorava per la ricostruzione.
Noi più grandi frequentavamo terza Media e quarta Ginnasiale, eravamo numerosi e ci preparavamo a raggiungere il seminario di Possagno all’inizio dell’anno scolastico1946 – 1947. Eravamo una decina che si preparava a partire dalla Lucchesia al Veneto. Alcuni di noi avevano frequentato la quarta ginnasiale ed altri la quinta; due, per la storia: Pietro Alberghi che poi arrivò in teologia a Venezia e ci lasciò e Remo Pantaleoni che ritrovai più tardi quando ero a Roma da Padre assistente al “Tata Giovanni “ che si laureò alla Gregoriana e divenne insegnante di teologia nel seminario diocesano di Lucca. Fu la sua sorella a non farlo partire al momento della partenza. Regolarizzammo i nostri diplomi con l’esame al collegio di Porcari e fummo tutti promossi a giugno. E allora via per i preparativi alla partenza. P. Antonio Reginato, nostro insegnante di greco e di latino di quarta e quinta Ginnasio era anche poeta. Compose una canzone per accompagnarci in quello che era un’avventura secondo noi, non proprio così per i nostri genitori. Per noi era una novità per loro una preoccupazione, per i nostri i padri fu certamente un pensiero in più. Ce ne accorgevano dalle frequenti visite che si erano moltiplicate a nostro riguardo, dalle informazioni e dalle garanzie che chiedevano. Per loro si andava in capo al mondo.
Ricordo ancora le parole e il canto composto da P. Antonio Reginato, per dire l’entusiasmo di noi ragazzi:
“ 1ª strofa – O Toscana, terra pia, – dolce e bella Lucchesia, – ti saluta il nostro cuore- con un cantico d’amor. – Ritornello – Quando spunta il nuovo sol – a Possagno andrem, – ai pie’ dei monti sacri al Piave accanto, – una casetta s’apre ch’è tutta incanto. – Come vola il nostro cuor, – monte Grappa a te. – Sulla collina verde – un tempio splende – che bacia il sole
“ 2ª strofa – Addio prati , addio monti , – addio valli, addio fonti , – e tornando un altro giorno – addio monti a riveder. Rit: si ripeteva.
“ 3ª strofa – Dalla terra trevisana, – giunge un suono di campana, – o fanciulli di Toscana, – su venite vi aspettiam.
Non fu una cosa semplice convincerele famiglie, ci volle tutta la pazienza di P. Carlo. Vennero tutti preoccupati per la distanza a cui non erano abituati. Qualche aspirante mancò all’appello all’ultimo momento. P. Carlo, col suo camioncino rosso ci trasportò alla stazione di Lucca e da lì cominciò il lungo viaggio.
Partimmo nel settembre 1946. I treni erano lenti e dopo vari cambi alle stazioni ci scaricarono dopo circa otto ore alla stazione di Pederobba. Era di sera. Una delle emozioni del viaggio che ci rimasero in mente fu il passaggio in treno del fiume Po. Non era ancora ricostruito il ponte distrutto dai tedeschi e ci trovammo su una passerella che faceva sembrare il treno a contatto con l’acqua. Si procedeva a passo di uomo su quel ponte di barche traballanti.
A Pederobba ritrovammo il P. Carlo che aveva ormai scaricato le nostre poche cose e ci prese col suo camioncino rosso conducendoci fino a Possagno, alla casa rossa, che era il probandato. Per la strada, dal Piave al probandato, ancora sterrata, si cantava la nostra canzone. Sembrava di non arrivare mai per quella strada fatta di curve e contro curve che saliva continuamente. Finalmente arrivammo per l’ora di cena.
Il giorno seguente P: Carlo ci salutò, ci fece qualche raccomandazione e cominciammo una vita nel nuovo ambiente.
L’anno successivo frequentammo la scuola del Collegio Canova ed io, che ero in quinta ginnasio, per l’anno scolastico 1946-1947, continuai gli studi che avevo iniziato in Toscana. Incominciammo una nuova vita molto diversa da quella che avevamo fatto fino ad allora.
5.5.8 Memorie di guerra di Giuseppe Leonardi
Non ero ancora membro della congregazione a quei tempi: in effetti, nato il 20 giugno 1939 a Venezia, ero un neonato quando la guerra scoppiò, il 30 settembre del 1939, avevo quasi un anno quando l’Italia si decise malauguratamente ad entrare in guerra a fianco della Germania il 10 giugno 1940; avevo 4 anni e qualche mese quando venne siglato l’armistizio di Cassibile del 3 settembre 1943 (comunicato agli italiani l’8) e cinque anni e 10 mesi alla fine della guerra in Italia (25 aprile 1945).
Comincio a ricordarmi della guerra (ne ho vissute varie altre nella mia vita, in varie parti del mondo) dall’8 settembre 1943. Mi pare ancora di vedere mio padre, allora il capitano del Genio pontieri del Regio Esercito Piero Leonardi, di 35 anni, venire verso la casa di villeggiatura di famiglia in montagna a Cavalese (Val di Fiemme, Trento), correndo e agitando il cappello e gridando dalla via Oreste Barattieri: «L’armistizio, l’armistizio!». Era felice e entusiasta. Era l’8 settembre di sera, o forse il 9 seguente, la mattina. Trascorrevamo ancora le vacanze estive in montagna. Ricordo che mia madre invece, in cucina, scuoteva la testa, poco convinta. Aveva ragione: la parte peggiore della guerra stava per iniziare. Qualche giorno dopo, una colonna di soldati tedeschi percorreva spavaldamente la via principale del piccolo borgo di Cavalese, con dei veicoli blindati, delle cingolette e dei side-car, con un grande rombo di motori e lo stridio agghiacciante dei cingoli in mezzo al silenzio atterrito del popolo. Io stavo con papà sul marciapiedi della via principale, all’incrocio con via Lagorai, osservando un po’ impaurito la scena, che mi è rimasta impressa.
Quella notte la mia famiglia ricevette la visita di giovani cavalesani che chiedevano abiti civili per abbandonare l’uniforme militare e fuggire nelle malghe in montagna, come seppi più tardi. Ne furono dati. Anche lì, nella vallata, ci furono in seguito rastrellamenti e morti ammazzati.
Qualche giorno dopo, i miei genitori decisero di rientrare a Venezia, anche se papà sapeva che l’avrebbero richiamato di sicuro di nuovo al fronte. Avevano capito che comunque era impossibile per noi sopravvivere in montagna, nell’alta vallata di Fiemme durante l’inverno, pur essendone oriundi. La montagna non offriva molto cibo a chi non ci abita abitualmente.
Ricordo bene il viaggio per Venezia: fu un incubo di 24 ore. Dopo la discesa da Cavalese a Ora, nella vallata dell’Adige, con il trenino della val di Fiemme, aspettammo a lungo il treno per Trento; non riuscimmo poi ad arrivarre al centro di Trento, perché la stazione era stata distrutta dai bombardamenti degli alleati. I miei genitori e mio nonno dovettero trasportare le grandi valigie e nel contempo tenere in braccio la mia sorellina e mio fratello minore ancora in fasce. Io camminavo. Mia sorella maggiore ed io avevamo i nostri zainetti sulle spalle. Camminammo verso il centro cittadino e poi salimmo a piedi verso il paese di Povo, sopra Trento, dove il treno della Valsugana aveva il suo capolinea provvisorio. Avevamo dei lontani parenti a Povo, ci si riposò un po’, si mangiò un pasto frugale, noi bambini giocammo con dei cuginetti (o quasi), ricordo che si parlava di cioccolate (che non vedevamo da anni e io probabilmente non aveva mai visto) e si aspettò il treno della Valsugana per Venezia.
Quando questo arrivò, si riempì di folla e non fu facile trovare posto per tutta la famiglia. Papà entrò arrampicandosi per un finestrino, per occupare dei posti. Il viaggio cominciò con quella che poteva diventare una tragedia simile a quella che avvenne di fatto in Basilicata, nel sud Italia. Il treno sovraffollato e provvisto di carbone di pessima qualità, carbone di guerra, si fermò in un tratto in salita dentro un tunnel tra Povo e Civezzano. Ricordo che mentre si tentava di farlo avanzare un po’, di rimando scivolava indietro. Non si riusciva ad uscire dalla galleria. Il fumo, carico di monossido di carbonio e di vapori sulfurei, si stava diffondendo per tutto il tunnel, i corridoi e i vagoni del treno. Le persone tossivano, urlavano o svenivano. Mio nonno farmacista e mio padre correvano a soccorrere le persone sul treno. La mamma, donna forte, ci restava vicina e mi ricordo che quando cominciammo a piangere lei ci disse: «Quando vedrete vostra mamma piangere, allora piangerete anche voi!». Il tunnel era assai vicino alla stazione di partenza e quando il Signore volle, arrivò un’altra locomotiva dietro al nostro treno, che ci spinse fuori dal tunnel. Arrivammo a Venezia dopo varie traversie alle tre del mattino del giorno dopo, e ci fu anche il problema del coprifuoco notturno per raggiungere casa dalla stazione ferroviaria.
Durante gli ultimi due anni di guerra, allertati dalle sirene, ci riparavamo nel piccolo rifugio preparato a pianterreno del nostro condominio; c’erano una damigiana d’acqua, un sacco di gallette che ricordo secche e tarlate, un badile e un piccone (per evadere in caso di crollo), delle panche di legno, un lampadina che emetteva una luce flebile che tremava e lampeggiava durante gli attacchi aerei. Il soffitto era rinforzato da travi di legno e putrelle d’acciaio. Per la localizzazione del rifugio, i grandi avevano scelto di costruirlo verso il canale che passava sotto casa, il rio dei Frari, in modo che, come ci spiegavano, in caso di distruzione dell’edificio, sarebbe stato più facile trovare una via di uscita all’esterno.
Noi bambini giocavamo con i figli del vicino, il colonnello Matter; si ascoltava il rumore dei motori delle fortezze volanti che sorvolavano la città e gli adulti ci insegnavano che si poteva distinguere, dal tipo di vibrazione, se avevano ancora a bordo le bombe o erano vuoti, di ritorno. C’era poi spesso un piccolo aereo da ricognizione che chiamavano Pippo, di cui non avevamo paura. Dicevano che era un esploratore.
Fortunatamente il centro storico di Venezia non fu bombardato, tranne le zone del porto marittimo e la stazione ferroviaria. Lì, il 21 marzo 1945, delle bombe aeree fecero saltare in aria una nave carica di munizioni e tutti i vetri delle finestre dei quartieri orientali e centrali di Venezia (incluso il nostro) si frantumarono in mille pezzi. Mi ricordo che per paura di crolli e delle schegge di vetri e frammenti dei soffitti, come tante altre famiglie corremmo all’aperto e fuggimmo in Campo San Polo, dove c’era tanta gente. Non ci furono ulteriori esplosioni, per cui rientrammo. Stranamente, mi ricordo di quando ci davamo alla fuga e della lunga permanenza nel campo, ma non dell’esplosione, che dovette essere impressionante.
Per salvaguardare le lastre di vetro delle finestre in caso di bombardamenti (ma non in questo caso di scoppio disastroso!) si incollavano sulle finestre delle strisce di carta in croce di Sant’Andrea su ogni lastra, per evitare che in caso di esplosione le schegge ricadessero all’interno ferendo gli abitanti.
Papà ci faceva vedere qualche volta con il binocolo dall’ultimo piano di casa nostra i bombardamenti del porto industriale di Marghera e della stazione di Mestre, in terraferma. Vedevamo gli aerei americani e inglesi che passavano gettando le bombe, poi le fiamme e le grandi nubi di fumo che si alzavano, e una volta, un looping eccezionale.
Di giorno, dopo il passaggio delle fortezze volanti, qualche volta andavamo con mamma a raccogliere per le calli o nei campi di Venezia, particolarmente nel rio terà di S. Tomà, davanti all’Istituto delle suore di Nevers e all’Archivio di stato, i fili o le fini strisce di alluminio che si gettavano abbondantemente dagli aerei alleati per confondere i radar tedeschi. Era per noi bambini un passatempo, una sorta di risvolto divertente e particolare della guerra!
Noi quattro bambini avevamo di che mangiare, anche se ricordo il grande desiderio e l’estrema necessità di zucchero, per non parlare della frutta, del cioccolato e dei dolci. Al contrario, i miei genitori e mio nonno sembravano degli scheletri. A Venezia, città isolata nella laguna e sprovvista di campagna, era molto difficile trovare cibo. Il pane era nero e quando lo si spezzava si vedeva dentro della muffa e aveva un odore molto sgradevole. Mi ricordo ancora quanto fui sorpreso di vedere del pane bianco finita la guerra: mi pareva bianco come la neve!
Papà dovette darsi alla macchia per gli ultimi nove mesi di guerra, perché era stato richiamato alle armi sotto la Repubblica di Salò, l’ultimo miserabile e crudele baluardo del fascismo, ma egli non voleva collaborare con il nemico. Noi non lo sapevamo, ma lui e mamma passarono un lungo periodo di pericolo mortale, di paura e d’angoscia. Anche in questa situazione di estremo pericolo, avevano ospitato in un’altra casa di proprietà, al momento abbandonata, un loro amico che era anche lui ricercato politico dalla polizia politica fascista e nazista.
Tra il 25 e il 29 aprile 1945 ricordo di aver visto con curiosità fuggire i tedeschi da Venezia. Nell’altro canale sotto casa nostra, il rio di San Polo più precisamente, che fa incrocio con il rio dei Frari proprio sotto casa, passavano tutti i tipi di imbarcazioni cariche di soldati, di faldoni d’archivio, mobili e altro. Mi ricordo di aver visto una vacca su una di quelle barche, ma quando lo raccontai in famiglia, nessuno mi credette, e si rise. Avevo quasi sei anni a quel tempo. Una vacca a Venezia? Ma era proprio una vacca, viva e in piedi e traballante, sul fondo della barca.
Poco prima e dopo l’esodo dei tedeschi, ci fu anche a Venezia l’insurrezione popolare: i partigiani, i resistenti sotto il fascismo e durante tutta la guerra, ma anche tanti altri che uscivano all’attacco solo adesso, forse anche per ragioni di opportunismo, gli «operai dell’ultima ora», cominciarono a cercare e inseguire i tedeschi, i repubblichini, i fascisti e i collaborazionisti, e magari qualche vicino poco simpatico. Tra il 28 e il 30 aprile lottavano anche sui tetti di fronte a casa nostra e si sparavano gli uni gli altri. Papà e mamma ci avevano ordinato di non avvicinarci alle finestre, anzi avevano disposto dei dadi da costruzioni infantili per delimitare una linea che non dovevamo oltrepassare nella sala grande di casa, ma noi guardavamo dal fondo delle stanze verso l’esterno. Strano, pensando oggi, che ci tenessero lontano dal pericolo ma non ci impedissero di guardare. Forse lo facevano perché la guerra durava da tanti anni che ci eravamo abituati a tutto.
Ricordo infine il giorno in cui papà mi portò a Piazzale Roma per vedere gli «americani», in realtà dei neozelandesi, inglesi e anche americani, che erano arrivati a Venezia, già liberata dagli uomini e donne della Resistenza, il 29 sera e il 30 aprile. C’erano dei carri armati, delle autoblindo, numerose jeep e tanti soldati di tutte le razze, popoli e colori. Noi portavamo sul petto come tutti delle coccarde tricolori che la mamma aveva cucito in fretta. Dei camion americani distribuivano sigarette, chewing-gum e cioccolata, ma papà mi disse che bisognava mostrare un po’ d’orgoglio e non accettare. E così feci. La «mia» prima guerra era terminata.
5.6 La casa di Roma-Casilina, aperta dal 1946
Si è già parlato qui sopra varie volte dell’idea e di qualche tentativo, sia da parte delle autorità dell’istituto Cavanis, sia da parte di amici esterni, tra cui don Orione, di fondare una casa a Roma.
Il 12 ottobre 1945 il definitorio discusse concretamente, come si diceva sopra, dell’apertura di questa casa a Roma, per via, questa volta, di un’operazione che era stata organizzata in modo amabile ma in qualche modo surrettizio e piuttosto indiscreto da due sacerdoti amici dell’Istituto, che, dopo molte insistenze non accolte, cercavano di mettere il preposito e il suo consiglio davanti a un fatto compiuto: “Quindi [il Preposito] mette al corrente i P.P. Definitori delle pratiche fatte a Roma da Don Agostino Menegoz, già padre Cavanis, e dal sacerdote Don Ettore Cunial per la fondazione di una casa dell’Istituto. Per iniziativa del primo in modo particolare, un signore di Roma sarebbe disposto ad affittare e anche a vendere una sua villa in un quartiere popolare della città a Tor Pignattara. Riferisce il contenuto delle lettere secondo la successione cronologica ed avverte come prima che potesse essere arrivata a Roma la prima risposta del preposito, sia stato conchiuso dal sacerdote Menegoz a beneficio dell’Istituto un contratto di affittanza per tre anni. Naturalmente né il Preposito, né il Definitorio può approvare questo modo di procedere e ciò per ragioni evidenti. Mancano i dati per giudicare se il luogo sia opportuno, manca il contatto diretto dell’Istituto col padrone dello stabile, mancano gli elementi necessari per iniziare seriamente l’opera dell’Istituto in Roma ed oltre a questo i due sacerdoti non potevano prendere alcun impegno a nome dell’Istituto, dal quale non hanno ricevuto alcun mandato, né alcuna autorizzazione. Il Preposito ha già risposto alla prima lettera che questo è un affare che non si può risolvere alla svelta ed in questa maniera, ma d’altra parte è di parere che non sia il caso di rompere ogni cosa col rigettare definitivamente l’iniziativa dei due sacerdoti che, pur non avendo agito come si deve in questi casi, hanno dimostrato e dimostrano grande amore verso l’Istituto e il loro grande desiderio che la sua opera benefica si faccia sentire anche in Roma.
Il Definitorio è pienamente d’accordo col Preposito su questo punto e propone che sia inviata a Roma una persona dell’Istituto che abbia competenza e presa visione dell’ambiente, delle condizioni e di ogni cosa che possa interessare all’Istituto, riferisca in merito per potere a suo tempo prendere le opportune decisioni per non fare un passo falso, che potrebbe avere anche in seguito serie conseguenze”.
A Roma-Torpignattara era stato inviato P. Giovanni Battista Piasentini, per prendere visione della casa e del parco proposti per l’acquisto o affitto dai preti Agostino Menegoz e Ettore Cunial. P. Piasentini ne dà relazione al capitolo definitoriale in data 20 novembre 1945, comunicando che la casa è bella ma piccola, anche se circondata da un bel parco e da alcuni ettari di terra coltivata a fiori. Fornisce anche i dati sul prezzo di acquisto (dieci milioni di lire); alternativamente si potrebbe prendere la casa in affitto. Il proprietario, molto ben disposto, è il sig. Eisberg. Il preposito con il suo consiglio tergiversano e decidono di attendere ulteriori sviluppi.
Il verbale del capitolo definitoriale del 20 novembre relata in questo modo la relazione del P. Piasentini: “A questo punto P. Piasentini riferisce l’esito del suo viaggio a Roma per prendere visione dei locali della villa fermata ad uso dell’Istituto a Tor Pignattara da don Agostino Menegoz come è già stato notato nel verbale del 12.10.1945. La villa si presenta bene, staccata da altri fabbricati, con parco attorno, giuoco da tennis, e quatro ettari di terreno coltivato a fiori, affittato fino al 1947. Il locale è piccolo per lo scopo, si potrebbero ottenere poche stanze e appena tre aule. Il relatore ha parlato col padrone Sig. Eisberg (sic); lo ha trovato molto ben disposto a nostro riguardo e verso l’opera nostra. Ma tuttavia, per ora almeno, si tratterebbe di avere il locale soltanto in affitto, oppure si potrebbe comperare per una cifra che si aggira attorno ai dieci milioni. Tutto considerato, la posizione sarebbe opportuna, ma il locale è inadatto e sarebbe necessario costruire un altro locale, le chiesa, ecc., e i mezzi dell’Istituto sono assai ridotti. Come conclusione: è il caso di non rifiutare definitivamente, ma di atttendere ulteriori sviluppi che si potrebbero avere in seguito.”
Dell’ottobre del 1946 sono due documenti un po’ misteriosi e finora sconosciuti, molto significativi, che permisero di fatto l’entrata dei padri nell’immobile in cui sorgerà la casa di Roma-Tor Pignattara:
Copia di un fonogramma che contiene il seguente testo che vale la pena riprodurre integralmente:
“COPIA
Presidenza del Consiglio dei Ministri (Gabinetto)
(Segreto), parola scritta in lapis azzurro a mano
Fonogramma urgentissimo Roma, li 5 ottobre 1946
Riceve Giulioli)
ore 14,30
Trasmette Arosto
Prefetto
ROMA
N° 13036-50058-1-28/7.2 Seguito fonogramma 14 settembre pp., numero 12335, pregasi voler disporre immediata revoca decreto requisizione villa Eichberg in via Casilina, numero 600, località Torpignattara già occupata da benemerito ordine ecclesiastico che toglie bambini dalla strada portandoli gratis et amore Dei fino studi superiori.
Ministro dell’Interno habet osservato al riguardo che ove necessario alle esigenze dell’E.C. sia provveduto in diverso modo senza turbare benefica opera assistenziale già in atto con risultati concreti. Raccomandasi impartire urgenti disposizioni at Autorità P.S. Ringraziasi.-
F.to Borrelli”
In calce, in matita azzurra, a mano è scritta la frase, che si comprende solo in parte:
“Questa mattina hanno [ ]tato il proprietario per fermar la requisizione.
A questo documento sorprendente, è allegato con una graffetta da cucitrice un biglietto da visita di don Luigi Sturzo, con la seguente dicitura scritta a mano dallo stesso: “25/X-46 [25 ottobre 1946] [Don Luigi Sturzo] presenta al Comm. Bartolotta Don Agostino Menegoz pregandolo di ascoltarlo e di pregare il Presidente perché l’ordine dato alla Prefettura di Roma con fonogramma urgentissimo del 5 ottobre c.m. ore 14.30 sia eseguito. Cordialmente Luigi Sturzo”
Evidentemente si intendeva favorire l’entrata dei padri Cavanis nella Villa Eichberg, impedendo un’altra operazione che era in corso, per consegnare la proprietà ad altra persona o più probabilmente ente.
Alla fine del 1946 dunque, nel primo dopoguerra, l’idea divenne realtà. Decisioni progressivamente più complete si erano raggiunte nelle riunioni del consiglio definitoriale del 27 luglio e dell’11 ottobre 1946, dopo lunghe tergiversazioni. In particolare in quest’ultima riunione, sebbene non ci sia traccia di una decisione formale di aprire la casa romana, a Torpignattara, nel quartiere popolare della via Casilina e in parrocchia dei SS. Marcellino e Pietro, si nomina già il rettore, nella persona del padre veneziano Antonio Eibenstein.
L’inizio effettivo e l’apertura di fatto avvenne il 27 novembre 1946 con l’arrivo a Roma in treno, la mattina presto, del giovanissimo P. Giuseppe Panizzolo, ordinato sacerdote alla metà del 1945, poco più di un anno prima, e del fratello Luigi Gant. Incontrarono don Agostino Menegoz alla parrocchia degli Ognissanti sull’Appia, questi li condusse alla chiesa dei SS. Marcellino e Pietro, li presentò al parroco, e li introdusse nella Villa Eichberg. Questa villa, che sarà la sede della comunità, era ancora di proprietà del sig. Eichberg e del figlio minorenne, ed era in pessime condizioni: il parco inselvatichito, l’edificio della villa malmesso, abbandonato, quasi vuoto. C’erano soltanto “dodici poltrone, tre tavoli, un tavolino sconnesso e tre letti. Le Suore della Sacra Famiglia e il Parroco don Angelo Del Savio prestano tre materassi e cinque coperte, mancano la corrente elettrica e le lampadine”. Non c’era riscaldamento, in pieno inverno; il parco non era recintato; la proprietà non era ancora in mano dell’Istituto. Bisognava aver pazienza e organizzarsi piano piano; del resto, nell’immediato dopoguerra, quando per esempio si veniva a Roma anche in autobus, con viaggi lunghissimi, per mancanza di materiale rotabile delle ferrovie, e in cui poche case avevano in Italia (e in Europa in genere) un efficiente e sistematico riscaldamento d’inverno, si era abituati ad una vita ben più spartana rispetto a quella d’oggi. I due primi religiosi avevano portato oltre al poco bagaglio personale un baule di utilità domestiche.
Il 15 novembre intanto arrivò a Roma anche il rettore della nuova comunità, il P. Antonio Eibenstein, che proveniva da Porcari e portava un po’ di denaro. La comunità di Possagno inviava due bauli di circa un quintale, con materiale liturgico e vari indumenti. Il rettore occupò al primo piano la stanza all’angolo di nordovest, che poi rimase tradizionalmente la camera del rettore fino almeno agli anni Novanta.
In questa prima fase, come anche in seguito, i religiosi “pionieri” a Roma ricevettero aiuto sistematico dall’antico padre Cavanis, ora sacerdote diocesano, don Agostino Menegoz, che visitava frequentemente i padri portando mobili, alimentari e altri doni spontanei, e continuò a farlo fino alla sua morte avvenuta il 14 agosto 1952; dalle Suore della Sacra Famiglia, la cui casa si trovava praticamente di fronte all’istituto Cavanis dall’altra parte della via Casilina; dalle suore del Rosario dette Suore Rosarie, che abitavano a fianco dell’Istituto, a via Orazio Pierozzi, una via laterale della Casilina, vicino alla scuola statale Immanuel Kant; più tardi iniziò anche un buon rapporto di collaborazione reciproca con le cosiddette Suore Spagnole, o Suore dell’Amore Misericordioso, di cui si registra l’arrivo sulla Casilina e l’inizio del loro aiuto all’Istituto e viceversa. La comunità Cavanis ricevette un notevole appoggio, fin dall’inizio, da Mons. Giovanni Battista Piasentini, membro dell’Istituto e dal 18 febbraio 1946 vescovo di Anagni, antichissima e prestigiosa diocesi immediatamente soggetta alla S. Sede e non troppo lonta da Roma.
Altre persone che aiutarono molto l’Istituto nei suoi inizi (e anche in seguito) furono monsignor Lino Zanini (1909-1997), nativo di Riese (Treviso), ex-allievo dell’istituto, allora a Roma, più tardi arcivescovo e nunzio pontificio, spesso citato nel diario di Roma per il suo aiuto indefesso; Mons. Giovanni Urbani (1900-1969), veneziano, ex-allievo, che più tardi sarà patriarca di Venezia e cardinale; i padri Scolopi di Roma, e particolarmente il preposito generale pro tempore; don Ettore Cunial, ex-allievo di Possagno, ora parroco a S. Lucia alla Circonvallazione Clodia; il cardinale Giuseppe Pizzardo, prefetto della Sacra Congregazione dei Seminari, che si occupava anche dell’educazione cattolica in genere, quindi delle scuole. A visitare il card. Pizzardo, a S. Callisto, fu il Preposito generale, P. Aurelio Andreatta; fu in questa occasione che il cardinale toccò la questione riguardante i rapporti dell’Istituto con Mons. Filippin.
Gradualmente i padri, e particolarmente P. Eibenstein, poco a poco presero contatto con la S. Sede; con monsignor Guidetti, economo dei beni della S. Sede; con monsignor Baldelli della Pontificia Opera di Assistenza (POA); con il Barone Trojani, presidente dell’UNRRA; monsignor Luigi Traglia, vicegerente del Vicariato di Roma, più tardi cardinale; il Card. Adeodato Giovanni Piazza, già patriarca di Venezia; con il Principe Carlo Pacelli (1903-1970).
Furono di aiuto anche vari ex-allievi degli istituti di Venezia, di Possagno e di Porcari che si trovavano a Roma, in genere con impegni politici, particolarmente l’avv. On. Celeste Bastianetto di Venezia, l’on. Cesignano, sottosegretario alla Postbellica, padre di un ex-allievo di Porcari, Marcello.
I padri ricevettero beneficenze da molte persone; il primo fu l’avv. Benvenuti di Venezia, più tardi per lunghi anni presidente dell’Associazione Ex-allievi di Venezia.
L’istituto di Roma poco a poco si organizzò; il parco fu potato sistematicamente e coltivato, la casa fu ripulita, sbiancata, ammobiliata, in genere con acquisti di mobilio di seconda mano.
Il 21 novembre 1946 viene accolto ed entra nella casa il primo ragazzo: Franco Nicchi di Antivari (città detta più spesso Tivari, nel Montenegro), orfano, presentato da don Agostino Menegoz come possibile aspirante. Viene ricevuto gratuitamente. Una nuova semenza!
Il problema più urgente della nuova comunità Cavanis romana era quello di risolvere la questione della proprietà della casa e del parco. Sebbene per ora non se ne trovi traccia nei documenti, sembra che la congregazione avesse deciso di aprire la nuova casa romana dietro assicurazione che la S. Sede avrebbe comprato l’immobile e lo avrebbe dato in proprietà o in uso e usufrutto all’istituto. Tuttavia, al momento di occupare e aprire la casa, il passaggio di proprietà non era ancora stato eseguito e il contratto non era ancora stato stipulato. P. Eibenstein occupò molta parte del suo tempo in questa pratica, appoggiandosi sull’aiuto dei conoscenti e amici citati sopra, e consultando con frequenza monsignor Guidetti., economo del beni della S. Sede. Scopre ben presto che “la pratica è arenata mancando da parte dell’Ing. Eichberg la consegna dei documenti di proprietà”. Della situazione di questi documenti e della storia precedente dell’immobile si parla lungamente nel DR alla data del 23 novembre 1946, e se ne parlerà ancora per un mese circa. La stessa fonte dà l’area dell’immobile proprietà: “Ettari 3, are 31 e cent. 10”.
Una complicazione grave fu quella sorta dal fatto che buona parte del terreno era stata data in affittanza a un agricoltore, certo Umberto Grossi, che non voleva uscire dal terreno che coltivava a orto, salvo il pagamento di una somma esorbitante, di £ 750.000. Aveva anche subaffittato una parte del terreno a un colono di nome Reale. La cosa non era stata assolutamente prevista né dai padri né dall’Eichberg. Questi dichiarò che “Grossi non ha diritti e per contratto, automaticamente con la vendita cessa ogni sua ingerenza nella proprietà”. In realtà il contratto prevedeva un rimborso di £ 25.000, senza specificare se questa somma comprendeva anche il valore della piantagione in atto. Dopo molte trattative e intermediazioni si arrivò a pagare £ 600.000, con l’abbondante aiuto economico della S. Sede, e anche tramite un’offerta personale di Pio XII, di £ 50.000. Il pagamento completo fu concluso, con molta difficoltà da parte dell’istituto, solo il 21 maggio 1947.
Una prima tranche di quattro milioni di lire viene versata all’Eichberg il 7 dicembre da monsignor Guidetti, alla presenza di tutti gli interessati e degli avvocati. Si scopre intanto che don Agostino Menegoz, nelle trattative preliminari con l’ing. Eichberg, tenute di sua iniziativa assieme a don Ettore Cunial, di cui si è parlato sopra, aveva parlato soltanto di 10 milioni di lire sia ai padri sia al suo corrispondente in sena allo S. Sede, per timore che questa non volesse accettare una spesa più alta; ora la spesa in realtà era di 11 milioni e mezzo. La congregazione non aveva la possibilità di pagare questa somma, e ci fu una pratica aggiuntiva per ottenere che la santa Sede pagasse anche questa, come di fatto fece benevolmente.
Un’altra spesa imprevista fu il pagamento degli onorari dell’avvocato (degli Eichberg) Lo Scalzo, che si era occupato, con notevole lentezza, della consegna dei documenti da parte Eichberg, in preparazione della firma del rogito. Questi chiedeva nientemeno che £ 250.000. Molto interessante il dialogo tra quest’esoso avvocato e P. Eibenstein, che questi registra nel diario alla fine della lunga relazione del 20 dicembre 1946.
Il giorno seguente ha luogo un incontro tra l’ing. Eichberg e P. Eibenstein, nella residenza del primo. “Il P. Eibenstein aveva assicurato il sig. Eichberg che 1) L’istituzione avrebbe il nome dei defunti [Ettore] Castelli e Ettore Eichberg; 2) i suffragi accennati sono contemplati nelle Costituzioni dell’Istituto e per fondatori si intendono il sig. Ettore Castelli e i due Eichberg padre e figlio defunto; 3) per un decennio dalla morte questi due avranno una messa mensile; 4) Il sig. Livio Eichberg è ritenuto benefattore insigne.- Di ciò, quest’ultimo si dichiara soddisfatto.”.
L’ing. Eichberg era stato nominato “benefattore insigne” (per la verità, a questo punto era direttamente benefattore della santa Sede, se lo era davvero, e solo indirettamente della congregazione), perché sosteneva di dare gratuitamente, ossia donare, la sua parte del 50% della proprietà; il pagamento di 11 milioni e mezzo di lire corrispondeva invece alla parte intestata al figlio minorenne dell’ingegnere.
Raccolti tutti i documenti necessari, si giunge finalmente alla conclusione: “Alle ore 20 è finalmente firmato il laboriosissimo contratto; è il sabato, precedente la Natività di Nostro Signore. La sera alla novena di Comunità si recita il Te Deum”. La firma era avvenuta nella casa del dott. Urbani, alla presenza di varie persone, tra cui spiccava quella del Principe Carlo Pacelli. Ora l’immobile apparteneva alla santa Sede, che per ora la lasciava in uso all’Istituto; più avanti si sarebbe trattato di passare all’Istituto anche la proprietà. Dai carteggi non risulta tuttavia che la S. Sede si impegnasse a donare l’immobile ai Cavanis, forse si trattava di manifestazioni orali di speranza o di buona volontà generica. Di altri dettagli, ulteriori codicilli e altre faccende si parla anche nei giorni seguenti nel diario della casa di Roma. Il Grossi riceverà finalmente il pagamento della “taglia” da lui richiesta, con denaro (£ 300.000) portate a Roma a mano dal P. Preposito in occasione di una delle sue frequenti visite. La proprietà rimarrà tuttavia completamente libera da servitù soltanto il 1° giugno 1947.
Il 2 gennaio 1947 arriva a Roma e entra in comunità il seminarista Giuseppe Cortellezzi, di II liceo, che aveva interrotto gli studi per motivi di salute e venne inviato in appoggio a quella comunità. Con il suo senso pratico e la sua buona volontà che lo distinguerà per tutta la vita, la sua presenza fu molto utile ai confratelli. Tra l’altro faceva scuola a due convittori. Lo stesso ebbe un’avventura sgradevole. La comunità aveva comprato un fucile (!) da caccia, per difendersi, magari sparando in aria, dai ladruncoli che venivano regolarmente a rubare ortaggi, abiti stesi ad asciugare, o più tardi anche le galline (tutte, “20 capi” il 1° maggio 1948). Il giovane Cortelezzi, il 15 giugno 1947, “…scacciatili inutilmente tre volte, esplodeva un colpo di fucile contro un gruppo di monelli che asportavano frutta dagli alberi colpendo a pallini tale Moneschi novenne, abitante a Torpignattara 141. Dopo circa un’ora la questura richiedeva il responsabile delle ferite, avendo il medicante previsto guarigione dopo 20 giorni. Il V. Commissario Marino voleva trattenere per la notte il Cortelezzi: l’opera dell’avvocato Giuliani e del P. Eibenstein lo dissuase. La sera stessa questi due visitavano il colpito riscontrando lesioni leggere alle gambe. La mattina seguente il Commissario prendeva atto dell’accaduto trasmettendo i verbali al centro. Si spera che tutto sarà finito con una cenetta ai capi della questura”. Cortelezzi ritornerà poi a Venezia, per riprendere gli studi nel seminario della casa-madre il 24 settembre 1947.
Intanto si provvedeva a organizzare l’attività educativa e la scuola, dopo aver in qualche modo iniziato a regolarizzare e organizzare la presenza dei religiosi nell’immobile di Via Casilina 600, a mettere la casa e gli annessi in condizione di essere abitati, e a entrare in contatto con le autorità e con l’ambiente.
Una trattazione speciale merita la lunga pratica (1947-1961) che fu necessaria per ottenere che la ex-Villa Castelli-Eichberg, data dalla S. Sede in uso ai padri Cavanis nel 1947, passasse in proprietà dell’Istituto (il che accadde solo nel 1961); anche al fine di continuare in modo più completo l’opera pastorale, poter ampliare l’edificio principale e poi poter costruire altri edifici e istallazioni. I passi successivi furono i seguenti:
5.6.1 “Illustrazione del Progetto “Renosto” dell’erigendo Istituto Cavanis Pio XII a Roma
Considera uno sviluppo massimo che utilizzi tutto il terreno a Sud del parco già Castelli a scopo di fabbricato e scoperti in vista di:
Ma può essere attuato parzialmente o gradualmente: in cinque complessi distinti:
SCUOLE~DOPOSCUOLA-CHIESA-PALESTRA-TEATRO.
AE /1 L’ingresso ha luogo dalla parte dell’interrotto Viale dell’Acquedotto Alessandrino: si evita così l’accesso dalla Via Casilina rumorosa e pericolosissima a causa dell’intenso traffico.
AE /2 Lo scantinato comprende tutti i servizi, i Refettori, i depositi. Attraverso uno scalone comunica con le Aule e col Primo cortile; per altra scala si accede alla Sala di Studio e alle celle dei Religiosi,
AE /3 Nel piano rialzato trovano posto 10 Aule il cui orientamento è studiato in conformità ai più moderni accorgimenti che suggeriscono la luce proveniente da Sud-Est. Ciò consente inoltre una disposizione più regolare per i Cortili e lo Stadio che i limiti della proprietà e la conformazione del terreno portano pure così orientati; e dispensa dall’impianto di Riscaldamento perchè viene utilizzato tutto il calore solare nelle ore scolastiche. Ingressi separati portano, occorrendo, al Teatro e alla Chiesa. L’Atrio e la Galleria si prestano per le Ricreazioni nelle giornate inclementi mentre il primo può venire considerato in caso di necessità come un prolungamento della chiesa di cui la porta può farsi scorrere entro i muri laterali.
AS /4 Gli altri due piani comprendono la medesima distribuzione di Aule alternate coi necessari servizi igienici,
AS /5 lo Studio dei Semi-convittori, le Biblioteche e le stanze dei Religiosi;
AS /6 segue al terzo piano un complesso di Stanze capaci di un centinaio di studenti Universitari.
In un primo tempo può venire attuato il complesso SCUOLE il cui preventivo spesa può calcolarsi oggi sugli 80 milioni. Si fa presente che, non occorrendo per qualche anno l’uso di tutte le Aule nè delle stanze del Pensionato, una parte può essere adibita ad ospitare gruppi di Pellegrini nel prossimo Anno Santo, mentre i relativi servizi di cucine ecc., possono facilmente adattarsi nello scantinato.”
“Segreteria di Stato
Di Sua Santità
N° 137930
Dal Vaticano, lì 24 Marzo 1948
Rev. mo Padre,
È stata qui oggetto di accurato studio la proposta da Lei fatta in data 23 Novembre 1947, della costruzione, per conto della Santa Sede, di un vasto complesso di edifici destinati all’istruzione e all’educazione dei fanciulli nella zona di Torpignattara, sull’area di terreno acquistata nel I946 dalla Santa Sede stessa e affidata alla Congregazione dei Sacerdoti delle Scuole di Carità (Istituto Cavanis).
Data la mole della costruzione che in questo momento importerebbe la spesa di una somma assai rilevante e attesa l’esiguità delle risorse di cui ora dispone la Santa Sede, a cui da ogni parte si ricorre per aiuto, non si vede, purtroppo, come poter venire incontro al desiderio da Lei manifestato.
Dolente io stesso di non essere in grado di darLe altra risposta, profitto dell’occasione per confermarmi con sentimenti ecc.
Mons. Giovanni Battista Montini
Rev.mo Padre
Rettore dell’Istituto Cavanis
Via Casilina 600 – Roma”
Roma, 29 maggio 1954
Via Casilina, 600
– tel.791-050
“CONGREGAZIONE DEI SACERDOTI DELLE SCUOLE DI CARITÀ– ISTITUTO CAVANIS
Eccellenza Reverendissima,
le condizioni della gioventù di Torpignattara, dove lavoriamo da sette anni in una proprietà della Santa Sede, mi hanno spinto a presentare al Santo Padre una supplica di cui allego copia. Non so, Eccellenza, se sono troppo ardito e se il passo è fuori posto.
Comunque sento di avere una giustificazione nel fatto che la supplica è ispirata solo dal desiderio che l’Istituto, dopo una prima esperienza di alcuni anni, si consolidi definitivamente a vantaggio di tanti giovani che mancano di una solida formazione cristiana.
L’Eccellenza Vostra nella Sua illuminata prudenza e nel Suo fervido zelo per la salvezza della gioventù veda quello che è più opportuno di fare.
Da parte mia le esprimo anticipatamente la più sincera gratitudine per la benevolenza con la quale l’Eccellenza Vostra vorrà umiliare al Santo Padre la nostra istanza. Approfitto volentieri dell’occasione per confermarmi con i sensi del più religioso ossequio
di Vostra Eccellenza Reverendissima
umilissimo obbligatissimo servitore
(P. Aurelio Andreatta)
Procuratore Generale dell’Istituto Cavanis.
A Sua Eccellenza Illustrissima e Reverendissima
Monsignor Giovanni Battista Montini”
Beatissimo Padre,
riconoscente alla Santità Vostra per la fiducia paterna dimostrata al nostro Istituto nell’offrirgli sette anni orsono la possibilità di esplicare con una scuola gratuita la sua missione educativa tra la gioventù di Torpignattara, mentre sono lieto di portare a conoscenza della stessa Santità Vostra i risultati finora conseguiti, debbo umilmente render noto che l’Istituto si trova ad una svolta molto importante per il suo sviluppo futuro in ordine alle necessità sempre crescenti della zona.
Per questo ho ritenuto opportuno esporre la situazione nei suoi termini di sviluppo e di esigenze e presentare alla considerazione di Vostra Santità un piano, la cui attuazione potrebbe assicurare all’Istituto i locali indispensabili ad imprimere al suo apostolato educativo quel ritmo più efficiente, di cui per tanti segni si avverte a Torpignattara l’urgente bisogno.
Grato fin d’ora alla Santità Vostra della, paterna accoglienza che vorrà riservare a quest’umile istanza, mi prostro al bacio del Santo Piede e mi protesto
di Vostra Santità
umilissimo, obbedientissimo figlio
(P. Aurelio Andreatta)
Procuratore Generale dell’Istituto Cavanis”
La lettera al Papa è particolarmente interessante per il suo contenuto, e merita di essere riprodotto integralmente:
“Beatissimo Padre,
Lo scritto, che mi permetto inviare alla Santità Vostra, fa seguito alla nostra domanda del 29 maggio 1954 riguardante 1’immobile di Torpignattara e ne spiega meglio il contenuto.
IMPEGNI ASSUNTI.
Nella supplica del 16 luglio 1946 i Padri Cavanis chiedevano l’uso dell’immobile anzidetto allo scopo di ” iniziare l’apostolato alla periferia di Roma “. L’area – si diceva nella supplica stessa – se s’intende svilupparvi gradualmente un Istituto moderno che abbia l’oratorio per i ragazzi, l’edificio scolastico con palestra, la sala per conferenze e cinematografo, cortile, campi da gioco e piscina natatoria può bastare allo scopo.
COSA SI È FATTO.
Il primo compito dei Padri, avuta in consegna la proprietà, è stato quello di aprire gradualmente una scuola media dandole un’impostazione di serietà negli studi e nell’indirizzo educativo.
Iniziata con la Prima classe nel 1947-48, essa veniva parificata con unica ispezione nell’anno 1952-53.
La scuola impose subito un problema edilizio. La casa esistente (villa padronale per soggiorno estivo) era inadatta e insufficiente.
Un progetto di edificio scolastico non si poté eseguire, perché l’Istituto si trovò di fronte al piano regolatore che interessa la villa e la zona circostante.
Si ingrandì allora la casa, ricavandone in modo abbastanza decoroso gli ambienti per una scuola media.
Le opere struttive nuove, l’adattamento dei locali preesistenti, la sistemazione degli scoli con fossa chimica, la revisione completa dell’impianto idrico della casa e d’irrigazione del parco e dell’orto importarono una spesa di circa dieci milioni.
Altre opere realizzate:
Nell’anno scolastico corrente rimangono solo due Insegnanti esterni; gli altri sono Religiosi nostri.
Le spese sopra indicate sono state sostenute dall’Istituto; solo per il muro del campo sportivo ha dato un largo contributo il C.S.I.
MOVIMENTO DI ALUNNI.
Nella supplica del 29 maggio 1954 è stata data una statistica di circa 700 tra alunni, ex-allievi, giovani sportivi che fanno capo all’Istituto.
I due centri di attrazione sono:
Essa non può accogliere che un limitato numero di alunni essendo quattro le classi: quinta elementare – Prima, Seconda, Terza media. Non c’è spazio per altre classi.
È da notare che le domande di iscrizione sono un penoso assillo quotidiano. In data 26 marzo si è dovuto affiggere all’Albo l’avviso in cui si dichiara l’impossibilità di nuove accettazioni per l’anno scolastico prossimo.
Nel quartiere di Torpignattara, che ha più di centomila abitanti, non esiste una scuola elementare e media tenuta da ecclesiastici.
È approvata da parte dell’Autorità pubblica la costruzione di una scuola media statale, che sarà un prolungamento dell’edificio in cui funzionano oggi la scuola elementare Ciro Menotti e quella secondaria di Avviamento Professionale Francesco Baracca. La costruzione sarà fatta accanto a noi sul terreno stesso della Santa Sede, di cui è già stata notificato l’esproprio.
Esso dovrà sparire quando sarà aperto nel terreno della villa il viale previsto dal Piano regolatore.
Per il momento il campo costituisce un richiamo e un allettamento di singolare efficacia. Sono parecchie le centinaia di giovani che vi si alternano per tornei calcistici.
Dal campo sportivo, essi sono condotti ogni domenica alla Messa e ad una breve istruzione religiosa.
La Messa, col permesso dell’Autorità Ecclesiastica, si celebra o all’aperto o in un’aula accomodata volta per volta a Cappella, perché siamo senza oratorio ed è mancato finora un posto sicuro per costruirlo date le incertezze e gli ostacoli del Piano Regolatore.
LA GRATUITÀ DELLA SCUOLA.
Essa è stabilita nelle Regole della nostra Congregazione ed è osservata in tutte le nostre Case. A maggior chiarimento esponiamo qui come si comporta a questo riguardo l’Istituto di Torpignattara:
Essa è facoltativa e la famiglia dell’alunno che ne usufruisce versa £. 1.000 al mese, come contributo alle spese vive inerenti alla assistenza stessa e così computate:
A coloro che non sono in grado di versare alcuna quota si dà la assistenza pienamente gratuita.
E qui a proposito della gratuità ci sembra opportuno trascrivere quello che fu dichiarato in una nota presentata all’Eminentissimo Cardinale Vicario il 15 dicembre 1953:
“L’Istituto Cavanis fa la scuola gratuita. Se esso rinunciasse a questa sua regola fondamentale e differenziale non risolverebbe per suo conto la questione economica e caritativamente e socialmente farebbe un passo indietro non onorevole per la Chiesa.
Non è superflua oggi la gratuità, nonostante la elevazione economica delle classi povere.
Lo possiamo documentare con un esempio recentissimo. Quest’anno (1952-53) dalla nostra scuola media sono usciti 17 ragazzi con la Licenza.
Di questi uno frequenta il San Giuseppe in Piazza di Spagna, un altro l’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane di Centocelle, un terzo il Ginnasio di Maria Ausiliatrice in via Tuscolana.
Gli altri, non potendo pagare le tasse scolastiche richieste da scuole tenute da Ecclesiastici e religiosi, han dovuto ripiegare con rincrescimento delle famiglie verso la scuola statale. Tra questi v’erano ragazzi iscritti all’A.C., ben formati e di promettente intelligenza”.
L’ESTENSIONE DEL TERRENO, GLI ESPROPRI, I VINCOLI CIVICI.
Il terreno oggi è inferiore agli ettari tre, dopo il taglio operato sulla fronte della via Casilina per l’allargamento della strada consolare.
Il Piano regolatore però lo sottopone a tagli di una certa entità e lo spezza in due settori con un viale di m. 40.
In origine il viale in parola era previsto di m. 60; ci siamo adoperati per ottenerne la riduzione fino a m. 20; non si potè conseguire una misura inferiore ai m. 40.
Per maggiore chiarezza uniamo una cartina con l’indicazione degli espropri che verranno eseguiti in un prossimo futuro.
Resteranno tre appezzamenti separati tra loro, di diversa misura: il primo fabbricabile a villini (due al massimo); il secondo fabbricabile a palazzine (semi interrato – tre piani – attico); il terzo in due parti contigue, delle quali la prima è a parco vincolato, non usufruibile per costruzioni se non per un ventesimo della superficie – ventesimo già occupato dalla villa esistente – la seconda fabbricabile per sé a villini, ma trattandosi di un Istituto scolastico si ammette la costruzione a palazzine.
Un Istituto scolastico moderno a nostro avviso non riuscirà ad articolarsi a sufficienza senza disporre almeno degli appezzamenti secondo e terzo; contando solamente sul terzo rimarrà senza area per campo sportivo ed altre attività ricreative.
Oggi i campi sportivi sono complementari delle aule scolastiche e della chiesa.
I MEZZI PER COSTRUIRE.
Da parte della Congregazione nostra si preferirebbe, per evidenti ragioni morali e pratiche, che l’immobile restasse proprietà della Santa Sede.
Abbiamo chiesto la donazione soltanto per esser messi nella condizione di iniziare lo sviluppo edilizio dell’Opera.
Senza la proprietà del fondo l’Istituto non può ottenere il mutuo necessario da nessuna banca o società edile.
L’estinzione graduale del mutuo si effettuerebbe a scadenza comoda con quote annuali comprensive dell’ammortamento del capitale e degli interessi coi mezzi seguenti:
Mi sembra opportuno un ultimo rilievo. Qualsiasi ente finanziatore usa garantirsi con larga sicurezza nei confronti del mutuatario.
Orbene nell’immobile di Torpignattara la zona destinata a parco, essendo improduttiva, non ha gran valore commerciale, e dalle due aree fabbricabili è esclusa la costruzione intensiva e ciò ne diminuisce il prezzo.
Quindi un mutuo di una certa entità, quale si richiede nel caso nostro, non potrà essere concesso che unitamente sui due settori della proprietà che resteranno divisi dal viale già ricordato.
Ecco quanto con filiale rispetto oso sottoporre alla considerazione della Santità Vostra, confidando che queste brevi note servano a chiarire sempre meglio la reale situazione del nostro Istituto a Torpignattara.
Prostrato al bacio del Santo Piede sono lieto di protestarmi della Santità Vostra umilissimo, obedientissimo figlio
Padre Aurelio Andreatta
Procuratore Generale”
AMMINISTRAZIONE DEI BENI
DELLA SANTA SEDE
Vaticano, li 28 Sett.1955
N° 136572
Rev.mo
P. AURELIO ANDREATTA
Procuratore Generale dell’Istituto Cavanis
Viale di Porta Ardeatina, 108.
ROMA
Rev.mo Padre,
Ritornato in Ufficio, dopo le ferie, ho saputo che il Rev.mo P. Tomasi, Preposito Generale di codesto Istituto, è stato qui in Amministrazione per sollecitare la pratica della cessione, a favore dell’Istituto Cavanis, dell’area della Villa ex Eichberg. Affinché la S.V. possa esserne edotto e mettere al corrente il Rev.mo P. Preposito Generale, mi permetto esporre brevemente lo stato della pratica.
Quest’Amministrazione ha ricevuto, tramite la Segreteria di Stato, le richieste avanzate da codesto Istituto e si è fatta un dovere di sottoporle all’esame della Commissione Cardinalizia, la quale ripetutamente ha espresso il suo parere in proposito.
La situazione attuale è la seguente. La Commissione Cardinalizia, considerato che la Villa ex-Eichberg sarà frazionata in più parti, ha espresso il parere che il 1otto principale che ne risulterà, circa 12.000 mq., sia assegnato all’Istituto Cavanis per l’attuazione delle opere progettate fin dal 1946.
L’ulteriore richiesta di mq. 3.000 per un campo sportivo non è sembrata opportuna, data l’insufficienza dello spazio, l’immediata vicinanza delle abitazioni civili, e la separazione del lotto principale. Inoltre, la porzione d’area richiesta è stata già assegnata ad un Istituto, che svolge la sua benefica attività nella zona.
Queste deliberazione della Commissione Cardinalizia, Superiormente approvate, sono state portate a conoscenza della Segreteria di Stato.
Questo è quanto si ritiene opportuno comunicare alla S.V. Rev.ma per Sua opportuna norma.
Profitto volentieri dell’occasione per ossequiarla distintamente e professarmi
della P.V. Rev. ma
(firmato Mons. Guerri)
“Beatissimo Padre,
Il Preposito dell’Istituto Cavanis, P. Gioachino Tomasi, all’udienza privata benevolmente concessagli il 14 Febbraio I959, domandò che fosse chiarita e definita la questione dell’Istituto stesso in Via Casilina; in particolare pregò fosse concesso integralmente il terreno, ceduto a prezzo di favore dal Co. Eichberg il 21 Dicembre 1946, perché i Padri Cavanis (e non altri) svolgessero un’opera a favore della gioventù, accordandosi con loro per alcune formalità (oneri perpetui di SS. Messe, lapide-ricordo ecc.). La compera per i Padri, che non ne avevano i mezzi, fu fatta dalla S. Sede su proposta fatta direttamente al Papa Pio XÌI da benefattori (Sua Ecc. Mons. Piasentini, Sua Ecc. Mons. Zanini, Sua Ecc. Mons. [Ettore] Cunial ed altri). Per un decennio i Padri hanno fatto sforzi immensi per ampliare la villa e renderla adatta ad una Scuola Media parificata, con classe preparatoria, e svolgendo varie attività sportive, ma i bisogni di Torpignattara sono ben maggiori, incalcolabili: occorre adeguare l’opera a queste necessità.
In data 14 Marzo 1959, il Card. Tardini rispondeva, riportando il parere e le decisioni dell’Amministrazione dei Beni della S. Sede, che riconfermavano i criteri e le decisioni precedenti, lasciando l’Istituto nelle medesime difficoltà. Per il bene di tante anime si rende ora necessario decidere in merito: occorrerebbe un intervento diretto e un aiuto della Santità Vostra per sciogliere la questione.
Prostrato al bacio del Sacro Piede, mi professo della Santità Vostra
Um.mo e dev.mo figlio
P. Luigi Candiago dell’Istituto Cavanis
Roma 19 Agosto 1959
“Venezia, 22 maggio I960Egr. Sig. Geom. GINO PELLICIARI
Via Angelo Berardi, 26
ROMA
e p.c. al M.R.P. Luigi Candiago
Istituto Tata Giovanni
ROMA
Egregio Geometra,
il rev.mo P.Preposito Generale, P. Tomasi, mi incarica di trasmetterle nota dei documenti relativi alla Accettazione della Donazione che la S.Sede ha disposto a favore dell‘Istituto Cavanis, in Via Casilina.
Questi documenti, che dovranno essere regolarmente autenticati a norma di legge, uniti al nulla osta della Congregazione dei Religiosi che chiederemo noi, saranno presentati alla Prefettura di Venezia, la quale ci darà l’autorizzazione a procedere alla Accettazione. La pratica verrà quindi conclusa a Venezia.
Con distinti ossequi.
P. Narciso Bastianon
In sostanza, l’atto dice:
A pag. 3, nella parte I dell’atto: “La Santa Sede per mezzo dell’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignore Sergio Guerri, dona allo scopo di cui appresso, alla Congregazione delle Scuole di Carità sotto il titolo di Istituto Cavanis il complesso immobiliare appresso descritto sito in Roma sulla Via Casilina, facente parte della ex-villa Eichberg e precisamente: l’area con soprastanti fabbricati, dei quali due urbani ed uno rurale di minime dimensioni, “Il terreno è inferiore a ettari 3 dopo il taglio operato sulla fronte della Via Casilina per l’allargamento della strada consolare”.e confinante con zona espropriata dal Comune di Roma per l’ampliamento della Via Casilina, restante proprietà della Santa Sede e terreno pure del Comune di Roma salvi ecc.”
E, a pag. 6, nella parte II dell’atto:
“Il complesso immobiliare in oggetto, viene donato affinchè dall’Ente donatario in attuazione dei suoi stessi fini istituzionali, venga destinato ad opere educative della gioventù.-
La destinazione degli immobili al fine di cui sopra costituisce però condizione della donazione, cosicchè la loro destinazione a scopi diversi, il cambiamento del fine dell’Ente o la sua cessazione o soppressione daranno luogo alla risoluzione della donazione stessa con il conseguente ritorno degli immobili in oggetto con tutte le loro accessioni in proprietà della Santa Sede, liberi da qualsiasi onere che nel frattempo potesse esservi stato imposto.”
Si tratta dunque di donazione condizionata e reversibile.
La cartella “ISTITUTO ‘CAVANIS’ Stima dell’immobile sito in Roma, Via Casilina n°600” contiene poi i seguenti documenti:
Eccone il testo completo qui trascritto:
==== CONTRATTO DI LOCAZIONE ====
Si costituiscono i Signori:
1°) Gino Eichberg, tanto nel nome e nell’interesse proprio quanto in rappresentanza del minorenne suo figlio Mario;
2°) Istituto Cavanis di Venezia in persona del Padre Andreatta Aurelio, dom.to in Venezia presso l’Istituto stesso.
I nominati signori Eichberg hanno una proprietà comune indivisa della “Villa Castelli a Torpignattara”, costituita da beni urbani, terreni a coltivazione, aree destinate a scopo voluttuario, parco con alberi ornamentali, vasche ecc.
Avendo il Padre Andreatta Aurelio, per il suo Istituto sudetto richiesto al sig. Gino Eichberg di locargli i beni urbani compresi nell’anzidetto complesso immobiliare, ed avendo il sig. Eichberg annuito alla richiesta si addiviene al seguente contratto di locazione.
Dall’oggetto di questa sono esclusi tutti i terreni destinati all’agricoltura, alla frutticoltura e alla fioricoltura;- epperò si loca:
a) Il villino signorile;
b) il garage e l’abitazione soprastante;
c) il fabbricato rustico sito nel terreno ortivo retrostante al fabbricato signorile;
d) il parco delle piante ornamentali;
e) l’area destinata al giuoco delle bocce ed al tennis;
f) le vasche;
g) le accezioni e le pertinenze di ciascuna delle cose suindicate;
2. la locazione avrà la durata di un triennio, che decorrerà dal giorno in cui la villa verrà derequisita e liberata dai militari francesi e scadrà nel corrispondente giorno e mese dell’anno 1948.
3. la pigione è stata pattuita in ottomila lire mensili. Essa è già stata interamente pagata per tutto il primo anno, che decorrerà come sopra si è detto; poi per ciascun mese successivo allo scadere del primo anno e fino al termine della locazione, verrà pagata anticipatamente al sig. Gino Eichberg nel domicilio di costui.
4°) la consegna di ciascuna delle su annunciate cose oggetto della locazione verrà fatto, entro venti giorni dalla derequisizione, ad opera dei signori ing. Alberto Arduini fu Paolo, fiduciario del sig. Eichberg, ed il relativo verbale che costui formerà, verrà sottoscritto anche dal conduttore per tutte le conseguenze di legge.
5°) La manutenzione, sia ordinaria che straordinaria degli immobili locati e di ogni loro accessorio farà carico al conduttore, il quale ne userà e li conserverà con la diligenza massima dell’ottimo padre di famiglia.
6°) Allo scadere della locazione tutto ciò che forma oggetto di questa sarà restituita al sig. Eichberg senza bisogno di preventiva disdetta e licenza.
7°) il conduttore ha versato al sig. Eichberg lire 25.000 (venticinque mila) a titolo di deposito infruttifero per cautela della esatta osservanza delle obbligazioni imposte al conduttore sia da questa convenzione e sia dalla legge.
8°) Faranno carico esclusivo al conduttore medesimo tutti gli onorarii e le spese per lo studio, la compilazione, le registrazione ecc. di questo atto.
Roma, 24 settembre 1945
Fir.ti
Per il padre Andreatta Aurelio
Padre Agostino Menegoz
Eichberg Gino
Reg.to a Roma il 25.9.945
N° 14077 vol. 2204 Mod. II
Esatte D 1.738
Prosegue ora, dopo la riproduzione, integrale o riassunta, di questa lunga serie di documenti sulla serie di pratiche relative all’assegnazione del terreno e dell’edificio della ex-Villa Eichberg all’Istituto Cavanis, la narrazione degli eventi relativi alla vita della casa di Roma.
Dopo la prima sistemazione della comunità, il contatto con le autorità, con la parrocchia e con il popolo del quartiere, e dopo l’avvio delle pratiche per l’acquisto della proprietà, si trattava di dare inizio alle attività educative.
Si è parlato sopra del primo ragazzo accolto dalla nostra comunità romana esordiente, tale Franco Nicchi di Antivari, albanese, orfano, accolto gratuitamente a titolo di carità. Nei giorni 7 e 8 gennaio 1947 si aprono le iscrizioni al “corso preparatorio”, ma con poca soddisfazione, perché gli iscritti sono soltanto sette. Il corso tuttavia comincia il 15 gennaio. In questa data nel diario di Roma si trova la lista dei nomi dei primi alunni. Mancano ancora i banchi di scuola, e il corso si tiene, il pomeriggio attorno alla tavola da pranzo della piccola comunità. Una quindicina di banchi verranno ricevuti a prezzo ragionevole dal seminario romano. Si danno lezioni anche a dei giovani analfabeti abitanti nella zona dell’acquedotto Alessandrino. Ci sono anche due convittori. I padri insegnano anche religione nella scuola elementale comunale quasi adiacenti all’Istituto, e collaborano con la parrocchia nelle confessioni. La situazione economica della comunità è molto debole, e si mantiene con qualche somma inviata da Venezia, ma non mancano le offerte di amici ed ex-allievi di passaggio, come Giuseppe Pagnacco, che più tardi entrerà in Istituto, Celeste Bastianetto, ex-allievo di Venezia, monsignor Piasentini. Anche P. Menegoz continua ad aiutare la nuova comunità, e ne viene invitato prima a venire a pranzo in via Casilina tutte le domeniche, poi a rientrare in comunità, se lo volesse, col permesso del preposito. Qualche problema ancora con l’ex-proprietario della villa, che viene a ritirare i mobili lasciati, che i padri intendevano compresi nel contratto di acquisto dell’immobile, come pure con gli affittuari del terreno agricolo. A metà giugno si tiene nella villa una riunione formale di ex-allievi di Venezia e Possagno residenti a Roma, tra cui vari politici: Giovanni Ponti, Luigi Benvenuti, Celeste Bastianetto, Luciano Zanchetta; preti, tra cui don Agostino Menegoz, don Ettore Cunial e don Antonio Cunial, monsignori di curia. Si prepara un programma, si eleggono i quadri delle associazioni, si invia un telegramma formale al Papa Pio XII. Con gli ex-allievi si manterrà il contatto periodico per qualche tempo, ma poi naturalmente il contatto andrà affievolendosi, e rimarrà in pratico soltanto con i monsignori Cunial e Zanini. In giugno l’ex-allievo di Venezia Renato Renosto visita l’Istituto per conoscere il luogo e riparare un progetto edilizio per il nuovo immobile, che però non sarà mai costruito per mancanza di fondi.
Durante quasi tutto il mese di luglio si svolge quasi quotidianamente nel parco dell’istituto una colonia di vacanze della Pontificia Opera Assistenza-POA per i bambini e ragazzi del quartiere, in tutto 340 nel mese di luglio, di cui duecento maschi e e 140 femmine; se ne occupa personalmente come direttore della colonia, P. Giuseppe Panizzolo. Altri due turni di colonia si tengono rispettivamente nei mesi di agosto e settembre. Analoga colonia in vari turni si terrà anche nell’anno successivo, sotto la direzione di P. Giuseppe Da Lio.
Il 23 settembre 1947 si cominciano a ricevere le iscrizioni per la 1ª media, e la si comincia il 15 ottobre con 27 allievi. Si può dire che con questo inizio di una prima classe si chiude la fase di installazione dell’Istituto a Roma, che poi continuerà con il ritmo normale di una casa religiosa Cavanis, con la sua scuola e le altre attività educative, con disponibilità anche a colonie estive, ritiri per giovani dell’Azione Cattolica e per gli scout della parrocchia, collaborazione con la parrocchia dei SS. Marcellino e Pietro e con gli istituti locali di suore, specie quelle della S. Famiglia e delle Rosarie, cui si aggiungono più tardi le suore dell’Amore Misericordioso, dette suore Spagnole.
La casa di Roma diviene una base di permanenza periodica a Roma di monsignor Piasentini, vescovo della non lontana Anagni, del segretario Cavanis del vescovo, di don Giovanni Andreatta, ospite frequente, di alcuni ex-allievi che hanno motivo di venire a Roma, e anche di padri che vengono per pellegrinaggio o per altri motivi vari. Ci sono in casa 10 semiconvittori in data 4 marzo 1948, che aiutano la povera comunità con le loro rette, e qualche convittore. Tra i nomi dei ragazzini che frequentano la scuola media Cavanis, nel diario di Roma, si trovano con simpatia nomi che saranno familiari e amici anche molto più tardi, come, per fare un solo esempio, quello di Umberto Temperini, più tardi medico della comunità.
La comunità di Roma comincia anche, informalmente per ora, ad eseguire compiti di relazioni pubbliche della congregazione, in attesa che ci sia un procuratore generale residente a Roma, come quando il P. Eibenstein va a visitare e a ossequiare il vescovo di Guaxupé, di Minas Gerais, Brasile, evidentemente per incarico del preposito. Si mantengono anche contatti cordiali e frequenti con i padri Scolopi della casa generale a S. Pantaleo.
L’anno scolastico 1947-48 inizia con 34 alunni in 1ª media e solo 17 in 2ª; la comunità è così povera, che non ha banchi scolastici per tutti, e la seconda si frequenta al pomeriggio. I banchi saranno donati poi dal collegio di Possagno, che invierà un falegname “possagnotto” per costruirli in situ.
La casa di Roma, con sette religiosi professi perpetui (cinque padri e due fratelli) venne dichiarata “casa formata”, a norma del cn. 48 §3, nella riunione del consiglio definitoriale del 7-8 agosto 1952. Nel frattempo, la primitiva comunità fondatrice risulta poco a poco completamente cambiata; tra l’altro al posto del P. Eibenstein, dal luglio 1949 il nuovo rettore è P. Aurelio Andreatta, che poi nel 1953 passa al Tata Giovanni; dall’ottobre 1953 lo sostituisce il P. Angelo Guariento; lo affiancano tra l’altro P. Giosuè Gazzola e P. Arcangelo Vendrame. Per la costituzione della comunità romana, del resto, si può consultare la tabella annuale della casa, come per le altre case dell’istituto. Nel 1953 gli allievi delle tre medie sono un centinaio; c’è inoltre sempre il gruppo di giovani di Torpignattara definiti “gli sportivi” fin dall’inizio della casa di Roma, cioè numerosi giovani locali che frequentavano l’istituto solo per giocare al calcio nel grande campo sterrato, situato a sud del parco; c’è anche il gruppo di ex-allievi, che comprende un gruppo di anziani, perlopiù ex-allievi di Venezia e altre case; e il gruppo degli ex-allievi giovani, che erano stati allievi della scuola media di Roma; ancora, un gruppo di cooperatori, che continuerà a svilupparsi nel tempo, fino almeno agli anni ’70, per poi scomparire. La quinta elementare sarà istituita nell’anno successivo, 1954, per facilitare l’entrata di allievi nelle medie.
Vale la pena di trascrivere qui un interessante documento redatto da P. Arcangelo Vendrame, da Porcari, il 28 marzo 2016, in forma di lettera augurale e commemorativa diretta al P. Giuseppe Moni, in qualità di rettore della casa di Roma, in occasione dell’inizio dell’anno del 70° anniversario della fondazione di quella casa. Nonostante un’inesattezza nella prima parte, è un documento di prima mano, de visu e de auditu, che mette in evidenza con acutezza soprattutto il senso spirituale, teologico e pratico del modo di agire dell’Istituto Cavanis, nella sua abituale e carismatica povertà e gratuità, così come venne avvertito a Roma in campo politico e in campo ecclesiale nell’anno scolastico 1953- 54:
“Ho visto che nel Charitas viene ricordato il settantesimo anno della nostra opera in Roma. Colgo l’occasione per fare presenti alcuni miei ricordi riguardanti il tempo in cui mi trovavo Roma. Fui a Roma nell’anno 1953- 54. Lì feci un anno di esperienza pastorale prima di diventare sacerdote. Credo opportuno ricordare alcune notizie che riguardano la storia dell’Opera Cavanis di via Casilina. Il parroco dei Santi Pietro e Marcellino seppe che era in vendita una villa con del terreno (di fronte alla chiesa parrocchiale). Egli vide in quello spazio la possibilità di far sorgere un’opera del nostro Istituto.
I Padri Cavanis non avevano i denari per l’acquisto della villa. Intervenne direttamente il Papa di allora Pio XII, che acquistò l’immobile e lo mise a nostra disposizione. Si iniziò con una scuola media gratuita. In Roma c’erano scuole cattoliche stimate e ricercate con grandi edifici e numerosi alunni. Esse funzionavano con il contributo economico delle famiglie degli alunni. I Cavanis si presentarono come educatori della gioventù con scuola gratuita. Avendo pochi mezzi iniziarono un’attività assai modesta. Essi diedero testimonianza di amore specialmente verso i poveri. Questa testimonianza non fu compresa da certi cattolici che apprezzavano il valore di un’attività con l’imponenza delle costruzioni. Nella nostra povertà economica ci siamo dedicati alla educazione della gioventù prendendoci cura dei meno abbienti. I comunisti dovevano tollerare le scuole cattoliche, in base al diritto costituzionale dei genitori di scegliere la scuola di loro fiducia. I genitori dovevano sostenere economicamente la scuola da loro scelta. Una scuola cattolica Cavanis, anche se piccola, aperta anche a coloro che non erano in grado di sostenerla, era una provocazione ripugnante per i Comunisti.
Torpignattara era una roccaforte del loro partito. La Scuola Cavanis gratuita, con un numero modesto di alunni, irritò il Partito Comunista. La nostra presenza contestava la loro teoria: i preti, amici dei ricchi, sono sfruttatori della povera gente, che si lascia imbrogliare dalla loro astuzia. Non espongo frasi con risonanza retorica. Quanto ho detto venne confermato da fatti concreti. Un politico di fama nazionale (del quale non ricordo il nome), disse durante un comizio in Torpignattara: – “Non credete a quei preti che ora hanno aperto una scuola gratuita. Quando avranno ottenuto la parifica della scuola si faranno pagare”. Ricordo un altro fatto significativo: una mattina arrivò di sorpresa un ispettore ministeriale, che esaminò accuratamente tutti i documenti della scuola e trovò che tutto era regolare. Come mai? ( Io ero a Roma quando ci fu quella ispezione). Sostituii nella scuola il padre segretario, impegnato con l’ispettore ministeriale.
Il Partito Comunista si sentiva dolorosamente ferito nelle sue teorie dai Padri Cavanis. I Comunisti avevano sentito dire che non soltanto a Roma ma anche in Toscana i Padri Cavanis avevano delle scuole gratuite. I Padri di Roma furono lieti perché l’ispezione ministeriale era andata bene. Cercarono il motivo di tale improvvisa ispezione e furono lieti quando lo seppero. Alla Camera ci fu un’interpellanza al Ministro della Pubblica Istruzione:— Le scuole dei Padri Cavanis in Roma ed in Toscana hanno tutti i documenti in regola? (Era necessario smascherare i soliti imbrogli clericali). La Direzione Nazionale del Partito Comunista non si era accorta che lo “scandalo” dei Cavanis in Torpignattara aveva radici profonde. Da più di un secolo i Cavanis avevano scuole gratuite nel Veneto. La burocrazia della diocesi di Roma non comprese il valore della nostra testimonianza di carità, che i Comunisti avevano scoperto: segno evidente che la scuola aperta anche ai ragazzi poveri è un esempio non frequente nella Chiesa. Alcuni attendevano che costruissimo un grande edificio scolastico, avendo a scuola molti ragazzi (figli di benestanti). I Padri preferirono educare testimoniando fiducia ed amore verso gli ultimi della società. Questo compito ideale iniziò con S. Giuseppe Calasanzio e fu portato avanti dai Padri Antonio e Marco Cavanis. Il nostro Istituto per essere fedele all5ideale dei Fondatori cercò l’aiuto da persone benestanti. A Roma si verificò una sorpresa: sorse il Gruppo dei Collaboratori. Era formato da famiglie con condizioni economiche modeste, le quali si impegnavano di versare un contributo mensile per sostenere la gratuità della nostra scuola, pur non avendo i loro figli a scuola dai Padri Cavanis. Questa sorpresa si verificò nella periferia di Roma. Abbiamo constatato che i romani hanno un cuore generoso. Dio suscita testimonianze di bontà anche in periferie dove non ci aspettiamo.
P. Arcangelo Vendrame.
Porcari, 28-3-2016”
Nel 1953 alla casa Cavanis della via Casilina si affiancò l’altra comunità romana, che aveva da direzione e la cura educativa dell’Istituto Tata Giovanni, alla Piramide.
Ambedue le comunità ospitavano giovani padri Cavanis che venivano a Roma per studiare teologia, quasi sempre alla Pontificia Università Lateranense, ottenendo la licenza in Teologia Universa, il che permetteva loro poi per legge, con alcuni esami supplementari, di poter insegnare lettere nelle scuole medie, tramite diploma di equipollenza. Essi studiavano e al tempo stesso facevano scuola in via Casilina o fungevano da assistenti di disciplina al Tata Giovanni. Alcuni pochi si laureavano all’Università degli studi di Roma (Ora Università “La Sapienza” o Roma 1) o facevano il dottorato nelle università ecclesiastiche romane.
Le due case, e soprattutto quella di Torpignattara, servivano anche come base per il preposito generale nei suoi contatti con la S. Sede e con organi del governo e dello stato; per pellegrinaggi a Roma dei religiosi Cavanis; per esami e concorsi di abilitazione all’insegnamento e in genere per tutti i contatti e affari nella capitale.
Il capitolo definitoriale del 17 luglio 1954 si occupò ancora della casa di Roma. Nel verbale della riunione si legge: “Fu rivolta alla S. Sede domanda per entrare in possesso della Casa di Torpignattara. Qualora la S. Sede non facesse la donazione, l’Istituto sarebbe anche disposto ad acquistare lo stabile”.
D’altra parte, proprio in quest’anno 1954 sembrava che tutta la nostra opera a Torpignattara potesse interrompersi. Il rettore P. Angelo Guariento scrive così il 12 gennaio 1954: “[Andiamo] In Vaticano da monsignor Guerri con P. Andreatta. Monsignor Guerri è del parere di vender tutto a Torpignattara dato che il piano regolatore può impedire lo svolgersi dell’opera dei padri. Parere, ma risoluto. Quod Deus avertat!”. Nel DR si parla spesso, nei giorni seguenti, di vari interventi dei padri, con l’aiuto di Mons. Ettore Cunial, presso funzionari del Comune di Roma, responsabili del piano regolatore. Con frequenza si parla con preoccupazione del viale dell’Acquedotto Alessandrino, largo 40 metri, che, sviluppato ulteriormente verso E, deve tagliare in due la proprietà. La proprietà, come si sa, sarà realmente tagliata e ne perderemo la metà; ma il viale non sarà mai realizzato, fino ad oggi (2016). Di questi argomenti del resto si è parlato molto sopra, esponendo tutto il carteggio sul tema.
Nel 1955-56 gli allievi, di 5ª elementare e delle 3 medie sono 135. L’anno 1956 viene ricordato come quello delle grandi nevicate, dal 2 al 18 febbraio. La neve di solito è piuttosto rara a Roma città.
Nell’anno scolastico 1956-57 gli allievi sono 131.
Il 27 settembre 1958 muore a Roma il sig. Gino Eichberg, già proprietario della villa che porta il suo nome, cioè Villa Castelli-Eichberg; e viene ricordato come “benefattore insigne dell’Istituto Cavani di Roma, iscritto all’Unione Cooperatori, con godimento in vita e dopo morte dei benefici spirituali annessi”. In realtà, secondo quanto si è documentato sopra, non si poteva considerarlo un benefattore; si era trattato soltanto di un contratto di compra-vendita e i padri si erano lasciati in qualche modo ingannare.
Alla metà degli anni sessanta la casa di Roma possedeva, sempre in modo condizionato (cioè, fino a quando utilizzasse l’immobile concesso dalla S. Sede per uso pastorale) il parco con la casa ossia la Villa Eichberg-Castelli (con aggiunte, specie la cappella) e una piccola casa costruita già dagli Eichberg-Castelli, come garage e appartamentino per il custode, verso occidente, nello spazio dove attualmente sorge l’edificio nuovo delle scuole e della comunità. Il piccolo edificio era occupato da una classe, per la quinta elementare, e serviva anche per sede di associazioni, particolarmente per gli aspiranti della Gioventù di Azione Cattolica maschile-GIAC, mentre il primo piano di questa casa serviva di appartamento per le suore del Santo Nome, che cooperavano con i padri nel servizio domestico, fino al 1969 circa; la comunità possedeva ancora i due terreni a fianco del viale di accesso, dati in affitto agli orticultori Picchiani nel 1953, quando ancora la proprietà era della Santa Sede, e da loro occupati e non più restituiti, nonostante non stessero compiendo gli impegni previsti nel contratto; il grande campo di calcio, verso sud; e ancora circa due ettari di terreno coltivati a ortaggi, pure dati in affitto a degli ortolani.
La proprietà era cintata soltanto verso la via Casilina con un alto muro, con muri più bassi sui due fianchi est e ovest fino al campo sportivo compreso; non era cintata attorno al grande orto dato in affitto.
Nell’autunno 1968 giunsero a Roma da Venezia i seminaristi propedeutici e teologi (i chierici, come si diceva allora), alloggiati al primo piano della “villa-castello”, assieme al loro formatore, P. Guglielmo Incerti. Essi, con il loro vice-maestro, P. Giuseppe Leonardi, avevano costruito una casuccia adibita a pollaio, e coltivavano un piccolo orto. Il piccolo fabbricato, in blocchi di tufo e copertura in coppi presenta sulla facciata principale una specie di lapide in malta, sul tipo dei “nizioleti” veneziani, con la scritta: “A.D. 21.XI.1968. C. C. F.”, che ha l’intenzione di registrare: “Anno Domini 21.XI.1968 – Clerici Cavanis fecerunt”.
Verso la fine degli anni Sessanta, la S. Sede ritirò di fatto, come aveva annunciato nei documenti sopramenzionati, circa metà del terreno dato in uso all’istituto nel dicembre 1946, dal terzo settentrionale del campo sportivo verso sud. L’appezzamento n° 3 rimane dunque all’Istituto: L’appezzamento n° 2 viene probabilmente venduto dalla S. Sede a un’impresa privata e comunque vi viene costruito attorno al 1969 un quartiere abitativo, costituito da 5 condomini di 5 piani, incluso il piano terreno, con 50 appartamenti l’uno. L’appezzamento n° 1 rimane fino ad oggi (2016) incolto. Il terzo settentrionale del campo sportivo rimase all’Istituto assieme all’orto dei seminaristi, ma si sapeva che questa “fetta” di terreno doveva essere occupata, secondo il piano urbanistico municipale del 1937, rinnovato nel 1957, da una via rapida detta a quel tempo “asse attrezzato” (ma in pratica continuazione del viale Acquedotto Alessandrino con il relativo stretto parco). Questo viale avrebbe portato via anche la sezione meridionale del parco fino alla metà della vasca della fontana circolare inclusa. Tale asse in realtà non si è mai realizzato fino ad oggi (2020) e l’Istituto continua a godere dell’uso e della proprietà di fatto della fascia che però può sempre essere espropriata.
Nell’occasione della perdita del campo sportivo grande (e degli orti annessi), si sentì la necessità di recuperare per uso di campi di giochi altre porzioni del terreno. Con molta difficoltà e grave spesa di “buonuscita” o piuttosto di taglia, si riuscì, dopo una lunga lite con i fratelli Ugo e Giovanni Picchiani che si concluse senza successo nel maggio 1967, in due momenti successivi per le due porzioni di terreno, nel novembre 1967 e a fine 1973, ma in pratica anche più tardi, all’inizio (gennaio) del 1975, a sloggiare gli scomodi – e del tutto disonesti – affittuari e ad adibire a campo di calcio e ad altri campi di gioco i due terreni che fiancheggiano il viale di accesso.
Sulla metà degli anni ’70, e più particolarmente nella primavera 1976, parve giunto il momento di dare seguito all’opera educativa, fino ad allora limitata alla 5ª elementare e alla scuola media inferiore, e di dare inizio al liceo, anche su richiesta di un certo numero di genitori. Il preposito e il suo consiglio diedero l’assenso, limitatamente, all’inizio, al biennio. Si ritorna sull’argomento il 22 gennio 1977, con l’impegno da parte dei genitori degli allievi di costituirsi in cooperativa per mantenere in piedi una scuola superiore, ossia più specificamente un liceo scientifico. Si prepara, discute e approva uno statuto e un regolamento, che vengono approvati dal preposito con il suo consiglio il 23 gennaio seguente. Il Liceo Cavanis di Roma è riconosciuto legalmente nel maggio 1981. Il liceo provvisoriamente, ma per 8 o 9 anni, è ospitato (credo gratuitamente) nel grande edificio delle Suore di Nostra Signora di Namur, sito a via Paciotti n°21, all’incrocio con la via Casilian, nel quartiere di Torpignattara, a nord-ovest e non molto lontano dall’Istituto Cavanis.
Nell’estate 1978 si compiono lavori di sistemazione e recinzione del viale di accesso della casa di Roma. Si parla da tempo della necessità di costruire uno studentato a Roma, dentro del recinto del parco dell’Istituto a Torpignattara. Fu affidato al P. Diego Beggiao l’incarico di provvedere al progetto dell’opera e a consultare il Vicariato di Roma – di cui era archivista – e tre ditte edili per un preventivo. Il 15 marzo 1986 finalmente fu presentato il progetto di massima e i tre preventivi, e il preposito con il suo consiglio approvò la costruzione e la spesa relativa, che poi, come capita, ma in modo ben più rilevante in questo caso, si dimostrò molto maggiore di quanto era stato previsto nel preventivo. Si noti che fin qui si parlava di studentato, mentre in seguito l’utilizzo fu tutt’altro, fino ad oggi (2020).
Il cantiere fu aperto il 3 aprile 1986, e per mesi si lavorò nello scavo per le fondamenta e per la costruzione dei grandi vani interrati e semiinterrati, che avevano lo scopo di aumentare notevolmente la cubatura dell’edificio, fortemente limitata nel parco dal Piano regolatore. Pochi giorni dopo, il 15 aprile 1986, i lavori vengono sospesi a causa del rinvenimento di manufatti di epoca romana e di galleria relative a cave di tufo; il 10 giugno 1986 i lavori riprendono.
Il 16 novembre 1986 il Preposito P. Guglielmo Incerti benedisse la prima pietra, dopo la S. Messa celebrata in onore di S. Giuseppe Calasanzio, patrono dell’Istituto e delle scuole cattoliche, nella Chiesa parrocchiale dei Ss. Marcellino e Pietro.
L’ 11 ottobre 1987 l’edificio è evidentemente quasi del tutto completo anche nei dettagli, perché il diario della casa di Roma registra che in questa data i religiosi della comunità si trasferiscono (quasi tutti) nel nuovo edificio.
Infine il 15 maggio 1988 alle 11.45 monsignor Ettore Cunial (nativo di Possagno, ex-allievo dell’Istituto, già vicegerente per la Diocesi di Roma e vice-Camerlengo di Santa Romana Chiesa) benedice e inaugura il nuovo edificio scolastico, sede anche della residenza principale della comunità, alla presenza del P. Preposito e numerosi Confratelli, e dell’On. Benedetto Raniero, Assessore Urbanistica della Regione Lazio.
Come si diceva e qui si vuole spiegare più in dettaglio, durante lo sterro eseguito per le fondamenta dell’edificio e per fare spazio per il seminterrato, lo scavo e la posa delle fondazioni furono resi difficili dal rinvenimento di gallerie di antiche cave di pozzolana (o meglio di tufo) non adibite a catacombe, che costrinsero a palificare la fondazione, con grave spesa aggiunta; e anche di un edificio termale con ipocausto, annesso alla villa romana sulle cui rovine era stata costruita la villa Castelli-Eichberg. Tale ritrovamento, debitamente denunciato alla Sovrintendenza ai Monumenti e alle Antichità, costrinse l’istituto a una rilevante spesa imprevista (circa 84 milioni di lire), per finanziare lo scavo delle terme; in caso contrario lo scavo delle fondamenta e la costruzione del nuovo edificio avrebbe dovuto aspettare per molti anni o decenni che la Soprintendenza compisse lo scavo archeologico per suo conto e a sue spese, dato il numero enorme di rovine romane che venivano e vengono quasi ogni giorno scoperte nella capitale durante scavi a scopo edilizio (compreso lo scavo della metropolitana). Le terme con ipocausto si trovano da allora conservate in un piccolo ambiente sotterraneo adiacente a una delle sale seminterrate della scuola.
Detto nuovo edificio, anziché per lo studentato, come previsto all’inizio, fu ed era adibito fino al 2018 ad abitazione della comunità al primo piano; e ad aule e altri ambienti per il liceo scientifico della nostra scuola romana a piano terra e nell’ampio seminterrato: riportandolo così dalla sede lungamente provvisorio presso le generose suore di Namur alla sede naturale, a Vio Casilina 600.
All’inizio del 1996 la curia generalizia dell’Istituto fu trasferita finalmente a Roma e occupò l’ultimo piano dell’edificio principale, la rossa villa-castello. Una sistemazione molto più conveniente senza dubbio, rispetto alla precedente tradizionale sede veneziana.
Tra l’altro, pochi lo sanno, ma dalla torretta della sede romana dell’Istituto si vedono e si riconoscono bene ancora oggi (2020) a occhio nudo le due torri campanarie dispari della basilica “liberiana” di Santa Maria Maggiore, il più antico santuario mariano dell’occidente; e le gigantesche quindici statue di Cristo salvatore, dei santi Giovanni Battista ed Evangelista e di padri della chiesa, situate sul fastigio della basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale del vescovo di Roma, “Mater et caput omnium ecclesiarum”. La sede della casa di Roma e della curia generalizia è anche praticamente fondata su una terra bagnata dal sangue dei martiri, in particolare da quello dei due santi martiri Marcellino prete e Pietro esorcista, martirizzati nella località detta Silva nigra, sulla via Aurelia, in seguito chiamata Silva candida, ma trasferiti subito dopo la morte in queste catacombe, giù utilizzate dai cristiani come cimitero. La sepoltura dei santi martiri le resero subito dopo famose e frequentate.
Il 12 febbraio 1989 l’Istituto, che aveva sempre collaborato pastoralmente con la parrocchia fin dal suo ingresso a Roma-Torpignattara nel 1946, e che aveva accettato la parrocchia stessa in amministrazione parrocchiale l’8 dicembre 1988, accetta di prendere definitivamente cura pastorale della Parrocchia dei SS. Marcellino e Pietro ad duas lauros, sulla via Casilina, di fronte all’Istituto: così dice la pagina corrispondente del libretto commemorativo “Dies quas fecit Dominus”: “Nella città di Roma la nostra Congregazione aprì in questa data – il 12 febbraio 1989 appunto – la parrocchia dei SS.Marcellino e Pietro ad duas lauros, essendo primo parroco P.Antonio Armini”.
Il complesso parrocchiale include anche e dà accesso al mausoleo di S. Elena – la cosiddetta Tor Pignattara che dà nome al quartiere – e alle splendide Catacombe dei santi stessi; le catacombe furono poi affidate ufficialmente all’Istituto dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra il 2 aprile 2014, data in cui è stata firmata la convenzione tra la Pontificia Commissione e la Congregazione dei Cavanis; e il 13 aprile 2014 quando le catacombe, nella domenica delle Palme e presente tutto il popolo della parrocchia, esse furono consegnate alla Congregazione dalla sovrintendenza dei Beni Culturali di Roma e Lazio, e sono state effettivamente aperte al pubblico.
5.7 Le catacombe dei santi Marcellino e Pietro ad duas lauros
Le catacombe dedicate ai santi Marcellino presbitero e Pietro esorcista, martiri vissuti nel III secolo e martirizzati all’inizio del IV nella terribile pesersecuzione di Diocleziano e colleghi, hanno conservato per lungo tempo le salme dei due martiri. Si deve ritornare ai tempi di Diocleziano (244-311; imperatore dal 284 al 305) per conoscere la storia, forse parzialmente leggendaria, della vita dei due martiri. San Marcellino e San Pietro furono uccisi per volere dell’imperatore Diocleziano del 304 d.C. Essi furono decapitati a Roma dove, prima di essere uccisi, vennero obbligati a scavare con le proprie mani la loro tomba. Il luogo del martirio dei due Santi era conosciuto come Selva Nera e dopo la loro morte fu ribattezzato Selva Candida, oggi località sulla Via Cornelia, che a sua volta era probabilmente una laterale o diramazione della via Aurelia, a NW di Roma. Fu merito di una matrona romana, conosciuta come Lucilla, che le salme dei due martiri fossero portate sulla Via Casilina, presso la località ad Duas Lauros. Con la traslazione dei santi corpi il cimitero cristiano ipogeo, già preesistente, fu dedicato alla memoria dei due martiri.
Le catacombe dei Santi Marcellino e Pietro sono site sulla via Casilina al numero civico 641, di fronte all’istituto Cavanis, e con l’entrata situata nel cortile della parrocchia dei Santi Marcellino e Pietro “ad Duas Lauros”. Le catacombe si estendono su una superficie di 18.000 m² su vari livelli. In esse sono conosciuti finora più di 80 cubicoli dipinti, oltre a innumerevoli tombe singolari, scavate nel tufo delle pareti dei cunicoli, disposti su vari piani ipogei.
L’area cimiteriale, corrispondente a queste catacombe, era sorta già nel secolo III e si sviluppò soprattutto nel IV, in epoca costantiniana e al tempo di papa Siricio (334 circa – Roma, 26 novembre 399), attorno alle tombe dei santi martiri Marcellino e Pietro, molto venerati a Roma dopo la morte e in tutto il mondo cristiano nel medioevo, al punto che essi sono nominati nel canone eucaristico I (detto canone romano) della messa, nella seconda lista dei martiri santi e sante.
Costantino aveva dato spazio al cimitero cristiano, in buona parte ipogeo, nella proprietà terriera che era appartenuta agli equites singulares, corpo militare di cavalleria addetto alla difesa della persona dell’imperatore, corpo che nella battaglia di Ponte Milvio si era schierato dalla parte di Massenzio, l’avversario di Costantino. Questi aveva dato allora il podere a sua madre, l’Augusta Elena. L’area cimiteriale comprende anche ciò che rimane della grande basilica circiforme a deambulatorio continuo dedicata ai due martiri, di cui in pratica rimangono soltanto tracce delle fondazioni, conservate nel terreno di proprietà delle suore della Sacra Famiglia, e le splendide rovine del mausoleo detto di S. Elena, madre dell’imperatore Costantino, un edificio a pianta centrale, che ricorda nella sua struttura architettonica la basilica di S. Agnese a Roma e il mausoleo di Costanza sulle via Nomentana. Al centro del mausoleo e appoggiate alle mura perimetrali dello stesso, una chiesetta sei-settecentesca e una casa canonica della stessa epoca erano state costruire per costituire il centro di una comunità parrocchiale rurale. Questi edifici sono stati lungamente utilizzati dalla parrocchia dei SS. Marcellino e Pietro nel decorso del secolo XX, dopo la costruzione dell’attuale chiesa parrocchiale, come ambienti per le associazioni giovanili e le altre opere parrocchiali, fino a una trentina di anni fa; sono rimaste poi lungamente chiuse con il mausoleo in un’area controllata a fini di protezione, ma furono recentemente adibiti a museo.
Alla morte dell’Augusta Elena, il suo corpo era stato trasportato nel mausoleo con un corteo regale, e le sue spoglie erano state tumulate in uno splendido sarcofago di porfido rosso, detto anche pavonazzetto, che oggi è conservato magnificamente ai Musei Vaticani. Detto sarcofago era in origine sistemato in una nicchia laterale del mausoleo.
“Tra le molte peculiarità delle catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, una è la ricorrenza dell’elemento femminile nella storia stessa del monumento, fin dalle origini, nelle sue scelte iconografiche, nei suoi orizzonti sociali”. Non è dunque un caso se in molti cubicoli sono presenti dipinti di figure femminili, come la deliziosa Madonna con bambino reentemente venuta alla luce e restaurata, la bellissima dama orante, pure restaurata recentemente; e accanto alle classiche immagini simbolo della risurrezione, come Noè nell’arca, Daniele nella fossa dei leoni, Lazzaro, Giona gettato a mare o che esce dalla bocca del pesce e così via, non mancano qui la casta Susanna, la samaritana, l’emoroissa, la donna storpia guarita da Gesù. “D’altro canto, eleganti e solenni figure di matrone, alcune dai simbolici nomi evocativi di virtù (Agape, Irene), guidano sapientemente le tante scene di banchetto rituale che rendno celebre questo cimitero.”
Si presume che solo nel III secolo in quest’area furono sepolte circa 15.000 persone. Nelle catacombe è possibile vedere reperti storici come lastre tombali che coprivano i loculi. Sulle lapidi marmoree sono ancora riconoscibili i segni adoperati dai primi cristiani per indicare il loro credo: l’immagine della colomba con il ramoscello d’ulivo, il monogramma di Cristo, l’ “araba fenice” e la figura dell’orante sono ben visibili e testimoniano la certa speranza della resurrezione dopo la morte e la fede in Dio. Recentemente alcuni nuovi splendidi cubiculi sono stati restaurati.
5.7.1 Il martirio di Marcellino e Pietro
Marcellino presbitero e Pietro esorcista furono due martiri cristiani chiamati a testimoniare la fede in Gesù Cristo durante la persecuzione di Diocleziano del 304. Ne parleremo qui più in dettaglio, sulla base di dati storici, pie tradizioni, leggende.
Convinto che il cristianesimo fosse di ostacolo allo sviluppo politico ed economico dell’Impero Romano, Diocleziano, imperatore dal 284 al 305, adottò una serie di misure repressive che colpirono con violenza le comunità cristiane.
Nel 303 l’Imperatore, difatti, promulgò ben quattro editti repressivi contro i cristiani. Con il primo editto del febbraio del 303 venne ordinata la distruzione di tutti i libri sacri. Furono vietate, inoltre, le riunioni dei cristiani e tutti i fedeli in Gesù Cristo dell’Impero vennero dichiarati incapaci di atti legalmente validi. Con il secondo editto vennero imprigionati i rappresentanti dell’organizzazione ecclesiastica cristiana come vescovi, sacerdoti, diaconi, lettori ed esorcisti. Le carceri si riempirono di uomini di fede e lo spazio nelle prigioni per contenere i condannati per i vari reati civili quasi finì. Con il terzo editto si decretò la pena di morte a tutti coloro che si rifiutavano di adorare gli dei pagani. Nel 304 venne emesso il quarto editto. Con tale provvedimento si rendevano ancora più aspre le punizioni già prese contro i cristiani. È proprio in questo clima ostile che si colloca il martirio di San Marcellino e San Pietro.
I fatti raccontano che tra i tanti prigionieri di Roma, Serono, Prefetto di Roma, denunciò il giovane esorcista Pietro, noto per la sua fede cristiana dichiarata pubblicamente. Pietro, confessando la sua fede, si oppose ad adorare gli dei. Per il suo atto di fede, fuorilegge date le regole vigenti, fu torturato, percosso con verghe e rinchiuso quasi morente nel carcere. La sua fede in Cristo permise a Pietro di mantenere sempre, però, la serenità e così attirò su di sé la curiosità di molti detenuti e di carcerieri. Tra i sorveglianti del carcere in modo particolare c’era un uomo, Artemio, che confidò a Pietro la sua angoscia personale: Paolina, la sua unica figlia, era malata. Artemio, sempre più meravigliato della fede di Pietro, arrivò addirittura a chiedere all’esorcista come riuscisse a mantenere la serenità in quelle condizioni di detenzione quando lui, libero, contrariamente viveva nell’angoscia per sua figlia. Ma l’esorcista con calma e vera fede rispose: “Credi anche tu nell’Unigenito figlio di Dio, Gesù Cristo, e tua figlia sarà salva”. Molti dubbi assalirono Artemio, ma la fede nel Cristo testimoniata da Pietro convertirono prontamente al cristianesimo Artemio stesso e sua moglie Candida. La fede dei due nuovi adepti al cristianesimo venne rafforzata dalla pronta guarigione delle loro figlia Paolina. Fu un miracolo, indubbiamente, e da questo ne scaturì un altro: la conversione di molti altri detenuti e carcerieri. Da esorcista qual era, però, Pietro non poteva amministrare il battesimo, così intervenne in suo aiuto Marcellino, un presbitero. Marcellino, sfidando la morte sicura, si recò in carcere e impartì il battesimo a tante persone.
Entrambi, Pietro e Marcellino, nuovamente accusati e costretti ad abiurare la fede in Cristo, vennero imprigionati, percossi, torturati e condannati a morte. La stessa sorte toccò anche ad Artemio e alla sua famiglia. Marcellino e Pietro furono condotti nella Silva Nigra, ossia Selva nera, un’oscura boscaglia sulla Via Aurelia. Obbligati a scavarsi con le loro mani la fossa vennero decapitati il 2 giugno del 304. Quella zona di Roma, in seguito al martirio dei due santi, fu denominata in seguito in loro onore Silva Candida.
I loro corpi da lì vennero spostati e portati sulla Via Casilina, nel cimitero ad duas lauros. Lo stesso carnefice dei due martiri, Doroteo (dono di Dio) pentitosi e convertitosi al cristianesimo, collaborò insieme a Lucilla, una devota matrona romana, allo spostamento delle salme sulla Via Casilina. Un’altra tradizione parla di una matrona Firmina, come aiutante di Lucilla in questa pia opera. La figura di Lucilla potrebbe sembrare leggendaria, ma essa fu in ogni caso immortalata nella letteratura cristiana e nella storia, grazie ad un epigramma del papa Damaso, inciso in una grande lapide che si conserva nella sala delle catacombe dove si trovano le due tombe parallele, tagliate nel tufo, che contenevano i corpi dei due santi. Esso dice tra l’altro: “…postea commonitam vestra [scilicet Petri et Marcellini] pietate Lucillam/ hic placuisse magis sanctissima condere membra.” Come accenna l’epigramma stesso, papa Damaso, ancora fanciullo, aveva saputo del fatto dallo stesso carnefice, quindi di prima mano.
Il cimitero, situato al terzo miglio della Via Labicana, oggi Via Casilina, fu subito dedicato alla memoria dei due martiri e le catacombe divennero così conosciute come: le Catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, e divennero subito un cimitero ipogeo ambito e venerato dai cristiani. L’inizio dello scavo delle catacombe, o meglio del suo utilizzo come cimitero, perché lo scavo era con tutta probabiltà cominciato ome al solito al fine di scavare il tufo per scopi edilizi, risale alla seconda metà del III secolo. Innumerevoli sono gli ambienti ivi affrescati. Il luogo fu meta di pellegrinaggi e molte furono anche le modifiche che vennero apportate nell’ambiente catacombale da diversi papi nei secoli. Si ricorda, ad esempio come la cripta dei Santi Marcellino e Pietro fu riparata da Papa Vigilio nel VI secolo in seguito ai danni subiti durante l’invasione dei goti. Nel VIII secolo, invece, Papa Adriano I ordinò la costruzione di una scala d’accesso alla cripta dei martiri e ulteriori lavori di restauro a tutta la catacomba.
Nel periodo carolingio, infine, attorno all’ anno Ottocento, le reliquie dei due santi, abbandonate nelle catacombe aperte e abbandonate, furono purtroppo rubate e trasportate in Francia e poi in Germania da un certo Eginardo, che le depose piamente – se pio può essere definito chi ruba le reliquie altrui – nella città di Seligenstadt, piccola città della diocesi di Mainz, Renania, a circa 30 km da Francoforte, dove tuttora sono custodite e molto venerate, conservate in un’urna di argento decorato a sbalzo.
Anche la chiesa dei SS. Pietro e Marcellino, dopo la distruzione della basilica costantiniana, era stata praticamente sostituita da quella che si trova “intra moenia” cioè all’interno delle mura aureliane, all’incrocio della via Labicana con la via Merulana, con lo stesso nome dei due santi martiri. Il popolo di Roma, con la decadenza della città e le invasioni barbariche si era ritirata all’interno della città, abbandonando la campagna romana alla pastorizia e anche al brigantaggio. Nella forma attuale, completamente ristrutturata nel 1751, questa è una chiesa tardo-barocca, molto semplice a struttura inscritta in un cubo.
Il primo giugno 2019 una missione composta da quattro laici della parrocchia romana affidata ai Cavanis, guidati da P. Rogerio Diesel, in luogo del parroco P. Edmilson Mendes che aveva organizzato la cosa, ma si trovava in ospedale per un’operazione chirurgica, partirono da Roma per Seligenstadt per ricevere, come era stato combinato in precedenza, due frammenti dei corpi dei due santi patroni. Ricevuti con gioia e amicizia dai parocchiani della comunità cristiana tedesca che conserva le loro venerate salme, ne ricevettero il due giugno, festa dei due patroni, un frammento di cranio e uno di femore rispettivamente di ***, che furono ufficialmente riposti e sigillati in un bel reliquiario dorato, provvisto della dovuta autentica.
Il reliquiario, trasportato a Roma dalla commissione casilina e riposto al momento nel seminario internazionale Cavanis a via Orazio Pierozzi, il 3 giugno, fu poi presentato ai parrocchiani e solennemente esposto nella domenica 9 giugno 2019 nella parrocchia intitolata ai due santi martiri patroni, nella chiesa “ad duas lauros”. In qualche modo, un ritorno glorioso dopo circa 12 secoli.
5.8 Il mausoleo di sant’Elena
Non distante dall’entrata attuale delle catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, si trovano le maestose rovine del mausoleo di Sant’Elena. Si tratta di un mausoleo funebre monumentale di età tardo-romana collocata lungo la Via Casilina, corrispondente al III miglio dell’antica via Labicana. Al Mausoleo si accede da via Casilina tramite l’ingresso adiacente alla chiesa dei Santi Marcellino e Pietro ad Duas Lauros e il cortile della parrocchia, che serve anche di parcheggio.
Il maestoso monumento funebre fu fatto costruire dall’imperatore Costantino I tra il 326 e il 330. In origine l’edificio doveva servire per la sepoltura dello stesso Costantino. In seguito, però, esso venne utilizzato come sepolcro per Elena, la madre dell’imperatore, morta nel 328, quando ormai la vita dell’imperatore suo figlio faceva centro piuttosto che a Roma su Costantinopoli, la nuova capitale. Il Mausoleo di Sant’Elena si presenta come una costruzione monumentale caratterizzata da una cupola che, pur se in massima parte non pervenutaci, mette in mostra un’interessante abilità dell’ingegneria romana: le cosiddette “pignatte”. Infatti, nella poderosa volta in calcestruzzo della struttura furono inserite delle grandi anfore (dette pignatte dal popolo romano) per alleggerire il peso della cupola ed evitare possibili crolli. Tale stratagemma di edificazione è stato messo in luce grazie al crollo della volta in epoca medievale, deterioramento che ha portato allo scoperto la presenza della sottomuratura contenente le “pignatte”. Da qui deriva l’usanza locale di riferirsi a questo monumento funebre come “la torre delle pignatte” e da qui deriva il nome stesso del quartiere, conosciuto come Torpignattara. Nel 1632 all’interno del Mausoleo, ormai semi diroccato, fu costruita una chiesa parrocchiale. Col passare del tempo, la chiesa del Mausoleo venne sconsacrata e oggi ospita un museo polivalente in grado di far rivivere al viaggiatore-fedele il maestoso passato del Mausoleo e dell’intero sito archeologico.
Il Mausoleo e gli edifici sacri annessi, chiesa e canonica dell’antica parrocchia, erano sempre rimasti a disposizione della parrocchia dei SS. Marcellino e Pietro fino a tempi recenti. Chi scrive, negli anni ’60 e ’70 del XX secolo, da giovane prete (1965-74), si riuniva con i giovani e le ragazze della pastorale universitaria della parrocchia in una delle sale dell’antica canonica dentro al mausoleo; organizzava assembleee e altre attività dei giovani della parrocchia nella chiesetta sei-settecentesca, assieme a don Giuseppe Mani, cappellano ai SS. Marcellino e Pietro e più tardi arcivescovo di Cagliari; gli scouts del reparto Roma 97 avevano la loro sede in varie cavità del mausoleo stesso. Più tardi, il mausoleo ed edifici annessi sono stati clausurati e sottratti alla parrocchia.
5.8.1 L’apertura al pubblico del mausoleo di sant’Elena
“Il 30 luglio 2015, al Dipartimento Patrimonio del Comune di Roma, su Delega del Parroco – P. Edmilson Mendes -, a distanza di 20 anni dai primi atti della trattativa (1995), congiuntamente al Dipartimento Patrimonio, ho posto la Firma sul Verbale di consegna provvisoria alla Parrocchia di una porzione di area di proprietà comunale, liminare al complesso parrocchiale dei Ss. Marcellino e Pietro e facente parte del Parco Pubblico “Labicano – Villa De Sanctis”.
Detta consegna rientra nelle attività procedurali atte a facilitare l’accesso da parte dell’Amministrazione Capitolina al Mausoleo di S. Elena, attraverso l’area di pertinenza e di proprietà della Parrocchia.
Quindi: non sono in discussione le rispettive proprietà, che tali rimangono; nasce invece una nuova realtà che, con una formula, si può assimilare praticamente a quella di una servitù di passaggio.
Mi ha accompagnato il Sig. Franco Diana, del Consiglio Affari Economici della Parrocchia. Che ringrazio. Dunque da oggi, la Parrocchia ha acquisito formalmente tale porzione di area, da destinarsi alle tipiche sue attività istituzionali. E ha ceduto quella parte di area, di sua proprietà, che immette direttamente al Mausoleo/Museo e Catacombe.
È un passo importantissimo, dopo il quale mancherà solo la consegna definitiva (ma è una formalità, a questo punto), in modo tale da rispettare i tempi in vista del Giubileo e dell’apertura del Mausoleo/Museo.
A nome del Parroco e dell’Istituto Cavanis, desidero vivamente ringraziare quanti in questi anni si sono adoperati per la soluzione di tale trattativa, con pazienza, tenacia e competenza, dai Padri Parroci che si sono succeduti, al nostro Municipio 5°, alla Parrocchia con i suoi Consulenti, alla Sovrintendenza, ecc. Dietro a ogni Ente nominato ci sono, naturalmente, volti e persone. Tanti … che “non hanno mollato”. Mi perdonerete se non li nomino qui tutti!
In questi ultimi mesi la spinta decisiva è venuta proprio dal Vicariato di Roma (Opera Romana per la Preservazione della Fede), nella persona di Mons. Liberio Andreatta. Che qui voglio ringraziare particolarmente, insieme ai validi suoi Collaboratori e Collaboratrici.
A conclusione ha voluto farci visita, in sede di Firma, la stessa assessora al Patrimonio, Dott.ssa Alessandra Cattoi.
Cordiali saluti,
P. Giuseppe Moni”
La convenzione tra i tre enti interessati, la Soprintenzenza speciale di Roma, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e l’Istituto Cavanis (come congregazione, non come parrocchia), era stata firmata il 30 maggio 2015. Di fatto, il museo e quindi la possibilità di visita da parte del pubblico, è iniziata però il 12 ottobre 2019.
5.9 La curia generalizia a Roma
Il 2 febbraio 1997, la curia generalizia della Congregazione fu molto opportunamente trasferita a Roma – Torpignattara, avendo sede nell’edificio principale e più antico, ossia la ex-Villa Castelli-Eichberg, principalmente al II piano.
Nel 1999 si aprì un seminario internazionale dell’Istituto Cavanis, di minuscole dimensioni, a via Orazio Pierozzi, nell’edificio che apparteneva alle suore Rosarie, di cui era stato sede fino a quella data. Nel 2011 infine si costruì l’ascensore che raggiunge la sede della curia generalizia.
A partire dalla fine del 2007, si costituisce a Roma nella Curia generalizia un “Comunità dei servizi generali”, per iniziativa del preposito generale P. Alvise Bellinato. Tale Comunità dei servizi generali comprendeva il Preposito pro tempore e gli ufficiali generali pro tempore. Come conseguenza, la comunità di Roma viene molto ridotta, e comprendeva in genere due o tre religiosi soltanto. A partire dal 2009 la comunità dei servizi generali, con il consenso del Preposito e del suo Consiglio, aveva accettato di assumersi la gestione e la responsabilità di tutte le presenze Cavanis a Roma. Tale gestione e responsabilità era condivisa con i laici, nostri collaboratori. Ecc.”.
A partire da questa data la casa di Roma aveva però una natura ibrida, dovuta a questa decisione, ma soprattutto al fatto che la nostra congregazione, nella sua piccolezza e tradizionale povertà non aveva potuto costituire una curia generalizia con sede propria, autonoma e indipendente, ma si era adattata in un piano di un edificio per il resto occupato dalla scuola e, in parte dalla comunità di Roma (ciò che ne restava) e ancora, fino al 2017, da una casa di ferie. In tale situazione, era ben difficile discernere tra le due comunità, locale e della curia generalizia. Ne ebbero a soffrire, evidentemente – a mio parere – le opere della casa di Roma, ormai quasi scomparse. Dopo il 2013, tuttavia, tale “Comunità dei servizi generali” è stata estinta come istituzione.
Alla fine dell’anno scolastico 2017-18, infine la scuola Cavanis di via Casilina si chiuse, purtroppo, e si era cominciato già da tre anni a non accogliere classi nuove alle medie e al liceo. In questa nuova situazione, la Casa di Roma diventò in toto curia generalizia; avendo però di fronte a sé, a nordest della via Casilina la parrocchia tenuta dalla comunità; e nelle immediate vicinanze ma in sede separata il seminario internazionale.
L’edificio che era stato costruito alla fine degli anni ’80 come liceo al pianterreno e come abitazione di comunità al primo piano, fu affittato il 1° gennaio 2019 (data del contratto) a una scuola (liceo sportivo) condotta da una Associazione ISTRUZIONE FORMAZIONE LAVORO (E.T.S.). Questo è il nome che risulta nel Contratto di locazione del nostro immobile (ora “destinato ad uso scolastico, sportivo e turistico-ricettivo” – come risulta scritto nel contratto). Assieme all’edificio furono affittati allo stesso ente anche i campi sportivi e la stessa entrata sulla via Casilina. Purtroppo, assieme all’edificio scuole, che venne affittato ammobiliato, l’Istituto perse anche il museo di scienze naturali della scuola, costituito negli anni ’60-’70, che conteneva anche pezzi rari e importanti.
6. Il Dopoguerra
6.1 Il mandato di P. Aurelio Andreatta continua dopo la guerra
La guerra era finita, si celebrarono nelle case dell’Istituto varie mese di suffragio e di commemorazione per i caduti; e la vita, anche quella dell’Istituto Cavanis, continuava.
P. Giovanni Andreatta, già vecchio amico dell’Istituto, il quale aveva anche donato la sua casa natale a Fietta del Grappa, “espone al Preposito l’intenzione di ritirarsi dall’Istituto Filippin e chiede l’ospitalità alla nostra Congregazione. Da parte nostra non ci sono difficoltà e si va incontro volentieri alle intenzioni di Don Giovanni.” Sarà accolto nel collegio Canova, nell’abitazione della comunità, e vi abiterà lungamente, fino alla morte, essendo considerato in pratica un membro della comunità e continuando a collaborare molto con l’istituto, sia con la predicazione di esercizi spirituali, sia con la ricerca di vocazioni per l’istituto, sia con il suo buon esempio e la sua amicizia.
La prima riunione del capitolo definitoriale del dopoguerra sembra essersi tenuta il 1° giugno 1945 nella “Villa Alpina” a Coldraga, Possagno. Vi si trattò soprattutto del sempre erigendo istituto femminile. Cito questo testo importante: “Il P. Preposito espone l’oggetto della seduta: si tratta della conclusione delle pratiche per far rivivere l’istituzione femminile dei Fondatori. Il Preposito si è recato dal card. Adeodato Giovanni Piazza, Patriarca di Venezia dal 1935 al 1948, ed ha esposto il caso; ma il Cardinale si è mostrato immediatamente contrario ed ha esposto anche le ragioni per le quali consigliava di desistere dall’impresa. Le direttive della S. Sede tendono a limitare le iniziative di fondazione di nuovi istituti femminili. Poi si osserva che le cause per le quali i fondatori non riuscirono a consolidare l’Istituto femminile esistono ancora e non possono essere superate e la più grave di tutte, la mancanza di un elemento ben formato e capace di stare a capo e organizzare l’opera: anche attualmente si deplora una tale mancanza.
Considerate le ragioni esposte e il giudizio del Patriarca, sembra opportuno di chiudere definitivamente la trattazione dell’argomento, desistendo da ulteriori tentativi. Si penserà invece alla sistemazione delle ragazze che nell’attesa della nuova fondazione per quasi venti anni hanno prodigato se stesse e i loro risparmi per l’Istituto di Porcari: quelle che vorranno, potranno andarsene; e a quelle che resteranno a continuare la loro assistenza nei collegi e nei Probandati, l’Istituto provvederà per un onesto mantenimento e per l’assistenza nella loro vecchiaia.”
Nella stessa riunione si parlò anche dell’ampliamento della Casa del S. Cuore, senza raggiungere però un risultato.
Nella riunione del capitolo definitoriale del 28 luglio 1945 si parla della necessità di restaurare o meglio rifare tutti i pavimenti del probandato di Possagno, e di provvedere a una casa di villeggiatura per i convittori di Possagno, dato che la “casa alpina” di Coldraga era stata ormai adibita a noviziato.
Il 12 ottobre 1945 il definitorio discusse concretamente, ancora una volta, dell’apertura di una casa a Roma, data una proposta fatta da due preti amici dell’Istituto, sia pure in modo un po’ curioso e surrettizio, ma ben intenzionato. Se ne parlato più in dettaglio più sopra, nel capitolo sulla casa di Roma-Torpignattara.
A proposito del P. Piasentini, P. Aurelio Andreatta scrive, forse abusivamente, nel diario di congregazione il 10 novembre 1945: “Arriva al Preposito, con l’obbligo del segreto [pontificio] una lettera della S. Congregazione Consistoriale (sic) con la proposta di nominare P. Piasentini Vescovo della Diocesi di Anagni.”
Il 21 novembre 1945 la congregazione accettò e assunse la direzione dell’istituto Dolomiti di Borca di Cadore (Belluno), offerto all’istituto da monsignor Girolamo Bortignon, allora vescovo di Belluno e Feltre, per l’istituzione di un collegio con scuole superiori e come luogo di soggiorno estivo. Il vescovo era stato personalmente a Venezia la sera del 12 novembre precedente a proporre al preposito la direzione di quell’istituto.
Qualche anno dopo, con grande dispiacere da parte del nostro istituto, l’edificio fu acquistato all’asta e strappato al nostro istituto dallo stesso monsignor Girolamo Bortignon, diventato nel frattempo vescovo di Padova.”
La proposta di accettare dal vescovo di Belluno la direzione dell’Istituto Dolomiti era stata discussa e approvata precedentemente in capitolo definitoriale in data 20 novembre 1945. Così riporta il verbale di detto capitolo: “[P. Aurelio Andreatta, preposito,] fa la sua relazione sulla futura Casa Alpina. Dopo l’interessamento del Rettore di Possagno [P. Giovanni Battista Piasentini] per trovare un ambiente nel Cadore, capace di servire come villeggiatura alpina per il Collegio e dopo i buoni uffici di don Giovanni Andreatta presso il Vescovo di Belluno per lo stesso scopo, si è presentata un’occasione che sembra opportuna. A S. Vito di Cadore, nell’ex-albergo Dolomiti, ceduto temporaneamente a S. Ecc. il Vescovo di Belluno, è stata aperta una classe di prima media. Ma manca l’insegnante che abbia il titolo di studio necessario. S. Ecc. si è rivolto personalmente e insistentemente per avere un Padre insegnante per questa classe, promettendo che farà il possibile per avere la cessione definitiva del locale da parte del Governo e che in tal caso sarà consegnato al nostro Istituto. Il Preposito ha creduto opportuno di aderire al desiderio di S. Ecc. e quindi pone sotto l’approvazione del capitolo quanto ha promesso. Per varie ragioni l’elemento che potrebbe temporaneamente recarsi a S. Vito di Cadore sarebbe P. Mario Janeselli: a Possagno sarebbe sostituito nell’insegnamento da P. Basilio Martinelli che fungerebbe anche da pro-Vicario della Casa. Trattandosi di una disposizione che deve durare fino al termine dell’anno scolastico, nessuno trova in questo alcuna difficoltà. A Venezia, come assistente dei Chierici, viene assegnato P. Riccardo Janeselli al posto di P. Martinelli”.
P. Piasentini per incarico del preposito si recò a Roma per trattare della pratica relativa all’Istituto Dolomiti: nel capitolo definitoriale successivo egli “riferisce del suo viaggio a Roma e sulla pratica affidatagli da S. E[cc]. Il Vescovo di Belluno per ottenere dal Governo Alleato la cessione definitiva del Palazzo della GIL-Albergo Dolomiti- a S. Vito del Cadore. La pratica si svolgerà a mezzo della Segreteria di Stato del Vaticano e si spera che giunga a buon termine.” È molto probabile che questi due viaggi a Roma di P. Piasentini fossero connessi anche, all’insaputa di tutti, salvo il P. Preposito, legato però al segreto pontificio, con la sua nomina a vescovo di Anagni, di cui si parlerà qui sotto e dipendessero da convocazione da parte della S. Sede, più concretamente dalla Sacra Congregazione Concistoriale, più tardi chiamata Congregazione per i Vescovi.
Della pratica relativa al Dolomiti si parla ancora ampiamente nella riunione del 22 aprile 1946: l’amico don Giovanni Andreatta è a Roma per trattare direttamente con il presidente del consiglio Alcide De Gasperi, per superare le difficoltà: “L’ostacolo maggiore è messo dal provveditore agli studi di Belluno, commissario della G.I. in sostituzione della G.I.L., organizzazione fascista alla quale apparteneva il locale prima della sconfitta germanica (sic!)”. Era necessario realizzare qualche cosa nel “Dolomiti” prima che scadesse la data-limite del 30 giugno 1946, fissata dagli alleati per la cessione; si decise di costituire per il momento una colonia per gli orfani di guerra, con il nome di “Colonia Vescovile Dolomiti”, provvedendo, tramite prestiti chiesti urgentemente ad amici, al rifacimento dei servizi igienici. Qualche mese dopo, sarà letta in capitolo definitoriale il testo della convenzione tra l’Istituto e il vescovo di Belluno.
Nella riunione del capitolo definitoriale del 26 dicembre, P. Andreatta, preposito, riportò in campo la questione dell’Istituto femminile riferendo di aver incaricato P. Saveri, rettore di Porcari di “assaggiare” l’opinione dell’arcivescovo di Lucca. Questi si era detto “..non…contrario all’esperimento” relativo all’istituzione di un istituto femminile Cavanis nella sua arcidiocesi. I definitori rimasero perplessi, dato che la cosa era stata considerata chiusa il 1° giugno precedente; il preposito allora rimise ad altro momento di riprendere il discorso sull’argomento.
Si parla ancora di questo tema alquanto spinoso e incerto il 23 luglio 1946, quando ormai l’arcivescovo di Lucca aveva accettato di approvare (se l’Istituto Cavanis lo richiedesse) un istituto femminile in più nella sua arcidiocesi, e P. D’Ambrosi sembra avesse scritto un abbozzo di regole. Lo scopo dell’erigendo Istituto, secondo P. D’Ambrosi, “già designato come direttore spirituale delle nuove religiose”, doveva essere “la santificazione di se stesse lavorando nell’assistenza agli Esercizi Spirituali e presso i Collegi dell’Istituto”. Nella riunione del capitolo definitoriale del 23 luglio 1946, in cui si tratta di queste cose, si citano queste regole provvisorie e P. Andreatta, alla ricerca di un’attività specifica per l’Istituto femminile, propone – a differenza di P. D’Ambrosi – che siano addette alla cura e all’educazione delle orfanelle, “dato che vi sono molte fanciulle povere, orfane e abbandonate in una zona tanto devastata dalla guerra come la Toscana”. Come motivazione (in parte erronea) di questo proposito, suggerisce che i Fondatori avevano fondato il ramo femminile nel 1808 proprio per la cura delle orfanelle. In realtà, ciò non era esatto: almeno nella lista delle “donzelle” ospitate nell’istituto femminile alle Eremite o Romite in data 10 settembre 1811, su 22 ragazze, 10 erano orfane, una era di genitori sconosciuti e 11 avevano almeno il padre, di cui è ricordato il nome nella lista, e probabilmente anche la madre. Nella riunione, P. D’Ambrosi viene nominato “delegato per le medesime” e si parla della villa di Vicopelago – che rimaneva in quell’epoca libera da abitanti per 10 mesi all’anno – come loro possibile sede. Il problema maggiore, per la fondazione dell’istituto femminile, come viene ricordato spesso nei verbali del consiglio generale, era la mancanza di una delle “pie donne” che avesse capacità, formazione, cultura sufficienti per essere la superiora e la guida del nascente istituto. Si potrebbe osservare che, dopo tanti anni (una ventina) dall’inizio del progetto, i padri avrebbero ben potuto aver provvisto a questa bisogna, sottraendo una delle donne ai servizi domestici e logistici del collegio di Porcari e inviandola a studiare e/o a essere formata per questo compito in un’altra comunità religiosa. Il fatto è che da parte degli ufficiali generali (prepositi e consiglieri) nonostante innumerevoli dibattiti sul tema, quello delle “pie donne” di Porcari era evidentemente trattato quasi da tutti con poca convinzione e, da parte di alcuni, con poca simpatia. Il dibattito sul tema dell’Istituto femminile viene ripreso nel capitolo definitoriale del 3 maggio 1947.
Qualche mese dopo, su consiglio del vicario generale dell’arcidiocesi di Lucca, le “pie Donne”, come sono chiamate spesso nel diario di congregazione, sono riunite in un’associazione, riconosciuta come tale dall’arcivescovo di Lucca, e ricevono per nomina da parte del preposito “come Direttrice e Superiora Luisa Matteoni. Non tutto va liscio, ma le prospettive sono buone…”.
Il 1946 era cominciato festosamente con l’annuncio ufficiale della nomina a vescovo di Anagni del P. Giovanni Battista Piasentini dato ufficialmente dalla S. Congregazione Concistoriale al preposito il 28 gennaio. Il preposito annuncia immediatamente il lieto evento alla congregazione con una circolare; P. Piasentini viene a Venezia (dove suonano a stormo le piccole campane di S. Agnese) e poi parte per Roma “a postulare il pallio”. Il preposito va personalmente ad avvisarne il patriarca Piazza – che molto probabilmente lo sapeva anche prima – e si forma il comitato di onoranze, che tra l’altro donerà al neo-vescovo il bel pastorale in argento e pietre semi-preziose, conservato ora nell’AICV.
Il 19 marzo 1946, festa di S. Giuseppe, con una cerimonia solenne nella chiesa di S. Agnese a Venezia, fu consacrato vescovo il primo e per il momento (2020) l’unico vescovo della nostra congregazione, P. Giovanni Battista Piasentini. Lo consacrò il cardinal patriarca di Venezia Adeodato Giovanni Piazza, avendo come vescovi con-consacranti monsignor Giovanni Jeremich, vescovo ausiliare di Venezia e monsignor Antonio Mantiero, vescovo di Treviso.” Il nuovo vescovo Cavanis lasciava naturalmente un vuoto in Congregazione, anche se continuerà sempre ad aiutare in tutti i modi il suo Istituto tanto amato. Se ne parla anche nel verbale della riunione del capitolo definitoriale del 22 aprile 1946, osservando che il vescovo Piasentini è assente e non potrà più partecipare alle riunioni come definitore o consigliere, cosa del resto piuttosto ovvia. Si procede dunque all’elezione del nuovo definitore, e viene eletto P. Pellegrino Bolzonello.
Nella riunione del capitolo definitoriale del 2 luglio 1946 ritorna a galla la questione della fondazione di Roma. Se ne discute ampiamente, dopo un nuovo sopralluogo effettuato dal P. Andreatta. Questi nota che l’ambiente è piccolo: che in seguito si dovrà costruire un nuovo edificio per la scuola (lo si farà solo nel 1986!); che non c’è spazio per un convitto, che darebbe delle entrate per mantenere la gratuità della scuola anche a Roma; che c’è una grande scuola statale nelle immediate vicinanze. Si è poi scoperto che la villa ha almeno due proprietari: il sig. Eisberg e suo figlio minorenne. Il primo dice di offrire gratuitamente la sua parte; ma bisognava pagare quella del figlio, il cui valore ammontava a 11 milioni e mezzo di lire, prezzo ancora maggiore che nella stima precedente, del 1945, e comunque iperbolica e impossibile per l’Istituto. Il preposito e il suo consiglio votano unanimemente in modo negativo sulla proposta di acquisto dell’immobile. Questo del resto aveva diversi “pretendenti”: si voleva farne, non si dice da chi, una colonia estiva; un ministero lo voleva per istituirvi degli uffici; i carabinieri lo volevano come loro caserma, più tardi si dice che l’immobile poteva cadere in mano… niente meno che dei comunisti! Il 23 luglio 1946 P. Andreatta comunica ai definitori che la S. Sede si stava interessando dell’argomento e forse era disposta a comprare l’immobile e cederlo all’Istituto. Analogamente il verbale dell’11 ottobre successivo, nel quale si aggiunge che “Consta che il Papa è favorevole all’acquisto del locale da parte del Vaticano, che la Commissione incaricata dell’affare ha dato parere favorevole e così pure gli ingegneri; quindi c’è la certezza che la S. Sede sarà la padrona del locale”. Nello stesso verbale si ricorda anche che “l’Istituto non può entrare in Roma se non è chiamato dalla S. Sede.” Si provvede contestualmente a nominare il rettore della nuova casa romana, nella persona del P. Antonio Eibenstein.
“1946 (15 novembre) — La Provvidenza, in maniera incredibile e insperata, con l’intervento della Santa Sede, favorì l’apertura di una casa della congregazione nel quartiere di Torpignattara a Roma, sulla Via Casilina. Ce ne fu fatto dono, sia della casa, una villa a forma di castello, sia del grande parco in cui la casa era situata, a condizione che vi si mantenesse un’opera di pastorale giovanile. Era un grande passo avanti per la congregazione.” Così recita il libretto “Dies quas fecit Dominus”. Dell’apertura e del progresso della casa Cavanis di Roma si parlerà in apposito capitolo.
Un tema del tutto nuovo di considerazione nei capitoli definitoriali si presenta nella riunione del 23 luglio 1946: “Si propone l’argomento delle Edizioni nostre dei testi scolastici: fu fatto un tentativo da P. Livio Donati e dal professor Vardanega per l’antologia di I Media: il lavoro fu affrettato e presenta parecchie deficienze. È in lavoro il secondo volume per la 2ª classe e si spera che riesca migliore e più completo”. Produrre libri di testo per la scuola e in genere libri per la gioventù era stata un’abitudine dei padri fondatori; anche P. Sebastiano Casara (Pedagogia e didattica), P. Giovanni Chiereghin (Storia), P. Francesco Saverio Zanon (Chimica, Fisica e Scienze naturali) se ne erano occupati. Più tardi produrranno libri di testo per la scuola anche P. Aldo Servini (Scienze naturali) e P. Luigi Ferrari (Italiano). Recentemente, anche se alcuni religiosi, tra cui chi scrive (Paleontologia e geologia), hanno prodotto pubblicazioni e libri di ricerca, particolarmente i successivi direttori dell’osservatorio meteorologico dell’Istituto di Venezia (i padri Riccardo Janeselli, Giulio Avi, Pietro Luigi Pennacchi), si è persa la tradizione di scrivere e pubblicare libri di testo per la scuola e, più in genere, non si può dire che siamo “un popolo di scrittori”.
6.2 Cronaca della vita della Congregazione dal 1947
Nel 1947 si presenta una nuova opportunità, che viene presa al volo, per sistemare giuridicamente la situazione delle “pie donne” – per ora solo tali – di Porcari. Seguiamo ciò che recita il verbale della riunione definitoriale del 3 maggio 1947: “Il R. P. D’Ambrosi parla poi del gruppo delle nostre Suore: propone di approfittare della Costituzione Apostolica sugli “Istituti Secolari” Provida Mater Ecclesia la quale riconosce ufficialmente una nuova forma di stato religioso. Legge gli articoli più importanti di tale Costituzione (Civiltà Cattolica del 5 Aprile 1947 n°2323) dai quali risulta che è obbligatorio per tali Istituti solo il voto di castità, ma facoltativo il voto di obbedienza, povertà e favorisce la vita comune (V. Articolo II°; paragrafo 2°). Il P. Preposito e gli altri Definitori approvano come forma più facile perché l’opera sia approvata da Roma.
Il medesimo P. D’Ambrosi riferisce che il vicario generale di Lucca chiede una relazione scritta di questo gruppo di pie donne, esistente da vari anni a Porcari; dichiara di aver scritto anche le regole non definitive, ma modificabili secondo l’esperienza. Il P. Preposito, dopo averle lette, propone di inserire un paragrafo che dimostri il legame con il nostro Istituto cioè alle dolorose e comuni deficienze delle famiglie nell’educazione morale e religiosa dei figli. Il Rev.mo P. Preposito delega il P. D’Ambrosi di andare avanti con l’opera.”
Si noti di passaggio che, nel suo giudizio sulle famiglie dell’epoca, cioè degli anni ‘40 del secolo passato, P. Aurelio Andreatta non aveva cambiato il giudizio negativo che avevano espresso sulle famiglie i Fondatori nelle regole del 1837. Non si parlava ancora della pastorale delle famiglie e non si pensava, come si pensa ora, che era meglio una famiglia non perfetta che nessuna famiglia. Che il fine principale di una congregazione religiosa sia soltanto quello di supplenza delle famiglie non è certo l’ideale.
La risposta della Santa Sede alla richiesta del preposito per l’istituto femminile della Figlie del S. Nome – questa è la prima volta che se ne trova il nome nei documenti ufficiali – fu positiva: “è arrivata al Vescovo di Lucca la lettera di approvazione della Sacra Congregazione dei Religiosi, e quindi le aspiranti possono formare una congregazione di diritto diocesano.” Finalmente! Il capitolo definitoriale decide anche che le suore abiteranno a Porcari e non a Vicopelago, come si era ventilato in un primo tempo.
Nello stesso anno un’altra grande possibilità viene invece, purtroppo, perduta: un “tale” vescovo brasiliano, quello di Guaxupé (del sud dello Stato di Minas Gerais), che poi è Mons. Dom Hugo Bressane de Araujo, chiede all’istituto di aprire delle case nella sua diocesi; offriva nella lettera del 12 settembre 1946 “un ginnasio con sei ettari di terreno” e nella lettera successiva, del 2 marzo 1947, “due parrocchie, anche con scuole”. L‘istituto decide di declinare l’invito al momento e di non aprire case in Brasile in quell’anno (1947); si accenna al vescovo invitante che forse l’anno successivo si sarebbe potuto accedere alla sua richiesta, ma poi di fatto la proposta sarà accantonata. Il motivo di non considerare per il momento la proposta era, come al solito, “la scarsità del personale”, anche se in quell’anno la congregazione era particolarmente fiorente, con 48 sacerdoti e numerosi fratelli e chierici, e la recente apertura delle case di Borca (quanto effimera!) e di Roma. Nella risposta al vescovo di Guaxupé, P. Andreatta ribadisce che nelle future eventuale scelte, che la congregazione darà “sempre la precedenza alla scuola” . Di Guaxupé di parlerà ancora varie volte: nella riunione del capitolo definitoriale del 2 gennaio 1948, nel quale dopo un breve dibattito si vota: su cinque votanti, uno solo vota a favore, e la questione si considerò chiusa. Tuttavia una visita a Venezia del vescovo brasiliano ripropose la questione, questa volta fornendo a voce e per iscritto maggiori dettagli, che sembravano realmente convenienti. Ma nei due capitoli definitoriali del 5 giugno e del 4 agosto 1948 la proposta fu riesaminato e insabbiata.
“VÓVO”: UN’ANOMALA FORMULA DI PROFESSIONE DI P. FRANCO DEGAN
Prima della riforma delle costituzioni del 1969-70, entrate in vigore nel 1971, gli aspiranti in genere entravano in seminario minore o probandato a dieci o dodici anni, per frequentarvi la quinta elementare o la prima media, e facevano l’anno del noviziato dopo aver frequentato il ginnasio, quindi a quindici o sedici anni, seguendo le prescrizioni sull’età minima di 16 anni per la validità della prima professione temporanea indicata dal Codice di diritto canonico del 1917.
Alcuni entravano in seminario più tardi, e allora potevano entrare in noviziato a 19-20 anni o più, ma erano ancora rari. In genere dunque i novizi che si presentavano all’altare per emettere i loro primi voti temporanei, dopo effettuato l’esperienza forte del noviziato, erano ancora dei ragazzi.
Nel settembre 1947 tra i candidati alla professione c’era anche Franco Degan, un adolescente veneziano ben conosciuto in Istituto, perché ex-allievo di Venezia e figlio di un ex-allievo, il dott. Attilio Degan, che ricoprì varie cariche direttive in seno all’Associazioni Ex-allievi e alla Congregazione mariana.
Al momento di pronunciare la formula della professione, in latino a quei tempi, Franco avrebbe dovuto cominciare, secondo il rituale, con la parola Voveo. Questa forma verbale del verbo latino vovere, vuol dire “Faccio voto”. Nonostante le prove fatte in antecedenza, nella preparazione alla professione, e probabilmente emozionato dalla circostanza, Franco esordì invece dicendo Vóvo…, e lì si fermò e considerò che vóvo, nel suo (e mio) dialetto veneziano, vuol dire “uovo”. Cominciò a ridere e non si fermava più. Cominciarono a ridere con qualche secondo di ritardo anche gli altri novizi professandi, e ci volle del tempo per ristabilire la serietà e ricominciare la celebrazione della sua professione.
Franco tuttavia emise i voti seriamente e li mantenne per tutta la vita, vivendo tutti i giorni della sua vita nella serenità e nella letizia che erano tipiche della sua personalità.
Più tardi, la Chiesa comprese che era più opportuno far emettere la prima professione religiosa più tardi, dopo i 18 anni, e così prescrive il Codice di diritto canonico del 1983; in pratica in genere si emettono i primi voti anche più tardi, e la cosa sembra molto opportuna.
Nella riunione del 2 gennaio 1948, si prendono all’unanimità anche altre varie decisioni negative in risposta a varie proposte ricevute di fondazioni: la parrocchia di Possagno, che ci era stata offerta, l’acquisto del cocuzzolo del Colle di S. Antonio sempre a Possagno, l’invito ai padri di inviare alcuni religiosi insegnanti per una scuola marinara di Imperia, in Liguria.
Il capitolo definitoriale del 5 giugno 1948 decide di spostare il seminario minore in Trentino da Costasavina a Levico, dato che la proprietaria dello stabile di Costasavina lo aveva messo in vendita a un prezzo spropositato, e dato che si era trovato di meglio a Levico; e si approva l’inizio dei lavori di costruzione del liceo di Possagno, su progetti dell’architetto Fausto Scudo di Crespano. Se ne riparla ancora nel capitolo definitoriale dl 14 aprile 1949 e la costruzione dell’edificio viene approvata all’unanimità. Il liceo aveva cominciato a funzionare almeno nell’anno scolastico 1948-49 nella casa detta “Casa Bombarda”, nel complesso di edifici e terreni di proprietà dell’Istituto.
“1948 (3 novembre) — L’Istituto avendo acquistato una casa nel ridente paese di Levico, in provincia di Trento, vi trasferì gli aspiranti dalla “Villa Moretta” (Costasavina, Trento) nella nuova sede del seminario, sotto il nome di “Istituto Maria Regina”.”
P. Aurelio Andreatta aveva compiuto i suoi tre mandati sessennali come preposito, in totale per 18 anni, in parte per le sue capacità, molto apprezzate, in parte anche perché il lungo periodo di guerra e dopoguerra non permetteva o non suggeriva cambiamenti, e a volte impediva la riunione dei capitoli. Nel capitolo generale del luglio 1949, non fu naturalmente rieletto preposito, ma vicario generale del P. Gioachino Tomasi e vi rimase per l’intero sessennio. Al capitolo generale del 1949, essendo nato il 7 agosto 1893, aveva 56 anni. Le regole di quell’epoca prevedevano che il preposito uscente potesse scegliere, per la prima volta, la sua residenza. P. Aurelio scelse la nuova casa di Roma da lui aperta e P. Antonio Cristelli, il suo successore, ve lo inviò come pro-rettore e poi rettore. Nel 1953 e fino al 1955 passò dalla casa di Torpignattara ad essere il primo direttore Cavanis della nuova casa del Tata Giovanni, alla Piramide, sempre a Roma.
Dopo due anni passò a risiedere nella casa di Venezia dall’autunno 1955, inizialmente come vicario e primo consigliere. Insegnava lingua e letteratura italiana nei licei, e lo faceva con rara competenza, grande cultura, gusto per il bello, ed era armato di una pazienza da santo. Malato di diabete, era piuttosto debole e cagionevole di salute nell’ultimo decennio della sua vita; in conseguenza, sempre stanco, aveva grande difficoltà a controllare le classi e a mantenere la disciplina. Si faceva però amare e stimare dagli allievi, ai quali, nelle loro bizzarrie giovanili, molto perdonava. Padre Aurelio Andreatta morì premeturamente all’ospedale di Valdobbiadene (Treviso) il 7 agosto 1962.
Il suo ritratto per la galleria dei prepositi generali, dipinto dal pittore Alessandro Pomi, era stato commissionato dal suo successore P. Antonio Cristelli e messo in posizione nella galleria dei prepositi il 24 agosto 1952. È un ritratto molto fedele e di qualche valore.
Le spoglie del caro e prezioso padre Aurelio, dopo un conveniente tempo di seppellimento nel campo per gli ecclesiastici e religiosi, riposano nell’abside funeraria dell’Istituto Cavanis nella chiesetta di S. Cristoforo, nel cimitero civico di S. Michele a Venezia.
6.3 Lo sviluppo dell’Istituto Cavanis sotto i pontificati di Pio XI e Pio XII e l’ambiente cattolico in Italia 1922-1958
L’istituto Cavanis è sempre rimasto piccolo e modesto: pare che questo faccia parte della sua natura e del suo stesso spirito. Esso conobbe tuttavia un notevole aumento, in personale e nel numero di case, sempre solo in Italia per il momento, nel periodo tra le due guerre e negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo XX, particolarmente durante il pontificato di Pio XII, ma anche di Pio XI.
Alla fine della prima guerra mondiale (1918) l’Istituto Cavanis, dopo 116 anni dall’inizio dell’Opera (1802) e 80 anni dopo la sua erezione canonica (1838), consisteva nella casa di Venezia con le sue scuole; il collegio Canova, semidistrutto dalla guerra per la sua eccessiva vicinanza al fronte del Piave e del Grappa, sarebbe stato riaperto dopo qualche tempo (fine 1919). La casa di Lendinara era stata chiusa definitivamente ventidue anni prima (1896). Non era certo una situazione rosea, e corrispondeva a una posizione di stallo e di immobilismo.
In seguito furono aperte numerose case e scuole dell’istituto, cosa che rifletteva una nuova apertura mentale, un maggiore coraggio e spirito di iniziativa, ma anche un aumento significativo dei membri attivi della congregazione, grazie anche all’aumento del numero dei seminari. A Porcari, in provincia di Lucca, si realizzò la prima uscita dei Cavanis dal Veneto, con una casa con le sue scuole e collegio (1919); si aggiunsero via via il probandato di Possagno, istallato provvisoriamente nel 1919 presso il collegio di Possagno, ma poi in un edificio apposito, sempre a Possagno; la costruzione del nuovo edificio dello studentato di Venezia (1904), per i teologi e molto più tardi anche per i propedeutici (1959); la Casa di esercizi spirituali del S. Cuore a Possagno (1936; la chiesa del S. Cuore vi fu consacrata nel 1939; un’altra ala fu costruita coraggiosamente durante la guerra e inaugurata nel 1944, come ricorda una piccola lapide alla base dello zoccolo inferiore dell’edificio); il probandato di Vicopelago (1941), sostituito poi dalla nuova sede di S. Alessio (1942), ambedue in provincia di Lucca (il probandato in Toscana, che pure aveva dato un buon frutto di preziosi religiosi Cavanis lucchesi, fu chiuso purtroppo nel 1953); il probandato di Costasavina in provincia e diocesi di Trento (1943), poi sostituito dal probandato “Maria Regina” di Levico, nella stessa provincia (1948); la casa di Roma a Torpignattara, con le scuole (1946); il grandioso (e piuttosto brutto) edificio del Liceo di Possagno “S. Giuseppe Calasanzio” (iniziato nel 1948-1949); la spettacolare casa di Capezzano Pianore con il suo collegio (1953); la direzione dell’Istituto Tata Giovanni alla Piramide a Roma (1953); la casa di Chioggia (VE) con la sua scuola professionale (1954); la casa di Solaro (MI) con le scuole e una foresteria per giovani operai, spesso ex-alunni della scuola professionale di Chioggia, sostituita in seguito dalla parrocchia di S. Antonio a Corsico (MI) (1969); la casa di vacanze a Sappada (nell’estate 1962 fu aperta la prima sede nella borgata di Cima Sappada; la seconda sede più grande, di proprietà dell’istituto, fu aperta nella borgata Kratten di Sappada nel 1968), divenuta in seguito anche sede di una piccola scuola superiore con sede nella borgata di Cima Sappada; il probandato di Fietta del Grappa (1962), chiuso nel 2006 e sostituito più tardi e fino ad oggi da un modesto centro di spiritualità e di ritiri sempre appartenente all’istituto; la casa di Asiago, convitto e casa di ferie (1975), acquistata con l’appoggio della famiglia Cosulich.
Furono aperte anche altre case, sperimentali e di durata effimera, a Pieve di Soligo (1923, direzione dell’Istituto Balbi-Valier, diocesano, della diocesi di Ceneda a quel tempo, oggi diocesi di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso: a Conselve (1924) in provincia e diocesi di Padova; a Santo Stefano di Camastra, in provincia di Messina e diocesi di Patti, con scuole (1938-1941); il collegio Dolomiti di Borca con le sue scuole, esperienza purtroppo effimera anche questa ma interessante, in provincia di Belluno, nei pressi di Cortina d’Ampezzo (1945-1953), nella splendida regione dolomitica; a Cesena, in provincia di Forlì (1958-59), diocesi di Cesena, su invito di monsigor Augusto Gianfranceschi, vescovo veneziano ex-allievo della scuola di Venezia.
La congregazione aumentava in numero di religiosi professi perpetui e di case: per dare un esempio, nel luglio 1953 i sacerdoti, compresi i neo-ordinati, erano 88 e i fratelli laici 14; in totale 102 congregati, cui vanno aggiunti alcuni chierici già professi perpetui. Le case a questa data erano nove, nonostante la recente chiusura (avvenuta proprio in quest’anno) delle case di Borca di Cadore e del Probandato di S. Alessio.
Tabella: apertura di case nel periodo 1919-1968
Mandato do preposito | Anno di apertura | Casa |
Mandato di P. Augusto Tormene (2 case) 1919-1922 | 1919 | Porcari Probandato di Possagno |
Mandato di P. Agostino Zamattio (3 case) 1922-1928 | 1923 | Casa di Pieve di Soligo |
1924 | Casa di Conselve | |
Studentato di Venezia | ||
Mandati di P. Aurelio Andreatta (7 case) 1931-1949 | 1936 | Casa S. Cuore |
1938 | Casa di S. Stefano di Camastra | |
1941 | Probandato di Vicopelago e poi S. Alessio | |
1943 | Probandato di Costasavina | |
1945 | Casa di S. Vito “Dolomites” | |
1946 | Casa di Torpignattara a Roma | |
1948 | Probandato di Levico | |
Mandato di P. Antonio Cristelli (5 case) 1949-1955 | 1949 | Liceo di Possagno |
1953 | Casa di Capezzano Pianore Casa di Tata Giovanni a Roma | |
1954 | Casa di Chioggia | |
1962 | Casa di Solaro | |
Mandato di P. Giuseppe Panizzolo (2 case) 1961-1967 | 1962 | Casa di ferie di Cima Sappada (filiale di Venezia) |
1962 | Seminario di Fietta del Grappa |
Si nota che il massimo numero di nuove case fu aperto ed eretto durante le prepositure del P. Aurelio Andreatta (1931-1949) e del P. Antonio Cristelli (1949-1955). Il mandato di P. Cristelli fu particolarmente fecondo.
Per quanto riguarda i nuovi religiosi Cavanis del periodo, necessari per l’apertura delle numerose nuove case, la lista delle ordinazioni presbiterali ci fornisce dei dati interessanti, particolarmente l’aumento delle ordinazioni presbiterali negli anni ‘40 e ’50 del secolo XX, e la diminuzione successiva. Nella tabella, d’altra parte, è significativa, in senso opposto, l’estrema scarsità di ordinazioni presbiterali nella prima lunga fase della storia della congregazione: dal 1802 al 1900, si registrano solo 34 ordinazioni presbiterali; di questi 34 religiosi Cavanis solo 27 saranno perseveranti fino alla morte; e parecchi moriranno molto giovani. Anche il primo ventennio del secolo XX è piuttosto debole, con sette ordinazioni presbiterali in 18 anni, con cinque presbiteri Cavanis perseveranti. In tutto, dall’inizio dell’opera e della congregazione al 1918, in 116 anni, sono 41 ordinazioni presbiterali, con 32 preti Cavanis perseveranti.
Tabella: ordinazioni presbiterali (1795-2020)
anno | data | N | nomi | N persev. | osservazioni |
1795 | 21.3 | 1 | Anton’Angelo Cavanis | 1 | |
1806 | 20.12 | 1 | Marcantonio Cavanis | 1 | |
~1796 o 1797 | — | 1 | P. Pietro Maderò | 1 | Entrato già sacerdote anziano in congregazione il 14 giugno 1840. |
…. | …. | …. | …. | …. | |
1828 | 20.9 | 1 | Matteo Voltolini | 1 | |
1829 | 19.9 | 3 | Pietro Spernich, Angelo Cerchieri*, Giovanni Battista Toscani* | 1 | Cerchieri e Toscani lasciano presto la congregazione |
1830 | |||||
1831 | |||||
1832 | — | 1 | Giovanni Paoli | 1 | |
1833 | |||||
1834 | |||||
1835 | 13.6 | 1 | Giovanni Battista Traiber | 1 | |
1836 | |||||
1837 | 23.9 | 1 | Giuseppe Marchiori | 1 | |
1838 | |||||
1839 | |||||
1840 | |||||
1841 | 18.9 | 1 | Vittorio Frigiolini | 1 | Ordinato prima di entrare in congregazione e passano al clero diocesano. |
1842 | 24.9 | 1 | Giuseppe Rovigo | 1 | |
1843 | 11.3 | 1 | Giuseppe Da Col | 1 | |
1844 | ~17.6 | 1 | Alessandro Scarella | 1 | |
1845 | |||||
1846 | |||||
1847 | |||||
1848 | |||||
1849 | |||||
±1850 | 1 | Eugenio Leva (attorno al 1850; comunque poco dopo il 1849 | 1 | ||
1850 | 30.3 | 1 | Giovanni Francesco Mihator | 1 | |
1851 | |||||
1852 | |||||
1853 | |||||
1854 | 17.9 | 1 | Antonio Fontana | 1 | |
1855 | 4.3 | 1 | Giuseppe Bassi | 1 | |
1856 | 17.5 | 1 | Vincenzo Brizzi | 1 | |
1857 | 19.9 | 1 | Domenico Sapori | 1 | |
1858 | |||||
1859 | |||||
1860 | 2.6 | 1 | Giovanni Battista Fanton | 1 | |
1861 | 22.12 | 1 | Giovanni Chiereghin | 1 | |
1862 | |||||
1863 | |||||
1864 | 17.12 | 3 | Giovanni Maria Ghezzo, Francesco Bolech, Domenico Piva | 3 | ordinati a Venezia dal patriarca Angelo Ramazzotti. |
1865 | 15.4 | 1 | Andrea Berlese | 1 | |
1866 | |||||
1867 | |||||
1868 | |||||
1869 | — | 1 | Narciso Emanuele Gretter | 1 | ordinato prete prima del 1869 |
1870 | 12.3 A PD | 1 | Giuseppe Miorelli | 0 | Esce di congregazione il 22-23 agosto 1886 |
~1871 | Michele Marini | 0 | Esce di congregazione il ~4.7.1887 | ||
1872 | |||||
1873 | |||||
1874 | |||||
1875 | |||||
1876 | |||||
1877 | — | 1 | Carlo Simeoni | 1 | (nel 1877 o 1878) |
1878 | |||||
1879 | |||||
1880 | |||||
1881 | |||||
1882 | |||||
1883 | 3.6 | 1 | Gottardo Bernardi* | 0 | Esce di congregazione nel gennaio 1884 e va trappista. |
1884 | 12.4 7.6 ~20.9 | 3 | Francesco Cilligot* Antonio Dalla Venezia Vincenzo Rossi | 2 | Cilligot esce d’Istituto il 3 agosto 1893. Sembra abbia celebrato la 1ª messa il 20.9. |
1885 | |||||
1886 | |||||
1887 | |||||
1888 | |||||
1889 | |||||
1890 | |||||
1891 | |||||
1892 | 11.6 | 1 | Giovanni Maria Spalmach | 1 | |
1893 | |||||
1894 | |||||
1895 | |||||
1896 | 4.4 | 2 | Augusto Tormene, Francesco Saverio Zanon | 2 | |
1897 | 17.4 | 2 | Basilio Martinelli, Giacomo Ballarin* | 1 | Ballarin, dimesso il 16.7.1901 |
1898 | 14.8 | 1 | Giuseppe Borghese | 1 | |
1899 | |||||
1900 | |||||
1901 | 25.7 | 1 | Agostino Zamattio | 1 | |
1902 | |||||
1903 | 26.7 e 19.12 | 2 | Enrico Calza (26.7) e P. Giovanni D’Ambrosi (19.12) | 2 | |
1904 | 2.4 | 1 | Giovanni Rizzardo | 1 | |
1905 | |||||
1906 | |||||
1907 | |||||
1908 | |||||
1909 | |||||
1910 | 21.5 | 1 | Agostino Menegoz* | 0 | Si veda la sua biografia. |
1911 | |||||
1912 | 21.12 | 1 | Enrico Perazzolli* | 0 | Uscì di Congregazione il 23.1.1924. |
1913 | 20.4 | 1 | Agostino Santacattarina | 1 | |
1914 | |||||
1915 | |||||
1916 | 22.6 | 1 | Michele Busellato | 1 | |
1917 | |||||
1918 | |||||
1919 | — | 4 | Amedeo Fedel, Mario Janeselli, Aurelio Andreatta, Luigi Janeselli | 4 | |
1920 | 20.3 | 1 | Alessandro Vianello | 1 | |
1921 | |||||
1922 | |||||
1923 | 3 | Vincenzo Saveri, Mansueto Janeselli, Valentino Fedel | 3 | ||
1924 | 22.6 | 1 (2?) | Giovanni Battista Piasentini; e P. Mario Miotello? | 1 (2?) | |
1925 | |||||
1926 | |||||
1927 | 2.4 | 1 | Antonio Eibenstein | 1 | |
1928 | |||||
1929 | |||||
1930 | |||||
1931 | 7.6 | 5 | Angelo Sighel, Giovanni Tamanini, Gioacchino Sighel, Riccardo Janeselli, Antonio Cristelli | 5 | Gioacchino Sighel ordinato a Pisa, il 31.5.1931. Gli altri a Venezia. |
1932 | |||||
1933 | 2.7 | 4 | Lino Janeselli, Luigi Ferrari, Carlo Donati, Angelo Pillon | 4 | |
1934 | |||||
1935 | 30.6 | 4 | Bruno Marangoni, Gioachino Tomasi, Federico Sottopietra, Cesare Turetta | 4 | |
1936 | 5.77 | 2 | Aldo Servini, Livio Donati | 2 | |
1937 | 4.7 5.12 | 5 | Guido Cognolato, Antonio Turetta, Luigi Candiago, Alessandro Valeriani Luigi D’Andrea | 5 | |
1938 | 3.7 | 2 | Ferruccio Vianello, Pio Pasqualini, | 2 | |
1939 | ? | 3 | Vittorio Cristelli, Angelo Guariento Luigi Sighel | 3 | P. Luigi Sighel ordinato prete a Lucca. |
1940 | 30.6 | 2 | Francesco Rizzardo, Grigolo Federico | 2 | |
1941 | 29.3 | 2 | Guerrino Molon, Andrea Galbussera | 2 | |
1942 | 28.6 | 2 | Giuseppe Fogarollo, Enrico Franchin | 2 | |
1943 | 3.6 | 1 | Valentino Pozzobon | 1 | |
1944 | 21.5 | 1 | Giuseppe Simioni | 1 | |
1945 | 10.6 | 4 | Igino Pagliarin*, Giuseppe Panizzolo, Antonio Reginato*, Riccardo Zardinoni | 2 | |
1946 | 0 | — | |||
1947 | 22.6 | 1 | Giuseppe Colombara | 1 | |
1948 | 6.6 | 5 | Ermenegildo Zanon, Pietro Mayer*, Francesco Dal Favero*, Ugo Del Debbio, Giuseppe Maretto | 3 | Pietro Mayer e Francesco Dal Favero escono di Congregazione |
1949 | 26.6 | 2 | Narciso Bastianon e Giovanni De Biasio | 2 | |
1950 | 4.6 | 4 | Angelo Trevisan, Luigi Pinese*, Giorgio Dal Pos*, Lino Pollazzon* | 1 | |
1951 | 1.7 | 6 | Armando Manente, Luigi Toninato, Luigi Rito Cosmo, Antonio Magnabosco*, Armando Soldera, Fiorino Basso | 5 | |
1952 | 7.6 | 2 | Attilio Collotto, Giuseppe Pagnacco | 2 | |
1953 | 21.6 | 7 | Nicola Zecchin, Giuseppe Cortelezzi, Primo Zoppas, Giuseppe Giosuè Gazzola, Mario Merotto, Vittorio Di Cesare*, Giovanni (Nani) Sartorio* | 5 | Venezia. Questo è l’anno con il maggior numero di ordinati preti nella storia dell’Istituto, prima del 2008, in cui ci furono otto preti. |
1954 | 27.6 | 6 | Arcangelo Vendrame, Tullio Antonello*, Marino Scarparo, Artemio Bandiera, Orfeo Mason, Angelo Zaniolo | 5 | |
1955 | 4.6 | 6 | Franco Degan, Natale Sossai, Bruno Lorenzon, Raffaele Pozzobon, Mauro Verger*, Francesco Giusti* | 4 | |
1956 | 24.6 | 7 | Ottorino Villatora*, Amedeo Morandi, Diego Dogliani, Marcello Quilici, Sergio Vio, Mario Zendron, Augusto Taddei | 6 | |
1957 | 23.5 | 3 | Danilo Baccin, Guglielmo Incerti, Lino Carlin | 3 | |
1958 | 20.4 28.6 | 4 | Angelo Moretti Siro Marchet, Diego Beggiao, Giulio Avi | 4 | P. Moretti è ordinato prete a Roma. Gli altri a Venezia. |
1959 | 14.3 | 3 | Rocco Tomei, Feliciano Ferrari, Bruno Consani | 3 | Bruno Consani è ordinato il 21.6 |
1960 | 1 | Nicola Del Mastro | 1 | Venezia | |
1961 | 1°.6 | 3 | Fabio Sandri, Silvano Mason, Emilio Gianola | 3 | Venezia |
1962 | 0 | ||||
1963 | 30.6 | 2 | Giuseppe Francescon, Edoardo Ferrari | 2 | Venezia |
1964 | 21.6 | 1 | Giuseppe Leonardi | 1 | Venezia |
1965 | 2 | Fernando Fietta, Giancarlo Tittoto | 2 | Venezia Venezia | |
1966 | 26.6 | 1 | Remo Morosin | 1 | Venezia |
1967 | 29.6 | 1 | Diego Spadotto | 1 | Venezia |
1968 | 23.6 | 1 | Giovanni (Gianni) Masin* | 0 | Venezia. |
1969 | 3 | Liberio Andreatta*, Paolo Calzavara*, Giuseppe Viani | 1 | ||
1970 | 4.4 | 1 | Antonio Armini | 1 | |
1971 | 27.3 28.3 | 2 | Ottavio Chinello Celestino Camuffo | 2 | Venezia Venezia |
1972 | 1 | Pietro Luigi Pennacchi | 1 | Castelnuovo Garfagnana (Lucca) | |
1973 | 1 | Flavio Saccarola* | 0 | ||
1974 | 6.4 | 1 | Luciano Bisquola | 1 | A Mazzorno sinistro (Adria, Rovigo), dal vescovo di Chioggia Mons. Piasentini |
1975 | 22.3 23.3? 6.12 | 3 | Pietro Fietta, Franco Cadorin* Tino Comunian | 1 | Ordinato a Felette (Bassano, Vicenza) dal vescovo di Padova. Ad Asolo, dal vescovo di Vicenza. Ordinato a Stanghella (Padova) |
1976 | 19.9 | 1 | Luigi Bellin | 1 | A Grigno (Tn) |
1977 | 0 | ||||
1978 | 0 | ||||
1979 | 0 | ||||
1980 | 0 | ||||
1981 | 12.12. | 1 | Calixto Antônio Pawlak* | 0 | A Realeza, PR, Brasile. È il primo prete Cavanis brasiliano. |
1982 | 15.5 | 1 | Mario Valcamonica | 1 | Corsico (MI) |
1983 | 0 | ||||
1984 | 8.4 8.12 | 2 | Nelson Luiz Martins Caetano Ângelo Sandrini | 2 | A Ortigueira (PR) A Jaguariaíva (PR) |
1985 | 7.12 | 1 | Antônio Aparecido Vilasboas* | 0 | Ad Apucarana (PR). Dimesso 8.7.2010 |
1986 | 28.6 28.6 | 2 | Antônio Paulo Sagrilo Irani Luiz Tonet | 2 | Pérola d’Oeste (PR) Pérola d’Oeste (PR) |
1987 | 11.10 12.10 6.12 12.12 | 4 | Giuseppe Moni Tadeu Biasio Vandir Santo Freo Luiz Caetano Menezes de Macedo (Caetaninho)* | 3 | A S. Giorgio al Tagliamento (VE) A Piraí do Sul (PR) A Planalto (PR) A Ortigueira (PR) |
1988 | 10.12 | 1 | +Norberto Artêmio Rech | 1 | A Curitiba (PR) |
1989 | 1.7 28.11 9.12 16.12 | 4 | +Aldino Antônio Da Rosa Loris Fregona* João Ferreira dos Santos* Antônio Élcio Aleixo | 2 | A Planalto (PR) Bocaiuva (MG) Bairro dos França, Ortigueira (PR) |
1990 | 13.1 9.12 | 2 | José Osni Kuhnen* João Pedro Fauro* | 0 | Realeza (PR); Esclaustr. Realeza (PR). Esclaustr. 2015. |
1991 | 12.1 7.12 8.12 14.12 | 4 | Edmilson Mendes Walter De Jesus Souza* +Luiz Enrique Navarro Durán (Lucho) Cláudio Chrominski* | 2 | Ortigueira (PR) Turvo (PR) Quito, Ecuador Ortigueira (PR) |
1992 | 20.6 20.12 | 2 | Rodrigo Vicente Pacheco Guerrero* Alvise Bellinato | 1 | Chillanes, Ecuador.Uscito il 23.5.2013 Venezia, S. Marco. |
1993 | 3.7 | 1 | José Valdir Siqueira | 1 | Realeza (PR) |
1994 | 18.62.7 | 2 | João da Cunha James Dalalasta* | 1 | Ponta Grossa, Vila Cipa (PR) Ortigueira (PR) |
1995 | 27.5 17.6 8.7 9.7 | João da Costa Holanda +Luigi Scuttari e Pietro Benacchio Valdecir Pavan* Martinho Paulus | Belo Horizonte A S. Marco, a Venezia. Luigi Scuttari, deceduto nel 2013. V. Pavan ordinato a Realeza; Martinho Paulus a Santo Antônio Sudoeste. | ||
1996 | 29.6 15.12 | 2 | Alberto Quijije Meza Silvestre Selunk* | 1 | Quito Xanxeré, SC Uscito 2022. |
1997 | 27.12 | 1 | Roger Rafael Roncallo Buelvas* | 0 | Barranquilla, Colombia. Uscito il 12.6.2013. |
1998 | 4.7 11.10 | 2 | Edemar de Souza Édino Lopes* | 1 | Pérola d’Oeste, PR Jaguariaíva, PR Dimesso nel 2007. |
1999 | 20.3 | 1 | José Sidney Alves do Prado | 1 | Castro, PR |
2000 | 0 | ||||
2001 | 24.3 8.9 13.10 | 3 | +Cleimar Pedro Fassini Vanderlei Pavan ***?? Manoel Rosalino Pereira da Rosa | 3***cfr | Pirai do Sul, PR. Deceduto 16.7.2001 (vedi biografia) Realeza Bocaiuva, MG |
2002 | 21.4 7.12 14.12 | 3 | Luca Scuttari* Cézar Efrén Viveiro Quinteiro* César Gabriel Quevedo García | 1 | A S. Pietro, Roma Uscito, giugno 2014. Machala, Ecuador. Uscito nel 2012 per esclaustrazione. Ordinato a Sullana (Monsefú), Perù |
2003 | 21.6 | 1 | Ciro Sicignano | 1 | Castellammare di Stabia-NA |
2004 | 27.3 20.3 27.3 28.8 | 4 | Fredy Manuel Negrete Orozco Alex Palacios Oliva* Antônio Ganser* Francisco Armando Arriaga Morán | 2 | A Barranquilla, Colombia A Sullana, Perù. Dimesso il 22.10.2012 Pérola d’Oeste, PR Guayaquil, Ecuador |
2005 | 0 | ||||
2006 | 9.12 16.12 | 2 | Sebastião Adir De Souza Bueno* Adriano Sacardo | 1 | Curiuva,PR. Dimesso ipso facto il 7.6.2013 Serranópolis, PR |
2007 | 10.2 12.10 | 2 | Milton Cezar Freo Tubias Ilson Carneiro Napoleão* | 1 | Pérola d’Oeste, PR Ventania, PR; dimesso 2012/2017- |
2008 | 19.4 31.5 31.5 25.9 20.12 9.2 22.11 13.12 | 8 | Rogerio Diesel Carlos Alberto Chavez Moreira* José Henry Calderón Acosta Marcio Campos da Silva Deivis Antonio Rodríguez Polo* André Pereira Souto* Delvair Batista Lemonie Paulo Oldair Welter | 5 | Planalto. PR Santo Domingo, Ecuador; uscito 2019. Bogotá, Colombia Parr. São José a São Paulo Barranquilla, Colombia Uscito il 13.5.2013, per esclaustrazione, e dimissione 2022. Bocaiuva, MG, uscito nel 2019. Realeza, PR Planalto, PR |
2009 | 14.3 14.11 12.12 19.12 | 4 | Alexander Ravelo Vega* José Amilton Gomes dos Santos Braz Elias Pereira João Pedro Pinheiro | 3 | Bogotá, Colombia. Castro Belo Horizonte Ortigueira |
2010 | 16.1 16.1 10.7 14.8 11.12 | 5 | Trajano Moreno Moreno* Carlos Aníbal Campoverde M.* Aparício Carneiro Filho Adenilson Alves Souza Jorge Luiz de Oliveira | 3 | Valle Hermoso Uscito luglio 2013. Valle Hermoso Uscito luglio 2013. Castro, PR Uberlândia, MG Três Rios-RJ |
2011 | 5.3 6.3 6.3 16.7 17.7 3.12 | 6 | Franco Allen Somensi* Josoé Francisco Zanon Roberto Laufer* Diego Valenga* José Carlos da Silva Leite Maurício Kviatkoski de Lima | 3 | Chopinzinho, PR, *** Planalto, PR Uscito nel dicembre 2016 Castro. Uscito nell’agosto 2013 Ventania, PR Vila Cipa, Ponta Grossa, PR |
2012 | 2.6 30.9 25.11 25.11 15.12 | 5 | Paulo Sérgio Vieira* Tiburce Mouyéké Barbeault Théodore Muntaba Eyor’Mbo Benjamin Insoni Nzemé José Luis Blanco Luque | 5 | Pitanga, PR. Davao, Filippine Kinshasa-RDC Kinshasa-RDC Sábana Larga, Barranquilla, Colombia |
2013 | 5.10 11.10 | 2 | Armando Masayon Bacalso Salvador Jain Cuenca | 2 | Lomondao, Davao Tagum |
2014 | 27.4 1.8 13.12 | 3 | Marcos Bugila* Célestin Muanza-Muanza* Reinaldo Chuvirú Supayabe | 1 | Ortigueira, PR. Uscito nel dicembre 2014. Kinshasa-RDC Uscito il 7.9.2022. San Antonio de Lomerío, Bolivia. |
2015 | 0 | — | — | — | |
2016 | 10.6 10.6 10.6 3.7 16.7 23.7 | 6 | René De Asis Sitjar (*provv) Larry Jay Paccial Lantano Jason Rubinos Cabacaba Daniel Junior Musulu Nkoy Ricardo Buratto* Rodrigo Duarte | 4 | Tagum Tagum Tagum Kinshasa Jaguaraíva, PR Realeza, PR |
2017 | 21.5 15.7 | 2 | Clément Boke Mpámfila Jonas Barbacovi | 2 | Kinshasa Realeza, PR |
2018 | 13.5 13.5 13.5 22.6 22.6 | 5 | (Rodolphe) Héritier Bwene François Kanyinda Mpinga Emmanuel Kifuti Kiese Robert Jann Fallera Joe Lio Maghanoy | 5 | Kinshasa. RDC Kinshasa, RDC Kinshasa, RDC Tagum, Filippine Tagum, Filippine |
2019 | 6.12 26.10 | 2 | Jeiner Alí Pretel Moreno Jean Banika Kayaba Masoka | 2 | Bogotá, Colombia Kinshasa, RDC |
2020 | 16.7 | 1 | Silva dos Santos Ademar Aparecido | 1 | Castro, PR |
2021 | 6.11 | 1 | Lukumu Kabeia Aimé Junior | 1 | Belo Horizonte, MG |
2022 | 2.7 16.7 23.7 19.11 19.11 | 5 | Jérémie Mundele Naïn Julio Bolívar Rosero Guillén Moïse Kibala Sakivuvu Jude-Hervé Tomanzondo Balondo Hervé Koto Mbuta | 5 | Cavaso del Tomba, Italia Quevedo, Ecuador Kinshasa, RDC Kinshasa, RDC Kinshasa, RDC |
Tabella: Date di entrata in Istituto, professioni e ordinazioni
cognome | nome | data di nascita | entrata in istituto | vestizione | 1ª prof | professione perpetua | tonsura | primi due ordini minori | secondi due ordini minori | suddiaconato | diaconato | presbiterato | morte | |||||||||
Andreatta | Aurelio | 1893.8.16 | 1905.10.12 | 1909.7.4 | 1910.7.5 | 1913.7.5 | 1912.12.12 | 1916.6.22 | 1916.6.22 | 1918.9.8 | 1918.12.21 | 1919.4.5 | 1962.8.7 | |||||||||
Aleixo | Antônio Elcio | 1964.11.27 | 1978 | 1983.2 | 1984.2.12 | 1988.1.17 | — | — | 1988.12-3 | 1989.12.9 | ||||||||||||
Armanini | Luigi | 1919.2.9 | 1851.7.21 | 1852 | 1857 | —– | —– | —– | —– | —– | —– | —– | 1870.1’.6 | |||||||||
Armini | Antonio | 1938.4.6 | 1964.6.5 | 1964.6.5 | 1965.12.9 | 1969.2.2 | 1969.10.26 | 1969.12.20 | 1970.4.4 | 2017.6.13 | ||||||||||||
Arriaga Morán | Francisco Armando | 1975.6.28 | 1996.9.1 | — | 1999.8.28 | 2003.7.17 | — | — | 2003.12.8 | 2004.8.28 | ||||||||||||
Avi | Giovanni | 1821.7.17 | 1843.2.2 | 1844.4.12 | 1844.12.4 | —– | —– | —– | —– | —– | —– | —– | 1863.1.8 | |||||||||
Avi | Giulio | 1933.9.5 | 1950.10.15 | 1951.10.22 | 1955.6.4 (o 1954.10.24) | 1955.6.4 | 1957.7.28 | 1958.3.1 | 1958.6.22 | 2000.11.3 | ||||||||||||
Avi | Francesco | 1830.6.10 | 1850.4.11 | 1850~ | 1853.6.13 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1886.12.1 | |||||||||
Aleixo | Antonio Elcio | 1964.11.27 | 1978 | 1983.1 | 1984,2.12 | 1988.1.17 | — | — | 1988.12.12 | 1989.12.16 | ||||||||||||
Baccin | Danilo | 1933.11.30 | 1949.10.23 | 1950.10.24 | 1955.2.27 | 1954.4.3 | 1955.6.4 | 1956.6.17 | 1957.5.23 | 1957. 1957.10.24 | 2001.11.17 | |||||||||||
Bandiera | Artemio | 1929.6.2 | 1940.10.5 | 1947.10.19 | 1947.10.29 | 1950.10.29 | 1950.12.23 | 1952.6.29 | 1953.6.21 | 1953.12.19 | 1954.4.3 | 1954.6.17 | 2014..11.7 | |||||||||
Bantayan Pauliño | Charles | 1987.2.20 | 2010.5.21 | — | 2014.1.5 | 2022.5.2 | — | — | 2022.5.2 | |||||||||||||
Barbacovi | Jonas | 1988.2.4 | 2004.2.7 | — | 2009.1.25 | 2016.12.17 | — | — | 2017.7.15 | |||||||||||||
Barbaro | Giacomo | 1844.3.26 | 1860.10.30 | 1860.12.8 | 1863.12.15 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1882.9.17 | |||||||||
Barbot | Sebastiano | 1889 | 1904~ | 1908.11.20 | 1911.12.8 | 1914 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1985.2.7 | |||||||||
Bartolamedi | Edoardo | 1909.6.19 | 1947 | 1947.10.19 | 1949.10.29 | 1952.10.26 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 19773.10 | |||||||||
Bassan | Ausonio | 1883.7.1 | 1925.10.7 | 1926.4.22 | 1928.5.1 | 1931.5,2 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1977.4.25 | |||||||||
Bassi | Giuseppe | 1832.4.11 | 1847.9.5 | 1848.5.7 | 1853.6.15 | 1852.12.26 | 1852.12.26 | 1854.4.23 | 1854.12.23 | 1855.4.4 | 1905.6.3 | |||||||||||
Basso | Fiorino | 1921.5.25 | 1946.8.15 | 1946.11.21 | 1947.10.29 | 1950.10.29 | 1948.6.27 | 1950.1.3 | 1950.9.23 | 1950.12.23 | 1951.3.10 | 1951.7.1 | 2009.5.2 | |||||||||
Bastianon | Narciso | 1923.3.1 | 1936.9.15 | 1941.10 | 1942.10.16 | 1946.11.1 | 1948.2.21 | 1948.3.13 | 1948.6.27 | 1948.12.19 | 1949.6.26 | 1997.4.25 | ||||||||||
Battesti | Diac. Angelo | 1807.1.17 | 1825.10.19 | 1830.27.8 | ? | —- | 1831.4.2 | 1831.5.8 | 1831.5.28 | 1831.9.24 | — | 1832.1.9 | ||||||||||
Beggiao | Diego | 1932.8.20 | 1942.6.22 | 1948.19.17 | 1949.10.24 | 1953.10.25 | 1954.4.3 | 1955.6.4 | 1957.12.20 | 1958.3.1 | 1958.6.22 | 2008.10.15 | ||||||||||
Bellin | Luigi | 1946.6.22 | 1966.9 | 1967.9.26 | 1974.12.8 | 1976.9.18 | ||||||||||||||||
Bellinato | Alvise | 1966.3.20 | 1985 | 1985 | 1992.2.2 | 1992.2.2 | — | 1990.10.1 | 1991.5.12 | — | 1992.5.16 | 1992.12.20 | ||||||||||
Benacchio | Pietro | 1969.3,14 | 1988 | 1989.10.15 | 1994.10.2 | — | — | 1994.12.8 | 1995.6.17 | 2022.3.1 | ||||||||||||
Berlese | Andrea | 1820.5.2 | 1859.12.31 | 1860.4.15 | 1862, marzo-apr | 1894, 5.15 | 1862.12.20 | 1862.12.20 | 1862.12.20 | 1864.10.30 | 1865.4.15 | 1897.4.5 | ||||||||||
Bertelli | Olivo | 1912.3.31 | 1931.4.18 | 1932.3.5 | 1934.3.12 | 1937.4.8 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1972.1.15 | |||||||||
Biasio | Tadeu | 1960.6.2 | 1981.1 | 1982.2.14 | 1985.3.10 | — | — | 1986.6.28 | 1987.10.12 | |||||||||||||
Bisquola | Luciano | 1946.1.27 | 1959.3.13 | 1964 | 1965.9.28 | 1972.4.9 | — | — | 1973.5.6 | 1974.4.6 | ||||||||||||
Blanco Luque | José | 1976.6.4 | — | 2005.1.8 | 2010.9.25 | — | — | 2012.3.24 | 2012.15.12 | |||||||||||||
Boke | Mpamfila, Clément | 1980.8.14 | 2008.6.28 | — | 2011.11.15 | 2016.9.18 | — | 2013.3.12 | — | 2016.9.25 | 2017.5,21 | |||||||||||
Bolech | Francesco | 1831.12.28 | 1856.15.8 | 1894, 5.15 | 1860.11.10 | 1864.10.21 | 1864.10.30 | 1864.12.17 | 1907.2.28 | |||||||||||||
Bolzonello | Pellegrino | 1896.7.8 | 1911.7.17 | 1915.10.31 | 1920.12.21 | 1924.12.23 | 1922.12.14 | 1922.12.21 | 1922.12.23 | 1924.4.12 | 1924.6.14 | 1924.6.22 | 1991.4.11 | |||||||||
Bonlini | don Federico | 1776 | —- | —- | —- | —- | 1806.2.23 | 1806.2.23 | 1806.3.1 | 1806.9.20 | 1855.1.10 | |||||||||||
Borghese | Giuseppe | 1875.4.7 | 1888.10.22 | 1892.1.17 | 1893.2.19 | 1896.1.26 | 1895.3.30 | 1895.3.30 | 1895.3.30 | 1896.12.19 | 1897.4.17 | 1898.8.14 | 1936.1.28 | |||||||||
Brizzi | Vincenzo | 1833.4.11 | 1850.12.9 | —- | 1852.12.26 | 1854.4.23 | 1856.1.13 | 1856.5.17 | 1876.1.13 | |||||||||||||
Busellato | Michele | 1890.9.15 | 1907.10.16 | 1907.12.8 | 1908.12.18 | 1912.4.21 | 1910.5.21 | 1912.7.25 | 1912.7.25 | 1916.6.17 | 1916.6.18 | 1916.6.22 | 1966.7.28 | |||||||||
Bwene | Héritier (Rodolphe) | 1985.1.26 | 2009.7.7 | — | 2012.9.15 | 2017.9.10 | — | — | 2017.12.1 | 2018.5.12 | ||||||||||||
Cabacaba Rubinos | Jason | 1982.5.13 | 2005.10.25 | — | 2009.5.2 | 2015.11.21 | — | 2013.3.16 | — | 2015.12.6 | 2016.6.10 | |||||||||||
Cadag Dagon | Frances | 1987.7.5 | 2013.5.26 | — | 2016.5.2 | 2022.5.2 | ||||||||||||||||
Calderón Acosta | José Henry | 1979.9.2 | 2000.5.1 | — | 2001.8.25 | 2007.2.25 | — | — | 2007.12.15 | 2008.9.31 | ||||||||||||
Calza | Enrico | 1879.8.23 | 1895.7.16 | 1896.12.20 | 1897.12.21 | 1900.12.23 | 1899.12.23 | 1899.12.23 | 1901.4.8 | 1902.8.3 | 1903 (forse.12.19) | 1903.7.26 | 1912.24.10 | |||||||||
Camuffo | Celestino | 1943.2.11 | 1957.11.23 | 1962.9 | 1963.10.2 | 1968.2.20 | — | 1970.10.25 | 1970.12.19 | 1971.3.28 | ||||||||||||
Candiago | Luigi | 1912.10.17 | 1924.9.20 | 1929.10.20 | 1934.3.11 | 1934.3.11 | 1934.3.17 | 1936.2.2 | 1936.4.5 | 1936.9.19 | 1937.3.13 | 1937.7.4 | 1992.7.11 | |||||||||
Carlin | Lino | 1932.11.21 | 1943.11.8 | 1949.10.23 | 1950.10.24 | 1954.1.17 | 1954.4.3 | 1955.6.4 | 1956.3.6 | 1956.6.17 | 1957. 5.23 | 1957.10.24 | 2014.2.22 | |||||||||
Carneiro Filho | Aperício | 1981.3.20 | 1998.2.13 | 2002.1 | 2003.1.26 | 2009.11.1 | — | — | 2007.2.24 | 2010.8.14 | ||||||||||||
Casara | Sebastiano | 1811.5.15 | 1828.9.8 | 1929.12.8 1838.7,15 | 1838.7.15 | 1894? | 1830.12.8 | 1832.9.22 | 1833.9.21 | 1836.9.24 | 1837.3.25 | 1837.9.23 | 1898.4.9 | |||||||||
Cavaldoro | Giovanni Maria | 1957.5.26 | 1876.1.3 | 1881.8.24 | 1884.8.15 | 1894.12.24 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1910.2.10 | |||||||||
Cavanis | Antonio Angelo | 1772.*** | ||||||||||||||||||||
Cavanis | Marco Antonio | 1774.*** | 1806.2.23 | 1806.2.23 | 1806.3.1 | 1806.9.20 | ||||||||||||||||
Cherubin | Giovanni | 1808.4.15 | 1848.1.31 | 1848.4.22 | tra 1858/59 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1877.29.5 | |||||||||
Chiereghin | Giovanni | 1839.5.7 | 1865.8.11 | 1856.9.7 | 1859.1.16 | 1894? | 1859.9.24 | 1859.9.24 | 1859.9.24 | 1861.3.16 | 1861.5.25 | 1861.12.22 | 1905.11.5 | |||||||||
Chinello | Ottavio | 1944.9.4 | 1955.10.5 | 1961.9 | 1962.10.1 | 1966.11.13 | 1970.10.25 | 1970.12.19 | 1971.3.27 | |||||||||||||
Chuviru Supayabe | Reinaldo | 1981.12.10 | 2007.1.27 | — | 2010.1.10 | 2013.8.25 | — | — | 2014.12.13 | |||||||||||||
Cipolat | Marco | 1900.9.15 | 1923.2.10 | 1925.9.8 | 1926.10.7 | 1931.1.5 | 1930.4.4 | 1930.4.5 | 1931.7.13 | 1931.3.21 | 1931.6.28 | 1932.3.12 | 1975.1.8 | |||||||||
Cognolato | Guido | 1911.1.21 | 1923.8.22 | 1929.10.20 | 1934.3.11 | 1934.3.11 | 1934.12.21 | 1936.2.2 | 1936.4.5 | 1936.9.19 | 1937.3.13 | 1937.7.4 | 1981.11.5 | |||||||||
Cognolato | Enrico | 1908.7.15 | 1923 | 1924.12.15 | 1926.12.18 | 1930.1.4 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1940.7.4 | |||||||||
Collotto | Attilio | 1928.7.2 | 1838 | 1944 | 1946 | 1949.10.30 | 1949.12.17 | 1950.12.23 | 1951.7.1 | 1951.12.23 | 1952.3.29 | 1952.6.7 | 2006.9.12 | |||||||||
Colombara | Giuseppe | 1922.3.25 | 1939.9.12 | 1939.10.22 | 1940.10.23 | 1943.2.6 | 1943.12.18 | 1946.6.22 | 1947.3.22 | 1946.12.21 | 1947.3.22 | 1947.6.22 | 2013.5.14 | |||||||||
Consani | Bruno | 1935.10.19 | 1944.8.12 | 1951.10.21 | 1952.10.26 | 1957.8.22 | 1957.7.28 | 1958.10.19 | 1959.1.8 | 1959.3.14 | 1959.6.21 | 2022.1.19 | ||||||||||
Corazza | Giuseppe | *** Matricola 51F | Inizio 1952 | 1953.10.21 | 1955 | 1959.2.23 | —– | —– | —– | —– | —– | —– | 2022.7.10 | |||||||||
Cortelezzi | Giuseppe | 1926.3.30 | 1939.7.16 | 1944.10 | 1945.10.8 | 1948.10.11 | 1950.3.26 | 1951.7.1 | 1952.3.29 | 1952.6.29 | 1953.1.25 | 1953.6.21 | 1991.9.3 | |||||||||
Cosmo | Rito | 1925.8.23 | 1937.10.3 | 1943.10 | 1944.10.7 | 1948.1.6 | 1950.1.3 | 1950.4.8 | 1950.9.23 | 1951.3.10 | 1951.7.1 | 2006.3.26 | ||||||||||
Cristelli | Antonio | 1907.1,19 | 1919.1.19 | 1923.12.8 | 1924.12.8 | 1928.3.19 | 1928.5.20 | 1930.4,5 | 1930.7.13 | 1931.2.1 | 1931.3.21 | 1931.6.7 | 1996.6.1 | |||||||||
Cristelli | Vittorio | 1913.8.20 | 1922.10.15 | 1930.10.26 | 1931.11.7 | 1934.11.11 | 1937.7.4 | 1938.4.4 | 1938.7.3 | 1938.9.9 | 1929.4.8 | 1939.7.2 | 1986.11.6 | |||||||||
D’Ambrosi | Giovanni | 1880.10.10 | 1895.9.21 | 1897.12.8 | 1898.12.10 | 1901.12.15 | 1899.12.23 | 1899.12.23 | 1901.4.8 | 1902.8.3 | 1903.12.19 | 1968.12.30 | ||||||||||
Cunha | João da – | 1958.10.5 | 1987 | 1989.1 | 1990.1.21 | 1993.10.10 | — | — | 1993.12.18 | 1994.6.18 | ||||||||||||
D’Andrea | Luigi | 1911.7.14 | 1925.7.7 | 1929.10.20 | 1930.2.10 | 1934.3.11 | 1934.3.17 | 1936.9.19 | 1937.3.13 | 1937.7.4. | 1937.9.18 | 1937.12.5 | 1940.7.4 | |||||||||
Da Col | Giuseppe | 1819.1.21 | 1832.5.19 | 1834.8.23 1838.7.15 | 1843.2.1 | 1891? 1894? | 23.9.1837 | 1841.8.8 | 1841.8.8 | 1841.9.19 | 1842.3.26 | 1843.3.11 | 1902.12.17 | |||||||||
Da Rosa | Aldino Antonio | 1954 | 1974 | 1983 | 1984.1 | 1987 | — | — | 1988.10.1 | 1989.7.1 | 2006.12.30 | |||||||||||
Dal Castagné | Clemente | 1854.6.27 | 29.01.1886 | 1886.7.16 | 1889.7.6 | 1895.~1.16 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1902.8.7 | |||||||||
Dalla Venezia | Antonio | 1861.7.12 | 1877.11.10 | 1879.4.27 | 1881.5.1 | 1894 | 1883.7.7 | 1883.7.7 | 1883.7.7 | 1883.8.5. | 1883.9.22 | ~1884.6.7 | 1929.12.24 | |||||||||
De Biasio | Giovanni | 1925.9.28 | 1936 | 1941.10.** | 1942.10.16 | 1946.11.1 | 1948.2.21 | 1948.3.13 | 1948.6.27 | 1948.12.19 | 1949.6.26 | 2012.4.27 | ||||||||||
De Piante | Nazzareno | 1899.7.27 | ? | 1916.12.8 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1918.7.27 | |||||||||
Degan | Franco | 1930.2.7 | 1946.10.27 | 1946.11.21 | 1947.10.29 | 1951.4.29 | 1953.6.21 | 1954.4.3 | 1954.9.21 | 1955.3.5 | 1955.6.4 | 1998.1.15 | ||||||||||
Del Debbio | Ugo | 1924.8.12 | 1937.10.18 | 1940.10.20 | 1941.10.12 | 1946.11.1 | 1946.6.22 | 1947.3.22 | 1947.6.22 | 1947.12.20 | 1948.6.6 | 1998.7.6 | ||||||||||
Del Mastro | Nicola | 1937.1.16 | 1954.9.24 | 1955.10.2 | 1956.3.10 | 1959.10.11 | 1958.6.22 | 1959.1.8 | 1959.10.18 | 1959.12.19 | 1960.6.26 | |||||||||||
Diesel | Rogério | 1975,12.31 | 1996.2.26 | 1999.1 | 2000.1.30 | 2007.2.25 | — | — | 2008.1.19 | |||||||||||||
Dogliani | Diego | 1930.5.25 | 1941.10.12 | 1947.10.19 | 1948.10.20 | 1951.10.28 | 1955.6.4 | 1955.12.17 | 1956.3.17 | 1956.6.17 | ||||||||||||
Domingues | Daniel Maciel | 1984.11.24 | 2000.2.13 | 2003.1 | 2004.1.21 | 2009.11.1 | — | — | — | — | — | — | ||||||||||
Donati | Livio | 1910.10.4 | 1924.9.10 | 1928.10.28 | 1929.10.31 | 1932.11.1 | 1934.3.17 | 1934.12.21 | 1935.4.7 | 1935.6.30 | 1935.11.22 | 1936.7.5 | 1988.7.1 | |||||||||
Donati | Carlo | 1907.3.16 | 1919.2 | 1926.6.29 | 1927.6.12 | 1931.11.8 | 1930.4.4 | 1931.12.19 | 1932.3.12 | 1932.9.24 | 1932.12.17 | 1933.7.2 | 1950.8.12 | |||||||||
Duarte | Rodrigo | 1988.3.19 | 2006 | — | 2008.1.26 | *** | — | — | *** | 2016.7.23 | ||||||||||||
Ducati | Domenico | ? | 1842.4.22 | ? | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1857.3.3 | |||||||||
Eibenstein | Antonio | 1904.3.6 | 1919.2.11 | 1920.10.24 | 1921.10.25 | 1925.11.21 | 1926.7.18 | 1926.12.18 | 1927.4.4 | 1967.3.21 | ||||||||||||
Faliva | Vincenzo | 1873.1.22 | 1901.10.6 | 1901.2.2 | 1903.2.7 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1953.3.15 | ||||||||||
Fallera | Robert Jann | 1990.1.31 | 2006.5.26 | — | 2010.5.2 | 2017.9.10 | — | — | 2017.12.10 | 2017.6.22 | ||||||||||||
Fanton *** da riveder | Giovanni Batt. | 1836 | 1856.7.16 | 1858.10.20 (o 1858 8.6) | 1894? | 1859.9.8 | 1859.9.8 | 1859.9.8 | 1860.3.3 | 1860.4.7 o meglio 1860.4.7 | 1860.6.2 ?1960.4.7 | 1908.2.1 ?1860.6.2 | ||||||||||
Fassini | Cleimar Pedro | 1971.12.8 | 1998 | 1999.1 | 2000.1.30 | 2001.3.15 | —- | —- | —- | —- | 2001.3.17 | 2001-3.24 | 2001.7.16 | |||||||||
Fedel | Amedeo | 1990.6.2 | 1905.10.12 | 1909.7.4 | 1910.7.5 | 1913.7.5 | 1912.12.12 | 1916.6.22 | 1916.6.22 | 1918.9.8 | 1918.12.21 | 1919.4.5 | 1945.9.9 | |||||||||
Fedel | Bartolomeo | 1890.8.24 | 1906.10.11 | 1907.11.20 | 1909.9.20 | 1913.4.23 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1917.12.19 | |||||||||
Fedel | Valentino | 1897.8.15 | 1909 | 1916.12.8 | 1918.12.8 | 1922.12.17 | 1922.12.14 | 1922.12.21 | 1922.12.23 | 1923.3.17 | 1933.4.22 | 1923.7.15 | 1982.1.31 | |||||||||
Feliciano | Ferrari | 1934.8.17 | ? | 1951.10.21 | 1952.10.26 | 1958.9.20 | ? | 1957.7.28 | 1958.10.19 | 1958.9.20 | 1959.1.8 | 1959.3.14 | 2021.11.25 | |||||||||
Feller | Roberto | 1918.11.18 | 1938.12.13 | 1939.7.15 | 1941.7.16 | 1944.10.7 | —- | Accolit. 1975.3.19 | Lettor. 1976.5.17 | —- | —- | —- | 2002.10.7 | |||||||||
Ferrari | Edoardo | 1937.2.9 | 1948.11.4 | 1954.9.26 | 1955.10.3 | 1959.8.23 | 1959.12.19 | 1962.6.24 | 1962.12.22 | 1963.6.30 | ||||||||||||
Ferrari | Luigi | 1908.11.13 | 1919.11.18 | 1927.10.23 | 1928.10.28 | 1931.11.1 | 1932.4.14 | 1934.3.17 | 1934.9.22 | 1934.12.22 | 1935.4.7 | 1935.6.30 | 1989.11.5 | |||||||||
Fietta | Fernando | 1941.5.26 | 1951.10.8 | 1956.9 | 1957.10.3 | 1962.9.15 | 1964.6.21 | 1964.12.19 | 1965.7.4 | 2021.5.17 | ||||||||||||
Fietta | Pietro | 1948.8.5 | 1959.8.10 | 1965.9 | 1966.9.27 | 1974.1.13 | Lett.1971.12.22 | Accol. 1973.5.26 | 1973.11.24 | —- | 1974.6.30 | 1975.3.22 | ||||||||||
Fogarollo | Giuseppe | 1917.9.8 | 1931.7.16 | 1934.10.21 | 1935.10 | 1938.9.10 | 1939.4.8 | 1940.12.21 | 1941.7.6 | 1941.12.20 | 1942.6.28 | 1995.8.13 | ||||||||||
Fontana | Antonio | 1824.7.20 | 1846.8.16 | 1848.5.24 | 1853.6.13 | —- | 1852.12.26 | 1852.12.26 | 1852.12.26 | 1954.6.10 | 1954.9.17 | 1866.5.22 | ||||||||||
Fornasier | Filippo | 1901.4.11 | 1916.10.11 | 1918.12.7 | 1923.2.2 | 1926.2.2 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1936.7.21 | |||||||||
Francescon | Giuseppe | 1937.3.13 | 1948.2.12 | 1954.9.26 | 1955.10.3 | 1959.8.23 | 1959.12.19 (o 8.23) | 1962.6.24 | 1962.12.22 | 1963.6.30 | ||||||||||||
Franchin | Enrico | 1915.8.7 | 1925.9.22 | 1933.10.15 | 1934.10.16 | 1937.10.34 | 1939.4.8 | 1940.7.1 | 1940.12.21 | 1941.7.6 | 1941.12.21 | 1942.6.28 | 2012.11.11 | |||||||||
Freo | Vandir Santo | 1959.11.1 | 1976.2.28 | 1981.1 | 1982.2.14 | 1985.3.10 | — | — | 1986.6.28 | 1987.12.5 | ||||||||||||
Freo Tubias | Milton Cezar | 1977.10.19 | 1994.2.20 | 1999.1 | 2000.1.30 | 2006.2.18 | — | — | 2006.7.30 | 2007.2.10 | ||||||||||||
Frigiolini | Vittorio | 1818.10.16 | 1844.12.19 | 1845.9.28 | 1846.11.13 | —- | 1841.9.18 | 1852.10.21 | ||||||||||||||
Furian | Angelo | 1869.9.30 | 1986.11.13 | 1889.7.16 | 1991.11.12 | 1994.12.16 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1945.12.21 | |||||||||
Fusarini | Tito | 1812.12.6 | 1857.8.23 | ? | ? | —- | 1877.12.16 | |||||||||||||||
Galbussera | Andrea | 1915.12.25 | 1928.10.25 | 1933.10.21 | 1934.10.16 | 1937.10.34 | 1938.9.9 | 1939.4.8 | 1939.7.3 | 1940.6.30 | 1940.12.21 | 1941.3.29 | 1974.4.8 | |||||||||
Gant | Luigi | 1910.10.8 | 1921.10.15 | 1927.3.25 | 1929.7.2 | 1932.7.16 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 2000.4.18 | |||||||||
Gazzola | Giosuè | 1927.9.9. | 1939.10.5 | 1945.10 | 1946.10.29 | 1949.10.30 | 1950.3.26 | 1951.7.1 | 1952.3.29 | 1952.6.29 | 1953.1.25 | 1953.6.21 | 1979.9.10 | |||||||||
Ghezzo | Giovanni Tomaso | 1841.12.11 | 1858.3.21 0 5.24 | 1860 | Passaggio 1861/62 | 1864.9.8 | 1864.9.8 | 1864.10.30 | 1864.12.17 | 1905.3.6 | ||||||||||||
Giacomelli | Semin. Bartolomeo | 1809.4.10 | 1829.2.14 | 1829.8.25 | —- | —- | 1830.12.8 | —- | —- | —- | —- | —- | 1831.2.3 | |||||||||
Gianola | Emilio | 1937.2.11 | ? | 1953.10.4 | 1954.10.5 | 1958.8.22 | 1958.6.22 | 1959.3.14 | 1960.10.16 | 1961.3.18 | 1961.6.1 | 2010.11.3 | ||||||||||
Giovannini | Giovannini | 1810.4 | 1932.11.13 | Vest. Eccl. 27.8.1833 | Vest. Relig1838.7.15 | —- | 1836.12.17 | 1836.12.17 | 1836.12.17 | —- | —- | —- | 1841.1.13 | |||||||||
Gretter | Narciso Emanuele | 1842.1.8 | 1860.11.12 | 1860.12.15 | Passaggio 1861/63 | 1894.5.31 | 1865.4.15 | 1865.4,15 | 1865.8.6 | 1868.12.19 | 1869.3.27 | 1869.5.22 | 1896.5.3 | |||||||||
Grigolo | Federico | 1915.6.7 | 1926.9.1 | 1933.10.30 | 1934.10.16 | 1937.10.34 | 1937.7.4 | 1938.9.9 | 1939.4.8 | 1939.9.23 | 1940.3.9 | 1940.6.30 | 2003.4.27 | |||||||||
Guariento | Angelo | 1915.5.18 | 1930.7.7 | 1931.10,25 | 1932.10.29 | 1936.7.16 | 1936.9.19 | 1937.7.3 | 1938.7.3 | 1938.12.17 | 1939.4.8 | 1939.7.2 | 2010.6.23 | |||||||||
Guzzon | Italo | 1929.12.4 | 1945 | 1946.11.21 | 1948.10.28 | 1951.10.28 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1961.12.3 | |||||||||
Holanda, da Costa | João | 1966.7.9 | 1983.3.16 | 1988.1 | 1989.1.22 | 1994.4.23 | — | — | 1994.10.1 | 1995.5.27 | 2022.4.9 | |||||||||||
Incerti | Guglielmo | 1932.12.11 | 1946.8.22 | 1949.10.23 | 1950.10.24 | 1954.1.17 | 1954.4.3 | 1955.6.4 | 1956.3.6 | 1956.6.17 | 1957.5.23 | 1957.10.24 | 2010.8.16 | |||||||||
Insoni Nzemé | Benjamin | 1983.3.17 | 2004.8 | — | 2007.8.20 | 2011.11.20 | — | 2009.11.28 | 2010.12.8 | — | 2012.2.19 | 2012.11.25 | ||||||||||
Jain Cuenca | Salvador | 1976.3.17 | 2007.5.30 | — | 2009.5.3 | 2013.1.13 | — | — | 2013.4.9 | 2013.10.11 | ||||||||||||
Janeselli | Mario | 1994.6.8 | 1905.10.12 | 1909.7.4 | 1910.7.5 | 1913.7.5 | 1912.12.12 | 1916.6.22 | 1916.6.22 | 1918.9.8 | 1918.12.21 | 1919.4.5 | 1972. | |||||||||
Janeselli | Luigi | 1992.6.22 | 1905.10.12 | 1909.7.4 | 1910.7.5 | 1913.7.5 | 1912.12.12 | 1916.6.22 | 1916.6.22 | 1918.9.8 | 1918.12.21 | 1919.4.5 | 1975.11.2 | |||||||||
Janeselli | Mario | 1894.8.6 | 1905.10.12 | 1909.7.4 | 1910.7.5 | 1913.7.6 | 1912.12.21 | 1916.6.22 | 1916.6.22 | 1918.9.8 | 1918.12.21 | 1919.4.5 | 1972.9.25 | |||||||||
Janeselli | Mansueto | 1898.10.15 | 1916.12.8 | 1918.12.8 | 1921.12.8 | 1922.12.14 | 1922.12.21 | 1922.12.23 | 1923.3.17 | 1933.4.22 | 1923.7.15 | 1989.7.26 | ||||||||||
Janeselli | Lino | 1907.11.23 | 1919 | 1926.6.29 | 1927.6.12 | 1931.3.12 | 1931.3.21 | 1933.7.2 | 1981.1025 | |||||||||||||
Kanyinda Mpinga | François | 1985.12.18 | 2009.6.14 | — | 2012.12.8 | 2017.9.10 | — | — | 2017.12.8 | 2018.5.13 | ||||||||||||
Kayaba Masoka | Jean Banika | 1984.12.27 | 2009.6.14 | — | 2012.9.15 | 2019.3.24 | — | — | 2019.3.31 | 2010.10.26 | ||||||||||||
Kibala Sakivuvu | Moïse | 1987.11.7 | 2011.8 | — | 2015.9.6 | 2020.8.24 | — | — | 2021.5.2 | 2022.7.23 | ||||||||||||
Kifuti Kiese | Emmanuel | 1986.5.11 | 2009.6.14 | — | 2012.9.15 | 2017.9.10 | — | — | 2017.12.1 | 2018.5.13 | ||||||||||||
Kluczkowski | Wenceslau | 1959.7.17 | 1972 | 1980.1 | 1981.2.22 | 1985.3.10 | — | — | — | — | — | — | ||||||||||
Koto Mbuta | Hervé | 1990.5.5 | 2011.10.10 | — | 2014.9.7 | 2021.1.17 | — | — | 2021.8.14 | 2022.9.19 | ||||||||||||
Lantano Faccial | Larry Jay | 1988.3.25 | — | 2009.5.2 | 2015.10.11 | — | 2013.3.16 | — | 2015.12.9 | 2016.6.10 | ||||||||||||
Larese | Giovanni Battista | 1845.3.17 | 1860 | 1861.11.16 | 1863.11.16 | —- | 1868.9.19 | 1868.9.19 | 1868.9.19 | 1869.11.17 | 1869.11.7 | 1869.12.18 | 1904.7.15 | |||||||||
Larvette | Giusto | 1923.3.23 | 1934.9.13 | 1939.4.23 | 1941.7.16 | 1944.10.1 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 2012.2.28 | |||||||||
Leonardi | Giuseppe | 1939.6.20 | 1958.10.28 | 1958.12.7 | 1959.12.8 | 1962.12.8 | 1960.12.17 | 1961.12.22 | 1962.6.24 | 1963.6.30 | 1963.12.21 | 1964.6.21 | ||||||||||
Leva | Eugenio | 1817.12,23 | 1841.3.30 | ? | 1844.2.15 | —- | 1846.12.19 | 1846.12.19 | 1846.12.19 | 1849.12.22 | 1850.12.4~ | 1850.9.21~ | 1853.5.5 | |||||||||
Lima Kviatkoski de | Maurício | 1980.2.2 | 2001.2.21 | 2002.1 | 2003.1.26 | 2008.3.30 | — | — | 2011.12.3 | |||||||||||||
Lorenzon | Bruno | 1929.11.21 | 1942.7.4 | 1947.10.19 | 1948.10.20 | 1951.10.28 | 1951.12.22 | 1953.6.21 | 1954.4.3 | 1954.11.21 | 1954.9.21 | 1955.4.6 | 2017.1.17 | |||||||||
Lukumu Kabeya | Aimé Junior | 1984.9.18 | 2009.6.14 | — | 2012.9.15 | 2020.1.18 | — | — | 2020.8.30 | 2021.11.6 | ||||||||||||
Lutteri | Francesco | 1821.11.18 | 1860.2.22 | 1861.6.7 | 1865~ | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1894.14.6 | |||||||||
Maderò | Pietro | 1773.8.2 | 1840.6.14 | —- | 1896/97 | 1952.9.11 | ||||||||||||||||
Maghanoy | Joe Lio | 1988.7.31 | 2006.4.11 | — | 2010.5.2 | 2017.9.10 | — | — | 2017.12.10 | 2018.6.22 | ||||||||||||
Manente | Armando | 1924.3.5 | 1936.9.14 | 1942.9 | 1943.8.15 | 1946.11.1 | 1948.6.27 | 1950.4.8 | 1950.9.23 | 1951.3.10 | 1951.7.1 | 2010.1.24 | ||||||||||
Marangoni | Bruno | 1908.4.8. | 1921.10.17 | 1926.10.10 | 1927.9.11 | 1931.11.8 | 1932.4.14 | 1934.3.17 | 1934.7.1 | 1934.12.22 | 1935.4.7 | 1935.6.30 | 1988.8.31 | |||||||||
Marchet | Siro | 1930.5.2 | 1949 | 1949.10.23 | 1950.10.24 | 1953.10.25 | 1957.1.6 | 1957.3.16 | 1958.6.22 | 1996.11.26 | ||||||||||||
Marchiori | Giuseppe | 1814.7.5 | 1928.3.1 | 1838.15.7 | 1838.15.7 | —- | 1837.25.3 | 1837.9.23 | 1856.12.13 | |||||||||||||
Maretto | Giuseppe | 1922.3.16 | ? | 1940.10.20. | 1941.10.12 | 1944.10.1 | ? | 1946.6.22 | 1947.12.7 | 1947.12.20 | 1948.3.13 | 1948.6.6 | 2010.9.7 | |||||||||
Martinelli | Basilio | 1872.12.27 | 1888.11.14 | 1892.1.17 | 1893.4.30 | 1896.6.7 | 1895.3.30 | 1895.3.30 | 1895.3.30 | 1896.12.19 | 1897.3.13 | 1897.4.17 | 1962.3.16 | |||||||||
Martins | Nelson Luiz | 1955.5.4 | 1974 | 1980.1 | 1981.2.22 | 1983.11.27 | — | — | 1983.12.4 | 1984.4.8 | ||||||||||||
Masayon Bacalso | Armando | 1976.11.13 | 2006.4.12 | — | 2009.5.3 | 2013.1.13 | — | — | 2013.4.9 | 2013.10.5 | ||||||||||||
Mason | Orfeo | 1931.5.26 | 1941.7.1 | 1946.11.21 | 1947.10.29 | 1952.8.6 | 1950.12.23 | 1952.6.29 | 1953.6.21 | 1953.12.19 | 1954.4.3 | 1954.6.27 | 2014.2.10 | |||||||||
Mason | Silvano | 1936.4.26 | 1946.4.27 | 1952.10.19 | 1953.10.20 | 1958.8.22 | 1958.6.22 | 1959.3.14 | 1960.10.16 | 1961.3.18 | 1961.6.1 | 2019.2.6 | ||||||||||
Massoko Mambongo | Daniel | 1991.12.19 | 2014.9.7 | — | 2014. 9.7 | 2021.10.30 | — | — | 2022.7.30 | |||||||||||||
Mendes | Edmilson | 1966.1.5 | 1979.2.20 | 1984.1 | 1985.2.10 | 1988.1.17 | — | — | 1989.12.16 | 1991.1.12 | ||||||||||||
Menegoz | Agostino | 1886.5.17 | ~1898.10 | 1902.12.8 | 1903.12.19 | 1905.5.19 | 1908.12.19 | 1908.12.19 | 1908.12.19 | 1910.3.12 | 1910.5.1 | 1910.5.21 | 1952.8.14 | |||||||||
Menghi | Don Aldo | 1944.12.28 | 1975.1.7 | 1960 | 1962.10.2 | 1966.11.20 | —- | 1975.19.3 | 1975.19.3 | —- | 1994.4.9 | —- | 1995.7.16 | |||||||||
Merotto | Mario | 1927.6.5 | 1940.6.30 | 1945.9 | 1946.10.29 | 1950.3.26 | 1951.7.1 | 1952.3.29 | 1952.6.29 | 1953.1.25 | 1953.6.21 | 1950.3.26 | 2019.2.11 | |||||||||
Mihator | Giovanni Francesco | 1821.2.26 | 1832.2,4 | 1839.8.27 | ??? | —- | 1841.8.8 | 1841.8.8 | 1846.19.12 | 1849.12.22 | 1850.3.16 | 1850.3.30 | 1877.11.29 | |||||||||
Minozzi | Angelo | 1812 | 1825.7.14 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1937.3.25 | —- | 1840.2.21 | |||||||||
Minozzi | Francesco | 1814.4.11 | 1825.11.3? | 1831.8.27 | —- | —- | 1832.9.22 | 1833.9.21 | —- | —- | —- | —- | 1835.8.14 | |||||||||
Miotello | Mario | 1899.8.15 | 1916.10.6 | 1917.11.21 | 1919.7.2 | 1922.7.2 | 1922.12.14 | 1922.12.21 | 1922.12.23 | 1924.4.12 | 1924.6.14 | 1924.6.22 | 1924.10.7 | |||||||||
Molon | Guerrino | 1916.1.30 | 1925.8.27 | 1933.10.15 | 1934.10.16 | 1937.10.34 | 1938.9.9 | 1939.4.8 | 1939.7.3 | 1940.6.30 | 1940.12.21 | 1941.3.29 | 2003.11.1 | |||||||||
Moni | Giuseppe | 1958.10.17 | 1980 | 1982.9 | 1983.9.8 | 1986.10.12 | — | — | 1986.12.8 | 1987.10.11 | ||||||||||||
Morandi | Amedeo | 1929.2.7 | 1946.11.21 | 1946.11.21 | 1947.10.29 | 1951.4.29 | 1955.12.17 | 1956.3.17 | 1956.6.24 | 2007.11.2 | ||||||||||||
Morelli | Nicolò | 1821.11.28 (o 20) | 1855.8.7 | 1855.9.16 | 1857.11.28 | —- | ? | ? | ? | ? | ? | ? Era prete | 1880.7.31 | |||||||||
Moretti | Angelo | 1934.2.16 | 1946.10.19 | 1950.10.15 | 1951.10.2 | 1955.2.27 | 1957.7.28 | 1957.10.19 | 1957.7.28 | 1957.12.21 | 1958.4.25 | 2015.3.23 | ||||||||||
Morosin | Remo | 1941.2.23 | 1952.10.11 | 1957.9,29 | 1958.9.30 | 1962.9.15 | 1965.7.4 | 1965.12.18 | 1966.6.26 | |||||||||||||
Mossoko Mambongo | Daniel | 1991.19.12. | 2011.10.10 | — | 2014.9.7 | 2021.10.30 | — | — | 2022.7.30 | |||||||||||||
Mouyéké Barbeault | Tiburce Misère | 1970.12.22 | 2005.9.5 | — | 2007.8.20 | 2011.11.20 | — | 2008.6.10 | 2008.11.21 | — | 2012.2.19 | 2012.9.30 | ||||||||||
Mundele Naïn | Jérémie | 1988.8.8 | 2011.10.10 | — | 2014.9.7 | 2020.8.29 | — | — | 2021.5.2 | 2022.7.2 | ||||||||||||
Muntaba Eyor M’bo | Théodore | 1977.7.19 | 2004.8 | — | 2007.8.20 | 2011.11.20 | — | 200911.28 | 2010.4.24 | — | 2012.2.19 | 2012.11.25 | ||||||||||
Musulu Nkoy | Daniel | 1984.8.18 | 2005.6.3 | — | 2011.11.15 | *** | — | 2013.3.16 | — | *** | 2016.7.3 | |||||||||||
Muteba Kalala | Yannick Raphaël | 1989.10.20 | 2012.10.6 | — | 2015.9.6 | 2021.10.30 | — | — | 2022.7.30 | |||||||||||||
Navarro Duran | Luis Enrique | 1958.7.13 | 1985 | 1986.3.12 | 1987.3.1 | 1990 | — | — | 1991 | 1991 | 1994.5.27 | |||||||||||
Oliveira de | Jorge Luiz | 1980.7.11 | 2003.2.23 | 2004.1 | 2005.1.23 | 2009.5.2 | — | — | 2010.12.11 | |||||||||||||
Pagnacco | Giuseppe | 1906 | 1947 | 1947.10 | 1948.10.20 | 1951.10.28 | 1949.12.17 | 1950.12.23 | 1951.7.1 | 1951.12.23 | 1952.3.29 | 1952.6.7 | 1988.3.1 | |||||||||
Panizzolo | Giuseppe | 1919.12.26 | 1937.9.4 | 1937.10.16 | 1938.10.20 | 1941.11.16 | 1942.6.28 | 1943.12.18 | 1944.5.21 | 1945.3.17 | 1945.6.10 | 2005.10.12 | ||||||||||
Paoli | Giovanni Luigi | 1808.3.25 | 1824.7.31 | 1824.8.27 | 1838.15.7 | —- | 1825.12.17 | 1828.9.20 o 1826,12.23 | 1828.9.20 | 1830.9.18 | 1831.4.2 | 1832.4.21 | 1886.5.24 | |||||||||
Pasqualini | Pio | 1912.10.12 | 1922.10.12 | 1930.10.26 | 1931.11.7 | 1936.7.16 | 1936.9.19 | 1937.3.13 | 1937.7.4 | 1937.9.18 | 1938.4.4 | 1938.7.3 | 1987.7.12 | |||||||||
Paulus | Martinho | 1966.3.29 | 1983.2.28 | 1988.1 | 1989.1.22 | 1994.1.23 | — | — | 1994.10.1 | 1995.7.9 | ||||||||||||
Pavan | Vanderlei | 1974.5.6 | 1989.2.22 | 1994.1 | 1995.1.15 | 2000.1.16 | — | — | 2000.12.16 | 2001.8.7 | ||||||||||||
Pennacchi | Pietro Luigi | 1947.6.29 | 1961.9.18 | 1963.9 | 1964.9.30 | 1970.12.8 | — | 1970.12.19 | 1971.4.1 | 1972.6.25 | ||||||||||||
Perale | Ettore | 1921.6.29 | 1984.7 | 1985.9.8 | 1986.9.7 | 1989 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1995.6.25 | |||||||||
Pereira Braz | Elias | 1977.10.20 | 2000.2.2 | — | 2003.21.26 | 2008.3.30 | — | — | 2009.12.12 | |||||||||||||
Phạm Văn Pháp | Joseph | 1990.11.6 | 2009.10.30 | — | 2014.1.5 | 2022.10.30 | — | — | ||||||||||||||
Piasentini | Giovanni Battista | 1899.7.31 | 1916.10.7 | 1916.12.8 | 1920.5.4 | 1923.5.4 | 1922.12.14 | 1922.12.21 | 1922.12.23 | 1923.4.12 | 1924.6.14 | 1924.6.22 1946.3.19 (Vescovo) | 1987.8.31 | |||||||||
Pillon | Angelo | 1898.19.9 | 1925.20.10 | 1928.7.16 | 1929.7.16 (o 23) | 1932.9.4 | 1933.7.2 | 1987.1.2 | ||||||||||||||
Pinheiro | João Pedro | 1982.7.12 | 2000.2.12 | 2002.1 | 2003.01.26 | 2008.3.30 | — | — | 2009.12.19 | |||||||||||||
Piva | Domenico Luigi | 1842.1.30 | 1857.11.4 | 1860, fine anno | 1862, fine novembre o dicembre | —- | 1864.12.17 | 1865.4.16 | ||||||||||||||
Pozzobon | Valentino | 1919.2.14 | 1928.10.17 | 1935.10.6 | 1937.4.8 | 1940.7.1 | 1941.12.20 | 1942.6.28 | 1942.12.19 | 1943.6.3 | 1975.11.1 | |||||||||||
Pozzobon | Raffaele | 1930.10.11 | 1942.10.1 | 1947.9 | 1948.10.20 | 1952.10.26 | 1953.6.27 | 1954.4.3 | 1954.9.21 | 1955.3.5 | 1055.6.4 | 2011.2.22 | ||||||||||
Prado, Alves do – | José Sidney | 1973.2.6 | 1985.2.17 | 1991.1 | 1992.1.19 | 1998.1.31 | — | — | 1998.8.1 | 1999.3.20 | ||||||||||||
Pretel Moreno | Jeiner Alí | 1988.2.2 | 2009.2.9 | — | 2011.1.16 | 2018.7,15 | — | — | 2019.1.12 | 2019.12.6 | ||||||||||||
Quevedo García | César Gabriel | 1965.6.23 | 1996.2.18 | 1998.8.29 | 2002.5.26 | — | — | 2002.6.22 | 2002.12.14 | |||||||||||||
Quijije Meza | Ángelo Alberto | 1960.11.28 | 1988.3 | 1990.1 | 1991.2.11 | 1995.2.11 | — | — | 1995.12.16 | 1996.6.29 | ||||||||||||
Quilici | Marcello | 1932.3.23 | 194710.7 | 1947.10.19 | 1948.10.20 | 1953.10.25 | 1955.12.17 | 1956.3.17 | 1956.6.17 | 1992.10.21 | ||||||||||||
Rech | Norberto Artemio | 1958.6.6 | 1975.3.1 | 1982.1 | 1983.2.13 | 1986.3.16 | —- | 1985.12.1 | —- | 1986.7.14 | 1988.12.10 | 2009.10.5 | ||||||||||
Rizzardo | Francesco | 1914.9.30 | 1928.9.8 | 1932 | 1933.11.3 | 1937.1.24 | 1938.9.9 | 1939.4.8 | 1939.7.3 | 1939.9.23 | 1940.3.9 | 1940.6.30 | 1993.4.8 | |||||||||
Rizzardo | Giovanni | 1879.8.23 | 1894.9 | 1896.12.20 | 1897.12.21 | 1901.11.10 | 1899.12.23 | 1899.12.23 | 1901.4.8 | 1902.12 | 1903.12.19 | 1904.2.4 | 1943.9.8 | |||||||||
Rosa Pereira | Rosalino Manoel | 1976.4.17 | 1988.2.28 | 1994.1 | 1995.1.15 | 2000.1.16 | — | 2016 | 2016 | — | 2000.12.16 | 2001.10.13 | ||||||||||
Rosero Guillén | Julio Bolívar | 1986.12.18 | 2009.2.25 | — | 2012.1.12 | 2020.9.22 | — | — | 2021.3.27 | 2022.15.7 | ||||||||||||
Rossi | Vincenzo | 1862.5.4 | 1880, 9, 3 | 1880.12.8 | 1881.12.8 | 1894.8.5 | 1884.6.7 | ~1884.9.20 | 1920.9.17 | |||||||||||||
Rossi | Pietro | 1797.10.25 | 1822.8.1 | 1838.7.15 | 1841? | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1870.8.2 | |||||||||
Rothen | Renato José | 1967.9.25 | 1992.2.28 | 1995.1 | 1996.1.14 | 2002.6.8 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | ||||||||||
Rovigo | Giuseppe | 1817.11. 5 | 1828.11.5 | 1834.8.23 1838.7.15 | 1843.2.1 | —- | 1837.9.23 | 1837.9.23 | 1841.8.8 | 1841.9.19 | 1842.3.26 | 1942.9.24 | 1892.10.31 | |||||||||
Sacardo | Adriano | 1975.11.21 | 1992.2.17 | 1999.1 | 2000.1.30 | 2005.7.30 | — | — | 2006.3.26 | 2006.12.16 | ||||||||||||
Sagrilo | Antônio Paulo | 1958.1.24 | 1975 | 1980.1 | 1981.2.22 | 1984.2.12 | — | — | 1985.12.21 | 1986.6.28 | ||||||||||||
Salvadori | Corrado | 1896.10.26 | 1912.11.3 | 1913.7.16 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1917.5.27 | |||||||||
Sandri | Fabio | 1936.6.6 | 1946.10.13 | 1953.10.4 | 1954.10.5 | 1958.8.22 | 1958.8.22 | 1959.1.8 | 1960.10.16 | 1961.3.18 | 1961.6.1 | |||||||||||
Sandrini | Caetano Ângelo | 1959.7.1 | 1977 | 1980.1 | 1981.2.22 | 1984.2.12 | — | — | 1984.4.8 | 1984.12.8 | ||||||||||||
Santacatta rina | Agostino | 1890.10.7 | 1906 | 1907.12.10 | 1910.12.11 | 1910.3.12 | 1910.3.12 | 1911.2.23 | 1912.12.21 | 1915.4.20 | 1917.7.30 | |||||||||||
Santin | Luigi | 1916.9.30 | 1937.8.30 | 1938.3.17 | 1940.3 | 1943 | —- | 1975.19.3 | 1975.19.3 | —- | —- | —- | 1989.3.12 | |||||||||
Santos Gomes dos – | José Amilton | 1966.3.8 | 2001.2.3 | 2002.1 | 2003.1.26 | 2008.3.30 | — | — | 2009.21.2 | 2009.11.11 | ||||||||||||
Sapori | Domenico | 1831.10.16 | 1851.10.3 | 1854.3.25 | 1855.5.21 | 1856.6.4 | 1856.6.4 | 18.57.6 | 1857.9.19 | 1894.2.6 | ||||||||||||
Sartori | Filippo | ? | 1842.4.22 | 1844.4.12 | 1844.12.4 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1857.3.3 | |||||||||
Saveri | Vincenzo | 1901.1.22 | 1916.12.8 | 1918.2.2 1922.7.2bis | 1922.12.17. | 1922.12.17 | 1922.12.14 | 1922.12.21 | 1922.12.23 | 1923.3.17 | 1933.4.22 | 1923.7.15 | 1980.10.31 | |||||||||
Scarella | Semin. Giuseppe | 1803.4.10 | 1831.7.19 | 1831.8.27 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1833.11.15 | |||||||||
Scarella | Alessandro | 1813.4.13 | 1931.11.2 | 1838.7.15 | 1843.2,1 | —- | ? | 1841.8.8 | 1841.8.8 | 1841.9.18 | 1842.9.24 | 1844.6.17 | 1849.11.25 | |||||||||
Scarparo | Marino | 1930.3.10 | 1940.8.15 | 1946.10.19 | 1947.10.29 | 1951.4.29 | 1950.12.23 | 1952.6.29 | 1953.6.21 | 1953.12.19 | 1954.4.3 | 1954.6.27 | 2019.11.10 | |||||||||
Scuttari | Luigi | 1969.4.6 | 1988 | 1988.10 | 1989.10.15 | 1993.12.7 | —- | Lett. 1993.3.29 | Accol. 1993.4.4 | —- | 1994.12.8 | 1995.6.17 | 2013.10.20 | |||||||||
Selunk | Silvestre | 1966.11,29 | 1990.1 | 1991.1.20 | 1995.1,22 | — | — | 1995.12.17 | 1996.12.15 | |||||||||||||
Servini | Aldo | 1911.9.12 | 1923.8.22 | 1928.10.28 | 1929.10.31 | 1932.11.1 | 1934.3.17 | 1934.12.21 | 1935.4.7 | 1935.6.30 | 1935.11.22 | 1936.7.5 | 1996.2.4 | |||||||||
Sicignano | Ciro | 1975.7.13 | 1995.10.19 | — | 1998.9.8 | 2002.6.9 | — | — | 1998.9.8 | 2003.6.21 | ||||||||||||
Sighel | Luigi | 1912.11.19 | 1924.9.4 | 1931.10.25 | 1932.10.29 | 1936.5 | 1937.7.4 | 1938.4.4 | 1938.7.3 | 1938.9.9 | 1939.4.9 | 1939 | 1971..11.16 | |||||||||
Sighel | Pietro | 1835.9.9 | 1862.10.16 | 1863.7.25 | 1866 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1905.4.4 | |||||||||
Sighel | Angelo | 1907.3.19 | 1919.11.18 | 1923.12.8 | 1924.12.8 | 1928.3.19 | 1928.5.20 | 1930.4.5 | 1930.7.13 | 1931.2.1 | 1931.3.21 | 1931.6.28 | 1991.12.29 | |||||||||
Sighel | Gioacchino | 1905.6.1 | 1919.11.18 | 1923.12.8 | 1924.12.8 | 1928.3.19 | 1928.5.20 | 1930.4.5 | 1930.7.13 | 1931.2.1 | 1931.3.21 | 1931.5.31 | 1974.12.9 | |||||||||
Silva Campos da – | Marcio | 1978.5.14 | 1996.2.26 | 1999.1 | 2000.1.30 | 2008.3.30 | — | — | 2008.6.8 | 2008.10.11 | ||||||||||||
Silva da – Morais Pereira | Adelir | 1986.1.5 | 2009.3.4 | — | 2012.1.22 | 2021.1.17 | — | — | 2022.5.15 | 2022.7.16 | ||||||||||||
Silva dos Santos | Ademar Aparecido | 1988.6,10 | 2012.1.22 | 2020.1.18 | — | — | 2020.8.30 | 2022.7.16 | ||||||||||||||
Silva Leite da – | José Carlos | 1985.10.15 | 2004.1.23 | 2005.1.23 | 2°11.1.29 | — | — | 2011.7.17 | ||||||||||||||
Simeoni | Carlo | 1849.9.4. | 1868.10.30 | 1872.1.14 | 1874.1.20 | ?1894 | 1874.1.20 | 1874.9.19 | 1875.2.20 | 1875.3.13 | 1922.2.21 | |||||||||||
Simioni | Giuseppe | 1919.10.11 | 1936.7.21 | 1936.10.11 | 1937.10.14 | 1940.11.1 | 1941.12.20 | 1942.6.28 | 1943.4.10 | 1943.6.3 | 1943.12.18 | 1944.5.21 | 2003.3.4 | |||||||||
Siqueira | José Valdir | 1965.6.19 | 1982 | 1986.1 | 1987.2.8 | 1992.1,26 | — | —- | 1992.11.15 | 1993.7.3 | ||||||||||||
Sitjar de Asis | René | 1982.11.11 | — | 2009.5.2 | 2015.12.15 | — | 2013.3.16 | —- | 2015.12.8 | 2016.6.10 | ||||||||||||
Soldera | Armando | 1925.4.25 | 1939.10.5 | 1943.8.15 | 1944.10.7 | 1948.1.6 | 1948.6.27 | 1950.3.4 | 1950.4.23 | 1950.9.23 | 1951.10.3 | 1951.7.1 | ||||||||||
Somensi Allen | Franco | 1983.7.10 | 1998.2.3 | — | 2003.1.26 | 2009.2.5 | — | — | ***non c’è in matricola | 2009.5.2 | ||||||||||||
Sossai | Natale | 1930.10.1 | 1941.7.22 | 1947.10.19 | 1948.10.20 | 1951.10.28 | 1953.6.21 | 1954.4.3 | 1954.11.21 | 1955.3.5 | 1955.6.4 | 2018.10.4 | ||||||||||
Sottopietra | Federico | 1908.5.4 | 1920.11 | 1927.10.23 | 1928.10.28 | 1931.11.1 | 1932.4.14 | 1934.3.17 | 1934.9.22 | 1934.12.22 | 1935.4.7 | 1935.6.30 | 1973.9.7 | |||||||||
Souza Alves | Adenilson | 1973.9.29 | 2004.2.20 | 2005.1 | 2006.1.22 | 2009.11.1 | — | — | 2010.0.14 | |||||||||||||
Souza | Edemar de- | 1969.1.1 | 1984.2.5 | 1991.1 | 1992.1.19 | 1997.1.19 | — | — | 1997.12.13 | 1998.7.4 | ||||||||||||
Spadotto | Diego | 1940.6.7 | 1951.10.15 | 1958.9 | 1959.9.29 | 1963.10.13 | 1966.6.26 | 1966.12.17 | 1967.6.29 | |||||||||||||
Spalmach | Giovanni | 1868.7.30 | 1886 | 1889.10.13 | 1891.11.13 | 1894.11.15 | 1891.12,19 | 1891.12,19 | 1891.12,19 | 1892.3.12 | 1892.4.2 | 1892.6.11 | 1896.2.1 | |||||||||
Spernich | Pietro | 1798.9.11 | 1817.5.14 | 1838.10.4 | 1838.10.29 | —- | ? | ? | 1825.12.17 | 1828.4.5 | 1828.9.20 | 1829.9.19 | 1872.5.28 | |||||||||
Spessa | Semin. Antonio | 1817.9.6 | 1832 | 1837/38 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1839.11.18 | |||||||||
Taddei | Augusto | 1931.12.3 | 1945 | 1948.19.17 | 1949.10.24 | 1952.11.30 | 1955.3.6 | 1955.9.24 | 1955.12.17 | 1956.3.17 | 1956.6.29 | 1970.8.9 | ||||||||||
Tamanini | Giovanni | 1906.3.1 | 1919.11.25 | 1922.12.10 | 1923.12.10 | 1928.3.19 | 1928.5.20 | 1930.4.5 | 1930.7.13 | 1931.2.1 | 1931.3.21 | 1931.6.7 | 1940.6.27 | |||||||||
Tittoto | Giancarlo | 1934.7.28 | 1954.2.11 | 1956.10 | 1957.10.3 | 1961.10.29 | 1964.6.21 | 1964.12.19 | 1965.7.4 | 2013.9.13 | ||||||||||||
Tomanzondo Balondo | Jude-Hervé | 1992.11.6 | 2011.10.10 | — | 2014.9.7 | 2021.1.17 | — | — | 2021.8.28 | 2022.11.19 | ||||||||||||
Tomasi | Gioachino | 1910.4.8 | 1922.10.15 | 1927.10.23 | 1928.10.28 | 1931.11.1 | 1932.4.14 | 1934.3.17 | 1934.7.1 | 1934.12.22 | 1935.4.7 | 1935.6.30 | 2000.11.2 | |||||||||
Tomei | Rocco | 1933.2.8. | 1942.7.19 | 1950.10.15 | 1951.10.2 | 1954.10.24 | 1955.6.4 | 1957.12.20 | 1958.6.22 | 1959.1.8 | 1959.3.14 | 2016.10.31 | ||||||||||
Tonet | Irani Luiz | 1960.8.8 | 1977 | 1980.1 | 1981.2.22 | 1984.8.26 | — | — | 1985.12.21 | 1986.6.28 | ||||||||||||
Toninato | Luigi | 1925.7.29 | 1937.10.3 | 1943.10 | 1944.10.7 | 1948.1.6 | 1949.12.17 | 1950.3.4 | 1950.3.26 | 1950.9.23 | 1951.3.10 | 1951.7.1 | 1997.6.11 | |||||||||
Tormene | Augusto | 1873.7.23 | 1889.8.1. | 1889.12,8 | 1891.11.12 | 1894.11.15 | 1893.4.4 | 1893.4.4 | 1893.4.4 | ***?? | 1896.4.4 | 1921.12.20 | ||||||||||
Traiber | Giovanni Battista | 1803.1.27 | 1824.6.13 | 1824.8,27 | 1838.10.29 | —- | 1824.12.21 | 1925.9.25 | 1925.9.25 | ? | 1835.4.4 | 1835.6.13 | 1872.2.24 | |||||||||
Trevisan | Angelo | 1924.6.21 | 19369.27 | 1944.3.3 | 1947.8.15 | 1947 | 1947.6.22 | 1948.6.27 | 1949.12.19 | 1949.6.26 | 1949.12.17 | 1950.6.4 | 1977.12.28 | |||||||||
Trevisan | Carlo | ?*** | 1917.7.16 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1917.10.10 | |||||||||
Turetta | Cesare | 1909.2.22 | 1923.9.11 | 1927.10.23 | 1928.10.28 | 1931.11.1 | 1932.4.14 | 1934.3.17 | 1934.9.22 | 1934.12.22 | 1935.4.7 | 1935.6.30 | 1957.4.23 | |||||||||
Turetta | Antonio | 1913.10.21 | 1929.8.21 | 1929.10.20 | 1934.3.11 | 1934.11.11 | 1934.12.21 | 1936.2.2 | 1936.4.5 | 1936.9.19 | 1937.3.13 | 1937.7.4 | 1995.8.5 | |||||||||
Valcamonica | Mario | 1955.3.6 | 1965.9.20 | 1974 | 1975.9.27 | 1981.10.11 | — | — | 1981.12.19 | 1982.5.15 | ||||||||||||
Valeriani | Alessandro | 1909.12.4 | 1927.7.16 | 1929.10.20 | 1934.3.11 | 1934.3.11 | 1934.12.21 | 1936.2.2 | 1936.4.5 | 1936.9.19 | 1937.3.13 | 1937.7.4 | 2004.2.13 | |||||||||
Vanin | Giorgio | 1898.3.30 | 1928.3.19 | 1928.10.27 | 1931.2.10 | 1934.3.12 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1983.5.6 | |||||||||
Vedovato | Giuseppe | 1893.10.28 | 1915.4.11 | 1917.3.25 | 1921.3.28 | —- | —- | —- | —- | —- | —- | —- | 1935.11.15 | |||||||||
Vendrame | Arcangelo | 1928.9.7 | 1940.3.31 | 1945.10 | 1949.10.30 | 1949.10.30 | 1950.3.26 | 1951.7.1 | 1952.3.29 | 1952.6.29 | 1953.1.25 | 1954.6.27 | ||||||||||
Vianello | Ferruccio | 1912.10.20 | 1930.7.1 | 1930.10.26 | 1931.11.7 | 1934.11.11 | 1936.9.19 | 1937.3.13 | 1937.7.4 | 1937.9.18 | 1938.4.4 | 1938.7.3 | 1979.3.1 | |||||||||
Vianello | Alessandro | 1892.7.27 | 1910.10 | 1911.11.12 | 1913 | 1912.12.12 | 1918.12.21 | 1919.2.2 | 1919.8.31 | 1919.12.20 | 1920.3.20 | 1971.24.1 | ||||||||||
Viani | Giuseppe | 1943.3.28 | 1958.10.7. | 1960.9 | 1961.9.30 | 1966.4.24. | —- | —- | ***non c’è in matric | 1969.5.10 | ||||||||||||
Vieira | Paulo Sérgio | 1977.1.18 | 2003.3 | — | 2005.1.23 | 2011.4.10 | —- | —- | ***non c’è in matric | 2012.6.2 | ||||||||||||
Vio | Sergio | 1930.9.14 | 1942.8.16 | 1948.19.17 | 1949.10.24 | 1952.10.26 (o 25) | 1955.12.17 | 1956.3.17 | 1956.6.24 | 2012.9.3 | ||||||||||||
Voltolini | Matteo | 1800 | ? | Vest.eccl. 1820.8.15; vest. Cavanis 1838,10.4 | 1838.10.29 | —- | ? | 1821.4.3 | 1821.4.3 | 1826.9.23 | 1828.4.5 | 1828.9.20 | 1847.6.15 | |||||||||
Vũ Văn Kiên | Peter | 1990.9.30 | 2009.10.31 | — | 2014.1.5 | 2021.11.21 | — | 2021.1.5 | 2022.1.23 | — | ||||||||||||
Vũ Văn Sỹ | Joseph | 1989.2.26 | 2009.10.31 | — | 2014.1.5 | 2022.10.30 | — | — | ||||||||||||||
Welter | Paulo Oldair | 1977.10.22 | 2000.2.12 | — | 2002.1.27 | 2007.10.6 | — | — | 2008.1.19 | 2008.12.13 | ||||||||||||
Zacchello | Guerrino | ***???vedere matric fratelli | 1950? | 1951.10.16? | 1953 | 1957.8.16. | —- | —- | —- | —- | —- | —- | ||||||||||
Zamattio | Agostino | 1878.10.25 | 1894.8.13 | 1894.12.16 | 1895.12.16 | 1898.12.18 | 1896.12.19 | 1896.12.19 | 1898.8.14 | 1898.12.23 | 1900.12.22 | 1901.25.7 | 1941.11,25 | |||||||||
Zaniolo | Angelo | 1928.16.8 | 1941.8.7 | 1946.11.21 | 1947.10.29 | 1951.10.28 | 1950.10.23 | 1952.6.29 | 1953.6.21 | 1953.12.19 | 1954.4.3 | 1954.6.27 | 2005.7.4 | |||||||||
Zanon | Arturo | 1876.12.28 | 1906.7.2 | 1906.7.19 | 1908.7.17 | 1911.7.23 | 1908.12.19 | 1908.12.19 | 1908.12.19 | 1911.12.23 | 1912.4.6 | 1912.7.25 | 1922,5.7 | |||||||||
Zanon | Ermene- gildo Loris | 1923.9.24 | 1939.10.22 | 1939.10.** | 1940.10.23 | 1944.10.17 | 1943.12.18 | 1947.12.6 | 1947.12.7 | 1947.12.20 | 1948.3.13 | 1948.6.6 | 1993.9.17 | |||||||||
Zanon | Francesco Saverio | 1877.2.22 | 1890.9.8 | 1890.10.19 | 1991.11.12 | 1894.11.15 | 1893.4.4. | 1893.4.4. | 1893.4.4. | *** | *** | 1896.4.4 | 1954.12.20 | |||||||||
Zanon | Josoé Francisco | 1981.3.12 | 2000.2.10 | 2003.1 | 2004.1.25 | 2009.5.2 | — | — | ***non c’è in matric | 2011.3.6 | ||||||||||||
Zardinoni | Riccardo | 1918.11.24 | 1938.8.2 | 1938.10.23 | 1939.10.27 | 1943.1.13 | 1942.6.28 | 1943.12.18 | 1944.5.21 | 1945.3.17 | 1945.6.10 | 1999-12.12 | ||||||||||
Zecchin | Nicola | 1926.12.17 | 1938.10.3 | 1944 (.9?) | 1945.10.8 | 1948.10.11 | 1950.3.26 | 1951.7.1 | 1952.3.29 | 1952.6.29 | 1953.1.25 | 1953.6.21 | 2021.1.8 | |||||||||
Zendron | Mario | 1930.2.15 | 1942.10.30 | 1948.19.17 | 1949.10.24 | 1952.10.26 | 1955.12.17 | 1956.3.17 | 1956.6.24 | 2013.10.12 | ||||||||||||
Zoppas | Primo | 1927.3.28 | 1939.10.5 | 1945.10 | 1946.10.29 | 1950.10.29 | 1950.3.26 | 1951.7.1 | 1952.3.29 | 1952.6.29 | 1953.1.25 | 1953.6.21 | 2016.5.1 | |||||||||
ISTOGRAMMA DELLE ORDINAZIONI PRESBITERALI CAVANIS NEGLI ANNI ’40-‘60
1946 | 47 | 48 | 49 | 50 | 51 | 52 | 53 | 54 | 55 | 56 | 57 | 58 | 59 | 60 | 61 | 62 | 63 | 64 | 65 | 66 | 67 | 68 | 69 | 70 | |
7 | |||||||||||||||||||||||||
6 | |||||||||||||||||||||||||
5 | |||||||||||||||||||||||||
4 | |||||||||||||||||||||||||
3 | |||||||||||||||||||||||||
2 | |||||||||||||||||||||||||
1 | |||||||||||||||||||||||||
0 | 2 | 5 | 2 | 4 | 6 | 2 | 7 | 6 | 6 | 6 | 4 | 3 | 3 | 1 | 3 | 2 | 0 | 1 | 2 | 1 | 1 | 1 | 3 | 0 |
Tabella: seminari Cavanis in italia nel periodo 1918-2022
Anno | N seminari | Seminari |
1918 | 1 | Venezia |
1919 | 2 | Venezia, Possagno |
1941 | 4 | Venezia, Possagno, Possagno Coldraga, Vicopelago |
1943 | 5 | Venezia, Possagno, Possagno Coldraga, Vicopelago, Costasavina |
1944 | 6 | Venezia, Possagno, Possagno Coldraga, Vicopelago, S. Alessio, Costasavina |
1948 | 5 | Venezia, Possagno, Possagno Coldraga, S. Alessio, Levico |
1962 | 5 | Venezia, Possagno, Possagno Coldraga, Levico, Fietta del Grappa |
1970 | 5 | Roma, Possagno, Possagno Coldraga, Levico, Fietta del Grappa |
… | ||
1995 | 3 | Roma, Possagno Coldraga, Fietta del Grappa |
… | 0 | |
2011-3 | 1 | Breve esperienza con aspirantato a Roma |
2014 | 0 | Nessun seminario italiano; c’è il seminario internazionale a Roma. Nessun seminarista italiano nel periodo |
2021 | 0 | Idem; in più, c’è il noviziato internazionale a Fietta del Grappa. |
NB:
7. La seconda metà del XX secolo
Per i Cavanis, la seconda metà del XX secolo, l’epoca del boom economico e poi di un certo riflusso, inizia con la prepositura del P. Antonio Cristelli e del suo consiglio generale.
7.1 Padre Antonio Cristelli, preposito generale (1949-1955)
Antonio Cristelli era nato il 19 gennaio 1907 nel paese di Miola sull’altipiano di Piné, nell’arcidiocesi di Trento, ancora nel territorio del Tirolo italiano al tempo della sua nascita, poi provincia di Trento, un “arcipelago” di paesi situato nell’estrema zona sud-occidentale prativa e boscosa della Catena del Lagorai, che tanti religiosi ha dato alla nostra congregazione.
Entrò nel seminario minore dell’istituto a Possagno il 19 gennaio 1919, pochi giorni dopo che il Trentino era diventato italiano; vestì l’abito Cavanis l’8 dicembre 1923 e visse l’esperienza del noviziato a Possagno nel 1923-1924 (dall’8 dicembre 1923 all’8 dicembre 1924); emise la professione temporanea dei voti religiosi l’8 dicembre 1924 a Venezia e pure a Venezia si unì ai nostri col vincolo della professione perpetua, emessa il 19 marzo 1928, festa di S. Giuseppe, insieme ai colleghi Gioacchino Sighel, Giovanni Tamanini e Angelo Sighel, a Venezia.
Ricevette la tonsura clericale il 20 maggio 1928, i primi due ordini minori (ostiariato e lettorato) il 5 aprile 1930, Sabato sitientes, nella sala dei banchetti, dal patriarca La Fontaine; i secondi due ordini minori (esorcistato e accolitato) nella basilica della Salute, dallo stesso presule, il 13 luglio 1930; il suddiaconato nella cappella del Patriarchio il 1° febbraio 1931, sempre assieme ai confratelli Gioacchino Sighel, Giovanni Tamanini e Angelo Sighel; il diaconato il 21 marzo 1931 nella basilica di S. Marco. Fu ordinato prete assieme a P. Giovanni Tamanini a Possagno, nel tempio canoviano, da monsignor Giacinto Longhin, vescovo di Treviso, il 7 giugno 1931.
Si laureò a Padova in Lettere il 12 novembre 1938, con 98/110; e si abilitò per l’insegnamento della Lettere nelle scuole medie superiori. Nella sua lunga e laboriosa vita, dedicò la sua intelligenza e il suo cuore per la crescita della sua congregazione.
Esercitò inizialmente a Possagno le cariche di assistente alla disciplina nel collegio Canova, poi di professore e poi anche preside del liceo Calasanzio. Qui la sua presenza si protrasse a lungo, poi fu nella casa madre di Venezia, nella quale tenne per dei decenni la cattedra di latino e greco nel nostro liceo classico, lasciando un ricordo di uomo di profonda e solida cultura, ammirato anche dai colleghi delle scuole statali della città. Questa attività di insegnamento non gli impedì di assumere successivamente le cariche d’economo locale, di insegnante di teologia per i seminaristi teologi della congregazione, di prefetto della scuola, di consigliere generale e soprattutto di preposito generale della congregazione nel sessennio dal 1949 al 1955.
Lo si ricorda soprattutto come professore di discipline sacre e profane che insegnò alle giovani generazioni per più di cinquant’anni. Era in apparenza burbero, ma aveva un gran cuore. Una cosa che lo caratterizzava era il suo costante raschiamento di gola, che sottolineava per abitudine ogni frase; anche se non era affatto un fumatore.
Qualche dettaglio sul periodo del suo mandato di preposito che vide l’apertura di numerose case e attività:
Il verbale della prima riunione del nuovo consiglio definitoriale o generale è il primo ad essere dattiloscritto, e presenta di nuovo, come nei primi tempi dei mandati di P. Aurelio Andreatta, la lista completa dei religiosi delle case, compresi i fratelli laici (dato purtroppo molto raro nella registrazione dell’Istituto), facilitando con più facilità allo storiografo la compilazione delle tabelle delle comunità. Nella seconda parte della riunione, in fogli distinti, si parla a lungo dell’associazionismo: Congregazione mariana (già fatiscente e poco soddisfacente, a Venezia e a Porcari, assente nelle altre case; Azione Cattolica giovanile poco vitale, mantenuta a Venezia più che altro perché “Si teme che la soppressione disgusti il Patriarca”. La si consiglia e si vuol sostenerla però nei collegi. Si parla anche dell’Associazione degli Ex-Allievi e della rivista Charitas.
“1949 (20 ottobre) — Quasi finita la costruzione del grande stabile, cominciarono i corsi del nuovo liceo classico chiamato «S. Giuseppe Calasanzio» a Possagno, nel nuovo edificio in occasione del terzo centenario della sua morte. Uno dei vantaggi di questa nuova iniziativa, fu che l’Istituto possedeva ora un edificio proprio nel paese di Possagno (oltre naturalmente alla casa del S. Cuore sul Col Draga), mentre l’edificio classico con gli annessi, di donazione canoviana, era rimasto ormai per sempre proprietà del demanio, che l’aveva passato al Comune di Possagno, pur rimanendo in uso ed esercizio da parte dell’Istituto.”
Nel 1950, a Roma si attende ancora la promessa donazione dell’immobile occupato dall’Istituto Cavanis da parte della santa Sede, anche perché si possano cominciare delle migliorie e un eventuale ingrandimento dello stabile della villa; per intanto, in vista del grande movimento di pellegrini per l’anno santo appena cominciato, si realizzano piccole modifiche ai pochi ambienti, sperando di poter realizzare qualche entrata finanziaria con l’ospitalità – piuttosto spartana – a detti pellegrini. A Porcari si comincia a pensare alla necessità di ampliare l’opera, con l’istituzione di un liceo scientifico, e se ne cerca la sede. Questi dati sono contenuti nel verbale della riunione del capitolo definitoriale del 7 gennaio 1950 Nello stesso verbale si trova traccia di un increscioso incidente, occorso a partire dall’anno precedente.
Dal verbale della riunione del capitolo definitoriale del 1° ottobre 1949, pare risultare che P. Riccardo Zardinoni fosse stato assegnato in precedenza come segretario al confratello monsignor Piasentini, vescovo di Anagni, anche se risulta membro della comunità di Venezia nell’anno corrente e anche negli anni precedenti, e che poi per qualche motivo fosse stato richiamato di persona, e non di nome soltanto, a Venezia durante l’estate del 1949, forse dal capitolo generale; e che ciò avesse causato un attrito con il vescovo. Si decide, per questa situazione, di non celebrare il 25° di ordinazione presbiterale di monsignor Piasentini a Venezia. Il nostro vescovo aveva, a quanto pare, fatto ricorso a Roma; arrivò così un richiamo da parte della S. Sede (che senza dubbio risultò sgradito alla congregazione, per il merito e per il modo) e il preposito con il suo consiglio dovette inviare di nuovo ad Anagni P. Zardinoni come segretario del vescovo Piasentini. In seguito ci sarà sempre un religioso Cavanis come suo segretario, fino al suo ritiro nella condizione di vescovo emerito, quando passò ad abitare in uno degli appartamenti di proprietà dell’Istituto a Possagno.
Il 16 aprile 1950 si riunisce ancora il capitolo definitoriale, e discute la possibilità di rialzare di un piano l’edificio del cosiddetto “Noviziato” di Venezia; in realtà si trattava ormai da molti anni dello studentato per i chierici di liceo e di teologia. I novizi almeno dal 1944 erano passati a Possagno, in casa del S. Cuore. L’edificio in parola è quello che si trova a nord della casa della comunità costruita da P. Casara e inaugurata il 20 gennaio 1881, al di là dello stretto attuale giardino di comunità: casa che attualmente funge da dépendance dell’Hotel Belle Arti, purtroppo conservando il nome ormai improprio di Domus Cavanis. La decisione di aggiungere il nuovo piano viene rimessa ad altro momento, dato il valore troppo rilevante della spesa preventivata.
Nella riunione del consiglio definitoriale del 19-20 luglio 1951 dopo che si era operato un ampio trasferimento di religiosi, soprattutto per rendere possibile la parifica delle scuole medie di Venezia, “Il P. Aurelio Andreatta riferì la richiesta di due nuove fondazioni: una a Bogotà in America e l’altra a Capri per mezzo di monsignor Umberto Cameli, segretario della FIDAE (Federazione degli Istituti Dipendenti dall’Autorità Ecclesiastica) presso la Sacra Congregazione dei Seminari. L’Arcivescovo di Sorrento, sotto la cui giurisdizione si trova Capri, ebbe un colloquio col suddetto Padre.
Né all’una né all’altra delle due fondazioni si poté aderire per mancanza di personale, dati i gravi impegni che comporta il riconoscimento legale delle scuole dei nostri Istituti”. Di un’altra proposta di fondazione, questa a Chivasso (Provincia di Torino) che avrebbe permesso di istituire un probandato o seminario minore e di un doposcuola si accenna nel verbale del capitolo definitoriale del 4 ottobre 1951; ma si decide di non accettare, per i soliti motivi e anche perché “il locale offerto non sembra adatto allo scopo”.
Nello stesso verbale si riferisce di un ampio dibattito sulla situazione del seminario di Possagno per quanto riguarda i seminaristi liceali: sembra infatti che l’alto numero di desistenze indicasse che l’ambiente di Possagno non ottenesse buoni risultati, almeno per quanto riguardava i seminaristi liceali. Essi tuttavia rimarranno a Possagno fino al settembre 1957, quando passeranno al liceo Cavanis di Venezia.
Ancora nello stesso verbale del 19-20 luglio 1951 si accenna per la prima volta alla possibilità di fornire alle case, ormai abbastanza numerose, un formulario da essere compilato in modo uniforme per il rendiconto economico-finanziario annuale, dato che “Si nota in generale poca chiarezza nella presentazione e mancanza di uniformità nei prospetti”. È l’inizio di una lunga serie di tentativi di centralizzazione e uniformizzazione nell’amministrazione, che avrà lunga vita, e raggiungerà migliori risultati nell’ultimo decennio del XX secolo e all’inizio del XXI, con la diffusione e l’applicazione obbligatoria, in congregazione, di un programma informatico, chiamato “Money”, sempre naturalmente con una certa resistenza da parte delle case e degli economi.
Nella riunione si parla anche di difficoltà con il proprietario dell’edificio del seminario di Levico (ex-albergo Qui-si-sana), dell’impossibilità di acquistare l’immobile della villa Massoni in cui si trova il seminario minore di S. Alessio, per il cui acquisto si chiedeva una somma effettivamente troppo cara per l’epoca, dato anche il suo isolamento, la cattiva situazione dell’edificio e la presenza di altri inquilini che senza dubbio non avrebbero lasciato facilmente l’immobile in caso di acquisto da parte dell’Istituto Cavanis; per di più non si sapeva esattamente a chi appartenesse l’immobile, dato che erano in corso vertenze sull’asse ereditario. Inoltre si trattava in quei giorni della possibilità di acquistare l’immobile dell’Istituto Dolomiti a Borca di Cadore, cosa che sarà poi frustrata dolorosamente; e si approva il progetto si sopraelevare di un piano lo studentato teologico (chiamato qui ex-noviziato), qualora il benefattore Conte Vittorio Cini realizzasse il suo proposito di sostenerne le spese, come sembra che abbia poi fatto.
Nel 1951 erano in corso i lavori di una commissione di studio “per la revisione di alcuni punti delle Costituzioni della Congregazione” e fu proposta e approvata l’idea di indire e convocare a Venezia per l’estate 1952 un capitolo generale straordinario allargato per dibatterne e approvarne i risultati.
Nel 1953 L’Istituto ricevette la richiesta di un Mons. Edoardo Malatesta di accettare la direzione dell’orfanotrofio «Tata Giovanni», della Fondazione omonima, a Roma, nel quartiere della Piramide di Caio Cestio alla via delle Mura Ardeatine appena fuori la bella Porta San Paolo. Come si dirà in dettaglio più sotto, il preposito P. Antonio Cristelli, nella riunione del capitolo definitoriale del 14-17 luglio 1953 aveva inizialmente rifiutato la proposta e scritto in questo senso al richiedente.
Nei mesi successivi, tuttavia, l’Istituto si vide costretto ad accettare la direzione dell’opera, in qualche modo per via di un vero ricatto. Dopo lungo e minuzioso esame della questione, il Definitorio credette opportuno di accettare la direzione del suddetto Istituto in via di esperimento, per due anni, e in seguito la permanenza dei Cavanis in quell’Istituto fu prolungata via via fino al 1974, nel complesso con buon profitto, sia dell’educazione della gioventù carente e abbandonata, soprattutto orfani; sia anche per il vantaggio per l’Istituto di avere due case a Roma, il che dava dei vantaggi e delle utili alternative.
Nel 1953 si parla di nuovo della fondazione a Chivasso. Già nei capitoli definitoriali del 1952 si era parlato della possibilità di aprire un seminario minore e un doposcuola in questa cittadina, e di trasferirvi il probandato di S. Alessio, che si era deciso di chiudere. Il verbale della riunione del Capitolo definitoriale del 3 gennaio 1953 scrive così in proposito: “Il Preposito poi comunica la situazione dell’affare di Chivasso, di cui è stato fatto cenno nei Capitoli [definitoriali] precedenti. In una lettera, trasmessa all’Istituto dall’Ing. Colonna, il Sindaco di quella città parla delle lunghe pratiche che occorrono per l’acquisto dello stabile dell’Ex-GIL, che dovrebbe servire di sede del nuovo Probandato. L’Ing. Colonna, a sua volta, in una lettera del 28 dicembre 1952, pur non disperando della conclusione della cosa, dice che il Sindaco, democristiano, è un po’ titubante e fiacco nell’agire per le pressioni da parte di parenti socialisti o comunisti. Ci sono inoltre delle persone che temono che il doposcuola, annesso al Probandato, assuma un tono confessionale. Quando poi si tratterà della donazione dello stabile all’Istituto ci saranno difficoltà da parte della Giunta comunale, che pure è in maggioranza democristiana. Il Preposito raccomanderà di nuovo il buon esito della cosa all’Ing. Colonna e al sindaco di Chivasso.”
Tra il 1952 e il 1953 si ebbe ancora bisogno di parlare delle regole dell’Istituto; il preposito infatti aveva ricevuto e ripassato a tutte le comunità la risposta della Congregazione dei religiosi sulle costituzioni dell’Istituto, non accettando la proposta di ritornare alla forma precedente al 1937, come era stato proposto e richiesto a detta Congregazione dal capitolo generale del 1952. Si veda in proposito il capitolo sulla storia delle regole, costituzioni e norme e altri codici dell’istituto.
Nel verbale del capitolo definitoriale del 17 luglio 1954 si parla anche della istituzione della casa di Chioggia, in cui i padri si occuperebbero di fondare, e fondarono di fatto e conducono fino ad oggi (2020), una preziosa scuola professionale, dal titolo di “Maria Immacolata”. Di questa casa e scuola si parla in dettaglio più sotto, nel capitolo specifico.
Il 2 maggio 1954 le celebrazioni per il primo centenario del felice passaggio al cielo di P. Marco Cavanis si conclusero con la messa presieduta a S. Agnese dal vescovo Cavanis mons. Giovanni Battista Piasentini.
Ancora, nel 1954 occorre ricordare la pubblicazione delle Mutationes alle costituzioni (realizzate nel 1937 ma ancora non pubblicate per causa del tempo di guerra e immediato dopo-guerra), in un piccolo libretto che sarà rilegato con le nostre costituzioni.
Alla metà del 1954 l’Istituto fu colpito di una vera e imprevista catastrofe, che occupò e preoccupò lungamente il preposito P. Cristelli e il suo capitolo definitoriale: all’asta per la vendita al maggior offerente dell’immobile dell’Istituto Dolomiti di Borca di S. Vito di Cadore, l’Istituto, che non era riuscito a convincere le autorità della stato a vendere l’immobile a chi utilizzava l’edificio per la scuola e il convitto già da nove anni (1945-1954), era rimasta sconfitta nella vendita all’incanto dallo stesso vescovo che l’aveva invitato a occuparsi dell’educazione della gioventù nel ridente paese, sotto l’Antelao. Così racconta l’avvenimento il verbale della riunione del consiglio definitoriale del 17 luglio 1954:
“Il 3 luglio 1954 l’immobile dell’Istituto Dolomiti dal Governo fu messo all’asta; vi concorsero i Comuni della zona a nome dei nostri Padri, l’Empas e il Vescovo di Padova, Mons. Bortignon. Lo stabile fu venduto a quest’ultimo che offerse 80.000.000 di lire. L’asta era ad offerta segreta; l’offerta minima doveva essere di 50.000.000 di lire.
Il Preposito riferì ampiamente l’esito del colloquio, avuto qualche giorno prima, col Vescovo di Padova: il Preposito aveva espresso la sorpresa e l’amarezza della nostra Congregazione per il gesto compiuto da Mons. Bortignon, che in qualità di Vescovo di Belluno aveva chiamato i Padri a Borca di Cadore e aveva loro promesso il suo appoggio. Il Vescovo chiese scusa di quanto era stato fatto, adducendo come ragioni che gli era mancato il tempo per farne parola al Preposito e che aveva ceduto alla pressione fattagli dagli Amministratori della sua diocesi; inoltre aveva temuto che lo stabile andasse nelle mani di amministrazioni laiche. È intenzione del Vescovo di Padova di trasferire a Borca il Collegio di Thiene e nelle vacanze estive di servirsi del detto stabile per la villeggiatura dei chierici del Seminario. Ha dato assicurazione ai Comuni interessati che avrebbe continuato la scuola gratuita per gli esterni. Qualora la nostra Congregazione rimanesse nella zona, sarebbe anche disposto a non aprire la scuola – però non s’impegna a questo per ora; in tale eventualità durante la stagione invernale farebbe del Dolomiti una colonia permanente. Il Vescovo aspetta la decisione nostra; desidera che il locale gli venga consegnato entro il 15 Agosto per adibirlo in parte alla villeggiatura dei suoi chierici; il personale di servizio sarebbe quello del Seminario, in maniera che i Padri rimarrebbero come ospiti per la villeggiatura dei ragazzi e per la sessione autunnale degli esami. Il Definitorio deplora queste gravi imposizioni e si cercherà il modo di esimersene.
Il Preposito riferisce inoltre che la Curia di Belluno si era ritirata dal concorrere all’asta per l’impossibilità di far fronte alla spesa e aveva avuto promessa di un adeguato compenso da parte del Vescovo di Padova. Quanto alle spese incontrate dai Padri per la manutenzione e le riparazioni allo stabile di Borca, Mons. Bortignon assicurò che avrebbe provvisto lui, qualora non fosse intervenuto il Governo.
Il Vescovo di Padova fece presente al Preposito che la dimostrazione dalla popolazione di Borca e di S. Vito, fatta contro il Governo per impedire la vendita all’asta, fu interpretata come un atto ostile e offensivo della Curia di Belluno; e perciò Mons. Muccin attuale Vescovo di Belluno, ne era rimasto assai spiacente. $i ammette che in tale faccenda ci sono delle esagerazioni e delle persone non certo disinteressate.
Quanto alla convenzione stabilita tra Mons. Bortignon e l’Istituto Cavanis nell’occasione dell’ingresso al Dolomiti, colla quale il detto Vescovo aveva promesso di procurare altro luogo conveniente qualora la Diocesi di Belluno avesse avuto bisogno del locale o lo avesse requisito il Governo, il Preposito si sentì dire che il verbo “procurare” significava indicare il luogo dove si poteva andare; d’altra parte per questo si doveva rivolgersi al successore. Persone competenti avevano in passato fatto capire che quella convenzione non avrebbe avuto nessun valore legale.
Dopo la relazione del Preposito ci fu una lunga discussione sull’argomento, che occupò anche una gran parte della seduta del pomeriggio. Durante la discussione il Preposito ebbe una telefonata dal Segretario del Vescovo di Padova per annunciargli la visita dei rappresentanti di ai tre Comuni interessati alla questione del Dolomiti Nel colloquio che il Preposito ebbe con loro si comprese che da parte dei Comuni non c’era stata ancora nessuna offerta positiva di terreno e di legname per contribuire ad una nuova costruzione. Ad ogni modo se ne sarebbero occupati e avrebbero dato presto una risposta al Preposito. Il Definitorio risolverà la questione appena sarà fatta ufficialmente tale offerta.”
Di questa questione si parla lungamente nel capitolo specifico sulla casa di Borca.
L’anno seguente, con il decreto del 2 giugno 1955, il presidente della repubblica italiana Gronchi conferisce alla nostra congregazione un certificato di 1ª classe consistente in una medaglia d’oro per i meriti legati all’educazione.
Il Capitolo generale del luglio 1955 elesse a preposito generale il P. Gioachino Tomasi, e P. Antonio Cristelli ritornò alla vita di semplice religioso. Dopo il suo mandato, continuò la sua attività di educatore e d’insegnante di latino e greco, molto stimato nelle case di Possagno e di Venezia.
Arrivato alla soglia dei 90 anni, le sue condizioni fisiche erano piuttosto deboli, i superiori consigliarono di trasferirlo negli ultimi mesi di primavera del 1996 a Possagno per il clima e per poterlo assistere. Morì lì, il 1° giugno 1996 e fu sepolto nella cappella cimiteriale del clero locale e dell’Istituto Cavanis nel cimitero del paese. Si concludeva così la vita di un nostro religioso tra i più significativi della storia dell’istituto nel XX secolo. Il suo ritratto nella galleria dei prepositi generali a Venezia è del buon pittore veneziano Marco Novati.
7.2 Padre Gioachino Tomasi, preposito generale (1955-1961)
Gioacchino nacque a Miola di Piné (Trento) il 9 maggio 1910. Di passaggio, bisogna notare che l’altopiano di Piné, oggi una piacevole zona di turismo e di vacanze, situata a est della città di Trento, a un’altitudine di circa 1000 m, alle radici sud-occidentali dell’affascinante e selvaggia catena montuosa del Lagorai, è stata durante circa 150 anni una delle fonti costanti di vocazioni religiose e sacerdotali per la Congregazione delle Scuole di Carità, a cominciare con il caro chierico Giovanni Giovannini, nella prima metà del XIX secolo e e fino agli anni ‘60 del secolo passato; alcuni di questi giovani sono ora anziani ma ancora viventi.
Dodicenne, Gioachino entra nel seminario Cavanis di Possagno, il 15 ottobre 1922; veste l’abito dell’istituto a Venezia, in S. Agnese, il 23 ottobre del 1927, compie l’esperienza preziosa di novizio nel 1927-28, emette i voti temporanei il 28 ottobre 1928. Emise poi la professione perpetua il 1° novembre 1931, festa di tutti i santi, a Possagno, nella chiesetta del collegio, presenti tutti gli alunni, assieme ai confratelli Federico Sottopietra e Cesare Turetta.
Ebbe la tonsura assieme ai suddetti compagni il 14 aprile 1932 dal nuovo vescovo di Padova monsignor Carlo Agostini, che era stato invitato a partecipare alla festa (pro pueris) di S. Giuseppe Calasanzio nel collegio Canova di Possagno. Ricevette l’ostiariato e il lettorato a Venezia, dal Patriarca La Fontaine il 17 marzo 1934; l’esorcistato e l’accolitato il 1° luglio dello stesso anno; il suddiaconato il 22 novembre 1934: e il diaconato il 7 aprile 1935. Il 30 giugno 1935 fu consacrato sacerdote nella chiesa del SS.mo Redentore a Venezia .
Laureato in lettere e lingue straniere, fu “padre e maestro” nella scuola per oltre cinquant’anni. Fu anche professore di Diritto Canonico nello Scolasticato Cavanis negli anni Cinquanta e Sessanta, anche se i frequenti viaggi a Roma e per visitare le case dell’Istituto gli rendevano difficile questo compito; a volte viaggiava tutta la notte in treno – a quel tempo si faceva così –, e giungendo a Venezia la mattina presto, sedeva in cattedra per tenerci lezione, per la verità a volte alquanto monotone e ipnotiche, come si può ben capire.
Tanta attività scolastica e di educatore e formatore non gli impedì e neppure ridusse l’attività della sua fervida mente applicata in realizzazioni, aperture e sviluppi della Congregazione. Ricoprì numerosi incarichi e dal 1955 al 1961 fu preposito generale e si prodigò con ogni mezzo per rafforzare le case e le scuole della Congregazione.
7.2.1 Precisazioni istituzionali definite all’inizio del mandato di P. Tomasi
Nei verbali del Capitolo generale del 12-17 luglio 1955, che aveva eletto P. Gioachino Tomasi a preposito generale, si annota che si è deciso, tra l’altro, di non unificare “la carica di Rettore della casa Madre nella persona del Preposito”. Questo testo fa pensare che fino a quella data le due cariche fossero abitualmente e istituzionalmente unificate, cioè che chi era eletto preposito era anche automaticamente rettore della casa-madre di Venezia. In realtà c’erano già stati dei periodi in cui le due cariche erano state disgiunte, come il sessennio del P. Antonio Cristelli per esempio.
Nei verbali dello stesso capitolo c’è un’altra annotazione di interesse istituzionale: si era deciso nel corso del capitolo di evitare in seguito la terminologia di “padri anziani” e “padri giovani” e si invitavano le due categorie a far uso di rispetto e carità verso tutti i confratelli, da ambedue le parti. È probabile, ma soltanto probabile, che fino a quella data si facesse ancora riferimento alla tradizionale categoria dei “padri anziani” con riferimento a quelli che avevano già esercitato il magistero nelle nostre scuole per almeno dieci anni. A partire dal 1959, a memoria di questo autore, con il titolo di “padri giovani” erano considerati invece quelli che non avevano ancora compiuto cinque anni dall’ordinazione presbiterale, e che dovevano, qualche volta nella prassi, qualche volta in teoria, ricevere dei corsi speciali di formazione e a sottomettersi ad esami annuali sulle materie di quei corsi. Non si parlava più di “padri anziani” nel senso istituzionale e di diritto. Era del tutto raro, ma capitava ancora, tuttavia, che un religioso giovane si sentisse dire nei primi anni Sessanta “Taci tu che sei un padre giovane!”. Ma si trattava in questi casi di pura villania, non di diritto. Del resto, le costituzioni prevedevano quale anzianità era necessaria dalla prima professione o dalla professione perpetua per godere di voce attiva e passiva, in genere o per le diverse cariche.
Altre precisazioni di tipo istituzionale furono definite nel capitolo definitoriale del 27-28 luglio 1955, più esattamente il giorno 27. Si convenne dunque che:
Nello stesso capitolo definitoriale furono definite meglio le responsabilità e le competenze rispettive del rettore della casa di Possagno e del suo delegato per il liceo Calasanzio, in una specie di «mansionario» della casa di Possagno, con le seguenti varianti rispetto al testo precedente:
È abolita la dicitura ‘Il Delegato regge la parte di Comunità a lui affidata’ e il 1° art. sulla Casa religiosa risulta così espresso: « Delegato è uno dei due Consiglieri. I Capitoli della Famiglia per deliberazioni ed elezioni e gli Esercizi Spirituali annuali sono in comune con l’altra parte della comunità ».
L’art. 2°, tolte le parole iniziali « Col titolo di rettore » dice: « Il Delegato tratta tutti gli affari concernenti gli alunni, le famiglie e la scuola ».
L’art. 3° sull’Amministrazione risulta corretto come segue: « L’amministrazione è unica; la riscossione delle rette è fatta dall’Economo. I servizi di guardaroba e di lavanderia sono comuni ma i luoghi di custodia distinti. Le ordinazioni di libri e di [materiale di] cancelleria sono fatte dall’Economo.
Nello stesso capitolo definitoriale del 1955, nell’elezione delle cariche, si applica il termine « Prefetto delle Scuole », per quello che attualmente sarebbe il preside, a tutte le case, mentre in genere era (ed è stato poi) più proprio e quasi esclusivo della casa di Venezia.
Pure in questo capitolo, si tratta di due proposte di fondazione di nuove case dell’Istituto: « Il preposito ritorna sulle due offerte di aprire nuove case dell’Istituto nel Ferrarese e nel Brasile. Per la prima si è d’accordo di non poter aderire, pur riservandosi di assumere uteriori chiarificazioni; per la seconda, riconoscendo l’impossibilità di accettare quest’anno, non si esclude di trasferirvi alcuni religiosi nel prossimo 1956-57 e intanto si possono iniziare le trattative ». Nel capitolo definitoriale successivo, del 15 settembre 1955, si trova su questo punto la frase: « Circa l’invito del Vescovo brasiliano di Ponta Grossa per un sollecito invio colà di alcuni religiosi, sembra possible impegnarsi che due religiosi partano il prossimo giugno per iniziare l’opera e, in loco, stringere, se conviene, il contratto di fondazione ». Si conferma dunque che si tratta della diocesi di Ponta Grossa, nel Paraná.
L’11 dicembre 1955, nella sala delle Colonne a Ca’ Giustinian a Venezia, l’Istituto Cavanis riceve la medaglia d’oro del ministero della pubblica istruzione, per meriti di insegnamento ed educazione. Erano presenti tutte le autorità religiose, civili e militari della città. C’era natuaralmente il patriarca Roncalli, che ricevette la medaglia dal provveditore agli studi e la consegnò al nuovo preposito, P. Gioachino Tomasi. L’onorevole Giovanni Ponti, ex-allievo di Venezia e con ogni probabilità promotore di questa distinzione, tenne una memorabile commemorazione dell’opera dell’Istituto.
Del Paraná si parla di nuovo anche nel capitolo definitoriale del 18 aprile 1956. « Dall’America, il Vescovo di Pontagrossa (sic) insiste per avere qualche padre per il suo Seminario; il Preposito risponderà che le intenzioni dell’Istituto non sono cambiate, ma per il momento la S. Sede desidera che si differisca ogni partenza, e ciò in vista delle prossime elezioni amministrative. Anche il card. Roncalli Patriarca di Venezia ha fatto parola per l’apertura di una Casa al vicino Lido».
Nel giugno 1956 se ne parla ancora: « Il (…) Preposito ripresenta l’offerta del vescovo di Pontagrossa (Brasile) sulle cui trattative era già stata espresso, in linea di massima, parere favorevole e fissate anche le modalità. Il Preposito proporrà nella prossima riunione i nomi dei due soggetti da inviare, ai quali intanto farà privatamente parola anche per qualche iniziazione alla lingua del luogo; intanto chiederà alla S. Sede se permangono difficoltà, e al Vescovo proponente se è disposto a venire incontro per le spese del viaggio. ». Nello stesso capitolo definitoriale si parla ancora della fondazione al Lido, e si conferma la risposta negativa. Inoltre, Mons. Piasentini aveva offerto all’Istituto di accettare una scuola professionale a Donada; ma si decide di rispondere negativamente, anche perché il vescovo non aveva ancora consegnato la promessa documentazione relativa alla proprietà dell’immobile in cui sorgeva il già accettato e fondato Centro professionale di Chioggia.
La questione dell’apertura in Brasile si conclude negativamente: nel verbale del capitolo definitoriale del 7 agosto 1956 infatti si scrive che « le trattative, iniziate lo scorso anno, si chiudono, per desiderio del P. Preposito, in seguito alla circostanza nuova per cui la S. Sede obbligherebbe i Religiosi colà trasferiti a recarsi in patria per i doveri elettorali. La proposta di continuare le trattative, messe ai voti, dà voti positivi 1, negativi 4. » In realtà se ne parlerà ancora nel 1958. Impressiona molto il controllo da parte della S. Sede sulla politica italiana, per timore senza dubbio di una svolta a sinistra; per poche decine di voti in favore della Democrazia Cristiana, si preferiva rendere quasi impossibile l’invio o alla permanenza di missionari e missionarie ai paesi del Terzo mondo e di missione !
Il 1957 è un anno che prospetta varie tensioni in congregazione; si discute della divisione tra le due comunità di fatto di Possagno (collegio e liceo), ma il definitorio risponde per ora negativamente; il collegio di Porcari comincia a soffrire di una forte diminuzione dei convittori, dovuto all’ampliamento del numero di scuole statali anche nei piccoli centri e vorrebbe differenziare l’offerta, con l’istituzione di un istituto tecnico per ragionieri e geometri, suscitando una reazione negativa da parte del P. Saveri, rettore della comunità di Capezzano Pianore. Porcari inoltre desidera vendere la casa della Drusola e la villa di Vicopelago, occupata a quel tempo dalle suore del S. Nome ; la casa di Roma desidera accedere alla proposta di un certo sig. De Blasi di costruire sul terreno della casa un cinematografo; il capitolo definitoriale del 22 aprile concede quest’ultima richiesta ad alcune condizioni (non se ne farà poi nulla); non concede la vendita della casa della Drusola né per il momento quella della villa di Vicopelago, che comunque dovrebbe essere venduta alle suore del S. Nome. Si comincia a prospettare l’idea che la comunità Cavanis dovrebbe avere, ad uso di tutte le comunità, una casa di montagna per le vacanze dei religiosi e si parla dell’offerta del comune di Miola di Piné di offrire un terreno a tal fine.
Una delle più importanti realizzazioni del P. Gioachino Tomasi fu nel campo della formazione. Si era parlato spesso della redazione di una Ratio studiorum della congregazione, ma non se ne era fatto nulla e la cosa veniva sistematicamente rimandata. Una vera Ratio studiorum dell’Istituto sarà promulgata solo nel 1993. Tuttavia P. Gioachino Tomasi, in data non precisata dell’estate 1957 radunò un gruppo di padri delle varie case per lavorare sulla nuova Ratio della chiesa universale e di adattarla ai nostri seminari. Se ne videro risultati pratici a partire dal 1958-59 con l’istituzione dell’anno di Propedeutica, e nell’anno successivo con la riorganizzazione pratica del corso di teologia. Questo, a partire dall’inizio dell’anno scolastico (o meglio academico) 1960-61, ebbe un’aula per proprio uso esclusivo nell’edificio della studentato, orario regolare al mattino – e quindi i chierici di teologia non ebbero più l’incarico di insegnare alle elementari – e gradualmente professori Cavanis licenziati o dottorati a Roma come professori nelle materie principali del corso.
Nel 1958 si approva la sistemazione a probandato alternativo della casa di Fietta e si stanziano 9 milioni; si pensa di riaprire i probandato a Vicopelago, dato che le suore abbandonano l’immobile; si comincia a parlare di una fondazione di casa a Cesena (Forlì). Il 9 luglio è comunicato al capitolo definitoriale dal preposito « che la società Montecatini metterà a disposizione dell’Istituto un appezzamento di terreno in località Afori di Milano perché sia ivi aperto un Centro di addestramento professionale ». Sembra che questa sia la prima avvisaglia della fondazione della casa di Solaro. Nello stesso capitolo si annota nel verbale che « è declinata l’offerta, perché l’accettazione comporterebbe impegni gravosi e inutili, di subentrare nella gestione della Scuola Media Vescovile di Feltre ».
Nel verbale del capitolo definitoriale del 15 luglio 1958 si legge: « Mons. Augusto Gianfranceschi Vescovo di Cesena chiede che l’Istituto assuma la direzione del suo Collegio Convitto [Almerici]; la domanda, subordinandone l’accettazione alle condizioni scritte che saranno da lui presentate quanto prima, è accolta in via di massima solamente per un anno di prova e in vista dell’apertura in Cesena di una Scuola Media le cui possibilità devono essere studiate durante l’anno: voti per l’accettazione in questo senso: positivi 4 negativi 1; Col nuovo anno vi andrà in qualità di direttore il P. Francesco Dal Favero coadiuvato dal P. Marcello Quilici. »
La presenza dei Padri Cavanis a Cesena sarà interrotta con la decisione unanime del capitolo definitoriale dell’8-10 luglio 1959 di chiudere la casa e di ritirarne i padri (che qui risultano essere il P. Francesco Dal Favero e Natale Sossai), visto che « la presenza dei Padri a Cesena è chiesta solamente in aiuto di quel clero diocesano e non in vista di una scuola Cavanis ».
Nel mese di agosto 1958 si parla ancora di Brasile: « Il Vescovo di Pontagrossa (sic) insiste perchè l’Istituto assuma la direzione di quel Seminario: il Preposito comunica che manderà sul posto un religioso con l’incarico di riferirgli impressioni e pareri circa l’iniziare l’attività dell’Istituto in America.»
Una gradita sorpresa: dal 24 al 27 settembre 1958 nella Casa del S. Cuore a Possagno, partecipò agli esercizi spirituali per il suo clero di Venezia S. Em.za Rev.ma il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, Patriarca, che circa un mese dopo sarebbe stato eletto Papa della Chiesa Cattolica con il nome di Giovanni XXIII. Di questo avvenimento si parlerà più ampiamente più sotto, nel capitolo che parla di questo papa.
UN NUOVO SPORT: IL LANCIO DELLA GIACCHETTA
Era tradizione rituale e simbolica della nostra congregazione, non si sa da quale data, di praticare il “lancio della giacchetta”, durante lo svolgimento del rito della vestizione religiosa, che fino al 1971 almeno si praticava all’inizio del noviziato, come entrata ufficiale in quest’anno così importante, chiave per una buona vita religiosa.
Non era previsto dal libretto del rituale, ma si faceva così: al momento della vestizione, il futuro novizio, prima di ricevere e di indossare la veste, il colletto, la fascia, la pazienza e il bavero, si toglieva la giacca e la consegnava al P. Maestro dei novizi che gli stava a fianco; questi, presa in consegna la giacca, la gettava sdegnosamente a terra sul pavimento del presbiterio, facendole fare un grande volo, tanto quanto concedeva la larghezza dell’ambiente.
Era un segno di disprezzo per lo stato secolare, e si intendeva rendere più evidente anche con il simbolo che il candidato al noviziato intendeva realmente rinunciare “al mondo e alle sue pompe”.
Non tutti apprezzavano questo gesto, specie nelle famiglie dei giovani novizi, i cui genitori avevano comprato l’abito di cui la giacca faceva parte. Da notare che a quel tempo, nel ginnasio e nel liceo in genere, si portava a scuola l’abito completo, con camicia e cravatta, salvo nel mese più caldo, di giugno. I pantaloni, fino agli anni ’50 almeno, erano portati alla zuava dagli adolescenti, cioè al ginocchio, in ginnasio, e in seguito arrivavano i pantaloni lunghi, con grande gioia dei ragazzi, quando si entrava veramente in liceo, cioè negli ultimi tre anni dello stesso.
Ricordo che nel mio caso, entrato in istituto a 19 anni per un brevissimo e più che altro simbolico postulato e poi per il noviziato, la vestizione si tenne nella nostra chiesa di S. Agnese a Venezia, la domenica 7 dicembre 1958, nel corso della S. Messa delle 9, cioè quella dell’ “oratorio” obbligatorio per tutti gli allievi tutte le domeniche e feste comandate, oltre che tutti i giorni di scuola.
Si sperava, con la celebrazione della mia vestizione, di suscitare il desiderio di entrare in istituto o comunque nella vita religiosa in qualcuno dei miei compagni di scuola. C’erano tutti i colleghi, delle medie, ginnasio e liceo, circa 300 o 400; le elementari celebravano la messa in contemporanea nell’ “oratorio dei piccoli”, quella che è stata la più antica cappella dell’istituto a Venezia e che ora è l’aula magna della scuola, al primo piano del palazzo Da Mosto.
Quando la giacca fu lanciata dal mio padre maestro dei novizi, all’epoca il caro P. Giuseppe Maretto, uno dei piccoli chierichetti, stupefatto e credendo che il padre lanciatore si fosse sbagliato, corse a raccogliere la giacca e gliela riportò, e quando questi gli disse di rimetterla per terra dove stava, commentò lamentosamente: “Ma è una bella giacca!” In effetti, apparteneva a un bel gessato blu scuro, che era stato il mio primo abito serio da adulto e il mio vanto – ecco la vanità da sconfiggere! – nell’anno della terza liceo classico, cioè della maturità.
La mia famiglia poi, come seppi in seguito, raccolse la giacca, e più tardi anche i pantaloni, e li conservò, forse per uso del mio fratello minore Giovanni, come si faceva a quel tempo. Si era all’inizio del boom economico italiano, ma non si era ancora al tempo attuale dell’ “usa e getta”. Nel 1967 recuperai quell’abito, lo feci tingere di nero e lo utilizzai come primo clergyman, mentre frequentavo l’Istituto Biblico a Roma.
P. Pierluigi Pennacchi, uno degli ultimi che abbia celebrato l’entrata in noviziato e la vestizione con questa forma simbolica del lancio della giacca e secondo il vecchio rito, nel 1962, mi raccontava recentemente che suo papà Inaco, il quale sperava poi che il figlio primogenito almeno entrasse nel clero diocesano piuttosto che in quello regolare, c’era rimasto male a veder gettare per terra la giacca. Anni dopo, quando P. Gigi, ormai prete, ordinato nel 1972, quindi subito dopo il Concilio, ricominciò a utilizzare l’abito completo, pantaloni e giacca, con l’aggiunta del collarino romano, papà Inaco gli disse: “Be’, ti dirò che sono contento di vederti usare ancora quest’abito. Non te l’avevo detto quel giorno per non rovinarti la festa, ma mi era spiaciuto veder gettare via per terra quella giacca dell’abito che ti avevo comprato. Ora vedi di non gettar più via quest’abito!”. Era in realtà, anche lì, un bell’abito che la famiglia gli aveva comprato in occasione della sua partenza da Castelnuovo di Garfagnana per i due anni di probandato a Possagno.
Per noi che entravamo in noviziato, ben preparati e pieni di entusiasmo, il rito, compreso il lancio della giacca, era molto bello e ci dava veramente il senso di lasciare tutto e trovare il centuplo e la vita eterna, cioè di incontrare davvero il Signore Gesù e il suo Regno. Per le famiglie era più difficile capire. Il problema si sarebbe risolto meglio preparando le famiglie dei futuri novizi alla celebrazione, come si fa oggi, spiegando in dettaglio il rito, i testi e la simbologia, in questa occasione e nelle altre fasi del cammino verso la professione perpetua e l’ordinazione sacerdotale.
Il 20 ottobre 1958 iniziò il viaggio in nave del P. Riccardo Zardinoni, incaricato dal Preposito, P. Gioachino Tomasi di riconoscere il Brasile, rispondendo a un invito del primo vescovo di Ponta Grossa (Paraná), monsignor Antonio Mazzarotto. P. Zardinoni visitò Ponta Grossa e altre diocesi, sia nel Paraná sia nel Rio Grande do Sul e ritornò in Italia il 24 dicembre dello stesso anno, presentando una preziosa relazione. Si vedano più sotto delle notizie più dettagliate di questo viaggio. Noto già qui che è importante sottolineare l’apertura alla missione e all’espansione della congregazione che fu propria al preposito generale P. Gioachino Tomasi, che raramente è ricordata, piuttosto ingiustamente.
Il 21 marzo 1959 a Venezia si iniziarono le celebrazioni del Primo centenario della santa morte del Venerabile P. Anton’Angelo con la commemorazione ufficiale tenuta nella Chiesa di S. Agnese.
L’anno del centenario si concluse ufficialmente pure a Venezia, senza che mancassero celebrazioni nelle altre case. La conclusione delle celebrazioni della morte del venerabile P. Anton’Angelo fu onorata dalla presenza del Cardinale Giovanni Urbani, Patriarca, che celebrò in S. Agnese la S. Messa e al Vangelo illustrò la vita e l’opera del venerabile Padre, Fondatore con il fratello dell’Istituto.
LA DISTRUZIONE DELLA MEMORIA
Quando ero all’inizio dei miei studi di teologia, un giorno uno dei responsabili della casa, che è la casa madre dell’istituto, ci disse che bisognava fare spazio nella soffitta dell’edificio principale delle scuole; ci ordinò di ritirare da lì tutti i vecchi mobili, banchi, cattedre, armadi e altro, e di distruggerli per farne legna da ardere. Noi, gli studenti o chierici, indossando la nostra veste da lavoro pieni di polvere e ragnatele, con vari giorni di lavoro prendemmo obbedienti tutti quei mobili vecchi, li portammo giù per la scala di legno dalla soffitta all’ultimo piano delle scuole (il quarto piano), e di lì li gettammo attraverso le grandi finestre di un’aula giù nel cortile dove si trova attualmente il giardino della comunità. Era un lavoro faticoso, anche perché esercitato nei mesi più caldi durante le vacanze estive, ma ci mettevamo molta gioia (una cosa molto stupida, direi oggi). Buttando i mobili dal quarto piano, ci risparmiavamo il doverli smontare ed era divertente vederli letteralmente esplodere dopo un volo di 25 metri. Erano dei poveri mobili in legno di abete, si riducevano in mille pezzi. Dopo li tagliavamo con una sega elettrica e ne facevamo legna da ardere. Oltre al vecchio mobilio delle scuole in robusto legno di acero, già rinnovato con mobili più moderni coperti da fòrmica, si trattava anche dei mobili antichi delle camere di religiosi e di altre stanze della comunità che erano stati sostituiti anche lì con dei mobili più moderni.
Il risultato fu che oggi non disponiamo più neanche di un solo esemplare di mobilio delle camere dei religiosi dei tempi dei fondatori sino agli anni Sessanta del secolo scorso se non forse il mobilio della camera di P. Basilio Martinelli a Possagno.
Questi mobili erano tutti in modesto legno di abete, uguali per tutti i religiosi, almeno nelle case più antiche, in segno di povertà e di uguaglianza.
P. Giuseppe Borghese, nel documento che presentò, in qualità di discreto (=delegato) della casa di Venezia al Capitolo generale straordinario del 7-10 luglio 1930, tra le altre proposte, nella 9ª, propone che le suppellettili siano uniformi e povere, di ugual “numero, forma e qualità” e colore (aggiunge più sotto), come diceva la cost. 23 del capitolo III, delle costituzioni del 1930) e ne dà la lista e la descrizione, ricordando che “l’espositore delle presenti proposte (cioè lui stesso) ha quaranta due anni di vita menata nell’Istituto (materialiter è il più anziano, formaliter – no). Ebbe famigliare contatto coi padri che furono i figli prediletti dei Venerati Fondatori, quali un P. Casara, un P. Rovigo, un P. Bassi.-“
Ecco la lista che P. Borghese presenta nel documento citato:
In quanto al numero:
Lavandino di legno o di ferro
È solo un esempio doloroso e non troppo raro di distruzione sistematica della nostra memoria. È ancora peggio il fatto di non avere più degli oggetti d’uso personale dei nostri venerabili fondatori, mobili delle loro camere, i loro vestiti, ad eccezione di quelli che sono stati conservati in qualche modo (in pessime condizioni naturalmente) addosso alle salme nelle loro bare. Si dirà che si è trattato di povertà, che i religiosi in mancanza di altri mobili e abiti li hanno riutilizzati. È ben vero che la nostra comunità era ed è povera; ma si può anche trattare a volte di povertà di spirito.
La stessa considerazione vale anche per la totale distruzione delle nostre antiche uniformi di religiosi quando, dopo il XXVI capitolo generale del 1967, si eliminarono scapolare (detto pazienza) e bavero; ma sarebbe interessante averne conservato un esemplare completo; si potrebbe ancora “ricostruirne” uno, e metterlo in un manichino nel nostro piccolo museo della memoria a Venezia.
Si concluse quasi definitivamente, verso la fine del XX e l’inizio del XXI secolo (più esattamente nel 2002), la distruzione quasi completa delle preziose collezioni dei musei di scienze naturali delle nostre scuole in Italia (e anche in Brasile, Castro), eliminando così degli oggetti didattici preziosi fabbricati con ingegno dai padri Zanon, Servini, Angelo Sighel e da altri confratelli più recenti: sto pensando ai bellissimi modelli di solidi cristallografici fatti a mano dal solerte P. Aldo Servini, alle migliaia di foglie di erbario che sono stati bruciati, alle collezioni di fossili e di minerali dispersi o gettati.
In certe case sono andati distrutti gli archivi, venduti dei libri d’antiquariato e per esempio una collezione completa, molto rara e di grande valore, a quel tempo anche da un punto di vista venale, de “La Civiltà Cattolica”, al prezzo di carta da macero.
Un altro caso di distruzione della memoria, è quello dell’altare di marmo bianco con agemine di marmo verde serpentinoso, che apparteneva alla cappella o chiesa dell’istituto femminile dell’istituto (alle Eremite o Romite), fu ricomprato nel 1907 dai Cavanis alle canossiane, e montato come altare della cappella del nuovo noviziato, costruita nel 1905-06; dopo il 1968, partito per Roma lo studentato, tale cappella fu trasformata in ambiente di sbratto e l’altare fu eliminato; se ne possono vedere ancora oggi (2020) varie parti disperse, a fini di “decorazione”, nel giardino della comunità.
Aggiungo, a titolo di conclusione e di ironica conferma, l’indegna ma emblematica storia di una lapide. Essa stava infissa nella “Sala Bernach”, antica sala situata a pianterreno dell’edificio dello studentato, con i suoi grandi archi originariamente aperti verso il cortile detto allora “del noviziato”, oggi cortile del giardino; archi più tardi ridotti a porte-finestre con arco a tutto sesto aperte sul giardino. La sala fu utilizzata a lungo come sala di ginnastica prima della costruzione della vera palestra nel grande cortile, di là del rio terà, che avvenne più tardi, con inaugurazione nel maggio 1954. Attualmente è la sala di lettura della biblioteca dell’istituto Cavanis di Venezia.
Questa lapide ricordava l’ex-allievo Bernach, dalla cui munificenza la sala suddetta era stata restaurata e chiusa alle intemperie, con inaugurazione l’11 marzo 1934; tale lapide venne purtroppo e ingiustamente staccata al momento di coprire le pareti della sala con la scaffalatura della biblioteca, e venne gettata in data imprecisata dell’ultimo o penultimo decennio del XX secolo nel giardino adiacente. Fu utilizzata prima, negli anni Novanta, come una delle pareti di un deposito di terra e immondizie vegetali, con cui si faceva il compost o terriccio vegetale per il giardino; più tardi, essendosi rotta da tanto rimescolare, una parte di questa lapide fu utilizzata a coprire una pozzanghera periodicamente presente sul passaggio tra il giardino stesso e la calletta sita tra il palazzo da Mosto e la Domus Cavanis; se ne può vedere ancora qualche frammento sparso nel giardino. Su due di questi lacerti riuniti si poteva leggere malinconicamente la frase scolpita e con le lettere riempite di piombo:
“… CON MUNIFICA GENEROSITÀ
DECOROSAMENTE RESTAURATA
_________
L’ISTITUTO CAVANIS RICONOSCENTE
POSE
II-3-934 XII
Tabella: numeri dei religiosi Cavanis nel luglio 1958
Case | Padri | Fratelli laici |
Venezia | 24 | 3 |
Possagno | 17 | 3 |
Porcari | 10 | 1 |
Capezzano Pianore | 10 | 1 |
Roma Casilina | 7 | 2 |
Levico | 4 | — |
Roma Tata Giovanni | 5 | — |
Chioggia | 8 | 1 |
Casa S. Cuore | 3 | 2 |
Probandato di Possagno | 5 | 1 |
Totale | 93 | 14 |
Totale generale | 107 |
Questa tabella è costruita sulla base della formazione delle comunità operata dal preposito con il suo consiglio generale nella riunione del 9-15 luglio 1958. Non considera i seminaristi in genere, quindi neanche i professi perpetui ancora in formazione.
8. Dal 1958 al 1970: anni che hanno cambiato la Chiesa e il mondo
Durante la prepositura del P. Gioacchino Tomasi (1955-1961) e dei suoi successori P. Giuseppe Panizzolo (1961-1967) e P. Orfeo Mason (1967-1979), soprattutto il suo primo mandato (1967-1973) dal modesto punto di vista dell’Istituto Cavanis, sono accaduti eventi che hanno impresso alla Chiesa cattolica una svolta epocale, che ha avuto riflessi sulle altre chiese, sul mondo e grande influenza anche sul nostro istituto.
Tra questi eventi possiamo considerare la morte di Pio XII e l’accessione di Giovanni XXIII; la celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965; la sua proclamazione era stata fatta il 6 gennaio 1959, solennità dell’Epifania); la definizione della Chiesa come “La Chiesa dei poveri” (Giovanni XXIII, 1962); un nuovo inizio di uno spirito e di attività ecumeniche: basta ricordare l’incontro di Papa Giovanni con il Primate della Chiesa d’Inghilterra dr. Arthur Michael Ramsey nel 1966 e l’incontro personale e l’abbraccio fraterno e storico di Paolo VI con il patriarca ecumenico Atenagoras a Gerusalemme il 5 gennaio 1964; la celebrazione della II Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano-CELAM a Medellín in Colombia (24 agosto-6 settembre 1968), preceduto dall’assemblea di Buga, Colombia, particolarmente interessante nei riguardi dell’educazione (12-18 febbraio 1967); una sempre maggiore influenza positiva del papa e della chiesa sul mondo, con vantaggi non solo per la fede ma anche per la pace e per la giustizia.
Questi anni non solo una svolta soltanto per la Chiesa, ma anche un periodo denso di eventi politici estremamente importanti. Basta pensare per esempio alla costruzione del muro di Berlino (1961), alla crisi dei missili di Cuba, col relativo pericolo concreto di una terza guerra mondiale (ottobre 1962); dell’assassinio di John F. Kennedy (22 novembre 1963) e di suo fratello Robert (6 giugno 1968), alla Guerra degli Stati Uniti in Vietnam (1957-1973).
Il 1958 particolarmente sembra l’anno della svolta; rappresenta tra l’altro la fine del dopoguerra, un periodo di crescita per il mondo “atlantico”, cioè USA e paesi liberali dell’Europa, dell’entrata di questi ultimi nel mondo del consumo, del libero mercato e delle comunicazioni, della diffusione dei modelli di questi ultimi paesi in tutto il mondo, dell’inizio del boom economico in vari paesi europei e specialmente in Italia, dove si opera anche, finalmente, l’apertura a sinistra, non senza l’influenza discreta ma efficace di Papa Giovanni.
Cosa non disprezzabile, questi sono anche gli anni della prima esplorazione dello spazio, che sottolinea la svolta epocale di cui si parlava: il primo satellite artificiale, la sonda sovietica Sputnik, lanciato il 4 ottobre 1957; il primo uomo nello spazio, sia pure per un breve giro o orbita (in soli 108 minuti), Juri Gagarin, anche lui sovietico, il 12 aprile 1961; da parte degli Stati Uniti d’America, il programma Mercury, poi Gemini e poi il programma Apollo e il felice primo sbarco sulla luna o allunaggio da parte della NASA, organo spaziale statunitense (21 luglio 1969), seguito e accompagnato da altri sbarchi e altri importanti eventi di esplorazione di satelliti e pianeti durante il periodo considerato e fino ad oggi.
Gli anni Sessanta e dintorni sono anche gli anni tipici della decolonizzazione accelerata e del raggiungimento dell’indipendenza di molti paesi, particolarmente in Africa, a volte in modo pacifico, ma spesso in modo sanguinoso, come per esempio in Algeria, ex colonia francese, e nel Congo, già colonia belga.
Ne segue un ottimismo straordinario, si parla molto di progresso e di sviluppo, con una “fede” alquanto ingenua, di stampo in fondo positivista, anche se se ne erano fatti araldi tra gli altri il prete e gesuita Pierre Teilhard de Chardin negli anni quaranta e cinquanta e negli anni sessanta non solo il cattolico John Fitzgerald Kennedy, tra gli altri, ma anche il papa Paolo VI. Fede nel progresso e nello sviluppo che sarà sfatata soltanto una ventina o trentina di anni più tardi.
Il 1968 è anche l’anno della rivoluzione degli studenti universitari e dei giovani in genere, prima negli USA, poi a Parigi, poi nel mondo intero, con riflessi anche nei seminari maggiori della Chiesa e tra l’altro, a partire almeno dal 1970, nel seminario teologico dell’Istituto Cavanis a Roma.
Per la Congregazione Cavanis il 1958 è l’anno in cui essa comincia seriamente a pensare a una desiderata apertura missionaria, con il viaggio esplorativo in Brasile di P. Riccardo Zardinoni, su mandato del preposito Tomasi. Il 1968 (e l’inizio del 1969) è l’anno dell’apertura in Brasile della prima casa dell’Istituto all’estero e in missione; il 1969 è l’anno in cui l’istituto organizza e celebra (1969-1970) il suo Capitolo Generale Straordinario Speciale per la riforma dell’istituto e delle sua costituzioni e norme.
Una svolta storica di questa portata si avrà solo una trentina d’anni più tardi, attorno al 1989, con la caduta del muro di Berlino e le sue conseguenze positive e negative.
8.1 Papa Giovanni XXIII e l’Istituto Cavanis
Il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli (25 novembre 1881-3 giugno 1963), che sarà in seguito il Santo papa Giovanni XXIII, proveniente dalle Prealpi lombarde, nato nel villaggio di Sotto il Monte, vicino a Bergamo, terra di S. Marco, arcivescovo e patriarca di Venezia dal 1953 al 1958, conosceva bene l’istituto Cavanis ed era straordinariamente amorevole con la nostra comunità veneziana; era disposto a venire in istituto almeno una volta l’anno, in generale in occasione della festa di S. Giuseppe Calasanzio pro pueris e/o in occasione della fine dell’anno scolastico in cui si davano diplomi e premi agli allievi più meritevoli nello studio e negli esami di religione. In quell’occasione mi ricordo che teneva delle omelie o dei discorsi molto gradevoli, pieni di racconti divertenti e di ricordi personali. Una volta ci narrò un aneddoto della sua vita di militare alle prime armi: trovandosi una volta a sostituire un altro ufficiale più esperto in una esercitazione di reclute, in un campo fiancheggiato da fossi, ordinò alla compagnia di partire all’assalto, con le baionette innestate, incitandoli con il grido di guerra “Savoia!”. Lo aveva fatto stando non di fianco alla formazione, come di prassi, ma davanti ai soldati e questi, ancora un po’ inesperti o forse scherzosi, si gettarono a tutta velocità all’assalto nella sua direzione e il povero cappellano militare, finito il terreno, per evitare di essere infilzato dalle baionette, dovette gettarsi nel fosso, prendendo un bagno non previsto dal manuale.
Il Patriarca Roncalli durante il suo tempo come vescovo della chiesa che è in Venezia (1953-1958) ordinò preti numerosi padri Cavanis (31), oltre a conferire ordini maggiori e minori ad altri o agli stessi, in genere nella basilica della Salute. Il diario della casa-madre di Venezia, redatto in questi anni dal P. Luigi Candiago, rettore, ricorda che il 21 giugno 1953, in un discorsetto ai neo-presbiteri, dopo l’ordinazione, il patriarca disse, rivolgendosi ai neo-ordinati dell’Istituto Cavanis: “Mi congratulo coi figli di una congregazione nuova, possiamo dire, che s’intitola alla Carità e che appunto per questo va alla radice dei problemi sociali: i Padri Cavanis, intendo dire, che tanto bene operano qui, nella nostra diletta diocesi ed altrove.”
Nei due volumi che riportano il contenuto delle sue agende relative al suo mandato a Venezia, si trovano vari riferimenti all’istituto Cavanis.
Il primo riferimento è del 19 gennaio 1957, un sabato [p. 304], e si ricorda che il “Sup. Generale dei P.P. Cavanis che reca 4 alunni con lit. 70.000 raccolte in aiuto dei profughi Ungheresi.”.
Il secondo riferimento [pp. 646-647] è quando parla evidentemente del padre preposito pro tempore, P. Gioachino Tomasi pur senza nominarlo espressamente, e dice di lui «3 maggio 1958 – Delle visite. Notevole il Superiore degnissimo dei P.P. Cavanis a cui mi sono scusato di non poter concedere l’ordinazione speciale per i suoi a S. Agnese: a) per salvare la regola per tutti della grande ordinazione in S. Marco e in comune, come si fa a S. Gio[vanni in] Laterano a Roma a N[otre] D[ame] a Parigi ecc. secondo l’uso generale, b) poi per uniformità a non creare eccezioni. Accolse bene.… ». Lo stesso giorno si trova ricordata la visita di un altro Cavanis, terzo riferimento (indiretto) all’Istituto: “Nel pomeriggio (…). Altra visita delicata: mgr. [Giovanni Battista Piasentini] vescovo di Chioggia che conforto del mio meglio.”
Il quarto riferimento attesta: “17 giugno 1958 martedì, [p. 684] – Oggi c’è stata come cosa da sottolineare la premiazione per la catechesi alla scuola Cavanis, occasione eccellente in cui confermo la mia stima per questo istituto che merita e che è una delle ricchezze religiose di Venezia. Questi padri meritano di ricevere una lode, incoraggiamento e affetto”.
Questi ultimi sentimenti sono confermati da una lettera del patriarca Roncalli al preposito, di cui non si è trovato per ora l’originale, ma soltanto la riproduzione nel corpo di una circolare del preposito Tomasi ai congregati: “La relazione che Ella, caro Padre, ebbe la cortesia di compiegarmi, niente aggiunge all’apprezzamento che io nutrivo e nutro per l’apostolato dei Padri Cavanis: ma mi ha dispiegato in una visione limpida i particolari di questo prezioso e magnifico servizio della Santa Chiesa e delle anime.
Alcune cose, tra le altre, mi hanno fatto immenso piacere: il pensiero religioso di meditazione dettata ogni mattina agli studenti: la perfetta organizzazione catechistica; la celebrazione attiva delle giornate diocesane e nazionali: l’attività del servizio di segnalazioni cinematografiche: e la continuata assistenza spirituale, culturale e ricreativa agli alunni ed agli ex-alunni … Caro padre, voglia leggere in queste mie modeste parole il segno della sollecitudine mia, tranquilla e lieta, per le care anime giovinette confidate ad un gruppo di distinti e ottimi religiosi, per i quali la gratitudine del Vescovo e del Clero veneziano non trovano adatta espressione all’infuori del saluto augurale, incoraggiante e benedicente che La prego di gradire e di trasmettere ai singoli padri di Venezia e delle altre Case di codesta Congregazione.
Aff.mo Angelo Giuseppe Card. Roncalli – Patriarca”
A Venezia, le persone l’amavano per la sua bontà e (apparente) semplicità; ma nessuno avrebbe mai pensato che sarebbe diventato un grande papa e che sarebbe stato dichiarato santo. Pochi osservatori più acuti, tuttavia, anche a Venezia, percepirono in lui segni d’originalità notevole e d’iniziativa profetica nella sua attività di buon pastore e di profeta. Dopo la sua accessione alla cattedra di San Pietro come vescovo di Roma e della chiesa universale, molti ebbero a dire « Lo dicevo, io!», ma in realtà, a quanto ricordo, molti a Venezia lo stimavano e lo amavano, ma la maggioranza non lo giudicava un grand’uomo, proprio per la sua semplicità evangelica, che poi era un elemento importante della sua grandezza.
Io lo conoscevo bene personalmente e gli ero affezionato; la cosa era reciproca, ero conosciuto dal patriarca Roncalli come giovane laico impegnato nel gruppo di coordinazione di un settore dei giovani (gli juniores) di Azione Cattolica diocesana. Quando mi incontrava nei corridoi della curia o quando andavo a presentargli gli auguri in occasioni diverse, mi chiamava per nome: “Giuseppe!”.
Come si è detto sopra, dal 24 al 27 settembre 1958, il patriarca Roncalli organizzò un ritiro per il suo clero veneziano, scegliendo per questa occasione la casa degli esercizi spirituali del Sacro Cuore di Possagno, dell’Istituto Cavanis. Egli ne parla nel suo prezioso «Diario dell’anima», in particolare ricordando il rettore della casa e direttore dei corsi di ritiro spirituale, P. Pellegrino Bolzonello. Scriveva così: “Qui in alto, sito amenissimo sulle falde del Grappa. Ottimi padri dell’Istituto Cavanis ad accogliermi. Padre Pellegrino Bolzonello, direttore pieno di unzione e di garbo. Con me il provicario monsignor Gottardi, monsignor Capovilla, lo stato maggiore della curia, parecchi parroci e canonici, i monsignor Vecchi e Spavento, ecc. Numerosi i miei giovani preti. »
Dopo la morte di Pio XII (9 ottobre 1958) verso la fine del mese di ottobre si mise in viaggio per Roma per partecipare al conclave per l’elezione del nuovo papa. Aveva in tasca, come all’inizio del secolo anche il patriarca di Venezia, card. Giuseppe Sarto, che sarebbe diventato Santo Pio X, un biglietto del treno Venezia-Roma andata e ritorno per lui e per il suo segretario, monsignor Loris Capovilla, successivamente vescovo e poi cardinale (febbraio 2014). Ma non avrebbe più fatto ritorno a Venezia in vita.
Il 26 ottobre, festa del Cristo Re, ero arrivato a Possagno, alla casa del Sacro Cuore, come postulante. Avrei iniziato lì il mio noviziato e indossato l’abito dei Cavanis il 7 dicembre dello stesso anno.
Il conclave per l’elezione del nuovo papa era in corso (25-28 ottobre 1958). Si sussurravano tre o quattro nomi principali (Ottaviani, Valeri, Siri, Agagianian), ma non si parlava del Card. Roncalli. Nella casa del Sacro Cuore si raccontava ancora della sua preziosa visita durante gli esercizi spirituali.
Il 28 ottobre mattina, le campane del piccolo campanile della nostra chiesa del Sacro Cuore suonarono fuori orario e si chiamò tutta la comunità nel refettorio dei religiosi dove c’era un televisore, il ché era ancora una rarità nelle comunità religiose dell’istituto. Era nuova di zecca, essendo stata acquistata in occasione della morte di Pio XII. A Venezia, ad esempio, la nostra comunità non ce l’aveva ancora; l’avrebbe acquistata in occasione dell’inaugurazione del Concilio Vaticano II (1962).
L’elezione del nuovo papa era stata annunciata a Roma attraverso una fumata di colore incerto, che più tardi divenne più o meno bianca.
Eravamo tutti attorno alla tv, il rettore P. Pellegrino Bolzonello, P. Giuseppe Maretto, economo e maestro dei novizi, P. Ermenegildo Zanon, il caro fratello Italo Guzzon, i cinque novizi, tra cui Diego Spadotto, attualmente prezioso padre Cavanis da più di cinquant’anni, e anche colui che sta scrivendo, postulante al suo secondo giorno in istituto.
L’annuncio dell’elezione del card. Roncalli, patriarca di Venezia a papa, fu data, in latino naturalmente, con il tradizionale «Habemus papam!», e fu annunciato il suo nuovo nome: Giovanni XXIII. La sorpresa fu grande, ma ancor più grande fu la gioia. Nella casa del Sacro Cuore si continuarono a raccontare per diversi giorni gli episodi e gli aneddoti più piccoli della sua permanenza in quella casa, a mostrare ai visitatori e alle persone che partecipavano ai ritiri il piccolo appartamento dove aveva soggiornato il papa. Successivamente vi fu affissa una targa in marmo per ricordare l’avvenimento.
Qualche mese dopo (più esattamente il 26 gennaio 1959 è stata la data dell’arrivo in Casa del S. Cuore) papa Giovanni inviò in regalo a P. Pellegrino e alla comunità un bel calice d’argento dorato con il nodo in diaspro rosso, che si conserva e si utilizza ancora nella chiesa della Casa del S. Cuore. La comunità ha fatto incidere, sotto il piede del calice, la frase: “Dono di S.S. Papa Giovani XXIII alla Casa del S. Cuore” nel cerchio esterno, e “[Festa della] Cattedra di S. Pietro – 1959” nel cerchio interno.
Il calice era accompagnato dalla seguente lettera:
SEGRETERIA Dl STATO DI SUA SANTITÀ
N. 7354
Dal Vaticano, 15 gennaio 1959
Reverendissimo Padre Bolzonello Pellegrino,
Non è senza una particolare soddisfazione che il Santo Padre ritorna col pensiero al sereno raccoglimento degli Esercizi Spirituali praticati alla fine del settembre scorso anno, presso la Casa del S. Cuore di Col Draga di Possagno, a neppure un mese di distanza prima che la divina Provvidenza Lo chiamasse all’altissima responsabilità del Sommo Pontificato.
L’Augusto Pontefice desidera che della Sua permanenza in cotesta oasi di pace vi rimanga il ricordo, con un Suo dono, consistente in un prezioso Calice, destinato alla artistica e suggestiva Chiesa della medesima Casa.
È così che, in ossequio alle venerate disposizioni di Sua Santità, rimetto alla Paternità Vostra Rev.ma il dono in parola, che la medesima Santità Sua accompagna con la Benedizione Apostolica, che augura sia largamente propiziatrice di grazie di santificazione per i Religiosi che dirigono la Casa stessa e per quanti verranno costi a ristorare il loro spirito e a rinnovare i loro propositi di bene.
Mi valgo dell’incontro per professarmi con sensi di religiosa stima
della Paternità Vostra Rev.ma
Dev.mo nel Signore
DOMENICO Card. TARDINI
Giovanni XXIII mantenne il suo affetto per l’Istituto anche dopo la sua elezione a papa. Nel diario della comunità di Venezia si trova il seguente episodio: “Ritorno del rev.mo Padre [Preposito Tomasi] da Roma dove ebbe una affabilissima udienza privata dal Sommo Pontefice Giovanni XXIII già Patriarca di Venezia. È da notare che il Padre, che era accompagnato dal P. Antonio Turetta, era in un elenco per un’udienza speciale e non privata. Ma quando Sua Santità li scorse, esclamò: – Ma questi io li conosco! – condusse ambedue nel suo studio privato, aggiungendo: – Così potrete dire di essere stati nello studio del Papa. – Li fece sedere amabilmente presso di sè e li trattenne, nonostante che l’ora fosse tarda e molti altri fossero in attesa, per un 10 minuti. Licenziandoli disse loro di portare la sua paterna benedizione ai Padri, agli Studenti, agli Aspiranti, agli allievi, ex-allievi e loro famiglie.”
P. Giuseppe Leonardi, allora il postulante Leonardi, che aveva inviato una lettera al suo vescovo e patriarca, prima di partire per il noviziato (in effetti non poteva farlo di persona, perché quando era partito per il noviziato il cardinale era già a Roma per il conclave) comunicandogli la sua decisione di entrare all’ istituto Cavanis, ricevette in dono dal papa una foto nella quale il cardinale patriarca Roncalli e lui erano assieme, con due righe di saluto, benedizioni e auguri che il caro papa aveva scritto di proprio pugno. Oggi si tratta di una preziosa reliquia oltre che di un caro ricordo!
8.2 Angelo Giuseppe Roncalli, Giovanni XXIII
Nato, come si è detto, nel villaggio di Brusicco, frazione del paese di Sotto il Monte in provincia di Bergamo il 25 novembre 1881, da una modesta famiglia di mezzadri, Angelo Giuseppe, quarto di una famiglia numerosa di 14 figli, frequentò il seminario minore di Bergamo, poi passò a Roma per frequentare gli studi teologici al seminario romano dell’Apollinare e fu ordinato sacerdote il 10 agosto 1904. Ritornato a Bergamo, diviene fino al 1914 segretario del suo vescovo, monsignor Radini Tedeschi, molto impegnato in campo sociale sulla linea di Leone XIII, un’attività e un contatto che marcano profondamente il giovane prete. Insegna apologetica, patristica e storia della chiesa nel seminario diocesano. Nel periodo della lotta contro il modernismo, anche il giovane Roncalli, come del resto il suo vescovo, è accusato di simpatie al modernismo. Si dedica alla ricerca storica e documentaria con successo.
Durante la prima guerra mondiale fa la dura esperienza di soldato della sanità militare, poi congedato come cappellano militare, con il grado di tenente, sul fronte dell’Isonzo.
Finita la guerra, fu chiamato da Benedetto XV nel 1921 ad essere presidente dell’Opera italiana per la propagazione della fede. Nel 1925 ebbe un incarico ben più importante e difficile, come visitatore apostolico e poi delegato apostolico (1931) in Bulgaria. Vi rimane per dieci anni. Ordinato vescovo a questo scopo, sceglie il motto Oboedientia et pax, scambiando le parole del motto del famoso cardinale Baronio. A Sofia, in un paese a larga maggioranza ortodossa, dove i cattolici erano una assoluta minoranza seppe comportarsi con grande spirito pastorale ed ecumenico, soprattutto con notevole discrezione, rispetto e carità, guadagnandosi la simpatia e il rispetto del popolo e dei confratelli ortodossi. Tra l’altro, prendendo contatto con gli uniati di rito orientale, si oppone ai missionari di rito latino, suscitando delle critiche da parte di Roma. Quella bulgara fu per lui una prima straordinaria esperienza che avrebbe avuto conseguenze importanti nella formazione della sua personalità e del suo programma.
Nel 1935 passa a Costantinopoli/Istanbul come delegato apostolico per la Turchia e la Grecia, e amministratore apostolico dei latini di Costantinopoli; vi passa anche qui quasi dieci anni. È un nuovo incarico delicato e non facile, in una stato laico che non lo riconosce come ambasciatore della santa Sede, per cui deve agire con intelligenza e discrezione, a livello più personale che ufficiale. La sua finezza e la sua carità lo aiutano molto in questo compito. Qui tra l’altro entra in contatto con l’Islam e con la difficile situazione dei rapporti complicati tra le differenti confessioni e riti cristiani: le varie chiese cristiane orientali con i loro rispettivi prelati e il loro clero, ortodossi e cattolici, questi ultimi divisi tra loro, anche nell’esercizio del rito latino, di quello bizantino di S. Giovanni Crisostomo o di altri riti orientali. La sua attività in Turchia, durante la seconda guerra mondiale, è ricordata anche per i suoi efficaci interventi per la salvezza di numerosi ebrei perseguitati dai nazisti.
L’insieme delle sue ventennali attività diplomatiche e soprattutto pastorali nell’Europa sud-orientale gli forniscono una straordinaria esperienza nel campo dell’ecumenismo e nell’apertura della mente e del cuore.
Pio XII nel 1944, subito dopo della liberazione di Roma, lo nominò nunzio apostolico a Parigi. Fu per lui un cambiamento di ambiente molto importante, per completare la sua formazione e la sua visione dell’Europa e del mondo. In Francia dovette occuparsi soprattutto di ridurre (di molto) il numero di vescovi che, accusati di aver collaborato con il regime di Vichy, avrebbero dovuto essere allontanati dal governo pastorale di diocesi francesi.
Nel 1953 ricevette il berretto cardinalizio (12 gennaio) e fu nominato arcivescovo e patriarca di Venezia. Su questo periodo (1953-1958) si è detto sopra. Si può aggiungere che agì con apertura nel mondo politico veneziano e italiano. Tra tanti altri, si può ricordare il messaggio che inviò, quando il 6 febbraio 1957 i socialisti si riunirono a Venezia, al Congresso del Partito Socialista Italiano, che allora era ancora alleato del Partito Comunista Italiano, i cui dirigenti e propagandisti erano stati scomunicati da Pio XII nel 1949.
Il suo apprezzato “Diario dell’Anima” è una fonte preziosa, anche se ovviamente soggettiva, sia sulla sua vita e attività precedente alla sua elezione al papato, sia sulla sua spiritualità cristiana e pastorale, nutrita dall’Imitazione di Cristo, dagli Esercizi Spirituali di S. Ignazio di Loyola, dalle opere e dalle personalità di S. Francesco di Sales e di S. Alfonso de’ Liguori; come pure dai suoi altri modelli sacerdotali e pastorali, che sono S. Filippo Neri, S. Carlo Borromeo e Jean-Marie Vianney, il santo curato d’Ars.
Alla sua elezione a papa si è detto qualche cosa più sopra. Aggiungo qui che senza dubbio è stato scelto dalla maggioranza dei pochi cardinali presenti nel lungo conclave soprattutto come papa “di transizione provvisoria”, perché anziano, eletto a 77 anni, e probabilmente perché era stato sottovalutato dai suoi pari, che vedevano in lui un uomo semplice, docile, senza sorprese.
Fin dall’inizio tuttavia il papa Roncalli doveva sorprendere i cardinali e il mondo, a cominciare dalla scelta del nome di Giovanni, nome papale ormai dimenticato, non più impiegato dei secoli dell’”esilio” di Avignone, e che interrompeva la serie (sia pure discontinua) dei papi di nome Pio, numerosi nei secoli XIX e XX. Tanto più strana la scelta del nome, dato che avrebbe portato al numero d’ordine di XXIII. Come osserva Mayeur, ebbero un peso decisivo i primi cento giorni del suo mandato, in cui si ebbero ben altre sorprese.
La santa Sede avrà da lui, di nuovo, dopo nove anni, un segretario di Stato, monsignor Tardini, già sottosegretario di stato di Pio XII; nomina 23 cardinali, superando senza preoccuparsene la cifra classica di settanta, fissata da Sisto V. Tra loro c’era anche monsignor Montini, arcivescovo di Milano, che non era stato nominato cardinale da Pio XII, nonostante la sede di cui era vescovo fosse tradizionalmente cardinalizia, e altri importanti personaggi che saranno protagonisti del Concilio e della vita successiva della Chiesa. Da questo conclave e da un altro successivo, il collegio cardinalizio sarà profondamente aumentato, rinnovato e reso progressivamente più internazionale, con la diminuzione tra l’altro dei cardinali italiani.
Una data importante, specie per i cultori della Sacra Scrittura, come tutti dovrebbero essere, è il 14 dicembre 1959, quanto il P. Bea S.J. fu nominato rettore del Pontificio Istituto Biblico. Era un segno chiaro sulle idee del nuovo papa, nella situazione di diatriba che aveva opposto Bea ad alcuni professori – e alla linea stessa – della Pontificia Università del Laterano, di cui si è parlato sopra.
Bisogna tuttavia ricordare che P. Bea aveva avuto uno stretto rapporto anche con Pio XII, di cui fu per lunghi anni il confessore.
In seguito, insignito del berretto cardinalizio, P. Bea fu reso responsabile del nuovo Segretariato per l’unità dei cristiani, un organo della santa Sede che la diceva lunga sull’esperienza personale di cui il papa Roncalli si era arricchito nel ventennio trascorso a Sofia, a Costantinopoli e ad Ankara, ma anche sulle sue intenzioni e le sue priorità
Papa Giovanni non riformò la curia romana, nonostante alcuni ritocchi, come invece ebbe a fare il suo successore Paolo VI: aveva idee più grandiose, e il 25 gennaio 1959, ancora dentro dei cento giorni di cui si parlava sopra, nella basilica di S. Paolo Fuori le Mura, annunciò al contempo un sinodo della Chiesa che è a Roma e soprattutto la celebrazione di un concilio ecumenico. Se il primo, cioè il sinodo della diocesi di Roma, si svolse poi in modo tradizionale e poco interessante, mi sia permesso di dire, il secondo, cioè il concilio ecumenico, doveva sorprendere il mondo e forse ancor più la curia già dal momento dell’annunzio, e doveva superare nello svolgimento e nei risultati tutte le aspettative. Del concilio ecumenico Vaticano II, che del resto, indetto e iniziato da Giovanni , sarà condotto soprattutto da Paolo, si parlerà brevemente a parte.
Ci sarebbe molto da narrare sulle sue numerose uscite dal Vaticano, incluso il pellegrinaggio in treno ad Assisi, sulle sue visite a malati e carcerati, alle parrocchie romane, da vescovo di Roma veramente pastore del suo gregge, e tanti aneddoti e motti di spirito che lo resero amatissimo, e detto “il papa buono”; senza contare il suo bellissimo e famoso “discorso della luna”, e i primi contatti, solo di cortesia per il momento, con la Russia sovietica. Queste cose facevano di lui un papa ben diverso dai suoi predecessori, soprattutto perché lo facevano sentire più umano e paterno, più prossimo al popolo di Dio.
Si ricorda volentieri il suo prezioso incontro con il primate della Chiesa d’Inghilterra, l’arcivescovo di Canterbury.
L’enciclica Mater et magistra (15 maggio 1961) continuava nella linea della Rerum novarum, di cui tra l’altro celebrava il 70° anniversario, ma metteva in risalto in modo nuovo le disiguaglianze sociali tra i diversi paesi e continenti e metteva in luce che il sottosviluppo poteva essere il problema maggiore del nostro tempo.
L’enciclica Pacem in Terris (11 aprile 1963, uscita poco prima della morte del papa) ha la peculiarità che è diretta non solo ai cattolici o ai cristiani, ma a tutti gli uomini di buona volontà, iniziando così uno stile nuovo di dialogo. L’enfasi messa sulla pace (e sulla giustizia) dipende dal clima della guerra fredda, ma anche dal carattere di Giovanni XXIII, che tra l’altro aveva messo la pace nel suo motto episcopale.
Il rinnovamento in corso non escludeva alcune azioni di stile diverso da quello di Giovanni, condotte da settori della curia romana che continuavano ad agire su una linea e con uno stile tradizionali: basti ricordare le critiche al libro Esperienze pastorali di don Lorenzo Milani e, più grave, la proibizione della lettura nei seminari e la vendita nelle librerie cattoliche delle opere postume del grande Teilhard de Chardin, da parte del card. Ottaviani.
Tuttavia, la breve ma incisiva presenza del “papa buono” è stata marcante per l’aggiornamento: inoltre si presagiva un cambiamento dell’atmosfera nella Chiesa di Dio, l’arrivo di una “brezza leggera”, come osserva elegantemente J.-M. Mayeur.
La morte di Papa Giovanni (3 giugno 1963) commosse tutto il mondo. Forse era stato un “vecchietto provvisorio”, come avevano probabilmente pensato vari suoi grandi elettori. Ma di lui si poteva dire con la Scrittura, nonostante la sua età avanzata: “Consummatus in brevi, explevit tempora multa”.
Le ossa di Santa Veneranda
Lo Studentato Cavanis a Venezia, cioè l’abitazione e anche lo Studium teologico dei seminaristi maggiori dell’Istituto aveva la sua cappella a pianterreno, nella sala a sinistra entrando dalla porta del giardino di comunità. Si vedono ancora nel giardino dei frammenti di marmi che appartenevano all’altare, disposti – purtroppo – ad arte nelle aiuole. Nel muro a destra della cappella era stata scavata una nicchia, ora scomparsa, e vi si trovava una modesta urna in legno scolpito e vetro, contenente quello che pare un cuscino di stoffa rossa damascata, sormontato da un cartiglio che dice: “Ossa S. Venerande Mart. ”. L’urna è stata a suo tempo ritirata dal culto e si trova nell’archivio storico dell’Istituto a Venezia. In effetti sembra abbastanza probabile che il nome di S. Veneranda, persona di cui non si sa nulla di certo, e di cui si conserverebbero le reliquie anche ad Ercolano (Napoli), corrisponda in realtà a una corruzione e interpretazione popolare del nome “Ossa veneranda”, cioè “Ossa venerabili” di qualche martire o altro santo sconosciuto. Il cuscinetto rosso, che presumibilmente contiene delle piccole ossa, o frammenti di esse, non è mai stato aperto, almeno negli ultimi decenni.
Nell’anno scolastico e pastorale 1959-1960 era Maestro dei chierici, cioè superiore del nostro seminario maggiore a Venezia il P. Alessandro Vianello (1892-1971) di venerata memoria. Si trattava dell’ultimo anno, come formatore nei seminari, di un padre che aveva occupato questa carica in varie case dell’Istituto e in varie fasi della sua vita e in differenti tappe della formazione. P. Alessandro era devoto di S. Veneranda ed era molto contento di averne le reliquie a portata di … devozione.
Bisogna sapere che P. Alessandro, come si è detto sopra, aveva partecipato attivamente alla prima guerra mondiale (1915-1918), ancora seminarista teologo, come soldato e poi ufficiale inferiore, in un corpo di “lanciatori di torpedini”, in trincea, spesso in prima linea, sull’altipiano di Bainsizza a nordest di Gorizia. Il suo prezioso e purtroppo inedito diario di guerra e di prigionia ci fa capire quanto terribile e quanto choccante sia stata per lui la guerra, nella carneficina orribile, nell’impossibilità di riposare nel frastuono delle bombe, nella situazione continua di paura e di stress, di fame e di assoluta scomodità.
Ritornato dalla prigionia in Slovenia alla fine della guerra, fu ordinato sacerdote due anni dopo. Dalla guerra e dalla prigionia gli rimase per tutta la vita una serie di problemi nervosi, tra cui quello di cominciare a ridere senza controllo e senza riuscire a fermarsi quando era nervoso per qualche motivo, quando cominciava a ridere per qualche motivo, o anche senza motivo: cosa che lo umiliava e lo faceva soffrire a fondo.
Un giorno mi disse che voleva celebrare con noi seminaristi teologi una novena a S. Veneranda, per ottenere la grazia di guarire da questa malattia nervosa, e non ridere più. Detto fatto, organizzammo e compimmo la novena. Come sagrestano della cappella, avevo ornato l’altare con mazzi di garofani rossi, rosa e bianchi con ramoscelli di alloro (un melange caratteristico di quei tempi nelle chiese veneziane), e ornata l’urna con una ghirlanda analoga. La messa cantata alla fine della novena fu solenne, e P. Alessandro volle tenere un panegirico e ringraziarci della novena. Tutto andava alle mille meraviglie. Verso la fine del discorso però, P. Alessandro si commosse e, senza alcun motivo di comicità, cominciò a ridere al suo solito modo, e noi, giovani che eravano e un po’ incoscienti, pur volendo molto bene al padre, cominciammo a ridere tutti, e non riuscivamo più a fermarci, fino ad averne le lacrime agli occhi. Così finì la novena ad onore di S. Veneranda, e fu l’ultima.
8.3 Continuando la relazione sui fatti della prepositura del P. Gioachino Tomasi
Nella riunione del capitolo definitoriale del primo luglio 1959 si parla per la prima volta del possibile acquisto di un ampio terreno (15.000 m²) per un’opera per la gioventù, su suggerimento di P. Livio Donati e della casa di Chioggia. Si tratta della futura opera di Solaro (in provincia e arcidiocesi di Milano); ma si decide che se ne parlerà in un’altra riunione successiva. In questa, dell’8-10 luglio 1959, si accetta l’offerta dell’acquisto del terreno a prezzo di favore, su invito degli industriali Perez e Solaro, con la condizione che questi si addossino le spese di un fabbricato funzionale sufficiente per l’alloggio dei Religiosi e per le prime classi del corso. Solaro era allora un comune con poco più di 4.000 abitanti, ma si parlava a quel tempo della realizzazione di una “Città satellite di Milano”, di iniziativa in un gruppo di industriali e imprenditori, guidati dai due suddetti Perez e Solaro; in realtà il progetto non andò in porto, e la casa di Solaro rimase poi piuttosto isolata, un piccolo centro di circa 14.000 a bitanti nel celsimento del 2011.
Nel capitolo successivo, del 2 agosto 1959 fu approvato l’acquisto del terreno e l’inizio dell’opera; nonostante che gli imprenditori soltanto “si offrono per la compilazione gratuita del progetto edilizio, prepareranno a titolo grazioso la strada e gli impianti elettrici e idrici e mettono a disposizione una somma di denaro per la prima pietra”. Già dal verbale di questo capitolo risulta che c’era il problema che non si aveva ancora il permesso dell’arcivescovo di Milano per aprire una casa in diocesi; da quello della riunione successiva, del 29 novembre 1959 si viene a sapere che “la Curia Arcivescovile di Milano vieta l’apertura dell’Istituto in quella diocesi, se esso non assumerà anche l’amministrazione della parrocchia. Poiché, in seguito a parere positivo di personalità della Curia suddetta, si era proceduto in buona fede all’acquisto del terreno occorrente, il Superiore, se giudicherà di tener desta la speranza di quella fondazione è pregato, per un senso di dignità e di opportunità di aspettare prima di intervenire personalmente presso le autorità diocesane, finché divengano mature le possibilità favorevoli.”
Su questo tema della fondazione di Solaro, il verbale della riunione del capitolo definitoriale del 20 marzo 1960 riporta: “L’Arcivescovo di Milano cardinal Montini, in una udienza concessa al Rev.mo Preposito il 1° corrente mese riguardante la nostra andata a Milano, si è dimostrato fermo nel condizionarne il Nulla Osta alla nostra assunzione dell’erigenda parrocchia locale; perché si accetti insistono pure gli ingegneri Perez, Brollo e altri. Il P. Preposito annuncia il suo parere di soprassedere fino al Capitolo Generale del 1961 a cui sarà sottoposto il caso: uguale è il pensiero dei Definitori.”
Due temi interessanti dal punto di vista del nostro antico diritto proprio, preconciliare, uno dei quali curioso, sono affrontati nel capitolo definitoriale del 23 aprile 1960. Il primo: “…il P. Nicola Zecchin, quando nel 1957 fu eletto Vicerettore del Probandato di Possagno, non aveva finito il decennio di insegnamento considerato dalla Cost. n°.176; accortosi della svista, invita ora il Capitolo a convalidare quell’elezione. Voti per la convalida: favorevoli 4; astenuto 1.” E il secondo caso riguarda l’erigenda casa di Solaro. Dato che l’arcivescovo di Milano non permette l’entrata dei Cavanis in diocesi se questi non accettano la parrocchia, pure erigenda, e d’altra parte l’Istituto aveva preso degli impegni con il gruppo di imprenditori di cui sopra, che insistevano perché si compisse la parola data, il Preposito Tomasi propone l’indizione di un capitolo generale straordinario, pur essendo vicina la data del capitolo ordinario 1961. Avendo osservato i definitori che sarebbe una diminutio capitis, ed essendo alcuni contrari all’accettazione della parrocchia, si vota per l’indizione del capitolo straordinario, e l’idea viene negata, con tre voti a due; si vota – per la prima volta dopo il 1856-57 – sull’accettazione della parrocchia, e si ottiene lo stesso risultato. Si è costretti di scrivere al gruppo di ingegneri “che l’Istituto rimane fedele ai suoi impegni ma non può tradurli in atto per la nuova inaccettabile condizione imposta dalla Curia”. Lo sbaglio – grave – di base era stato di prendere impegni con laici e di acquistare il terreno – del resto sempre una forma di capitalizzazione – senza chiedere prima il consenso della diocesi di Milano, anziché informarsi in modo privato con alcuni personaggi della curia.
Del resto, il problema ebbe la sua soluzione ben presto. Il Cardinal Arcivescovo Montini aderì infine generosamente alla richiesta della Congregazione e le permise di entrare in diocesi senza l’impegno di assumere la parrocchia, ma chiedendo collaborazione con la parrocchia locale; e con la clausola che i ragazzi della scuola di Solaro potessero frequentare la messa domenicale in parrocchia. Tale opzione fu approvata, assieme al preventivo per la costruzione dell’edificio dal capitolo definitoriale del 27 dicembre 1960. La spesa della costruzione al grezzo del primo lotto sarà sostenuta volontariamente dalla comunità di Chioggia.
Nel 1960 l’Istituto dimostra di essere in fase di buone condizioni economiche (è il tempo del boom in Italia) e di personale; probabilmente siamo vicini in questi anni al numero massimo di religiosi attivi, nel senso di religiosi non in fase di formazione iniziale, nella storia della Congregazione. Si aveva anche l’impressione che ci fosse ancora il boom delle vocazioni, e, se si cominciava ad avvertire il diminuito indice di perseveranza, si voleva supplire con l’aumento del numero deli aspiranti accolti in seminario. Così, si acquistano terreni adiacenti agli istituti a Porcari e a Possagno e il grande terreno a Solaro; si inizia la costruzione del nuovo edificio del seminario minore di Levico, di quello di Fietta del Grappa alle Quattro Strade, si pensa a trasformare di nuovo la villa dell’Orologio a Vicopelago in seminario minore; si eseguono lavori importanti in varie case, tra cui ha spicco l’approvazione della costruzione della foresteria universitaria a Venezia (attuale albergo Belle Arti).
Tabella: numeri dei religiosi Cavanis nel luglio 1960
Case | Padri | Fratelli laici |
Venezia | 23 | 3 |
Possagno | 15 | 3 |
Porcari | 10 | 1 |
Capezzano Pianore | 11 | 1 |
Roma Casilina | 6 | 2 |
Levico | 4 | – |
Roma Tata Giovanni | 4 | – |
Chioggia | 10 | 1 |
Casa S. Cuore | 3 | 2 |
Probandato di Possagno | 5 | 1 |
non assegnato | 1 | – |
Totale | 92 | 14 |
Totale | 106 |
Padre Gioachino Tomasi, dopo il suo mandato di preposito generale, e dopo aver lasciata, più tardi, anche la scuola per limite d’età e anche per la sua sordità che via via si aggravava, assunse l’incarico di Postulatore della causa di beatificazione del P. Basilio Martinelli, della cui santità era convinto assertore. In quasi venti anni di assiduo lavoro assolutamente prezioso portò a termine l’indagine processuale, consegnando nel 1993 la Positio super virtutibus alla Congregazione romana per il culto dei santi. Dal suo vecchio maestro, il P. Basilio, P. Gioachino aveva mutuato la semplicità di vita, il silenzio, l’ascolto e l’assidua preghiera. Come P. Basilio, nella sua età anziana passò giorni e giorni ad accogliere le confessioni di studenti e fedeli, sensibili ai suoi consigli e ammonimenti ricchi di umanità. Gli acciacchi della vecchiaia non gli impedirono di lavorare per la Causa fino a qualche mese dalla morte, che non lo colse all’improvviso. P. Gioachino si spense serenamente il 2 novembre 2000. Dopo il rito funebre celebrato nel tempio canoviano la sua salma fu tumulata nella Cappella del cimitero di Possagno.
L’eroicità delle virtù di P. Basilio Martinelli, da lui patrocinata e dimostrata con il suo paziente e intelligente lavoro, fu riconosciuta dalla santa Chiesa, con il Decretum super virtutibus del Papa Giovanni Paolo II il 1° luglio 2010, circa 10 anni dopo la morte del P. Tomasi, quando la causa era stata portata avanti con altrettanta passione e capacità da P. Giovanni De Biasio.
P. Gioachino Tomasi era stato soprattutto un uomo, un cristiano, un religioso Cavanis di grande bontà con tutti sempre. Particolarmente bella, a sottolineare quest’aspetto della sua personalità, la lettera che inviò a rettori e pro-rettori dell’Istituto il 12 luglio 1961, in vista dell’imminente Capitolo generale.
L’OSSERVATORIO METEOROLOGICO DELL’ISTITUTO CAVANIS A VENEZIA
INTRODUZIONE
Meteorologia in Italia. L’attività sistematica comincia tra fine ‘700 e ‘800. Osservatòri famosi:
Milano Brera, Modena, Torino Moncalieri, VENEZIA (Cavanis), Roma Collegio Romano.
CRONOLOGIA DELL’OSSERVATORIO CAVANIS
L’attività di questo osservatorio, uno dei più antichi in Italia, si può dividere in due fasi:
Altri Osservatori nella zona di Venezia
Magistrato alle Acque-Lido (dal 1908 ad oggi)
Aeroporto Nicelli-Lido (dal 1939 al 1974)
Ospedale al Mare-Lido (dal 1940 al 2003)
Aeroporto Marco Polo-Tessera (dal 1961 ad oggi)
Zona Industriale-Marghera (dal 1974 ad oggi)
CNR – Piattaforma (dal 1970 ad oggi)
CNR – Osp.al Mare-Lido (dal 1996 al 2000)
ENEL – Centrale di Fusina (dal 1996 ad oggi)
L’Osservatorio Meteorologico del Seminario Patriarcale di Venezia
Coordinate Geografiche
45° 25’ 48’’ di latitudine Nord
12° 20’ 11’’ di longitudine Est
Altitudine 20,50 m s.l.m.
L’Osservatorio Patriarcale – Principali fasi
Agli inizi dell’800 il Seminario Patriarcale era a S. Cipriano, nell’isola di Murano e si trasferisce alla Salute nel 1818.
Le prime osservazioni si compivano a S. Anna (dal 1800), ed erano osservazioni irregolari.
Poi al Liceo S. Caterina (attuale liceo Foscarini) dal 1808, ancora con osservazioni irregolari.
Dal 1821 il Direttore Prof. Traversi esegue osservazioni regolari ma viene chiamato ben presto a Roma da Papa Gregorio XVI e cede l’osservatorio nel 1835 al nuovo direttore.
Osservatorio del Seminario Patriarcale (alla Salute) che inizia il 21 agosto 1835.
Si eseguono tre osservazioni al giorno: All’alba, alle 14, alle 21.
Nel 1853 l’osservatorio entra nel sistema di osservazioni (ricco di 60 stazioni) dell’Impero Austriaco (Vienna). I dati sono pubblicati quotidianamente e sono registrati in diari per vari usi (ad uso di scienziati, giudici, medici e sanitaristi).
Nel 1865 l’Istituto Veneto di Scienze, lettere ed arti viene per la prima volta in aiuto dell’Osservatorio, finanziando lavori di ristrutturazione e acquisto di nuova strumentazione, anche perché l’impero austriaco non vuol più collaborare, dato l’avvicinarsi della perdita del Veneto (1866). Sempre dal 1865 l’osservatorio di cui si parla inizia a collaborare con l’Ufficio Meteorologico Centrale Italiano (sito a Firenze, che era allora capitale provvisoria d’Italia).
Nel 1866 Venezia è unita all’Italia e l’Osservatorio viene promosso a Stazione di 1ª Classe (a quel tempo si dà importanza soprattutto all’attività di segnali, presagi di burrasca). Continuano i successi e le collaborazioni internazionali.
Nel 1885 accade una nuova ristrutturazione, con l’aggiunta di una specola astronomica e dotazione di strumenti pregiati: p.e. pluviometro orario, mareografo elettrico, inventati e costruiti dallo stesso osservatorio che portano a ricevere riconoscimenti e assegnazione di un ruolo di prestigio di osservatorio “facente parte della linea primaria Governativa”; un prestigio attribuito soprattutto a due grandi della meteorologia internazionale come i Padri Denza e Secchi.
Nel 1879 l’osservatorio è a capo di una rete di 8 stazioni in laguna ed entroterra.
Dal 1880, d’accordo con il locale osservatorio astronomico e con l’autorità municipale, si cominciò anche a segnalare alla cittadinanza ed ai naviganti il mezzogiorno medio di Roma, mediante un pallone rosso, che veniva issato su un’asta del terrazzo dell’Osservatorio cinque minuti prima di mezzodì e allo scoccare dell’ora esatta, che veniva annunciata con un segnale telegrafico da Roma-Mont Mario, veniva lasciato cadere, mentre un artigliere sulla vicina isola di S. Giorgio faceva esplodere allo stesso istante un colpo di cannone.
Nel 1907 viene istituito a Venezia il Magistrato alle Acque che definisce l’osservatorio “uno dei migliori d’Europa” e con l’incarico di Ufficio Meteorologico centrale per le provincie Venete e di Mantova, ponendolo a capo di 12 osservatori dalle Alpi a Udine, Padova, Rovigo, Vicenza e Verona.
Attorno al 1920 per la fama e i meriti scientifici riceve la visita e gli elogi del fondatore della meteorologia moderna J. Bjerknes.
Dal 1917 al 1948 è direttore lo stimato scienziato il Padre Cavanis Francesco Saverio Zanon. È l’ultima fase di successi e riconoscimenti a cui segue un declino per difficoltà economiche e di ricambio.
Da aggiungere un dato poco conosciuto: il diario di congregazione registra, in piena grande guerra, poco dopo Caporetto, “17 nov[embre 1917]. – Sabato – Sua Eminenza [il card. Patriarca Pietro La Fontaine] pregò oggi il Preposito di permettere che P. Zamattio sia incaricato della Direzione interinale dell’Osservatorio Patriarcale”. È da qui probabilmente che inizia la presenza dei Cavanis nella Direzione dell’Osservatorio. Dato che poco tempo dopo P. Zamattio dovette seguire pastoralmente il popolo di Possagno in Sicilia, ne continuò la direzione P. Francesco Saverio Zanon, a partire dal 25 novembre 1917.
Nel 1951, dopo qualche anno dal ritiro dello Zanon, l’osservatorio chiude.
Il Padre Cavanis prof. Francesco Saverio ZANON
Venezia 1873 – 1952
OSSERVATORIO METEOROLOGICO E GEOFISICO DELL’ISTITUTO CAVANIS
Lat. 45°25’ 48” N – Long. 12°19’25” E, altitudine m 20 s.l.m.
Primo direttore il Padre Cavanis prof. Riccardo Janeselli
Bosentino-TN 1907 – Venezia 1994
Fondatore e primo Direttore dell’Osservatorio Meteorologico e Geofisico dell’Istituto Cavanis di Venezia dal 1958 al 1993. Nel periodo tra il 1951, anno di chiusura dell’osservatorio del seminario patriarcale, e il 1958, P. Riccardo aveva svolto osservazioni sporadiche, studi e pubblicazioni, dando in qualche modo continuità all’attività dell’osservatorio; poi aveva istituito l’osservatorio nuovo nel punto più alto dell’edificio della scuole Cavanis. P. Riccardo Janeselli ha prodotto numerose pubblicazioni nel campo della meteorologia, delle aurore boreali, e particolarmente studi sull’elettricità dell’atmosfera. Al suo ritiro, per raggiunto limite di età e difficoltà di salute, altri padri Cavanis si sono succeduti alla direzione dell’osservatorio:
P. Giulio Avi, secondo Direttore dell’Osservatorio, dal 1993 al 2002. Egli tra l’altro promosse e condusse una riforma totale dell’osservatorio, nel senso di rimodernarlo, sia dal punto di vista del restauro dell’ambiente, sia con l’acquisto di una sofisticata centralina elettronica e informatica nel 1995.
Padre Petro Luigi Pennacchi, terzo Direttore dell’Osservatorio dal 2002 a tutt’oggi (2020). Questi, tra l’altro, ebbe l’impegno e il merito di informatizzare completamente l’osservatorio, di immetterlo totalmente nella rete ARPAV (Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale per il Veneto), e di mettere in atto numerose attività culturali, educative e di diffusione di notizie, valorizzando anche di più l’ambiente e aumentandone lo spazio.
Durante tutto il periodo 1959 ad oggi, i direttori dell’osservatorio meteorologico Cavanis hanno pubblicato annualmente i dati grezzi e ragionati prodotti dall’osservatorio negli Annali dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti di Venezia.
Fin dall’inizio sono effettuate tre osservazioni al giorno, alle ore 7, 13, 19, dei principali parametri atmosferici, cui sono aggiunte via via osservazioni speciali legate a scelte dei vari direttori che si sono succeduti (elettricità, acidità dell’aria, micro-barografia, sismicità ecc.). Le osservazioni sono state compiute con strumenti e apparecchi progressivamente più avanzati ed esatti, ma sempre di tipo meccanico, e le osservazioni e i rilievi dovevano essere effettuati manualmente. Gli apparecchi dovevano essere caricati (come certi giocattoli e macchinine a carica a molla) periodicamente a mano; pure i fogli cartacei “millimetrati” (in realtà moduli speciali stampati con reticoli adattati ad ogni tipo di osservazione e a ogni apparecchio e applicati manualmente ai cilindri o tamburi degli apparecchi) dovevano essere cambiati ogni giorno o ogni settimana; ogni giorno i pennini che “scrivevano” automaticamente i diagrammi su detti moduli dovevano essere caricati di inchiostro manualmente. I dati ricavati erano trascritti manualmente tre volte al giorno su speciali quaderni di formulari. I dati sono stati poi regolarmente pubblicati con cadenze mensili e/o annuali fino a poco dopo gli anni duemila (2002).
Dal 1° gennaio 2000 è stata installata nell’osservatorio Cavanis una stazione automatica di rilevamento (centralina) dell’Arpav di Teolo (PD) che ne cura l’esercizio, l’archiviazione dei dati e la loro disponibilità in rete. ARPAV è l’acronimo di “Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto”. L’agenzia è stata istituita con la Legge Regionale n°32 del 18 ottobre 1996 ed è diventata operativa il 3 ottobre 1997.
Da Aprile 2016 è in funzione una nuova stazione (Davis) installata dall’associazione Meteo network che, oltre a rilevare i parametri meteorologici, riprende anche immagini dell’orizzonte osservativo a 360° con 4 Webcam e le diffonde insieme con i dati meteorologici in continuo e in tempo reale: tutto ciò è consultabile gratuitamente da chiunque si colleghi al sito.
Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM)
L’ OMM è una Agenzia specializzata dell’ONU fondata nel 1950 con il compito di coordinare a livello mondiale tutti gli aspetti della Meteorologia, dallo stato e comportamento dell’atmosfera terrestre all’interazione con gli oceani, il clima e le conseguenti ripercussioni sul ciclo dell’acqua e sulle risorse idriche.
La cooperazione internazionale risale al 1873 con il primo Congresso a Vienna del Congresso Meteorologico Internazionale (IMC) durante il quale si decise la nascita della Organizzazione Meteorologica Internazionale (IMO), che nel 1950 diviene WMO per la meteorologia, l’idrologia e le scienze geofisiche correlate. La sede del WMO è a Ginevra. Attualmente aderiscono 191 Stati. Essa promuove anche la Giornata Meteorologica Mondiale (GMM).
La Giornata Meteorologica Mondiale si celebra ogni anno il 23 Marzo, la stessa data di fondazione dell’OMM, ed ogni anno propone un tema sul quale richiamare l’attenzione internazionale.
Il tema del 2016 è sintetizzato in questi quattro termini: HOTTER, DRIER, WETTER, FACE THE FUTURE.
Sabato 9 aprile 2016 l’Osservatorio Meteorologico Cavanis ha celebrato i 180 anni di vita con una giornata di “Open house”, aprendo al pubblico l’osservatorio e un piccolo museo con gli apparecchi meccanici antichi ed altri cimeli.
8.4 Padre Giuseppe Panizzolo, preposito generale (1961-1967)
Giuseppe Panizzolo nacque a S. Angelo di Piove di Sacco (Padova) il 26 dicembre 1919. Entrò al seminario minore di Possagno (Treviso) molto giovane, il 4 settembre 1937. Vestì l’abito dell’Istituto Cavanis il 16 ottobre 1937. Terminato l’anno di noviziato (1937-38) a Venezia, emise la professione temporanea dei voti il 20 ottobre 1938; continuò con amore e cura alla formazione e agli studi di liceo e di teologia e cominciò ben presto già da chierico la sua prima esperienza di insegnante ed educatore nella scuola. Emise i voti perpetui il 16 novembre 1941, nella chiesa di S. Agnese, davanti a tutta la scolaresca.
Ricevette la prima tonsura ecclesiastica il 28 giugno 1942 nella chiesa della Salute a Venezia, assieme a P. Riccardo Zardinoni e a due che poi lasceranno l’Istituto; gli ordini minori dell’ostiariato e del lettorato il 18 dicembre 1943, a Venezia. Divenne suddiacono il 21 maggio 1944 a Venezia e diacono il 17 marzo 1945, pure a Venezia.
Fu ordinato prete il 10 giugno 1945, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, e successivamente ottenne la laurea in lettere e filosofia all’Università degli Studi (oggi «La Sapienza») di Roma, dove era stato inviato con altri confratelli per formare la prima comunità e scuola di Carità Cavanis nella capitale d’Italia.
Si distinse per l’aiuto dato ai poveri (durante il difficile dopoguerra nella periferia della capitale), per la diligenza e la serietà nell’insegnamento, per una formazione umana e cristiana ai ragazzi e giovani del quartiere di Torpignattara. Visse in diverse case, come professore di studi umanistici e a Venezia nel nostro studentato fu professore di sacre Scritture negli anni ’60.
Lo troviamo successivamente, quasi subito dopo dell’ordinazione presbiterale, come membro giovane della prima comunità Cavanis a Torpignattara (1946-1950), arrivandovi per primo, e cominciando ad ammobiliare in stile campeggio la villa completamente vuota; poi a Venezia (ci sarà spesso) dal 1951 al 1953; al collegio Canova di Possagno, come rettore, dal 1955 al 1961; in quest’ultimo anno, come si dirà, fu eletto preposito generale, il 18 luglio 1961, con sede a Venezia (1961-1967) e rimase tale fino al 3 agosto 1967; passerà poi di nuovo a Roma-Casilina (1967-1973), come rettore; poi a Corsico, nella parrocchia S. Antonio come rettore e parroco, dal 1973 al 1979; a Roma in Casilina, ancora una volta, come rettore, dal 1979 al 1982; in seguito a Capezzano Pianore, dove fu eletto 1° consigliere e vicario della comunità (1982-85); a Venezia come rettore, ancora una volta, dal 1985 al 1991; a Mestre come rettore dal 1991 al 1993; dal 1993 al 1997 ritorna a Venezia, come religioso semplice; È poi, trasferito a Roma via Casilina nel luglio 1997, vi rimane fino alla morte, avvenuta nell’ottobre 2005.
Fu eletto o nominato ben presto, come si è visto, per ricoprire incarichi di grande responsabilità in congregazione, in primis (per la solennità di quella carica in quegli anni) quello di rettore della comunità e preside della scuola di Possagno e dal 1961 al 1967 come preposito generale della congregazione: seppe dare il meglio di sé ai suoi confratelli, allievi e collaboratori laici con spirito di sacrificio, prudenza nel governo della scuola, fedeltà al ministero specifico e all’istituto. Accettò con serenità ed obbedienza ovunque i suoi superiori lo volessero e anche il peso delle responsabilità locali che gli si affidavano in qualità di rettore a Roma e a Venezia, come parroco e superiore di comunità nel territorio della parrocchia di S. Antonio di Corsico (Milano): con il suo carattere gioviale e ottimista, sapeva infondere speranza e coraggio ai giovani, nelle famiglie, nei gruppi e nelle attività parrocchiali.
Prima cura del nuovo preposito fu quella di formare la prima piccola comunità di due religiosi per la nuova casa di Solaro in provincia e diocesi di Milano, cioè i padri Livio Donati e Danilo Baccin.
Ma una delle prime carte firmate come preposito da P. Giuseppe Panizzolo che si trovano nel fascicolo del 1961 degli atti di capitolo definitoriali, è relativa a una tragedia che rattristò profondamente tutti i confratelli e che rimane ancora profondamente impressa in chi, come chi scrive, la visse da vicino: la morte tragica e imprevista del carissimo fratel Italo Guzzon a Venezia. P. Panizzolo in questa circostanza si dimostrò subito un superiore generale molto abile e capace.
Il 1° maggio 1962 si tenne l’inaugurazione, da parte di monsignor Giovanni Battista Piasentini, vescovo Cavanis di Chioggia, del seminario minore Villa Buon Pastore a Fietta del Grappa (Treviso), in una casa e appezzamento di terra donati in regalo all’istituto dal nostro amico e quasi confratello don Giovanni Andreatta, di preziosa memoria, defunto alla fine dell’anno precedente.
Il 1° luglio successivo, ci fu l’apertura della casa di soggiorno e ferie per gli studenti a Cima Sappada (Belluno), inizialmente prevista come filiale della casa di Venezia. Diverrà scuola secondaria superiore. L’istituzione sarà trasportata nella borgata Kratten di Sappada in un edificio maggiore e più conveniente il 1° luglio 1968, infine fu chiusa nel 2006, comunque restando di proprietà dell’istituto fino al 2015.
Nel 1962 ci furono tre offerte o proposte di fondazione, che non furono accettate:
Il Card. Clemente Micara, che era Cardinale Vicario della diocesi di Roma, offrì una fondazione non specificata a Latina; “Si risponde, tramite il Procuratore Generale, declinando l’invito per mancanza assoluta di personale”; ci fu inoltre una proposta di fondazione a Barletta. “L’immobile è costituto da: a) Una chiesetta ed un vecchio monastero (propr. del Vescovo); b) Una vecchia scuola (proprietà del comune); c) Campo do tiro (proprietà del Ministero della Difesa) mq. 18.000. Per le voci a e b (dopo aver ricevuto le relazioni separate dei PP. Candiago e Saveri inviati appositamente sul luogo) si risponde negativamente (primo perché locali molto deperiti, secondo perché impossibile ad averli dal comune). Quanto alla voce c) viene incaricato il Procuratore Generale a sentire le condizioni ed a riferirne quanto prima al Definitorio”.
Mesi dopo, sempre nel 1962, un certo monsignor Spallanzani, a mezzo del. rettore della comunità di Roma, chiese che la congregazione accettasse una nuova fondazione in località Giardinetti, sulla via Casilina, in diocesi e comune di Roma, ma la proposta non fu accettata perché “l’opera accennata esula dallo spirito e dalle regole della Congregazione nostra”.
Nel frattempo era pendente la questione di una fondazione di un’opera Cavanis a Miola di Piné (Trento), di cui si parlava dal 1957. In quell’anno infatti, durante la prepositura del P. Gioachino Tomasi, l’istituto aveva ricevuto l’11 febbraio 1957 l’offerta di un appezzamento gratuito da quel comune; la curia generalizia aveva passato l’offerta alla casa di Possagno, che rifiutò il dono; e la cosa per il momento era finita lì. Il 29 ottobre 1959 però la curia generalizia aveva firmato un contratto in cui il comune di Miola di Piné cedeva m² 9.150 di terreno, a valore nominale, alla congregazione, perché i padri si impegnassero ad un’opera per l’educazione della gioventù. In questo contratto non venne specificato il limite di tempo in cui ci si impegnava ad agire ed in più si diceva che sarebbero state stabilite in separata convenzione le modalità circa gli impegni che l’Istituto si potrebbe assumere. Nel capitolo definitoriale del 3 gennaio 1966, su richiesta scritta dell’ex-preposito P. Gioachino Tomasi, il definitorio riconsiderò la questione, e decise di restituire l’appezzamento al comune di Miola, “perché né attualmente né in un prossimo futuro la Congregazione potrà realizzare una qualche opera in quel luogo. La votazione passa con quattro voti favorevoli [alla restituzione] ed uno contrario”.
Pure nel 1962 , per iniziativa del preposito generale P. Giuseppe Panizzolo, si inizia uno studio per la riforma della seconda parte delle Costituzioni, tramite la nomina di un’apposita commissione di nove membri (I padri Aurelio Andreatta, Antonio Cristelli, Gioachino Tomasi, Guido Cognolato, Luigi Sighel, Valentino Pozzobon, Ugo del Debbio, Attilio Collotto e Giuseppe Pagnacco). I lavori si prolungano fino al luglio 1965, e il testo provvisorio era stato distribuito ai religiosi; sembra che, a seguito della conclusione del Concilio Vaticano II, si sia poi deciso di attendere le istruzioni della S. Sede, e che i lavori per il momento si siano interrotti, per essere ripresi in modo diverso e più ampio dopo il capitolo generale del 1967, e soprattutto dopo la promulgazione del Motu proprio Ecclesiae sanctae e durante il primo mandato del preposito successore di P. Panizzolo, ossia del P. Orfeo Mason. Troviamo infatti nel verbale del capitolo definitoriale del 3 novembre 1965 la seguente frase: “La stesura definitiva [della seconda parte delle costituzioni], da sottoporsi a un Capitolo Generale, verrà fatta dopo aver esaminato le proposte e osservazioni dei religiosi medesimi e le indicazioni che potranno venire dai decreti del Concilio Vaticano 2°”.
Così scrive P. Panizzolo, preposito generale, nella sua relazione al 25° capitolo generale su questo argomento: “Ed anche la nostra Congregazione provvide fin dal settembre scorso a questo lavoro impegnativo [di riforma e rinnovamento], accantonando temporaneamente il lavoro di Revisione della II parte delle costituzioni, non perché inutile, ma in quanto rientrava nel nuovo programma contemplato nei nuovi indirizzi dati dal Concilio”.
Bisogna dire che i risultati della commissione delle regole istituita nel 1962 da P. Panizzolo e dal suo consiglio aveva seguito con ogni evidenza – nonostante i lavori del Concilio si fossero svolti negli stessi anni – concetti e linee già totalmente obsolete, e che, quando si cominciò a lavorare alle regole nel capitolo generale straordinario speciale del 1969-70, se ne poté tenere e se ne tenne di fatto ben poco conto e si ricominciò daccapo. La cartella relativa ai lavori delle commissione regole del 1962-1966 rimase dimenticata in AICV.
Nella stessa occasione dell’istituzione della commissione per la riforma delle costituzioni nell’estate 1962, fu costituita una seconda commissione, composta da 4 membri (I padri Luigi Ferrari. Giuseppe Maretto, Nicola Zecchin, Orfeo Mason), “incaricata della revisione e dell’aggiornamento dei regolamenti riguardanti il Noviziato, i Probandati e gli Studentati”. Tale commissione non ebbe grande sviluppo né grandi risultati; anche ad essa accadde comunque lo stesso che alla commissione per le costituzioni. Il lavoro fu ripreso molto più tardi e la Ratio Institutionis Cavanis fu pubblicata solo nel 1993.
Tra il 1962 e il 1965, contemporaneamente al mandato del P. Panizzolo, avviene la celebrazione del concilio ecumenico Vaticano II: tra gli altri documenti, si pubblica il decreto Perfectae caritatis per rinnovare la vita consacrata e riformulare le costituzioni e norme di tutti gli istituti religiosi secondo lo spirito del concilio. Sul tema dell’inizio del Concilio il preposito, P Giuseppe Panizzolo, inviò ai religiosi Cavanis un’interessante e bella circolare datata 21 settembre 1962. Nella riunione del capitolo definitoriale del 26-27 luglio 1966 il redattore del verbale scrive con un notevole tono di minimalismo e di incomprensione del cambiamento totale della situazione: “Rinnovamento ed aggiornamento. Il P. Preposito Generale prevede di poter preparare uno schema sui detti argomenti, alla luce delle direttive del Concilio Ecumenico Vaticano II°, perché tutti i religiosi ne prendano visione e sottopongano le loro idee da discutersi nel Capitolo Generale del prossimo anno 1967”. Ci voleva ben altro! E ci si sarebbe lavorato intensamente nei 4 anni successivi, e poi per altri dieci anni ad experimentum. Ciò sarebbe accaduto sotto la guida del successore di P. Giuseppe Panizzolo, il P. Orfeo Mason, di tutt’altra tempra culturale ed ecclesiale.
Durante il mandato da preposito di P. Panizzolo ci fu dunque l’apertura della casa di Solaro (Milano), la costruzione del cui edificio (prima ala) era stato iniziato durante la prepositura del P. Gioachino Tomasi; e la riforma e costruzione di una nuova ala per le scuole del Marianum Cavanis a Capezzano Pianore (Lucca); inoltre si effettuarono importanti lavori in varie case: il completamento dei piani superiori del liceo Calasanzio, che erano rimasti al grezzo; la nuova ala del collegio Canova per le medie, con una grande cappella (ora aula magna). Questi numerosi lavori per l’inizio o il completamento di opere portarono la congregazione in una situazione economico-amministrativa abbastanza pesante. La situazione diventerà anche più preoccupante nel 1964, anche per la crisi economica invalsa nel paese (e nelle banche che con favevano più con facilità fidi e prestiti). Così afferma il preposito P. Giuseppe Panizzolo in una riunione del capitolo definitoriale e in una circolare ai rettori, in cui proibiva tra l’altro di effettuare lavori edilizi in debito. Il deficit complessivo della Congregazione si aggirava sui 250 milioni di lire. Si parla di “conglobamento generale delle disponibilità liquide di tutte le case della Congregazione”, al fine di cercare di estinguere o ricoprire il debito presso le banche ed evitare un interesse passivo tanto gravoso. La situazione era in rosso soprattutto per la casa di Venezia e per la curia generalizia.
Il tentato conglobamento degli attivi non ebbe tuttavia successo e si viene a sapere che nel gennaio 1965 il debito verso le banche era diventato insopportabile, con un interesse passivo annuo, per la congregazione, di circa 18 milioni di lire. Si presero nuovi provvedimenti.
Si ricevette tuttavia una ammonizione dalla S. Sede, così concepita: “Si pregherebbe la Paternità Vostra di soprassedere nel contrarre nuovi debiti almeno per due anni”; ammonizione connessa con la necessità di chiedere prestiti per la costruzione dell’ala nuova della casa e scuola di Capezzano Pianore. Si parla allora di ricercare prestiti interni, tra case Cavanis, con poco successo; e prestiti presso privati. Si arriverà a un debito complessivo (con le banche in buona parte) di £ 354.000.000 nel 1966.
P. Giuseppe Panizzolo preparò e organizzò il 26° Capitolo generale ordinario, oltre che per lo scopo elettivo e gli altri compiti istituzionali normali, particolarmente con l’obiettivo di compiere l’aggiornamento dell’Istituto e delle sue costituzioni, secondo le disposizioni e lo spirito del Concilio Vaticano II. In particolare, quando Papa Paolo VI promulgò il Motu proprio Ecclesiae Sanctae, il 6 agosto 1966, stabilendo le modalità dell’applicazione delle costituzioni, dei decreti e delle altre dichiarazioni conciliari, “In ossequio a tali norme, il P. Preposito, d’accordo con il definitorio, stabilisce d’invitare tutti i religiosi allo studio dei problemi riguardanti il Rinnovamento e l’Aggiornamento in seno alla nostra Congregazione e allo scopo fa pervenire a tutti i professi e il testo del Motu Proprio e un piano di lavoro con formulario. Su quest’ultimo (…) i religiosi sono invitati a pronunciarsi entro il 20 Dicembre 1966, cosicché si possa – in base al lavoro fatto da ognuno –procedere alla nomina di una commissione speciale che riordini il materiale ricevuto e ne prepari una relazione di presentazione al Capitolo Generale del 1967. Il definitorio decide infatti che venga trattato nel prossimo Capitolo Generale Ordinario anche il problema del rinnovamento del nostro Istituto”. In realtà, come si sa, il grande lavoro di aggiornamento e di riforma sarà eseguito non in questo capitolo ordinario, ma nel grande capitolo straordinario speciale, a partire da due anni più tardi (1969-70).
Il definitorio, nella riunione del 3 gennaio 1967, nominò i seguenti membri per la commissione incaricata di rielaborare e unificare i questionari compilati e restituiti dai religiosi professi: i PP. Vincenzo Saveri, Pellegrino Bolzonello, Aldo Servini, Giorgio Dal Pos, Giuseppe [Giosuè] Gazzola, Orfeo Mason, Angelo Moretti, Nicola Del Mastro, Fabio Sandri.
Dalla relazione del preposito generale P. Giuseppe Panizzolo al capitolo generale del primo agosto 1967, si apprende che la congregazione, che comprendeva ancora soltanto religiosi di cittadinanza italiana, era costituita da 104 preti, 13 fratelli e altri 18 professi seminaristi (questi senza distinzione nella fonte tra professi perpetui e temporanei), per un totale di 135 congregati professi.
Dopo la conclusione del suo mandato come preposito (1961-67), P. Giuseppe Panizzolo accettò con serenità l’obbedienza dovunque i nuovi superiori lo volessero e anche il peso delle responsabilità locali, come rettore a Roma e a Venezia, come parroco e superiore di comunità a sant’Antonio di Corsico (Milano). Con il suo carattere gioviale e ottimista sapeva infondere speranza e coraggio nei giovani, nelle famiglie, nei gruppi e attività parrocchiali. Dedicò i suoi ultimi anni di sacerdozio al popolo di Dio nella parrocchia dei santi Marcellino e Pietro ad duas lauros, a Roma, dal 1999.
Una sua attività, inoltre, fu la sua partecipazione al Capitolo generale straordinario speciale (1969-70), durante il quale si impegnò tra l’altro nella III commissione, quella dell’apostolato.
Fu sempre fedele alla preghiera eucaristica e mariana anche quando l’età e poi l’infermità si faceva sentire ormai pesante. Celebrò il sessantesimo anniversario di ordinazione presbiterale ai SS. Marcellino e Pietro a Roma il 12 giugno 2005.
La sua lunga vita fortemente impegnata si concluse all’alba del 12 ottobre 2005 a Roma, nell’ospedale Giuseppina Vannini della suore Camilline. Dopo un funerale solenne tenuto a Roma nella parrocchia dei Santi Marcellino e Pietro, il suo corpo fu trasportato e seppellito nel cimitero di Possagno, nella tomba del clero e della comunità Cavanis.
Tabella: numeri dei religiosi Cavanis nel luglio 1967
Case | Padri | Fratelli laici | altri professi (seminaristi) |
Venezia | 19 | 3 | 18 |
Possagno | 18 | 3 | — |
Porcari | 9 | 1 | — |
Capezzano Pianore | 7 | 1 | — |
Roma Casilina | 6 | 1 | — |
Roma Tata Giovanni | 5 | — | — |
Chioggia | 9 | 1 | — |
Casa S. Cuore | 5 | 1 | — |
Probandato di Possagno | 5 | — | — |
Probandato di Levico | 4 | — | — |
Probandato di Fietta | 4 | — | — |
Probandato di Vicopelago | 4 | 1 | — |
Solaro | 6 | 1 | — |
Non assegnati | 3 | — | — |
Totale | 104 | 13 | 18 |
Totale generale professi | 135 |
Questa tabella riguarda il momento dell’inizio del 26° capitolo generale e, per il momento, ancora soltanto religiosi Cavanis italiani.
8.5 Padre Orfeo Mason, preposito generale (1967-1979): apertura dei Cavanis in Brasile e nel mondo
Orfeo Mason nacque a Torreselle nel comune di Piombino Dese, in provincia di Padova e diocesi di Treviso il 26 maggio 1931. Apparteneva a una grande famiglia di stampo patriarcale di agricoltori, che abitavano – e abitano ancora – in una casa colonica grande e lunga, con vari nuclei familiari, divisi in “Masoni grandi” e “Masoni cei”, cioè Mason grandi e piccoli; si trattava di un soprannome, non di un riferimento alle dimensioni fisiche. Fu battezzato il giorno seguente, il 27 maggio 1931 e cresimato il 5 Maggio 1938. Il primo luglio 1940 o 1941 entra in Congregazione, ricevendo la formazione iniziale prima nel probandato di Possagno, dove fu raggiunto più tardi dal fratello minore Silvano; il 21 novembre 1946 nella chiesa del S. Cuore a Coldraga vestì l’abito Cavanis; visse l’esperienza del noviziato nel 1946-47 a Possagno, nella casa del S. Cuore.
Orfeo emise la professione temporanea il 19 o il 29 ottobre 1947, nella cappella del noviziato, come era usanza. Gli studi liceali furono svolti a Possagno nel collegio Canova. In seguito passò a Venezia per il quadriennio teologico. Emise la professione perpetua a Possagno il 6 agosto 1952.
Continuò, sempre a Venezia, a compiere i suoi passi verso il presbiterato: ricevette la tonsura a Venezia, nella cripta della basilica San Marco, il 23 dicembre 1950 dal patriarca Carlo Agostini; il 29 giugno 1952 l’ostiariato e il lettorato a Venezia, nell’antica ex-cattedrale di San Pietro di Castello, dato che la data corrispondeva alla solennità del santo apostolo; il 21 giugno 1953 ricevette gli ordini minori dell’Esorcistato e Accolitato nella basilica della Salute. Nella basilica di S. Marco ricevette invece gli ordini maggiori: il 19 dicembre 1953 il suddiaconato; il 3 aprile 1954 il diaconato; e il 27 giugno 1954 il presbiterato dalle mani del Card. Patriarca Angelo Giuseppe Roncalli.
Nel 1954-1955 fu docente nella scuola media a Roma, Via Casilina; nel 1955-1956 funse da assistente agli Esercizi spirituali a Possagno in Casa Sacro Cuore; nel triennio 1956-1958 lo troviamo assistente al liceo e docente al ginnasio del Liceo Calasanzio a Possagno; nel 1958-1959 direttore e docente al seminario minore di Levico.
Si laureò in filosofia all’università di Padova, avendo discusso la sua tesi il 24 febbraio 1960; pure a Padova, ottenne l’abilitazione all’insegnamento della Storia e della Filosofia.
Nell’autunno 1959 P. Orfeo fu nominato Maestro dei Chierici Propedeutici e Teologi presso lo Studentato di Venezia, e al tempo stesso docente di storia e filosofia al Liceo di Venezia fino al 1964. Fu lungamente professore di storia e di filosofia nelle scuole secondarie superiori soprattutto a Venezia, ma anche a Possagno, come pure fu brevemente professore di filosofia scolastica in uno dei primi corsi di propedeutica del nostro istituto, quello del 1959-1960.
La sua nomina a maestro dei chierici costituì una novità, un gradevole cambio di stile, sia per la sua giovane età (a quel tempo così erano considerati i suoi 28 anni), sia per i suoi metodi più aperti e aggiornati rispetto ai responsabili precedenti dello studentato teologico. Apparvero in studentato un nuovo interesse aperto ai problemi e ai fatti del mondo e alla vita della chiesa, e anche la radio, un giornale, la musica classica. Erano gli anni di papa Giovanni, del concilio Vaticano II, di Paolo VI. Nello studentato Cavanis si avvertivano dei metodi nuovi e soprattutto uno stile nuovo, di fiducia e di rispetto, per la gioia dei chierici e con dei buoni risultati davvero sia in termini di qualità che di quantità nella via della formazione religiosa e sacerdotale.
Nel triennio 1964-1967 P. Orfeo fu rettore, prefetto delle Scuole e continuò la sua brillante docenza nel Liceo a Venezia.
A questo punto P. Orfeo era molto conosciuto e amato, in congregazione e fuori. Era pieno di passione per la gioventù e per ogni giovane; pieno di amore per la cultura; pieno di passione per la scuola, che preparava con cura e viveva con fatica e con gioia, con impegno e credendoci; ma anche pieno di interesse per ogni altra attività e ogni altro mezzo per l’educazione della gioventù. Un vero padre Cavanis “in cui non c’è frode” (cf., parafrasando, Gv 1,47).
Tra l’altro, il patriarca di Venezia, in quegli anni (1967) il card. Giovanni Urbani, lo aveva nominato membro dell’Ufficio Catechistico Diocesano.
Per tutto questo complesso di fattori, ancora molto giovane (36 anni), fu eletto preposito generale per il suo primo mandato, durante il XXVI Capitolo generale del 1967. Un grande preposito!
Gli si deve la riforma della congregazione e delle costituzioni, dopo il concilio ecumenico Vaticano II, mediante l’organizzazione, la presidenza e l’applicazione successiva di un bellissimo Capitolo Generale Straordinario Speciale (CGSS), in tre sessioni, e l’apertura delle nostre prime missioni estere.
Qualche dettaglio sul periodo del suo primo mandato (1967-1973):
Durante le vacanze di Natale del 1967, P. Orfeo nel corso di un incontro di aggiornamento per tutti i religiosi Cavanis, comunicò la notizia della sua decisione, presa con il consenso del suo consiglio generale, di aprire finalmente una casa in Brasile.
Nella riunione del 21 marzo 1968 del consiglio generale il preposito comunicò ai consiglieri generali la sua decisione di partire per il Brasile il 31 marzo successivo, per un viaggio esplorativo e di contatto, in vista dell’apertura di case in quel paese.
Durante il suo primo mandato, aprì le seguenti case e attività (vedi anche le sezioni speciali sulle nuove parti territoriali):
Nel suo secondo mandato (1973-1979), aprì le case e diede vita alle seguenti attività:
Inoltre:
Ottobre 1968 – Trasferimento del nostro seminario maggiore o studentato da Venezia a Roma, dove i nostri seminaristi studiano nelle università ecclesiastiche romane, soprattutto presso la Pontificia Università Lateranense. Maestro dello studentato è P. Guglielmo Incerti, vice-maestro, P. Giuseppe Leonardi.
1968 (31 marzo-aprile) – P. Mason compie il viaggio d’esplorazione nel Brasile, soprattutto nello Stato del Paraná, per decidere dove aprire la prima casa in quel paese.
Il primo luglio 1968 fu inaugurata la nuova sede più ampia e dignitosa del soggiorno Cavanis di Sappada (Belluno), nella borgata Kratten, rimpiazzando la sede iniziale di Cima Sappada.
Il 9 dicembre 1968 ci fu la partenza da Napoli, in nave, dei primi tre missionari Cavanis per il Brasile, i padri Livio Donati, Mario Merotto e Francesco Giusti. Arrivano a Ponta Grossa il 24 dicembre e a Castro il 28 dicembre 1968.
Già all’inizio del 1969 P. Mason iniziò a occuparsi della situazione degli scritti dei Fondatori, che si trovavano quasi tutti conservati a Roma, più esattamente in Vaticano, presso l’allora Sacra Congregazione dei Riti. P. Mason aveva parlato con monsignor Giovanni Papa, che si occupava tra l’altro della causa dei nostri fondatori. Questi aveva dichiarato che era stato fatto “poco, praticamente niente, in tutto questo periodo di tempo. Monsignor Papa consiglia di scegliere un padre che abbia molto spirito di sacrificio, diligente e capace nella ricerca. Egli (monsignor Papa) sarebbe disposto a collaborare in pieno. Consiglia inoltre di fare le copie fotostatiche di tutti i manoscritti dei PP. Fondatori giacenti presso la S.C. dei Riti, il che permetterebbe un lavoro più spedito”. Il preposito con il consiglio decide dunque di fotocopiare tutti i manoscritti.
1969-1974 – Apertura in Brasile della casa di Castro e in seguito della parrocchia ad Ortigueira, poi di quella di Realeza, di attività a Ponta Grossa, della parrocchia a Pérola d’Oeste.
Nel 1971 la presenza Cavanis in Brasile, che si riduceva ancora alla comunità della casa di Castro, e con qualche autonomia di quella di Ortigueira, aggiunta ora la casa di Realeza, viene definita giuridicamente “Delegazione del Brasile”, e viene nominato P. Guglielmo Incerti come superiore delegato. Tale decisione viene presa nella riunione del consiglio del 28 luglio 1971. P. Guglielmo Incerti da Roma passa a Castro.
1969-1970 – Nella nostra congregazione, in questi due anni si celebrò il Capitolo Generale Straordinario Speciale (CGSS) in tre sessioni, per riformare la congregazione e redigere nuove costituzioni. Esse si differenziarono in costituzioni e direttorio. Il capitolo speciale pubblicò anche numerosi decreti, importanti, ma oggigiorno purtroppo dimenticati. Tra le novità: la dichiarazione formale che l’educazione non vuol dire solo scuola, ma anche metodi educativi in generale, secondo la costante dottrina esposta e praticata dai fondatori, e poi praticamente dimenticata. Il capitolo autorizza l’apertura di parrocchie e missioni Cavanis.
La riforma della congregazione e delle sue costituzioni e direttorio, benché realizzata obbedendo ai dettami del Concilio Vaticano II e della Santa Sede, generò la nascita in congregazione di un piccolo ma attivo e doloroso movimento interno di fronda, esterno al capitolo, che mirava ad opporsi al cambiamento delle costituzioni, all’apertura di parrocchie, alla chiusura della casa di Solaro (Milano), sostituita dalla parrocchia di S. Antonio a Corsico (Milano), al concetto che l’opera caratterizzante la congregazione non fosse solo la scuola, nel senso classico del termine, ma anche tutti i mezzi educativi. Ci fu da parte di quel gruppo di opposizione al CGSS anche un ricorso alla Santa Sede; questa rispose duramente con una lettera che ricordava al gruppo di fronda che la riforma era stata imposta dalla Santa Sede. La frase conclusiva del documento della S. Sede era « … et statim aquiescant. » (“e si acquietino subito”). Ci volle tuttavia un po’ di tempo perché realmente gli oppositori si acquietassero, e parecchia sofferenza dalle due parti.
1969 (28 settembre) – In questa data, la nostra congregazione aprì la parrocchia di S. Antonio di Padova nella città di Corsico (Milano). P. Giorgio Dal Pos, già uno dei due moderatori del CGSS ne diventò il primo parroco.
Il 3 settembre 1970 a Possagno-Canova si concluse, con la fine della III sessione, il Capitolo generale straordinario speciale per il rinnovamento della congregazione e il suo adattamento alle decisioni e allo spirito del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Rievocazione della cena ebraica pasquale nel teologato Cavanis in trasferta al probandato di Possagno (Pasqua 1970).
Quest’anno in Seminario abbiamo voluto vivere il mistero della Pasqua in modo diverso. La sera del giovedì santo si sono trovati insieme Padri, Chierici, il Parroco e il Cappellano di Possagno.
Tutto, anche esternamente, era stato preparato in modo che la cena riuscisse dignitosa. La sala quindi era stata ornata con drappi rossi e rami di olivo e palma, sulle tavole anfore di terracotta e luci di candele. La cena si è svolta secondo il rito di Mosè e come la fece Cristo con i suoi Apostoli.
Entrati nel Cenacolo in silenzio, il capo della mensa, in questo caso il Rettore, P. Augusto Taddei, ha pronunciato la preghiera di benedizione sulla grande coppa piena di vino e dopo di averne bevuto, l’ha passata in giro a tutti in segno di comunitario ringraziamento e di fraternità.
Sono state quindi portate in tavola come primi piatti le erbe amare e l’ḥarosét, una salsa rossa di mele, vino, cannella e mandorle (la salsa in cui Gesù intinse il pane per offrirlo a Giuda…cf. Gv 13,26), simboli rispettivamente dell’amarezza della schiavitù e della polvere del deserto.
È stato quindi servito l’agnello intero e il grande pane azzimo: «Nel decimo giorno di questo mese, ogni capo di casa si provveda di un agnello: un agnello per casa» (Es 12, 3).
A questo punto il capofamiglia ha tenuto l’Hagadàh (istruzione) spiegando il significato storico, teologico della festa ricordando il nostro passaggio, attraverso il deserto, in mezzo a sofferenze e difficoltà e spesso anche in mezzo al peccato. Importante tenere gli occhi volti alla terra promessa, la Gerusalemme celeste, con la fede nella potenza e misericordia del Signore che salvò il suo popolo.
Venne quindi cantato da tutti la prima parte dell’Hallel, canto di gioia e di ringraziamento. Poi il capo della mensa, alzato l’azzimo, pronunciò la preghiera di benedizione, spezzandolo e distribuendolo a tutti. Fu a questo punto che Cristo istituì la SS. Eucarestia, trasformò il vecchio rito in nuovo e compì l’ultima tappa della nostra salvezza. È seguito quindi il pranzo vero e proprio con le carni dell’agnello, l’ḥarosét, le erbe amare e i pani azzimi, bevendo e parlando. Finita la cena è stata benedetta la grande coppa (la quarta), momento in cui Cristo trasformò il vino nel suo Sangue, e passata a tutti, che ne hanno bevuto. Cantato il grande Hallel, il canto dell’Esodo, il capo della mensa ci salutò con l’augurio: «Arrivederci l’anno prossimo a Gerusalemme». Quest’anno quaggiù, schiavi; l’anno prossimo liberi, in terra d’Israele.
Tutti abbiamo assistito con spirito di semplicità, per l’interesse storico, ma soprattutto per ringraziare il Signore che per mezzo dell’Agnello ci ha redento, coscienti di far parte di un piano di salvezza in varie tappe fra cui l’alleanza mosaica e, ultima, quella di Cristo”.
Nel 1971 si comincia a preoccuparsi per la diminuzione del numero dei giovani che entrano nei seminari di congregazione e del basso tasso di perseveranza degli stessi. In Consiglio generale si vuole mettere in pratica ciò che si era suggerito nel CGSS, di esplorare ai fini vocazionali la Jugoslavia, la Spagna e l’Italia meridionale, provvedendo eventualmente all’apertura di nuovi seminari minori. Si decide che per l’Italia meridionale si interessi P. Ugo Del Debbio, per la Spagna il preposito P. Mason, per la Jugoslavia P. Fabio Sandri, responsabile dell’Ufficio Vocazioni. In una riunione successiva, tenutasi il 22 aprile 1971, il preposito comunica che, consultatosi con il preposito generale degli Scolopi, apprende che la situazione vocazionale in Spagna è assolutamente in crisi, che non vale la pena di aprirvi dei piccoli seminari, dato che gli Scolopi stessi li stanno chiudendo tutti.
1970 (8 dicembre) – Dopo il capitolo (CGSS), ci fu il decreto di promulgazione dal parte del preposito generale P. Orfeo Mason dei testi definitivi dei decreti del capitolo, e inoltre delle costituzioni e del direttorio ad experimentum, editi in un unico volumetto «Decreti, Costituzioni e Direttorio». Il volumetto uscì pubblicato in una stamperia o computisteria romana e fu distribuito nel gennaio 1971, circa un mese più tardi. Le nuove costituzioni e il direttorio entrarono in vigore ad experimentum, dopo la necessaria vacatio legis, il 2 maggio 1971.
1972 (12 novembre) – A Venezia, si celebra l’apertura del bicentenario della nascita dei venerabili padri fondatori con la celebrazione solenne presieduta dal preposito generale P. Orfeo Mason, che tenne il discorso commemorativo nella chiesa di S. Agnese.
1973 (10 maggio) – Nel corso dell’anno del bicentenario della nascita dei venerabili padri fondatori, nella basilica di S. Marco, il cardinal patriarca di Venezia Albino Luciani (in seguito Papa Giovanni Paolo I) celebrò la santa messa per gli allievi per le scuole cattoliche di Venezia e nell’omelia illustrò la vita e le opere dei due padri. Nel pomeriggio dello stesso giorno ci fu la commemorazione ufficiale al Palazzo Ducale.
1973 (20 maggio) – In questo giorno si celebrò nella chiesa di S. Agnese a Venezia la conclusione religiosa del bicentenario della nascita dei venerabili fondatori, con la celebrazione solenne presieduta dal cardinale Gabriel-Marie Garrone, Prefetto della congregazione per l’educazione cattolica, che evidenziò nel suo discorso dopo la lettura del vangelo l’opera brillante dei due fratelli “fondata su un’ardente carità”.
1973 – XXVII Capitolo generale. Si esaminò la situazione delle costituzioni e del direttorio, che per 10 anni sono in esercizio ad experimentum. Avviene la rielezione di P. Orfeo Mason come preposito generale per un secondo mandato.
1974 (1° gennaio) – P. Orfeo dà inizio a una nuova pubblicazione periodica, all’inizio molto semplice e informale, poi via via più elegante, stampata in tipografia: il Notiziario Ufficiale per gli Atti di Curia, che ha il suo primo numero appunto per il periodo gennaio-marzo 1974. All’inizio non avrà periodicità fissa; poi diventerà semestrale. Riceverà una struttura costante a partire dal n° 36 (anno 1990) e gradualmente si trasformerà durante i mandati di P. Pietro Fietta in una pubblicazione di aspetto gradevole, con copertina in cartoncino patinato e con un testo stampato in modo più raffinato. Un vero ed elegante vademecum. Il Notiziario è arrivato attualmente all’anno XLV, numero 96 (gennaio-giugno 2020). Il Notiziario Ufficiale per gli Atti di Curia ha lo scopo di informare “con completezza e a tempo opportuno, dei fatti, degli avvenimenti della Congregazione”. È principalmente un “bollettino ufficiale degli atti della Curia Generalizia e degli Uffici Centrali”. Gradualmente darà spazio anche ai resoconti sugli atti delle parti territoriali, anche se purtroppo, in questo campo, con poca uniformità e senza uno schema fisso.
Il 1° giugno 1975 ebbe luogo l’inaugurazione ufficiale della casa d’Asiago sotto il nome di “Collegio Cosulich dei padri Cavanis”, un convitto per studenti di scuola superiore. L’edificio fu acquistato in parte a seguito di un contributo donato all’istituto dalle sorelle Maria, Elena e Luisa Cosulich di Venezia. La casa rimase aperta e parzialmente funzionante durante quasi vent’anni, poi fu chiusa, seppur restando di proprietà dell’istituto, durante il mandato di P. Giuseppe Leonardi.
Nel 1979 si tenne il XXIX Capitolo generale ordinario. La realizzazione principale di tale capitolo fu l’approvazione da parte dei capitolari delle costituzioni e del direttorio; questo si chiamerà «Norme» a partire dall’edizione del 1981 dei nostri codici. Vi sono stati apportati degli emendamenti che sono inviati alla Santa Sede per l’approvazione. Nel corso del capitolo, che era anche elettivo, venne eletto preposito il padre Guglielmo Incerti, cui P. Orfeo Mason cedette il testimone. Questi fu poi eletto dal capitolo a vicario generale.
Concluso felicemente il suo duplice mandato come preposito generale della Congregazione, tra successi e preziosi risultati, senza che mancassero le opposizioni e varie tribolazioni, eletto dal Capitolo generale alla carica di vicario generale, P. Orfeo rimase a Venezia a fianco del suo successore P. Guglielmo Incerti, e nel triennio 1979-1982 fu anche rettore della casa di Venezia; inoltre (come aveva continuato ad essere, pur con qualche difficoltà, anche durante i suoi mandati di preposito), continuò a tenere la cattedra di professore di storia e filosofia al liceo Cavanis di quella città. Proseguì nell’impegno di vicario generale nel triennio successivo (1982-1985), lasciando però ad altri l’incarico di rettore della comunità veneziana.
Nel 1982-1983 lo troviamo P. Maestro dei Novizi a Possagno, nella Casa Sacro Cuore e nel biennio 1983-1985 Maestro degli Studenti a Roma; di nuovo Maestro dei Novizi a Possagno, Casa Sacro Cuore nel 1985-1988, con i primi novizi provenienti dai paesi andini (Colombia e Ecuador) e novizi italiani.
Era iniziato il tempo che biblicamente possiamo chiamare “delle vacche magre”, cioè di scarsità di novizi e di seminaristi maggiori, per non parlare dei minori: sicché non era in genere più possibile condurre abitualmente il noviziato e lo studentato a tempo pieno e in contemporanea; si apriva il noviziato quando c’erano novizi, a volte italiani, altre volte, proprio in questo periodo, di altri paesi: si cominciò con il primo gruppo di quattro giovani proveniente dalla regione dell’Ecuador, poi regione Andina.
Nell’ultimo anno del secondo mandato del P. Guglielmo Incerti (1988-89), P. Orfeo fu richiamato a Venezia come segretario generale e ancora una volta come docente al liceo a Venezia.
Durante questi anni infatti continuò a insegnare storia e filosofia nei nostri licei e si dedicò al tempo stesso alla direzione spirituale di molte persone, soprattutto dei giovani. Aderì al movimento del Rinnovamento dello Spirito, che, giunto in Italia nei primi anni Settanta, per influenza del movimento carismatico delle chiese evangeliche o della riforma, era in netta espansione a quel tempo, e egli seguì come assistente ecclesiastico e consigliere molti gruppi di questo movimento di chiesa a Venezia e altrove.
La sua adesione a questo movimento e tutto un complesso di circostanze legate al corso del Capitolo generale straordinario speciale (e lo stress relativo) e alla grave sofferenza provocatagli anche durante gli anni successivi dalla dura opposizione da parte di una minuscola frangia reazionaria dell’istituto, provocò in lui una svolta spiritualistica e devozionistica che, a partire probabilmente dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, quando il padre aveva raggiunto la cinquantina, trasformò notevolmente la sua personalità.
Chi lo aveva conosciuto e frequentato con grande affetto e profonda stima lungo tutta la sua vita, aveva qualche difficoltà a riconoscere nel P. Orfeo della seconda fase della sua vita, il P. Orfeo della sua gioventù e maturità. Nella prima fase era un giovane P. Orfeo molto intelligente e colto, brillante insegnante di storia e filosofia, critico, innovatore, dinamico, spiritoso, vivace, e allo stesso tempo fornito di una profonda devozione e pratica di fisionomia biblica, liturgica, ecclesiale, conciliare. Nella seconda fase era dedito a una devozione mariana spinta all’eccesso, alla ricerca di santuari e luoghi di presunte – per lo più false – visioni mariane, a devozioni del tutto diverse dalla sua robusta spiritualità precedente.
Rimase tuttavia, in tutto l’arco della sua lunga vita, un religioso pio, osservante, obbediente, esemplare, straordinariamente buono, seguito da una folla impressionante di ex-allievi che lo veneravano e lo venerano ancora.
In seguito (1989) fu inviato da P. Leonardi in Ecuador come rettore della casa di Quito, e come maestro responsabile della formazione del noviziato e del seminario maggiore (1989-1991). A quel tempo la casa di Quito non era il grande e bel seminario attuale, ma una casa antica, molto umida e povera, costruita con blocchi di adobe o taipa, cioè fango pressato crudo; casa che non aveva neanche il vantaggio di essere davvero antica, coloniale, di pregio e di bellezza formale. Durante questi due anni fu anche economo regionale della Regione Ecuador (Quito/Ecuador). Continuò in quest’ultimo incarico anche negli anni successivi 1991-1994, durante i quali fu pure 1° consigliere regionale e vicario della Regione Ecuador e P. Maestro dei novizi sempre a Quito.
In seguito occupò la carica di superiore regionale della Regione Ecuador e continuò a occuparsi della formazione dei novizi con sede naturalmente a Quito; era anche rettore della comunità di quella capitale. Dal 1994 al 1997 fu Maestro dei Novizi e degli studenti della Regione Ecuador e Direttore del Seminario di Quito, nella nuova sede dello stesso; e di nuovo rettore della comunità di Quito; dal 1996 al 1999 fu ancora economo regionale della Regione Andina, rettore della famiglia religiosa di Quito e direttore generale (si direbbe piuttosto gestore) del Collegio Borja-3 in Quito.
In seguito P. Orfeo discese a valle, anche per l’età che cominciava a divenire avanzata e dal 1999 fu direttore della Casa di Spiritualità “Oasis Cavanis – Reina de la Paz” a Valle Hermoso (Santo Domingo de los Colorados, Ecuador), ai piedi delle Ande, pur mantenendo l’incarico di formatore degli studenti fino al 2001. Dal 1999 al 2014, praticamente fino alla morte, fu direttore della suddetta Casa di Spiritualità. Sebbene di fatto la dirigesse, lo si chiamerebbe meglio, prima di tutto, animatore: era lui infatti che dettava quasi tutti i ritiri, gli esercizi spirituali, gli incontri di spiritualità. Lo faceva con un fervore e una passione, e veramente con la forza dello Spirito, al punto che la Casa da lui diretta, divenne conosciutissima e molto frequentata.
A Valle Hermoso, come a Quito. P. Orfeo non insegnava più Storia e Filosofia, educando i giovani conforme il secondo punto del carisma apostolico Cavanis (cf. cost. 3.2), ma educava e portava a Cristo giovani e adulti tramite il ministero degli esercizi spirituali, conforme il terzo punto del carisma proprio dell’Istituto (cf. cost. 3.3). Il primo punto, poi, (cf. cost. 3.1), quello di “tendere alla propria santificazione, imitando Gesù Cristo Signore, che obbediente al Padre, prima diede l’esempio e poi insegnò”, Orfeo lo aveva praticato in tutta la sua vita.
Ricoverato all’ospedale metropolitano di Quito, dopo un’operazione chirurgica di carattere cardiologico subita il 17 gennaio 2014, cui aveva reagito bene, P. Orfeo era stato dimesso il 21 gennaio, ma il 31 seguente aveva subito tre arresti cardiaci e fu operato al cuore. La terapia intensiva seguita all’operazione non aveva comunque avuto successo.
Morì piamente a Quito, in quell’ospedale, il 10 febbraio 2014. La sua morte suscitò una grande commozione in congregazione tra i confratelli, e poi tra gli innumerevoli ex-allievi e amici.
P. Orfeo riposa in compagnia di altri confratelli nel piccolo cimitero della congregazione a Valle Hermoso, ai piedi delle Ande, a fianco della Chiesa della Risurrezione dell’Oasis Cavanis “Reina de la Paz”, che per tanti anni aveva diretto e che aveva fortemente contribuito a rendere una casa molto conosciuta e apprezzata in Ecuador.
È molto impressionante leggere in proposito dei suoi ultimi giorni le seguenti frasi, scritte da P. Pietro Fietta, preposito generale: “Mi pare quasi di vederlo, perché ho impresso nella mente e nel cuore l’incontro che ho avuto con lui il 17 gennaio poche ore prima del primo intervento chirurgico, quando nella stanza dell’ospedale mi ha accolto a braccia aperte con il sorriso che sgorgava dal cuore e con gli occhi pieni di tenerezza. L’ho poi rivisto il 19 gennaio quando era uscito dalla unità di terapia intensiva, adagiato nel letto di ospedale, contento e sereno perché i medici lo avevano rassicurato dell’esito positivo dell’intervento. Abbiamo pregato assieme e ci siamo salutati e il suo sguardo mi ha accompagnato fino a che la porta si è chiusa. Il suo volto, scalfito dal sacrificio degli anni spesi per il Signore nel servizio dei fratelli, e il sorriso della bocca e degli occhi che faceva trasparire la sua ricchezza interiore, mi ha fatto andare con il pensiero a un altro Volto, e ho pensato che anche per P. Orfeo stava arrivando il tempo di dire consummatum est.”
Buon Natale e Felice Capodanno 2014
(ultima lettera Circolare di P. Orfeo per le Feste di Natale 2013)
Carissimi,
ringrazio di cuore il Signore, che mi dona la gioia di vivere un altro Natale spiritualmente unito a voi, miei cari familiari – confratelli – amici benefattori d’ltalia, però, attraverso di voi, desidero viverlo con la Chiesa e 1’umanità in una forma nuova, più matura; cioè più umana e cristiana.
II mistero, sempre commovente e affascinante di un Dio fattosi Bambino, umile – povero – fragile non finisce mai di incantare: e se l’incanto giunge al cuore, è capace di cambiarlo.
Prego il Signore per voi, e voi pregatelo per me affinché viviamo questo Natale vero.
Cosi anche se lontani con il corpo, saremo uniti in un solo cuore, quello di Gesù, uomo come noi e Dio per noi, nato a Betlemme, per salvarei, cioè per cambiarci in meglio.
Miei carissimi, che sento di amarvi sempre più con il passare degli anni, desidero quest’anno aprire il mio cuore con piena fiducia, appunto come si fa con un amico, con uno stile semplice, fresco, allegro, invitante.
Vi confesso che, senza volerlo, quasi vincendo la mia naturale riservatezza, sull’esempio di Papa Francesco umile, affettuoso, sempre dialogante con tutti, desidero condividere con voi alcune riflessioni, contemplando il mistero del Natale (credo che le persone più anziane mi potranno comprendere meglio):
A questo punto della mia vita di fede, se mi risulta molto chiaro il cammino che mi indica il Signore, mi risulta anche più chiaro il mio problema interiore, che nasce dal fatto di sentirmi nel cuore (lo dico sinceramente, è verità) molto povero e freddo spiritualmente, perché sento che amo poco il mio Signore, mentre Egli mi ama senza limiti, con amore infinito.
Ora percepisco chiaramente che non vivo il Natale, la Pasqua, la Pentecoste come dovrei.
Più in generale mi rendo conto che non vivo il Vangelo che predico nel martirio (= testimonio) del giorno per giorno. E sono convinto che noi cristiani teniamo un grande debito con l’umanità intera, perché cerchiamo poco la Santità: “una goccia di santità vale piú di un oceano di genio” (Gounod).
E Madre Teresa a un giornalista: “la santità non è un lusso, è una necessità”.In definitiva noi cristiani e il mondo intero ci salveremo solo se impariamo la grande lezione del Natale e della Pasqua: Dio è umile e povero, e Dio (sulla Croce) è pazzo d’amore.
San Francesco d’Assisi lo imparò molto bene, e così papa Francesco. Non c’è altro cammino: Gesù è il Bambino nato in Betlemme, e morto sulla Croce; per questo vincitore.
Oggi dobbiamo frontalmente rifiutare la moderna parodia consumistica del Natale, terribile profanazione del mistero cristiano.
Con un affettuoso e gratissimo abbraccio, che ha un certo sapore di addio, vi saluto uno per uno,
Vostro amico di sempre e per sempre,
p. Orfeo Mason
8.6 Il Capitolo generale straordinario speciale del 1969-70, le nuove Costituzioni e il Direttorio
8.6.1 Breve storia dei lavori capitolari
Il Capitolo generale straordinario speciale della Congregazione delle Scuole di Carità venne indetto, in ossequio al Motu proprio Ecclesiae Sanctae di papa Paolo VI, il 19 marzo 1969 con lettera circolare di indizione del Preposito generale P. Orfeo Mason.
Venne stesa la convocazione al capitolo e data comunicazione dell’elenco degli aventi diritto a partecipare il 2 maggio 1969.
Il Capitolo, preceduto da un intenso lavoro preparatorio coordinato dalla commissione per l’aggiornamento, si svolse in due sessioni; la prima a Venezia, articolata nei seguenti periodi: 31 maggio – 2 giugno 1969; 7 luglio – 28 agosto 1969; 27 dicembre 1969 – 5 gennaio 1970; la seconda sessione a Possagno dal 5 luglio al 3 settembre 1970.
Il Capitolo fu retto da un consiglio di Presidenza costituito da un Presidente (P. Orfeo Mason) e da due moderatori (i Padri Giovanni De Biasio e Giorgio Dal Pos); tutti e tre eletti alle suddette cariche dall’assemblea. Gli uffici di Segretario e di Scrutatori furono ricoperti rispettivamente dai Padri Giuseppe Leonardi, Rocco Tomei e Bruno Consani.
Vennero istituite sette commissioni principali, incaricate dello studio di particolari problemi e della stesura degli schemi dei documenti capitolari. Eccone un elenco:
I. Commissione: Vita religiosa (P. Giuseppe Simioni, presidente; P. Diego Spadotto, segretario; PP. Antonio Cristelli, Luigi Ferrari, Aldo Servini, Alessandro Valeriani).
II. Commissione: Formazione dei membri (P. Nicola Zecchin, presidente; P. Guerrino Molon, segretario; PP. Diego Dogliani, Guglielmo Incerti, Augusto Taddei).
III. Commissione: Apostolato (P. Vittorio Di Cesare, presidente; P. Rocco Tomei, segretario; PP. Bruno Consani, Mario Merotto, Angelo Moretti, Giuseppe Panizzolo, Valentino Pozzobon).
IV. Commissione: Governo e Amministrazione (P. Ugo Del Debbio, presidente; P. Attilio Collotto, segretario; PP. Narciso Bastianon, Gioachino Tomasi, Angelo Zaniolo).
V. Commissione: Fisionomia e funzione della Congregazione (P. Orfeo Mason, presidente; P. Diego Spadotto, segretario; PP. Vittorio Di Cesare, Angelo Moretti, Giuseppe Simioni; P. Giuseppe Leonardi, membro aggiunto).
VI. Commissione: Fratelli laici (P. Nicola Zecchin, presidente; P. Diego Spadotto, segretario; PP. Angelo Moretti, Ugo Del Debbio).
VII. Commissione (di intersessione): per lo studio di particolari problemi; preparazione dello schema delle Costituzioni e del Direttorio (P. Orfeo Mason, presidente; P. Giuseppe Leonardi, segretario; PP. Giovanni De Biasio, Aldo Servini).
Il 5 gennaio 1970, alla fine della prima sessione, venne approvato all’unanimità (23 placet su 23 votanti) il Decreto fondamentale “Fisionomia e funzione della Congregazione delle Scuole di Carità”, presentato poi dal P. Preposito generale ai Congregati in data 2 febbraio 1970.
Gli altri decreti capitolari vennero approvati durante la II sessione nelle seguenti date e con i voti sotto indicati:
Decreto sulla vita religiosa: 20 luglio 1970 (22 placet su 22 votanti).
Decreto sull’educazione della gioventù nell’Istituto Cavanis: 1 agosto 1970 (22 placet su 23 votanti).
Decreto sugli esercizi spirituali: 10 agosto 1970 (20 placet su 20 votanti).
Decreto sulla collaborazione ecclesiale: 8 agosto 1970 (23 placet su 23 votanti).
Decreto sulle vocazioni e le case di formazione: 6 agosto 1970 (22 placet su 22 votanti).
Decreto sui Fratelli laici: 4 agosto 1970 (24 placet su 25 votanti).
Decreto sul governo della Congregazione: 23 luglio 1970 (16 placet su 22 votanti).
Decreto sull’amministrazione: 27 luglio 1970 (19 placet su 19 votanti).
Il giorno 3 settembre 1970 l’assemblea capitolare approvò all’unanimità (24 placet su 24 presenti e votanti) lo schema di Costituzioni e Direttorio, e contestualmente ne approvò uno stralcio destinato ad entrare subito in vigore; e delegò al Consiglio generale particolari poteri circa la correzione ed il perfezionamento dei testi capitolari.
Il Capitolo speciale venne dichiarato chiuso dall’assemblea alla fine della 128ª seduta, nel pomeriggio del giorno 3 settembre 1970.
Dopo la conclusione del CGSS, il 1° ottobre 1970, il preposito, udito il Consiglio, nominò i membri della Commissione ristretta per la revisione dei documenti del CGSS, delle Costituzioni e del Direttorio. In pratica si trattava di dare l’arte finale o redazione definitiva e di preparare la stampa e diffusione del libro: “Decreti, Costituzioni e Direttorio”. I membri eletti furono i padri: Ugo del Debbio (consigliere generale e segretario generale); Giuseppe Simioni (consigliere generale); Giuseppe Leonardi (già segretario del CGSS).
In attesa di poter esaminare con più abbondanza i contenuti delle nuove costituzioni e del nuovo direttorio (più tardi Norme), promulgati l’8 dicembre 1970 e entrati in vigore il 2 maggio 1971, ispirati dalla Bibbia e dai documenti conciliari, come pure da altre fonti, ho provveduto a quantificare, con risultati che mi sembrano significativi e interessanti, il contributo attinto appunto ai libri della S. Scrittura, ai documenti conciliari, a documenti della santa Sede, ai testi fondazionali e altri, della congregazione, da parte dei padri capitolari nel corso del CGSS.
Ho realizzato questo lavoro esaminando e annotando in forma sistematica le note di piè di pagina del citato volume “Decreti, Costituzioni, Direttorio” (1970), nelle pagine delle costituzioni e rispettivamente del direttorio, in cui si facevano rilevare le fonti bibliche, conciliari, fondazionali ecc. dei nuovi codici.
Documenti del Concilio ecumenico Vaticano II | |||||
Documenti conciliari del Concilio ecumenico Vaticano 2° | tipo | tema | N° citazioni nelle costituzioni | N° citazioni nel direttorio | totale |
SC, Sacrosanctum Concilium | Cost. concil. | La Liturgia | 3 | 0 | 3 |
LG, Lumen Gentium | Cost. concil. | La chiesa | 13 | 1 | 14 |
DV, Dei Verbum | Cost. concil. | Divina Rivelazione | 2 | 1 | 3 |
GS, Gaudium et spes | Cost. concil. | La Chiesa nel mondo contemporaneo | 3 | 1 | 4 |
IM, Inter mirifica | Decreto conciliare | MCS | 0 | 3 | 3 |
CD, Christus Dominus | Decreto conciliare | Ufficio pastorale dei vescovi | 2 | 3 | 5 |
PC Perfectae caritatis | Decreto conciliare | Rinnovamento della Vita Religiosa | 15 | 7 | 22 |
OT Optatam totius | Decreto conciliare | Formazione sacerdotale | 7 | 4 | 11 |
AA, Apostolicam actuositatem | Decreto conciliare | Apostolato dei laici | 3 | 3 | 6 |
AG, Ad gentes | Decreto conciliare | Attività missionaria della Chiesa | 1 | 5 | 6 |
PO, Presbyterorum ordinis | Decreto conciliare | Ministero e vita sacerdotale | 7 | 3 | 10 |
GE, Gravissimum educationis | Dichiarazione conciliare | Educazione cristiana | 8 | 5 | 13 |
Totale | Documenti conciliari | 64 | 36 | 100 | |
Documenti immediatamente postconciliari della Santa Sede | |||||
Nome | tipo | tema | N° citazioni nelle costituzioni | N° citazioni nel direttorio | totale |
ES, Ecclesiae sanctae | Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio | norme per l’applicazione di alcuni Decreti del Concilio. Paolo VI, 6 agosto 1966 | 3 | 5 | 8 |
RC, Renovationis causam | Istruzione della Congregazione per i Religiosi | Direttive pratiche, 6 gennaio 1969 | 1 | 25 | 26 |
RFIS Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis | documento della Congregazione per l’Educazione Cattolica | Con l’approvazione di Paolo VI, emanato il 6 gennaio 1970 | 1 | 6 | 7 |
Totale | 5 | 36 | 41 | ||
Altre fonti citate nelle Costituzioni e Direttorio del 1971 | |||||
Fonte | Osservazioni | N° citazioni nelle costituzioni | N° citazioni nel direttorio | totale | |
Bibbia | Sia AT che NT | 27 | 12 | 39 | |
Liturgia romana | 3 | 3 | 6 | ||
Scritti dei Fondatori | E costituzioni del 1837 | Citazioni esplicite | 26 | 3 | 29 |
Scritti di P. Sebastiano Casara | e MR5 | Citazioni esplicite | 8 | 8 | 16 |
Riferimenti a costituzioni | antiche e comunque anteriori al CGSS | Citazioni esplicite | 33 | 73 | 106 |
Riferimenti al decreto fondamentale del CGSS “Fisionomia e Funzione” | 8 | 1 | 9 | ||
Riferimenti ad altri decreti del CGSS | 26 | 1 | 27 | ||
Totale | 131 | 101 | 232 |
Impressioni sulle costituzioni e direttorio del 1969-1970
Cinquant’anni sono passati (nel 2020) da quel lungo e importante capitolo straordinario, chiamato “speciale” dalla stessa S. Sede, e occorre inquadrare le Costituzioni e Direttorio ad experimentum del 1969-70 nel clima di ebollizione ecclesiale dell’epoca post-conciliare. Credo che solamente chi ha avuto la grazia di vivere quel periodo, e di partecipare al CGSS può comprendere veramente l’emozione e l’entusiasmo dell’epoca.
1. Le Costituzioni furono modificate profondamente, cosi come lo richiedeva e l’ordinava il Motu Proprio Ecclesiae sanctae.
2. Le precedenti Costituzioni (non c’erano Direttorio o Norme, tutto era unito in un solo codice) sono state analizzate diligentemente da una commissione preparatoria, prima e durante del CGSS; ne abbiamo fatto una vera esegesi che è stata presentata ai Capitolari; abbiamo conservato soprattutto tutto ciò che veniva della mano dei Fondatori (e di P. Casara nella parte seconda delle Costituzioni) ad eccezione di ciò che era totalmente superato del punto di vita storico, secondo le indicazioni espresse dal Motu proprio Ecclesiae sanctae.
3. Abbiamo aggiunto numerose citazioni bibliche e soprattutto il tono generale ne è diventato più biblico. Forse in questo àmbito abbiamo un po’ esagerato, e ci sono dei casi in cui si percepisce il carattere artificiale del passaggio tra i precedenti testi (antichi o più recenti) e la citazione biblica implicita.
4. Abbiamo aggiunto numerose citazioni dei documenti del Concilio Vaticano II. L’idea era molto buona e era suggerita dal momento storico e dal clima conciliare. Tuttavia, dato che la stessa cosa è stata fatta anche dagli altri istituti religiosi, ciò ha causato una certa massificazione e un certo appiattimento tra tutte le costituzioni dei differenti istituti. Le nostre Costituzioni, tuttavia, conservano un forte sapore Cavanis che lo distingue. Anche gli ufficiali della CIVCSVA l’hanno notato, in quel tempo.
5. L’intenzione del legislatore (ossia i Capitoli, particolarmente il CGSS) era di fare delle Costituzioni una “Regola di vita”, almeno nella prima parte, secondo lo spirito più antico e autentico della Congregazione, piuttosto che un codice di leggi; lasciando principalmente alla seconda parte dalle Costituzioni e Norme le regole e i dettagli giuridici.
6. Bisogna dire che il decreto fondamentale del CGSS “Fisionomia e funzione della Congregazione delle Scuole di Carità” e più ancora le nuove Costituzioni con il loro Direttorio, ancora ad experimentum, non sono state accettate da tutti i religiosi Cavanis né facilmente né con l’obbedienza e il rispetto dovuti. Alcune proteste sono state espresse al Preposito (P. Orfeo Mason) e al Capitolo Generale Straordinario Speciale, quando era ancora in corso, da parte di un piccolo ma vigoroso gruppo di contestazione organizzato in forma di vera lobby; la contestazione e il dissenso sono un diritto dei religiosi, evidentemente; ma essi, nel caso specifico hanno preso spesso l’aspetto della contestazione amara, dura e poco caritatevole, e se ne è sofferto molto durante il capitolo e anche negli anni successivi.
Sono stati anche pubblicati, durante il capitolo, dei fascicoli di propaganda abusiva, in cui si contestava il lavoro e il diritto di operare del CGSS. Delle lettere di protesta sono state inviate inoltre alla S. Sede (alla CIVCSVA); da questa giunse ai contestatori e in copia al preposito generale una risposta dura e decisa, anche perché all’epoca la Congregazione dei Religiosi (oggi CIVCSVA) riceveva delle lettere di questo tenore da parte di gruppi conservatori di una quantità di istituti; e d’altra parte la riforma degli istituti e del loro diritto proprio era stata provocata ed richiesta proprio dalla S. Sede. La risposta della CIVCSVA conteneva la formula conclusiva “ … et statim aquiescant” (= e che si mettono immediatamente l’animo in pace). Ci volle ugualmente del tempo, qualche anno, perché tutti si mettessero veramente in pace.
7. Da questo complesso di eventi e di sensibilità diverse dipende il fatto che il P. Guglielmo Incerti, pubblicando nel 1981 le nuove Costituzioni e Norme approvate dalla CIVCSVA, aggiungesse, con una scelta felice, in fondo al libretto dei nostri codici una riproduzione fotostatica delle Costituzioni del 1837, per favorire l’accettazione delle nuove Costituzioni da parte di tutti, anche da parte dei contestatori che facevano fatica ad accettare la nuova edizione riformata delle Costituzioni. Oggi il clima di contestazione è finito, probabilmente perché nel frattempo i contestatori sono deceduti.
8. Senza volere esprimere un giudizio di carattere morale, sembra che più tardi, nei decenni e capitoli successivi, seguendo, con un certo entusiasmo, magari senza rendersene conto, la tendenza di riflusso postconciliare della Chiesa universale, la nostra Congregazione abbia trasformato le nostre Costituzioni, purtroppo anche nella loro prima parte, da quello che era una “Regola di vita” a un succedaneo del Codice di diritto canonico. Si tratta di un’idea e di un’operazione molto pratica, per quanto riguarda l’uso concreto dei nostri codici da parte dei superiori dei vari livelli, e per noi religiosi in generale; ma probabilmente le Costituzioni hanno perso un poco del loro DNA Cavanis e, soprattutto, del loro fascino.
9. Un’abbondante documentazione formale e informale sul lavoro pre-capitolare, capitolare e post-capitolare, fino al 1979, è stato riunito e organizzato dal segretario del CGSS ed è conservato negli Atti del CGSS e dei capitoli ordinari del 1973 e 1979, nell’archivio corrente della Curia generalizia a Roma.
10. Si suggerisce qui che alcuni dei decreti del CGSS, soprattutto il decreto fondamentale del CGSS “Fisionomia e funzione della Congregazione delle Scuole di Carità” siano ripubblicati; ce ne sono alcuni che sono ancora attuali, ma la maggior parte delle nostre comunità, soprattutto le più recenti, non hanno copie del libretto “Decreti Costituzioni e Direttorio” del 1971.
Il dibattito piuttosto acre e sgradevole di cui si parla sopra dipendeva soprattutto da due decisioni del Capitolo Generale Straordinario speciale:
La prima decisione si trova come si diceva nel documento fondamentale del CGSS “Fisionomia e funzione della Congregazione delle Scuole di Carità”, ed è stata poi riportata nelle costituzioni e Direttorio. Ecco il testo dei paragrafi 15-18 incriminati:
“15. I fondatori, animati da zelo apostolico, desideravano arrivare a tutti i giovani, con ogni mezzo educativo “senza limitazione … di ajuti”. La Congregazione sul loro esempio, sapendo che l’opera dell’educazione è tanto vasta quanto sono vaste le necessità dei giovani, riconosce suo spirito autentico l’andare ad essi con tutti i mezzi ritenuti più efficaci ed opportuni.
16. Attenti ai segni del loro tempo i nostri fondatori considerarono la scuola il mezzo più efficace di elevazione morale e sociale, perché i giovani potessero raggiungere la loro piena autonomia e responsabilità. Oggi che “un nuovo umanesimo” si fa strada nella coscienza degli uomini la scuola conserva la sua primaria funzione educativa: essa “matura le facoltà intellettuali, sviluppa la capacità di giudizio, mette a contatto del patrimonio culturale acquistato dalle passate generazioni, promuove il senso dei valori, prepara la vita professionale, genera anche un rapporto di amicizia tra alunni di indole e condizione diversa, disponendo e favorendo la comprensione reciproca. Essa inoltre costituisce come un centro, alla cui attività e al cui progresso devono insieme partecipare le famiglie, gli insegnanti, i vari tipi di associazioni”.
17. Il Capitolo generale speciale, non ignorando che oggi sono sorti non pochi dubbi sulla validità del ministero della scuola, con le parole del Concilio Vaticano II riafferma il valore di tale ministero che “è autentico apostolato sommamente conveniente e necessario anche nei nostri tempi, ed è insieme reale servizio reso alla società”. E poiché i presbiteri, “anche se si occupano di mansioni differenti, sempre esercitano un unico ministero sacerdotale in favore degli uomini”, il sacerdote Cavanis ha coscienza di compiere nella scuola, di qualunque tipo o indirizzo essa sia, autentico apostolato sacerdotale.
18. “È dunque meravigliosa e davvero importante la vocazione di quanti… si assumono il dovere di educare nelle scuole”. E poiché formare quotidianamente la gioventù nello spirito di intelligenza e di pietà è compito principale della Congregazione, ogni religioso considera come impegno conseguente la sua professione la più generosa disponibilità di se stesso nei riguardi della scuola. Perché poi essa possa tendere alla formazione del cuore, alla maturità cristiana, all’apostolato, alla responsabilità e al dialogo, è necessario che venga integrata “con un complesso particolare dì ajuti”, quali la direzione spirituale, le associazioni cattoliche, culturali e ricreative, e l’uso dei mezzi di comunicazione sociale.”
La seconda decisione del CGSS si trova di passaggio nello stesso documento al paragrafo 21, di conclusione, dove si accenna alla “collaborazione ecclesiale”, e più ampiamente nei capitoli rispettivi delle costituzioni e direttorio prodotte dal CGSS; ma soprattutto ciò che ha urtato i confratelli che stimavano che soltanto la scuola (e gli esercizi spirituali, naturalmente) erano il fine e il mezzo della Congregazione delle Scuole di Carità, è stata la decisione del capitolo di aprire una parrocchia in Brasile, quella di Ortigueira nel Paraná, di chiudere la casa di Solaro, in provincia di Milano (che pure non era una scuola ma piuttosto una foresteria per giovani operai) e di sostituirla con l’apertura di una parrocchia a Corsico, pure in diocesi di Milano.
Parrocchie poi se ne apriranno molte, soprattutto ma non esclusivamente in Brasile; spesso con il pretesto, o forse anche l’intenzione sincera, di promuovere la pastorale vocazionale in favore della crescita dei membri della congregazione; a volte, come in Italia, con nessun risultato in questo campo. Per dare un’idea del numero di parrocchie Cavanis, ne daremo di seguito un esempio concreto per il 2020. Si tratta della lista dei parroci Cavanis che hanno partecipato a una videoconferenza (in tempo di pandemia di Covid-19) il 18 dicembre 2020:
P. ALVISE BELLINATO (IT) Parrocchia Sant’Antonio Di Padova CORSICO
P. CIRO SICIGNANO (IT) Parrocchia Santi Marcellino e Pietro ROMA
P. JOSÉ VALDIR SIQUEIRA (BR) Estação Missionaria Nossa Senhora Das Graças DILI (Timor Leste)
P. JEAN-BANIKA KAYABA (RDC) Missão-Paróquia São João BoscoMACOMIA (MZB)
P. SALVADOR CUENCA (Detto Buddy) (PHIL) Parish S. José DUJALI
PE. MARIO VALCAMONICA (IT) Paróquia São Sebastião ORTIGUEIRA
PE. MARCIO CAMPOS DA SILVA (BR) Paróquia São José De Vila Palmeira Nossa Senhora De Fátima
PE. CAETANO ANGELO SANDRINI (BR) Paróquia Santa Luzia NOVO PROGRESSO
PE. VANDIR SANTO FREO (BR) Paróquia Cristo Rei REALEZA
PE. ADRIANO SACARDO (BR) Paróquia e Santuário Santa Rita De Cássia MARINGÁ
PE. FRANCO ALLEN SOMENSI (BR) Paróquia São Judas Tadeu CASTRO
PE. ANTÔNIO PAULO VIEIRA SAGRILO (BR) Paróquia Sagrado Coração De Jesus PÉROLA D’OESTE
PE. SILVESTRE SELUNK (BR) Paróquia Santa Maria Mãe De Misericórdia BELO HORIZONTE
PE. RICARDO BURATTO (BR) Paróquia Nossa Senhora Do Rosário GUARANTÃ DO NORTE
PE. MILTON CEZAR FREO TUBIAS (BR) Paróquia Imaculada Conceição BELO HORIZONTE
PE. JOÃO DA COSTA HOLANDA (BR) Paróquia Nossa Senhora De Fátima PONTA GROSSA
PE. JOÃO PEDRO PINHEIRO (BR) Paróquia Santo Antônio De Pádua CASTELO DOS SONHOS
PE. JOSÉ CARLOS DA SILVA LEITE (BR) Paróquia Nossa Senhora De Guadalupe UBERLÂNDIA
P. CÉLESTIN MUANZA-MUANZA (RDC) Parroquia Cristo Liberador S.TA CRUZ DE LA SIERRA
P. CESAR GABRIEL QUEVEDO GARCIA (PERÚ) Parroquia Corpus Christi S.TA CRUZ DE LA SIERRA
P. FRANCISCO ARMANDO ARRIAGA (ECU) Parroquia Nuestra Señora Del Valle VALLE HERMOSO
Si è parlato con frequenza qui sopra della preziosa istituzione che ha la misteriosa e impronunciabile sigla CIVCSVA. Se ne parlerà spesso anche nel capitolo successivo che tratta della storia delle Costituzioni dell’Istituto. Del resto se ne è parlato fin dall’inizio del libro, sotto nomi differenti; essa infatti ha cambiato varie volte di nome durante i secoli e anche durante la vita, assai più breve, del nostro Istituto. Essa si chiama oggi Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, in sigla appunto CIVCSVA.
Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica (CIVCSVA)
Fondata da Sisto V il 27 maggio 1586 col titolo di Sacra Congregatio super consultationibus regularium e confermata con la Costituzione Immensa (22 gennaio 1588) fu unita nel 1601, con un’idea piuttosto strana, con la Congregatio pro consultationibus episcoporum et aliorum prelatorum.
San Pio X con la Costituzione Sapienti Consilio (29 giugno 1908) separò di nuovo le due istituzioni, sottopose i Vescovi alla Concistoriale e rese autonoma la Congregazione per i religiosi. Con la Costituzione Regimini Ecclesiae Universae, del 15 agosto 1967, di Paolo VI, la Congregazione dei religiosi venne denominata Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari. La Costituzione Pastor Bonus, del 28 giugno 1988, di Giovanni Paolo II, ha cambiato il titolo in Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, CIVCSVA. Essa si occupa di tutto ciò che riguarda gli Istituti di Vita consacrata (Ordini e Congregazioni religiose, sia maschili che femminili, Istituti secolari), e le Società di Vita apostolica quanto a regime, disciplina, studi, beni, diritti, privilegi.
È anche competente per quanto riguarda la vita eremitica, le vergini consacrate e relative associazioni, le nuove forme di vita consacrata.
La sua competenza si estende a tutti gli aspetti della vita consacrata della Chiesa latina o occidentale: vita cristiana, vita religiosa, vita clericale; è di carattere personale; non ha limiti territoriali; alcune determinate questioni dei loro membri però, sono rimesse alla competenza di altre Congregazioni. Essa dispensa anche dal diritto comune coloro che le sono soggetti.
È inoltre competente sulle Associazioni di fedeli erette allo scopo di diventare Istituti di Vita consacrata o Società di Vita apostolica e sui Terzi Ordini secolari.
Dal 23 ottobre 1951, funziona presso la Congregazione di cui si parla la Scuola Pratica di Teologia e Diritto dei religiosi. Dal 1975 viene stampato il Bollettino Informationes S.C.R.I.S. che pubblica articoli in varie lingue, sostituito nel 2005 dalla rivista Sequela Christi.
Gli uffici sono nel Palazzo delle Congregazioni, 00193 Roma, Piazza Pio XII, n. 3.
8.6.2 Breve cronologia delle Costituzioni e Norme
“Non cessiamo, o carissimi,
di stringerci sempre più nei vincoli
di carità, che sarà sempre il più forte appoggio
al nostro nascente Istituto”.
P. Anton’Angelo Cavanis
1802ss – Regole orali informali, fin dall’inizio dell’opera (1802) per la Congregazione mariana e più tardi, per la prima comunità, sia del ramo maschile sia del ramo femminile. Regole per l’attuazione degli Esercizi spirituali.
1814 ( 28 maggio) – Piano di una nuova Congregazione (sol per il ramo maschile) al Papa Pio VII.
1816 (7 maggio) – Piano di una nuova Congregazione (per il ramo maschile e per quello femminile) al governo austriaco.
1818 (27 luglio) – Piano inviato all’imperatore dell’Austria e al Patriarca di Venezia Francesco Maria Milesi per l’approvazione dell’Istituto rispettivamente al livello dell’impero d’Austria e del Patriarcato di Venezia, per i due rami dell’Istituto, maschile e femminile. Il piano fu inoltrato dal patriarca al governo austriaco. Il piano fu approvato, per tutti e due i rami dell’Istituto e in ambedue i livelli, civile e diocesano. Il Piano conteneva delle “regole” per i due Istituti.
1820 (27 agosto) – Inizio della comunità Cavanis nella “casetta”, nella solennità di S. Giuseppe Calasanzio.
1823 – Regole interne della nuova comunità della “casetta”.
Esistono poi due manoscritti di P. Antonio che si possono considerare preliminari o preparatori per la compilazione delle regole manoscritte del 1831 e per le costituzioni approvate dalla S. Sede e stampate del 1837:
1831 (2 febbraio) – Regole manoscritte della comunità dei Sacerdoti Secolari delle Scuole di Carità.
1834-1835 – P. Antonio scrive di sua mano la prima versione delle Costituzioni da portare a Roma. Il manoscritto è autografo di P. Antonio, con molte correzioni, aggiunte, cancellatura, ed è qua e là di difficile letture, come del resto accade spesso per gli scritti di P. Antonio, dal carattere minuto. Tale prezioso quaderno è conservato nell’AICV,
1835 – Padre Marco parte per Roma l’11 febbraio 1935. Da lì, con P. Antonio, che si trova a Venezia, redigono le Costituzioni e le consegnano alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari il 13 giugno 1835.
1835 (21 agosto) – Le Costituzioni e la Congregazione sono approvate nella riunione del Consiglio della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari.
1835 (7 settembre) – P. Marco rientra a Venezia da Roma.
1836, 21.06 – Approvazione formale delle Costituzioni dalla S. Sede, dopo la ratifica del Papa Gregorio XVI.
1837, 18.08 – Decreto di Placet ovvero approvazione dell’imperatore dell’impero austriaco. Copia di tale documento fu fatto aver dal card. Patriarca Monico ai padri il primo settembre 1937.
1837 – Pubblicazione delle Costituzioni, dal titolo: Constitutiones Congregationis Sacerdotum Saecularium Scholarum Charitatis. Includevano solamente la prima parte, e non la seconda che avrebbe dovuto riguardare il governo e le strutture. Ciò è stato un atto di bontà della Santa Sede, di aver approvato la nostra Congregazione che in quel tempo era molto piccola e non aveva ancora grandi problemi di struttura e di governo, senza esigere la seconda parte delle Costituzioni. Tuttavia, ciò ha creato più tardi gravi difficoltà nella comunità, ai tempi di P. Casara e dei suoi successori.
Da notare che P. Antonio Cavanis aveva già cominciato a preparare la seconda parte delle Costituzioni, per la verità con il titolo “Parte terza, che manca alle Costituzioni approvazione”, e con la nota a mano probabilmente di P. Aldo Servini, “MR1”, cioè Manoscritto Regole 1”. P. Antonio aveva inviato a Roma a P. Marco anche questo quaderno MR1, con la 3ª parte delle costituzioni, cioè la parte riguardante governo, preposito, capitoli ecc.; con titubanza perché queste cose di struttura e governo non si erano potute sperimentare nella vita pratica della comunità. Per semplificare l’iter, si era però creduto, anche con l’approvazione della sante Sede, data anche la piccolezza della Congregazione, di soprassedere alla redazione completa di questa parte e alla richiesta della sua approvazione da parte della S. Sede.
Il libretto delle prime Costituzioni del 1837, contiene in appendice anche il rito della vestizione e della professione dei chierici e dei fratelli laici (quella che era la 4ª parte del lavoro svolto a Venezia da P. Antonio).
1838 (16.7) – Con l’erezione canonica dell’Istituto, celebrata in questo giorno, nella festa della Madonna del Carmine, le Costituzioni entrano in vigore.
1838-1839 (?) – Importante commento di P. Anton’Angelo sulla regola 3, sullo scopo e il ministero della Congregazione; è probabile che deva essere collocato in questo periodo; tuttavia questo documento non è datata e per di più si è perduto da più di un secolo. Ne esiste una trascrizione in Zanon, 1925, vol. II, alle pagine 225-229.
2ª metà del secolo XIX – Date diverse. La seconda parte delle Costituzioni è stata scritta da P. Sebastiano Casara e altri religiosi in diverse date. Esistono a Venezia, nell’archivio generale storico (AICV), in casa-madre, dei documenti che rappresentano le fasi successive della preparazione delle regole sulla struttura e il governo della comunità. Sono i documenti che furono chiamati MR1-MR2-MR3-MR4-MR5 (MR = Manoscritti delle Regole).
1885 – P. Domenico Sapori succede a P. Casara nella Prepositura, e affronta a sua volta, tra difficoltà di vario genere, il lavoro delle costituzioni, principalmente per la redazione definitiva della seconda parte.
1885 (21 dicembre) – Lettera di convocazione di un capitolo locale nelle due sole Case allora esistenti, di Venezia e di Lendinara (Possagno era chiusa, per il momento), per l’approvazione sulle varie proposte e osservazioni circa le nuove costituzioni.
1885 (27 dicembre) – Si raduna un capitolo straordinario (risulta difficile definirlo se locale, o provinciale diviso in due sedi) per le costituzioni. Giacché il capitolo, per vari motivi, non riesce a raggiungere il suo scopo di decidere in merito alla definitiva stesura delle costituzioni, il P. Sapori, Preposito, decide di inviare le Costituzioni così come si trovano a Roma per l’approvazione, dopo averne data notizia al Patriarca Agostini.
1886 (1° marzo) – Lettera del P. Sapori che presenta al Patriarca le costituzioni affinché vengano inoltrate a Roma. La lettera, oltre a contenere la dettagliata descrizione della consegna delle costituzioni al patriarca Trevisanato, parla di quelle nuove, che ora vengono presentate. «Venne alla fine il momento di poterci occupare nuovamente del compimento delle nostre Costituzioni, e sono ben lieto di poterne accompagnare all’Em.za V.ra R.ma il risultato, perché si compiaccia di esaminarlo, e poi rimetterlo, se ne sarà persuasa, col patrocinio autorevole del Suo favore, alla S. C. dei V. e R., per ottenerne la desiderata Apostolica approvazione. Il codice che le accompagno è alquanto diverso e più breve di quello già presentato nel 1865 all’Em.mo, ed eccone la ragione: Si era allora creduto conveniente, per averne unità di universale e ordinato concetto, riprendere tutto intieramente il lavoro. Questa volta invece si reputa doveroso il conservare rispettosamente quanto fu dai ven. nostri due Fondatori formulato e dalla S. Sede approvato, qua e là solamente introducendo le modificazioni ed aggiunte non sostanziali, per lunga esperienza trovate necessarie, e l’altra volta pur fatte, e intorno alle quali la S. Congregazione nulla aveva trovato da osservare in contrario. Di ciò consta la prima parte del manoscritto, che ora presento. Nella seconda parte di esso si tratta dei Capitoli sia provinciali come locali, delle elezioni da farvisi e degli argomenti da trattare nei medesimi. Di che tutto nulla vi ha nelle Regole dei nostri Padri presentate alla S. Sede, e dalla stessa approvate, tranne un solo accenno alla elezione del Rettore di ciascuna famiglia, alla famiglia stessa accordata. Anche su questo punto erasi l’altra volta creduto di disporre diversamente, e n’erano esposti i motivi. Volendosi ora però conservare al possibile il predisposto dai nostri Padri, si studiò e si trovò, sembrarci, il modo di lasciare alle famiglie la nomina del rispettivo Rettore, senza che ne possano seguire gli inconvenienti la prima volta temuti.
La terza parte del manoscritto è brevissima, perché si credette di limitarla soltanto ad alcune regole per le cariche principali e più importanti nella Congregazione.”
La lettera prosegue con una dettagliata disamina delle succitate cinque osservazioni della S.C.V.R., che non vengono accettate. Solo alla terza si risponde che il Capitolo Provinciale vuole divise le due elezioni del Preposito e del Rettore della Casa Madre.
1886 (22 maggio) Il Patriarca spedisce alla S. Congregazione il nuovo testo delle costituzioni.
1886 (4 agosto) – Il Capitolo Provinciale, che nel settembre 1886 avrebbe dovuto approvare le nuove regole, viene invece rinviato dalla S.C.V.R. all’anno seguente. Nel frattempo «qui regunt, regant».
1887 (5 febbraio) – Giunge una lettera del P. Tomaso da Sacile OFM cap., Consultore della S.C.V.R., che nota non esserci nulla nelle Costituzioni mandate a Roma che si riferisca al Noviziato.
1887 (12 febbraio) – Il P. Sapori scrive di aver spedito a Roma il Capitolo sul Noviziato.
1887 (1° agosto) – Lettera del Card. Masotti, Prefetto della S.C.V.R., al Patriarca di Venezia, nella quale annuncia la cattiva, ma prevedibile, notizia: «Dilata, donec Constitutiones emendatae fuerint ad tramites animadversionum Em.o Patriarchae Venetiarum comunicandarum. Non vuole poi omettere di notare che i Preti di detto istituto hanno non rettamente interpretato la lettera di questa S. Congregazione dei VV. e RR. del 26-9-1866. In essa infatti leggesi che gli E.mi Padri hanno ordinato che si comunicassero al l’Em.za Vostra alcune osservazioni qui acchiuse affinché a forma di esse siano emendate le succitate Costituzioni, prima che siano sottoposte al giudizio della S. Sede per la definitiva approvazione».
La lettera aggiunge (in foglio allegato) alle antiche, delle nuove osservazioni insistendo ancora sulla necessità del l’ottemperare alle osservazioni. Eccole:
Seguono 6 osservazioni di carattere particolare, e l’ammonizione che tutti gli articoli e paragrafi non d’accordo con le avvertenze vanno mutati.
1887 (17 dicembre) – Chiesto consiglio all’amico Don Giuseppe Ghisellini, i Padri più anziani, Da Col (divenuto nel frattempo Preposito), Giuseppe Rovigo, Domenico Sapori e Giuseppe Bassi, con l’appoggio di una nota del Patriarca, credono in coscienza di dover insistere col Prefetto della S.C. V. R. contro le avvertenze a) (voti perpetui); c) (ricorso alla S.C. per la terza rielezione del Superiore Generale); f) (dimissione di una Congregato solo col permesso della S.C.), prima di ottemperare alle osservazioni.
Nella lettera si trovano interessanti espressioni circa la visione originaria dei Padri Fondatori sulla spontanea unione dei Congregati, al di fuori di voti e di altri vincoli giuridici e affiora soprattutto il commovente attaccamento dei Padri allo spirito dei Fondatori e nello stesso tempo un ammirabile coraggio – vera parresia –, un desiderio conscio o inconscio – profetico ma anche alquanto ingenuo – di resistere al soffocante centralismo romano, ma si nota anche chiaramente l’equivoco giuridico che per tanti anni tenne lontana l’approvazione delle regole.
1889 – Da una lettera del Segretario della S.C.V.R. al Patriarca risulta che, nei primi mesi dell’anno 1889, comunque prima di agosto, i Padri chiesero che venisse tolto il dilata del 1887. Sembra anche che questa fosse la prima lettera dell’Istituto inviata alla S.C.V.R. dopo quella del 17-12-1887, e che le Regole non fossero state ancora adattate alle osservazioni.
1889 (9 agosto) – La S.C.V.R., per mezzo del suo Segretario annuncia che condizione indispensabile per togliere il dilata è «affrettarsi ad eseguire quanto fu da questa S. Congregazione ordinato con lettera all’Eminenza Vostra dell’Agosto 1887».
1889 (18 agosto) – In capitolo si parla per la definitiva compilazione del nuovo schema di Costituzioni da presentarsi alla Sacra Congregazione per la sospirata approvazione. Si constata che occorre adattarsi alle osservazioni della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, cioè bisogna obbedire a Roma. Certo si è fatto il possibile per conservare quello che avevano voluto i nostri Fondatori, “è dunque manifesto che il Signore ora vuole altrimenti, Fiat voluntas Dei in omnibus, ripetiamo dunque col nostro venerando fondatore Anton’Angelo”.
Si decide inoltre che:
1889 (19 agosto) – Si stabilisce di compilare il nuovo schema di Costituzioni da presentare a Roma secondo le decisioni prese il giorno precedente.
1889 (17 settembre) – Dalla lettera del P. Da Col al Prefetto della S.C.V.R.: «In esecuzione di quanto viene ingiunto dalla Venerata Lettera dell’Eminenza Vostra Rev.ma in data 9 Agosto pp. diretta a questo nostro Em.o Card. Patriarca … si accompagna il nuovo schema di Costituzioni, corretto a forma delle undici osservazioni esposte da codesta Sacra Congregazione con Lettera allo stesso E.mo Patriarca dell’Agosto 1887». Seguono un progetto dettagliato sulle correzioni apportate, e due quesiti.
1889 (17 settembre) –Il Patriarca spedisce a Roma le Costituzioni.
1889 (26 dicembre) – Il Consultore della S. Congregazione Fra Tommaso da Forlì, esprime il suo voto favorevole all’approvazione delle Nuove Costituzioni.
1890 (2 aprile) – Don Ghisellini spedisce (ufficiosamente) copia del voto suddetto, con a tergo una sua nota a mano.
1890 (2 settembre) – Il Patriarca Agostini comunica una lettera in cui la S.C.V.R. chiede al Patriarca stesso se i Padri vogliono rimanere preti secolari, o vogliono divenire regolari; nel qual caso le costituzioni andrebbero rifatte.
1890 (6 novembre) – Il P. Da Col, con altri quindici firmatari, risponde al Patriarca Agostini che i Congregati vogliono rimanere preti secolari, secondo il breve di fondazione.
1891 (5 agosto) – Si tiene il primo capitolo generale della Congregazione.
1891 (14 agosto) – Il Papa Leone XIII firma il decreto di approvazione delle nuove Costituzioni.
1891 (4 dicembre) – Decreto del Card. Patriarca Agostini in cui si dà l’approvazione del fascicolo a stampa delle Costituzioni e di divulgazione delle stesse. Segue allora la pubblicazione della seconda parte delle Costituzioni, sulla struttura, il governo, i capitoli, la formazione. Entrambe le parti sono pubblicate insieme, in un unico volume.
1893 (primi giorni di agosto) – Particolarmente interessante il dibattito soggiacente a un verbale di questo capitolo definitoriale. Vi si espongono i risultati della discussione su alcuni “dubii” che permangono sulle costituzioni recentemente approvate dalla S. Sede (1891). Per i dubbi che non si sono potuti risolvere in sede di riunione definitoriale, si preparano anche i testi (in corsivo nel testo del verbale) da essere inviati per chiarificazione alla Sacra Congregazione.
Finora, per la qualità dei nostri voti, secondo le Costituzioni approvate nel 1836, i Membri della nostra Congregazione non si poteano dire stabilmente ad essa aggregati, per le promozioni agli Ordini anche minori si doveano chiedere le Dimissorie dai rispettivi Ordinari di origine. Da ora in poi, secondo il Decreto 4 9bre 1892 n I, che estende la facoltà di tali Dimissorie anche ai Superiori degli Istituti con voti perpetui quindi anche al nostro, crediamo cessato perciò il dovere della detta precedente necessaria dipendenza. Ad ogni buon fine, e a nostra piena tranquillità, ne desideriamo e chiediamo espressa dichiarazione.
Nello stesso n. I° di esso Decreto, anche agli Istituti di voti semplici perpetui viene ai Superiori concesso di presentare per la promozione ai Sacri Ordini maggiori gli alunni stabilmente aggregati titulo Mensae communis vel Missionis. Cessa dunque il titolo di Patrimonio, che fu fin qui necessario, e causava ben gravi difficoltà: né su ciò sembraci possibile dubio veruno. Ad ogni modo, anche su questo, a piena nostra tranquillità, desideriamo e chiediamo di essere da codesta Sacra Congregazione assicurati.” Questo importante testo merita di essere esaminato nella sua interezza da uno dei nostri giuristi, insieme alla risposta da parte della sacra Congregazione per i Vescovi e Regolari.
In realtà, si sa che per quanto riguarda la professione perpetua, nonostante la tenacità degli antichi padri e la conclamata non-retroattività della legge, i professi temporanei con base alle regole del 1836, emisero tutti obbedientemente la professione perpetua il 31 maggio 1894, o, come dice il testo del libretto “Dies quas fecit Dominus”, “In ossequio alle prescrizioni della Congregazione dei vescovi e Regolari tutti i sacerdoti dell’Istituto cambiano la professione loro da temporanea a perpetua.”. Evidentemente, anche se non si dice, avranno fatto lo stesso, magari secondo l’usanza in altro momento e ambiente, anche i fratelli laici.
Il padre Gianmaria Spalmach, già sacerdote, e i seminaristi Augusto Tormene e Francesco Zanon furono i primi che, una volta finito il triennio di professione temporanea, si unirono all’Istituto con la professione semplice ma perpetua, secondo le nuove costituzioni nella seconda parte, il 15 novembre 1894.
Nel 1917, quando da soli 26 anni il lungo travaglio della Congregazione aveva portato a compimento la seconda parte delle costituzioni, ecco presentarsi la necessità di riprenderle in mano per una nuova riforma. Ecco le date e gli avvenimenti principali del nuovo periodo.
1917 (27 maggio) – Costituzione «Provvidentissima Mater Ecclesia» con cui viene promulgato da Benedetto XV il Codice di Diritto Canonico, voluto e preparato dal suo predecessore, Papa Pio X.
1918 (26 giugno) – Decreto di Benedetto XV che impone agli Istituti religiosi di adattare le Regole rispettive al Codice di Diritto Canonico.
1921 (26 ottobre) – Norme sull’adattamento delle Costituzioni al Codice di Diritto Canonico.
1919 (18 luglio) – Capitolo Generale. « I Padri Capitolari si riuniscono per la revisione delle Regole che la S. Sede ordinò di rimandar ad essa ritoccate, dove occorrono, in conformità al nuovo Codice di Diritto Canonico. Nel Capitolo si rividero le Regole, mandando poi 4 copie delle Costituzioni aggiornate, assicura un elenco di quesiti, alla S. Congregazione dei Religiosi.
1920-1921 – Nei Capitoli Definitoriali di questi due anni si parla abbastanza spesso del nuovo codice di diritto canonico e dei quesiti inviati alla Sacra Congregazione dei Religiosi agli istituti religiosi di diritto pontificio.
Nella cartella relativa al capitolo definitoriale del 1921 sono allegati al verbale due ponderosi volumi elegantemente manoscritti compilati, di sua iniziativa e all’insaputa del preposito, dal P. Giuseppe Borghese, della comunità di Venezia, un religioso molto stimato dai laici: allievi, ex-allievi, amici dell’Istituto; un po’ meno negli ambienti ufficiali della Congregazione, a quanto si ha l’impressione dai documenti dell’epoca. I due volumi contengono una proposta personale di testo latino completo delle costituzioni dell’Istituto, riformate a modo suo dal religioso stesso per adattarle – dice – alle disposizioni della Congregazione dei religiosi (1902) e al Codice di diritto canonico del 1917. P. Borgese presentò i due volumi al preposito Tormene come dono in occasione del XXV anniversario di ordinazione presbiterale e di quello analogo del P. Francesco Saverio Zanon.
L’esistenza di questi due volumi manoscritti risultava finora sconosciuta, e di fatto erano stati “segregati” come allegati al verbale del consiglio definitoriale del 1921, e non erano stati collocati nel settore dell’AICV che contiene documenti relativi alla storia del testo delle costituzioni. Quel che è certo, è che essi non furono apprezzati dal preposito P. Augusto Tormene e dal suo consiglio, anzi P. Borghese ricevette una lettera di biasimo per l’iniziativa personale, con termini piuttosto duri, che criticava sia il contenuto sia il modo dell’opera. Si criticava particolarmente P. Borghese per la sua caratteristica di novator, cioè per il suo tentativo di innovazione.
Successivamente, il lavoro per la riforma delle costituzioni venne affidato al P. Francesco Saverio Zanon. A prescindere dal giudizio dei superiori dell’epoca, chiunque in seguito voglia eseguire uno studio completo sulle costituzioni dovrà tenere conto dell’opera spontanea di P. Bepi Borghese, valutarne il contenuto, particolarmente a riguardo dell’accusa di tentativo di innovazione; e confrontarla eventualmente con quella di P. Francesco Saverio Zanon. Sarebbe senza dubbio un esercizio di critica giuridica interessante e stimolante, dato il carattere ben differente dei due confratelli.
1926 – Dal verbale del capitolo definitoriale: «Quindi si dà lettura delle risposte del P. Zanon, redatte per incarico del Preposito, ad un foglio di osservazioni proposte dal P. Rizzardo sui rapporti tra il Codice e il testo delle nostre Regole intorno al dominio dei beni e alle eredità». (Allegato a e b).
1928 – Capitolo Generale – Seconda seduta: «Si inizia la revisione delle Costituzioni per emendarne il testo in conformità del Codice di Diritto Canonico. Il lavoro era già stato compiuto nel Capitolo Generale del 1919, ma, non essendo la forma con la quale era stato inviato il testo emendato corrispondente ai desideri della Congregazione dei Religiosi, questa invitava il Preposito a rifare il lavoro, udito il Definitorio ed eventualmente il Capitolo Generale.
Nel corso della revisione è stata prospettata l’opportunità di mutare la procedura attuale delle nostre Comunità per ciò che riguarda la elezione dei Rettori delle Famiglie, e si propone per varie ragioni di affidarla al Preposito Generale col suo Definitorio.
Trattandosi di una mutazione importante, allo scopo di maturare meglio la cosa, si stabilisce di rimandarne la discussione ad altra seduta».
1928 (5 settembre) – Capitolo Generale, Terza seduta: «… i capitolari . . . trattano dapprima la proposta, discussa a suo tempo nel corso di questo Capitolo Generale,.., riguardante la mutazione della procedura stabilita dalla regola nostra per l’elezione dei Rettori delle Famiglie.
Dopo uno scambio di vedute, si conviene di lasciare immutata la regola».
1928 (11 aprile) – Il P. Zanon, che curò la revisione delle Regole, si reca a Roma per le stesse.
1930 (4 giugno) – «Giunsero da Roma le nostre Regole, approvate dalla S. Congregazione dei Religiosi in coordinamento al Codice J. C., ed aggiunte alcune, non sostanziali, modificazioni».
In realtà le mutazioni non erano così poco sostanziali. P. Antonio Cristelli, allora preposito generale, nel capitolo generale straordinario del 1952, indetto con lo scopo di trattare soltanto della revisione delle costituzioni, in una sua introduzione storica presentata all’inizio del capitolo, così definisce le mutazioni del 1930: “È così che nelle nostre costituzioni, in questa edizione [del 1930, NdA], si trovano mutazioni assai notevoli…”, e ne descrive la genesi: “In conformità ai decreti della S/C [Sacra Congregazione] dei Religiosi furono presentati gli esemplari delle costituzioni con le mutazioni richieste, ma la stessa S.C. incaricò uno dei suoi consultori a farne una revisione completa che introdusse nel nostro manuale tutto ciò che contiene il codice in proposito. Così venne l’edizione che fu pubblicata nel 1930”.
Ecco le principali modificazioni: sono inserite alcune regole di carattere giuridico all’inizio dei Capitoli sulla castità e sull’obbedienza; vengono aggiunte alcune chiose alle leggi 12 e 222 che rendono più forte il controllo del Superiore Generale col suo Consiglio sulle elezioni compiute nelle famiglie. Si tratta delle Emendationes cioè adattamento delle Costituzioni dopo la pubblicazione del primo Codice di Diritto canonico (1917). Si prelude dunque alle mutazioni del 1937.
1930 (15 giugno) – «Consegnai — scrive P. Rizzardo — al P. Zanon, come al più anziano dei Confratelli, e come a chi vi aveva tanto lavorato, il fascicolo delle Regole, pregandolo a riferirmi su di esse, che poi in Capitolo sarebbero state ricevute qua par foret reverentia, mettendosi a base di tutte le trattazioni il loro venerando dettato».
1930 (8 luglio) – Capitolo generale straordinario, 1a adunanza. Il Preposito presenta le nuove Costituzioni, adattate al Codice di Diritto Canonico, ai Capitolari che fanno alcune precisazioni circa l’opportunità di regolare i testamenti; circa il digiuno, da intendersi in senso stretto; ecc.
Il Capitolo affida al Preposito l’incarico di curare la stampa delle Costituzioni con l’aiuto di due Confratelli, e di promulgarle a suo tempo. Si decise di aggiungere alle Regole anche le preghiere da recitarsi in comune, come appendice. Il piccolo libretto degli emendamenti sarà più tardi (1954) sia pubblicato separatamente, sia rilegato con le Costituzioni.
1930 (2 dicembre) – Le costituzioni rinnovate sono stampate presso la tipografia S. Marco, e in questo giorno giungono pronte in casa.
1931 (2 novembre) – Promulgazione delle Costituzioni nelle varie case dell’Istituto.
1936 (27 giugno) – Durante il capitolo definitoriale, nella prima seduta «il Preposito accenna ad alcune proposte fatte dal P. Giovanni Rizzardo delle quali ha già fatto tenere a ciascuno defìnitore una copia. Il Capitolo Defìnitoriale riconosce la sua incompetenza in proposito, e mentre una copia delle proposte passa in archivio, si rimette la trattazione delle medesime al Capitolo Generale del prossimo anno».
Quali fossero le proposte del P. Rizzardo, ex Preposito Generale, e quale seguito abbia avuto la cosa, risulta dal verbale di uno dei successivi Capitoli defìnitoriali, di cui segue qualche brano.
1937 (24 aprile) «Al Capitolo Defìnitoriale del Capitolo del luglio dello scorso anno erano state presentate dal P. Rizzardo alcune proposte che il Preposito durasse in carica sei anni invece di tre; che i Rettori delle Famiglie fossero eletti dal Preposito col Definitorio; che il Preposito uscente potesse scegliersi la casa per una dimora e avesse qualche segno di rispetto.
Tali proposte sembrarono allora di tale importanza da doverle rimandare allo studio del Capitolo Generale che doveva aver luogo nel prossimo anno.
Intanto il Superiore, recatosi a Roma il 5 aprile 1937 per altri affari, volle sentire in proposito dei suaccennati mutamenti il parere della Congregazione dei Religiosi e quindi espose il caso a monsignor Pasetto, Segretario della Congregazione medesima. Gli fu risposto di non aspettare il Capitolo Generale, ma di proporre al più presto le modifiche da farsi in proposito alle Costituzioni e suggerì qualche altra modificazione».
Segue nel verbale una disamina dei motivi a favore della prima delle modificazioni proposte, e poi la votazione del Definitorio sulle tre mutazioni stesse.
Il verbale continua: «Esaurita questa prima parte, viene incaricato il Preposito di preparare le emendazioni delle Regole e la lettera per la loro presentazione alla S. Sede. Così la seduta è rinviata al giorno seguente».
Il verbale del giorno successivo, 25 aprile 1937, riporta tra l’altro il brano seguente: «Il Preposito dà lettura della domanda che sarà inviata al Papa per chiedere l’approvazione delle modifiche introdotte nelle Costituzioni, quindi legge tutte le Regole modificate nel testo che sarà inviato alla S. Sede. Trovandosi i Definitori pienamente d’accordo sul contenuto delle stesse e sulla forma nella quale sono redatte, appongono la loro firma d’approvazione nel foglio delle medesime».
Al verbale sono allegati: a) minuta di lettera in data 24 aprile 1937; b) lettera del Preposito P. Aurelio Andreatta in cui dà relazione del suo viaggio a Roma, e convoca il Capitolo Definitoriale del 24 aprile 1937; c) proposte di mutazioni, con note storiche di P. Rizzardo, presentate al Capitolo Definitoriale del 27 giugno 1936; d) Copia dattiloscritta delle Costituzioni con le mutazioni.
Dall’allegato b) risulta che monsignor Pasetto consigliò di riservare al Preposito col suo Consiglio anche la nomina del Maestro dei Novizi.
1937 (18 giugno) – Rescritto della Sacra Congregazione dei Religiosi, che «benigne annuit … ita ut mutationes, de quibus agitur, inserantur Constitutionibus Instituti ». Sotto Papa Pio XI si giunge dunque alle Mutationes.
Segue un’interruzione a causa della seconda guerra mondiale [1939-1945] e il dopoguerra e per il momento le Mutationes sono bensì promulgate, ma il loro testo non è stampato né distribuito.
1952 – P. Antonio Cristelli, allora preposito generale, convocò nel 1952 un capitolo generale straordinario, con lo scopo di trattare soltanto della revisione delle costituzioni, “secondo quanto era stato convenuto nel Capitolo Generale del luglio 1948”, e in particolare per studiare e eventualmente concretizzare l’idea di chiedere alla S. Sede di abrogare le mutazioni del 1937 e che fossero ripristinate quelle approvate nel 1930. In particolare si ritorna sulla questione delle elezioni (o nomina) dei superiori locali da parte delle famiglie. Si chiede alla S. Sede di ritornare alla legislazione anteriore al 1937; la S. Congregazione dei Religiosi, però, come si poteva facilmente immaginare, non acconsente.
La lettura degli atti del capitolo del 1952 è particolarmente interessante. Essi dimostrano – nonostante alcune imprecisioni e la consueta semplicità, ingenuità ma, si direbbe, con vera ostinata “parresia”, magari inconsapevole – la continuità di una certa resistenza alle mutazioni imposte all’Istituto Cavanis dalla santa Sede e più particolarmente dalla Congregazione dei Religiosi, con i suoi vari nomi successivi durante i secoli, oggi C.I.V.C.S.V.A.; nel desiderio permanente – e sempre vano – di mantenere la forma peculiare impressa dai venerabili fondatori alla nostra comunità. Vi si esamini il testo della lettera al Papa Pio XII, che chiede espressamente che siano abrogate le mutazioni introdotte alle costituzioni dalla Congregazione dei Religiosi nel 1937.
1954 – Pubblicazione delle Mutationes alle Costituzioni, in un piccolo libretto che sarà anch’esso sia rilegato con le Costituzioni, sia distribuito a parte.
1962-65 – Celebrazione del Concilio ecumenico Vaticano II.
1962 – Per iniziativa del preposito generale P. Giuseppe Panizzolo, si inizia uno studio per la riforma delle Costituzioni, tramite apposita commissione. I lavori si prolungano fino al 1965; sembra che, a seguito della conclusione dl Concilio Vaticano II, si sia deciso di attendere le istruzioni della S. Sede, e che i lavori per il momento si siano interrotti, per essere ripresi in modo diverso e più ampio dopo la promulgazione del Motu proprio “Ecclesiae sanctae”.
1965 (28.10) – Promulgazione del decreto Perfectae caritatis, del Concilio ecumenico Vaticano II, sul rinnovamento della vita religiosa.
1966 (6.8) – Lettera apostolico Motu proprio “Ecclesiae sanctae” , di Papa Paolo VI per l’applicazione di alcuni decreti del Concilio Vaticano II che stabiliva, tra l’altro, il rinnovamento della vita religiosa e la riforma delle costituzioni e regole di tutti gli istituti, nello spirito del Concilio, esplicitando il decreto conciliare Perfectae caritatis.
1969-1970 – Nella nostra Congregazione, si celebra il Capitolo generale straordinario speciale (CGSS) in tre sessioni e 128 riunioni, per riformare l’Istituto e per formulare nuove Costituzioni e un direttorio . Queste si differenziarono in Costituzioni e Direttorio.
1971 – Dopo il capitolo (CGSS), decreto e pubblicazione, nel libro: “Decreti, Costituzioni e Direttorio”, delle nuove Costituzioni e Direttorio che sono entrati in vigore ad experimentum, il 2 maggio 1971, dopo una conveniente vacatio legis.
1973 – XXVII Capitolo generale. Si esamina la situazione delle Costituzioni e Norme, durante i 10 anni ad experimentum.
1977 – Il preposito con il consenso del suo consiglio, nella riunione del 29-30 agosto 1977, istituisce “una commissione che prepari il testo [della costituzioni e norme] dopo aver consultato i religiosi. Sono nominati membri della commissione: P. Ugo Del Debbio, P. Gioachino Tomasi, P. Giuseppe Leonardi”.
1979 – XXVIII Capitolo generale. Approvazione da parte del capitolo delle Costituzioni e Direttorio emendati (ormai il Direttorio si chiamerà “ Norme ”), ed essi vengono inviati alla S. Sede per l’approvazione. In questa occasione le Norme sono situate non come codice a parte, come nel libro del 1970-71, ma ogni gruppo di Norme segue direttamente l’articolo corrispondente delle Costituzioni.
Il 27 gennaio 1980 il preposito con il suo consiglio rivede ed accetta le correzioni di carattere teologico alle costituzioni e norme, proposte del revisore ad hoc P. Giuseppe Ferraro SJ, che già aveva assolto a questo compito nel 1970 in altra fase; quelle giuridiche realizzate nel 1979 dal P. Xavier Ochoa, come pure revisioni stilistiche.
Il 18 gennaio 1981 il preposito con il suo consiglio rivede ed accetta le osservazioni generali e particolari proposte dai consultori della Congregazione dei Religiosi.
1981 – Approvazione dalla S. Sede delle Costituzioni e Norme nuove ed emendate.
1983 – Pubblicazione da Papa Giovanni Paolo II del nuovo Codice di Diritto Canonico. Si rivela dunque necessario riprendere in mano un’altra volta le Costituzioni e Norme per adattarle al nuovo codice.
1989 – Il XXX Capitolo generale decide che si introduca la legislazione per il livello intermedio di governo della Congregazione (province, vice-province, regioni).
1989-1995 – Durante il mandato Leonardi, si prepara allora la legislazione (nostra propria) per il livello intermedio del governo.
1991 (21.9) –Nello stesso mandato è stato pubblicato un fascicoletto di quattordici pagine che contiene le costituzioni e norme modificate, a seguito di un necessario adeguamento al nuovo CDC del 1983 e secondo istruzione della CIVCSVA dell’11 febbraio 1984. Tali costituzioni e norme modificate diventavano vigenti l’8 dicembre 1991, rimanendo in vigore fino al successivo capitolo generale del 1995.
1995 – XXXI Capitolo generale; nuovo emendamento delle Costituzioni e Norme, in occasione della pubblicazione del nuovo Codice di Diritto Canonico e dell’introduzione del livello intermedio di governo.
1996 (10.2) – Approvazione dalla Santa Sede del nuovo testo.
2001 – XXXII Capitolo generale: si producono due pagine informali di emendamenti minori alle Costituzioni e Norme, stampate, fotocopiate e distribuite in un foglio sciolto.
2006-2007 – Viene costituita una commissione per un’ulteriore riforma delle Costituzioni e Norme, in preparazione al XXXIII Capitolo generale.
2007 – XXXIII Capitolo generale (16.7-4.8.2007). Nuova revisione delle Costituzioni e Norme, con lo scopo di attualizzarli ed adattarli alla nuova situazione della Congregazione.
2008 (20.05) – Decreto di approvazione delle nuove Costituzioni e Norme dalla Santa Sede, da parte della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica, CIVCSVA in sigla.
2008 – Le Costituzioni e Norme sono pubblicate nelle diverse lingue (sei) ufficiali parlate in Congregazione e sono promulgate dal Preposito generale. Questa nuova edizione include gli emendamenti proposti e approvati dal capitolo generale XXXII del 2001 e la revisione effettuata in preparazione del capitolo XXXIII e approvata dai padri capitolari di quest’ultimo capitolo, con le osservazioni minori richieste dalla S. Sede (2008).
2013 – Un piccolo ritocco giuridico alle Costituzioni e norme è stato operato anche nel Capitolo generale XXXIV dell’agosto 2013, per introdurre di nuovo la presenza de jure del segretario generale nei capitoli generali. Il testo delle costituzioni e norme non è stato però, naturalmente, ristampato; ma gli atti del capitolo, distribuiti ai religiosi, portano il testo del nuovo articolo.
PUÒ SEMBRARE FACILE…
… rinnovare o riformare le Costituzioni e Norme di un istituto religioso. Tuttavia, non è questo il caso. Presento qui, sulla base dei dati forniti dal Padre Alvise Bellinato, Preposito generale d’allora, l’itinerario dell’ultima revisione o riforma del nostro diritto proprio (2007-2008).
In preparazione del XXXIII Capitolo generale (16.7-4.8.2007) P. Pietro Fietta che era Preposito all’epoca, fece l’indizione (norma 120/b e d) del Capitolo il 16.7.2006 (e la convocazione (norma 120/b ed i) l’8 aprile 2007) e, nella stessa circolare, istituì una commissione pre-capitolare; più o meno alla stessa data, incaricò il nostro giurista, P. Edmilson Mendes, di preparare una minuta per la riforma delle Costituzioni e Norme, da presentare al Capitolo generale. P. Edmilson realizzò il lavoro con l’aiuto e il consiglio del Professore P. Andrés Domingo Gutiérrez, consultore della CIVCSVA.
Parecchi religiosi mandarono al Capitolo e/o al Preposito delle osservazioni e proposte su e per la riforma dei nostri codici (cf. norma 120/a); tra essi, anche colui che sta scrivendo questo commento, mandò (4.6.2007) un documento di commento abbastanza lungo e dettagliato sul lavoro in corso.
Il Capitolo esaminò (costituzione 117 §5) il testo in minuta o bozza preparato dal Padre Edmilson Mendes e dal Professore Andrés Domingo Gutiérrez e altri documenti, come le lettere inviate.
Il Capitolo approvò all’unanimità le Costituzioni e Norme riformulate il 4.8.07, e incaricò, con delega, il Preposito generale (recentemente eletto, P. Alvise Bellinato) con il suo Consiglio di presentarli alla S. Sede, dopo una revisione stilistica per la necessaria revisione ed approvazione. Il Preposito ha proceduto così, secondo la sua informazione epistolare:
1. Ha istituito una commissione ad hoc per la revisione stilistica del testo approvato. La commissione era costituita dai padri Giovanni Di Biasio e Diego Spadotto. Essi presentarono il testo rivisto alla fine di novembre.
2. La Congregazione vaticana competente, per quanto riguarda l’approvazione delle Costituzioni, è la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica, CIVCSVA in sigla;
3. Il Preposito ha presentato le nuove Costituzioni, per l’approvazione, al Card. Franco Rodato, Prefetto della CIVCSVA il 5 Dicembre 2007, con lettera 261/2007;
4. La CIVCSVA, con la lettera del 14 Dicembre 2007 al Preposito generale, chiede un documento che dichiari il risultato della votazione ed approvazione del testo emendato delle Costituzioni e Norme dai Padri capitolari; ed una sinossi delle Costituzioni e Norme in due colonne, rispettivamente con il testo precedente (1996) e quello rinnovato (2007).
5. Il primo documento è presentato alla CIVCSVA il 9 Gennaio 2008. Il testo in due colonne, dopo un lungo e diligente lavoro di compilazione, è presentato il 22 Gennaio 2008.
6. Con lettera dell’11 Aprile 2008, la CIVCSVA comunica una serie di osservazioni e correzioni e chiede di correggere il testo in conseguenza.
7. Il Preposito ha presentato per la seconda volta le Costituzioni e Norme, corrette conformemente alle indicazioni di Roma, il 25 Aprile 2008, con lettera 053/2008;
8. Il 20 Maggio 2008, la CIVCSVA approva le Costituzioni con Decreto n° V.164/2007.
9. Il 4 Giugno 2008, con lettera 55/2008, il Preposito ha comunicato ai confratelli l’approvazione definitiva del testo emendato delle nuove Costituzioni e Norme approvato dalla CIVCSVA e ha inviato un allegato scannerizzato del decreto della CIVCSVA;
10. Il 14 Giugno 2008, con lettera 56/2008, il Preposito determinava che le nuove Costituzioni sarebbero entrate in vigore in tutta la Congregazione il giorno 16 Luglio 2008, dopo la vacatio legis.
11. Le Costituzioni e Norme vengono tradotte nelle sei lingue ufficiali della Congregazione, stampate e distribuite a tutti i religiosi nel luglio-agosto 2008.
8.7 I tempi di papa Paolo VI nella Chiesa e nel mondo
Giovanni Battista Montini nacque a Brescia il 26 settembre 1897, figlio di un giornalista che dirigeva il giornale cattolico della città e più tardi (1919) fu deputato del Partito Popolare Italiano di don Sturzo. Dopo gli studi liceali frequentati in un liceo di Brescia, Giovanni Battista entrò nel seminario maggiore diocesano dove seguì rapidamente gli studi ecclesiastici e fu ordinato prete nel 1920. In seguito frequentò a Roma gli studi teologici alla Pontificia Università Gregoriana e all’Università statale “La Sapienza” il corso di laurea in Lettere e Filosofia. Più tardi entrò nell’Accademia dei Nobili, scuola che formava i diplomatici della santa Sede.
Dopo un breve periodo con un incarico alla Nunziatura a Varsavia, diviene minutante alla Segreteria di Stato. Uscirà da questa solo nel 1954, essendo stato nominato arcivescovo di Milano. Non è però un prete di carriera. A Roma dedica molto del suo tempo e della sua passione alla vita pastorale, soprattutto come assistente della Federazione Universitaria Cattolica Italiana-FUCI, dal 1925 al 1933, in anni difficili ma anche stimolanti. La crisi del 1931 tra Pio XI e Mussolini a proposito della formazione della gioventù e delle associazioni cattoliche, che Mussolini voleva far confluire nella gioventù fascista, monopolizzando l’educazione dei ragazzi e dei giovani, interrompe questa esperienza dell’assistente Montini: esperienza che tuttavia resterà per lui fondamentale e marcante. Anche come papa, papa Montini sarà e resterà un papa dall’ “anima ACI”.
È nominato sostituto alla segreteria di stato da Pio XI (1937) e poi mantenuto tale da Pio XII e diviene un collaboratore molto prossimo a questi due papi, acquistando una grande esperienza delle cose della Chiesa e della sede romana, e anche della situazione del mondo, durante il periodo fascista (e nazista) e durante la seconda guerra mondiale. Nel 1952 viene nominato pro-segretario di stato per gli affari ordinari, parallelamente a monsignor Tardini, agli affari straordinari. Dopo due anni tuttavia viene nominato arcivescovo della sede prestigiosa di Milano, la sede di Sant’Ambrogio e di S. Carlo Borromeo. È dubbio se l’intenzione di Pio XII fosse quella di onorarlo, ed eventualmente di prepararlo come suo successore con un periodo di esperienza pastorale diretta in una sede importante, o se volesse soltanto allontanarlo da Roma, dove l’ambiente curiale non gli era favorevole. Sembra più probabile questa seconda ipotesi, dato che Pio XII non lo creò cardinale, pur essendo Milano, abitualmente e da secoli, sede cardinalizia.
Fu soltanto il 15 dicembre 1958 che Montini divenne cardinale, per iniziativa del papa Giovanni. A Milano il monsignore e poi il cardinale Montini esercitò l’incarico pastorale di arcivescovo con grande impegno e con passione, e vi è ricordato come un grande arcivescovo, ma trovò anche il tempo di continuare a dedicarsi allo studio e alla ricerca, leggendo, commentando, traducendo, soprattutto opere teologiche e filosofiche di matrice cattolica francese, particolarmente Maritain, senza escludere autori tedeschi e altri. Il fatto che gli autori italiani non lo ispirassero troppo conferma quanto si diceva sopra, sull’imbarazzante e triste assenza di importanti teologi e filosofi cattolici in Italia in quel decennio e nei decenni precedenti.
Giovanni Battista Montini, da giovane, era stato “tentato” di entrare nell’Ordine di S. Benedetto. Non lo fece, e scelse invece il clero diocesano, ma rimase pur sempre, anche nei momenti di azione più travolgente, come durante il concilio, un mistico e un contemplativo e, nello stesso tempo, in una personalità complessa, un uomo di azione.
La morte di Giovanni XXIII lo condusse al conclave che lo elesse vescovo di Roma e papa della Chiesa universale, al quinto scrutinio, il 21 giugno 1963. La scelta del nome di Paolo diceva la sua personalità indipendente e anche differente, ma la sua linea ecclesiale e pastorale continuava quella di Papa Giovanni. Il fatto che il concilio fosse in corso, anche se in realtà in fase di intersessione, e che tutti i vescovi della Chiesa fossero in più stretto contatto, senza dubbio influì sulla scelta di lui come papa. Fu visto dai membri del conclave come un “progressista moderato”.
Un anno dopo, l’enciclica Ecclesiam suam (8 agosto 1964) dà le linee del suo pensiero e del suo programma: precedendo il contenuto della costituzione Lumen gentium lascia da parte il concetto superato di Chiesa come società perfetta, e parla di Chiesa-comunione, che non è il “mondo”, ma dialoga con il mondo ed è nel mondo, come lievito evangelico. Distingue anche la Chiesa dal Regno di Dio, distinzione assolutamente importante, soprattutto dopo la Mystici corporis di Pio XII.
Paolo VI si trova chiaramente in linea con la maggioranza del concilio, di tendenze innovative, ma non vuole rompere con la minoranza, che tende a rassicurare, tra l’altro confermando il segretario di stato card. Amleto Cicognani, monsignor Dall’Acqua, eterno buon sostituto alla segreteria di stato, e l’aulico segretario del Concilio, monsignor Pericle Felici.
Il papa non partecipava alle sessioni conciliari, per lasciare più liberi i padri capitolari di esprimersi liberamente – e ciò senza dubbio doveva pesargli molto –, ma seguiva attentamente e attivamente i lavori, influenzandoli notevolmente. Giovanni XXIII assisteva alle sessioni a una televisore a circuito chiuso; Paolo VI viene informato quasi quotidianamente dal segretario di stato e ogni settimana dal segretario del Concilio e dai quattro moderatori da lui nominati il 13 settembre 1963, i cardinali Döpfner, Suenens, Lercaro e Agagianian. Ambedue i papi intervennero anche personalmente nelle grandi occasioni, con discorsi significativi e a volte con prese di posizione molto chiare. Papa Montini intervenne anche di più di papa Giovanni, in molti modi, anche perché ebbe più tempo rispetto a questi e perché la sua preparazione teologica (e anche curiale) era molto più profonda. Il regolamento fu rivisto più volte, le commissioni furono incoraggiate e guidate, il numero di testi o schemi fu ridotto da 70 a 16, si introdussero dei laici e – cosa inaudita! – delle donne; anche alcuni gesti spettacolari, come il viaggio in Terra Santa con il commovente e fondamentale incontro e abbraccio con il Patriarca Atenagora (4-6 gennaio 1964); l’invito al discusso ma stimabilissimo P. Bernhard Häring, redentorista, importante maestro di Morale, a predicare il ritiro di quaresima in Vaticano (quaresima 1964); la prima concelebrazione del papa con tutti i vescovi padri conciliari nell’aula del concilio (14 settembre 1964), in applicazione della riforma liturgica; la presidenza del Consiglio per l’applicazione della costituzione liturgica affidata al Card. Giacomo Lercaro di Bologna, anziché al prefetto della Congregazione dei riti (marzo 1964); il viaggio pastorale di Paolo VI in India, a Bombay (2-5 dicembre 1964); l’annuncio da parte del papa dell’istituzione del sinodo periodico dei vescovi (14 settembre 1965); la visita e il discorso all’ONU (4-5 ottobre 1965), su invito dell’organizzazione stessa, in cui il papa dichiarava la Chiesa “esperta in umanità”; la mutua revoca delle scomuniche tra Roma e Costantinopoli (7 dicembre 1965) indicavano chiaramente ai padri conciliari il cammino dell’apertura, dell’unità e del dialogo, la “brezza leggera” di cui si parlava sopra.
Si deve in particolare al papa Montini il risultato importante di “non imporre, come al Vaticano I, il punto di vista della maggioranza a una minoranza umiliata, ma al contrario di giungere, con uno sforzo più pronunciato di chiarificazione, a un consenso quasi generale dell’intera assemblea, cosa che lo condusse in certi casi a indebolire la portata del testo”.
D’altra parte, la preoccupazione del papa di evitare che la minoranza conservatrice riportasse un successo imprevisto al momento delle votazioni definitive dei testi, lo spinse a preparare e a promulgare una nota esplicativa o previa alla splendida e preziosa costituzione dogmatica Lumen gentium, nota che dispiacque a molti, anche se non fu tenuta in seguito molto in conto, e anche se in realtà non cambiava molto la sostanza della costituzione; e influenzò un certo addolcimento di vari altri documenti conciliari, particolarmente a riguardo dell’ecumenismo e dei rapporti con gli ebrei. Pure la definizione di Maria come “Madre della Chiesa”, di iniziativa del papa, non piacque a molti della maggioranza conciliare. Per fortuna non passò la proposta di definirla anche “mediatrice della grazie” o di “corredentrice”, cosa che sarebbe stata senza dubbio disastrosa da un punto di vista ecumenico, e molto dubbia da un punto di vista biblico.
Dopo la conclusione del concilio, Paolo VI provvide tra l’altro in pochi anni, con una rapidità sorprendente, alla riforma della curia romana, a partire dalla costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae del 15 agosto 1967. Si tratta di semplificazione (alcuni dicasteri obsoleti sono estinti), di decentramento (tentato, non sempre riuscito), di internazionalizzazione e di aggiornamento. Particolarmente interessanti i nuovi tre segretariati per l’unità dei cristiani, per i non cristiani, per i non credenti e la commissione pontificia Justitia et Pax. Il Santo Uffizio, il 7 dicembre 1965, aveva cambiato il suo nome in congregazione per la dottrina della fede; ma non sempre i metodi.
Il 19 marzo 1969 esce il motu proprio Ecclesiae sanctae, che ordina la riforma di tutti gli istituti religiosi e di vita consacrata, ha provocato anche il lungo e impegnativo capitolo generale straordinario speciale e la riforma dell’Istituto Cavanis. Un altro motu proprio del 21 novembre 1970 esclude i cardinali ultraottantenni dal conclave e dalla responsabilità dei dicasteri della curia, suscitando naturalmente qualche protesta.
Dal 1968 al 1972 segue un periodo particolarmente intenso di crisi e contestazione nella Chiesa, solo in parte legata alla rivolta degli ambienti giovanili e intellettuali nel mondo. La contestazione è parzialmente di carattere “tradizionalista”, con la nascita del movimento e dello “scisma” lefebvrista, in parte di carattere “progressista”, suscitata da chi voleva non solo l’applicazione del concilio, ma di andare oltre lo stesso. Questo periodo è caratterizzato tra l’altro dall’uscita di numerosi preti e religiosi dal ministero e dalla vita consacrata, provocando probabilmente come una necessaria “scrematura” tra chi aveva seguito coscientemente una vera vocazione e chi invece era divenuto prete e/o religioso/a a seguito di un’entrata troppo precoce in seminario ed era andato avanti nel cammino della consacrazione quasi per inerzia.
Fra gli altri fu attinto da questa crisi di vocazioni anche l’Istituto Cavanis. Questa crisi nell’Istituto, come del resto nella maggioranza degli altri istituti e diocesi, attinse sia religiosi adulti e formati, che finirono per uscire dalla Congregazione, sia la pastorale vocazionale e i seminaristi in formazione.
Uno degli elementi della crisi fu lo shock suscitato dalla promulgazione dell’enciclica Humanae vitae (25 luglio 1968), che ha posto a dura prova – e non per l’ultima volta – la fede e l’obbedienza di molti nella Chiesa.
La crisi tuttavia aveva carattere più ampio. P. Yves Congar, uno dei grandi protagonisti del concilio, parlava di “una mutazione socioculturale di cui l’ampiezza, la radicalità, la rapidità, il carattere cosmico non hanno niente di equivalente ad alcuna altra epoca della storia”. Lo stesso Congar mette in rilievo come concause della crisi il cosiddetto pensiero debole, lo sviluppo invadente delle scienze umane, la secolarizzazione, la crisi del magistero, come pure le possibilità della manipolazione dell’uomo, la rivolta della gioventù, la rivendicazione crescente delle crisi e in particolare la scossa data ai cattolici dalla Humanae vitae ebbero conseguenze immediatamente visibili nella frequenza dei cattolici nella celebrazione eucaristica e negli altri sacramenti a livello universale. In Italia vi si attribuisce tra l’altro la vittoria del “non” al referendum sul divorzio del 1974. Sul papa Montini, la crisi generale e ampia e tra l’altro la risposta nell’insieme negativa o dubbiosa da parte della base provocarono una fase terminale del suo pontificato caratterizzata da qualche fragilità e da un’incertezza che è stata chiamata “amletica” e, senza dubbio, da molta sofferenza.
L’anno santo 1975 tuttavia, con un aumento enorme del numero dei pellegrini a Roma (tra 10 e 12 milioni) poteva indicare un tempo di risoluzione almeno parziale della crisi e tempi migliori, almeno per la devozione popolare, il legame affettivo con il papa e con la santa Sede, e annunciava un tempo di grandi pellegrinaggi, di riunioni oceaniche, di adesioni di massa alle iniziative dei papi e, in quell’anno, particolarmente di Paolo VI.
Di lui, bisognerebbe ancora ricordare la Ostpolitik, che fu condotta saggiamente e ottenne un certo successo, preparando senza dubbio i successi maggiori del tempo di Giovanni Paolo II.
Paolo VI morì a Castel Gandolfo il 6 agosto 1978, a seguito di un edema polmonare, dopo alcuni mesi nei quali la sua salute si era gradualmente deteriorata.
Il papa Benedetto XVI il 20 dicembre 2012 autorizzò la Congregazione per il culto di Santi a promulgare il decreto sull’eroicità delle sue virtù; Giovanni Battista Montini, papa Paolo VI, è stato beatificato il 19 ottobre 2014 da papa Francesco in una celebrazione, tenutasi in piazza San Pietro, a conclusione del Sinodo dei vescovi straordinario sulla famiglia; e canonizzato, ossia dichiarato santo, da Pp. Francesco il 14 ottobre 2018.
8.8 Il concilio ecumenico vaticano II
La storia del concilio ecumenico vaticano II è troppo conosciuta e documentata perché sia conveniente tentarne qui una sintesi, che riuscirebbe comunque troppo corposa. La sua importanza è stata ed è straordinaria per la Chiesa e per il mondo, e anche, in piccolo, per la Congregazione delle Scuole di Carità. Si spera solo che, finalmente, questo concilio ecumenico possa essere applicato totalmente e che le sue costituzioni e i suoi decreti, dichiarazioni e altri documenti continuino ad essere letti e messi in pratica, anche tra l’altro nell’Istituto Cavanis.
8.9 I capitoli generali ordinari del XX e XXI secolo
Una delle caratteristiche dei capitoli dell’Istituto Cavanis nel secolo XX (come nei tempi seguenti, fino ad oggi) sono l’estrema regolarità, con un grande numero di capitoli ordinari e un piccolissimo numero di capitoli straordinari, a differenza dei capitoli del XIX secolo. Questi, come si sa, almeno fino al 1891, molte volte erano stati straordinari, sia per le difficili situazioni del tempo, sia per la mancanza della II parte delle Costituzioni, assenza che privava i religiosi Cavanis di una guida sicura nel modo di governare la congregazione, di riunire i religiosi, di rinnovare le cariche.
In effetti, tra il 1855, data del primo capitolo generale (chiamato provinciale) dell’Istituto Cavanis e il 1890, la congregazione ha avuto solo 5 capitoli generali ordinari (detti provinciali) in 35 anni; e nello stesso periodo 11 capitoli generali (detti provinciali) straordinari. I capitoli, ormai chiamati generali, sono stati più regolari dopo approvate le regole del 1891; si sono avuti allora fino alla fine del secolo XIX, tre solo capitoli generali, tutti ordinari.
D’altra parte, i cinque capitoli generali dal 1900 al 1916 sono, oltre che tutti ordinari, anche tutti molto monotoni e poco ricchi di contenuto: per lo più sono capitoli elettivi, dove a volte di trattava anche qualche questione minore, dopo le elezioni. Il capitolo del 1919 condotto mirabilmente dal P. Augusto Tormene, è il primo che sembri veramente un capitolo generale, e tra l’altro quello in cui seriamente si provvede all’espansione della Congregazione, e finalmente si decide di uscire dal Veneto.
Ma cominciamo l’analisi dei capitoli uno per uno.
Il 4° Capitolo generale ordinario fu celebrato a Venezia dal 5 al 7 agosto 1900 e dava inizio al nuovo secolo. Era il 9° capitolo generale ordinario della Congregazione, considerando nel conteggio anche i capitoli ordinari che erano stati considerati e chiamati (abusivamente a mio parere) “provinciali”.
Si può notare, di passaggio, che la data dei capitoli provinciali e poi generali era passata gradualmente dai mesi di settembre-ottobre (a volta anche dicembre) ad agosto, e più tardi, ai tempi nostri, passerà a luglio-agosto. Ciò dipende dallo slittamento delle grandi vacanze della scuola tra la fine dell’anno scolastico a l’inizio del successivo. Esse anticamente erano piuttosto vacanze autunnali, e poi sono diventate vacanze estive, attualmente situate, nei continenti boreali, nei mesi di luglio-agosto. I capitoli si svolgevano appunto durante queste vacanze, sia perché i vocali (e anche gli ambienti) erano più liberi, sia perché, soprattutto dall’inizio della congregazione fino quasi alla fine del secolo XX era appunto verso la fine di queste vacanze che si formavano le comunità e quindi si provvedeva al trasferimento dei religiosi in vista del nuovo anno scolastico.
Questo capitolo generale è il primo del XX secolo e rappresenta nel complesso una svolta. I compagni e immediati discepoli di Fondatori sono quasi tutti scomparsi, con l’eccezione del P. Giuseppe Da Col e del P. Giuseppe Bassi. Non per caso, “Preside” del capitolo, defunto ormai P. Casara, è appunto il P. Bassi, dato che P. Da Col, come preposito uscente, non era abitualmente considerato come possibile presidente della prima fase del capitolo. Era anzi consuetudine che il preposito non partecipasse alla sessione preliminare e che a questa, come alla fase delle elezioni dei definitori e del preposito, presiedesse l’“anziano”, che non era necessariamente il vicario di Venezia; in questo caso il P. Giuseppe Bassi.
P. Giovanni Chiereghin come sempre è nominato o “eletto” segretario dal presidente. Su proposta di quest’ultimo, furono eletti scrutatori i padri Giovanni Battista Larese e Augusto Tormene. I vocali erano sette. Furono eletti i cinque definitori nell’ordine seguente: Giuseppe Bassi, Giuseppe Da Col, Giovanni Chiereghin, Giovanni Battista Larese, Vincenzo Rossi. Si procedette all’elezione del preposito, a cominciare dal primo definitore. P. Bassi tuttavia chiese di essere dispensato per motivo di età e di poca salute, e lo fu, essendo approvata con il voto di tutti favorevolmente la sua dichiarazione e la sua preghiera di non essere eletto. P. Da Col non ricevette voti positivi e non fu quindi eletto. Fu eletto infine P. Giovanni Chiereghin, che accettò.
P. Tormene sostituì allora il P. Giovanni Chiereghin, ormai preposito, nella carica di segretario capitolare, con la sua elegante scrittura. Per maestro dei novizi fu rieletto lo stesso P. Tormene, con un procedimento raro: il primo scrutinio, effettuato con schede cartacee, non diede la maggioranza assoluta; si procedette allora per fabas, cioè probabilmente con le palline bianche e nere, e Tormene risultò rieletto. Furono eletti anche nove esaminatori, uno di più del necessario, ma si decise di rimanere con tutti e nove. Visitatore della casa di Venezia fu eletto, con lo stesso procedimento sopra, in due scrutini, P. Giuseppe Bassi. Seguirono decisioni di poco conto, e il capitolo fu dichiarato chiuso.
Nel capitolo locale della casa di Venezia, che seguì a stretto giro il capitolo generale, P. Giovanni Chiereghin, il nuovo preposito, fu eletto all’unanimità (salvo il suo stesso voto) anche rettore della casa di Venezia. Egli nominò P. Giambattista Larese suo vicario, P. Giuseppe Da Col maestro delle cose spirituali, Giovanni Battista Larese infine fu eletto anche procuratore, cioè economo.
Il 5° capitolo generale ordinario (10° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891, con le nuove regole) doveva tenersi ed era programmato infatti per il 6 agosto 1903, essendo il mandato ad triennium. Esso fu tuttavia aggiornato all’agosto 1904, e dai numerosi allegati previi agli atti del capitolo 1904, sembra di capire che il ritardo fu dovuto a una malattia (si può supporre che si trattasse di un grave esaurimento nervoso) del Preposito P. Giovanni Chiereghin.
Di questo suo decadere del resto ci si rende conto anche nella sua scrittura nel diario di congregazione e nelle altre carte, che, a partire soprattutto dall’inizio del 1903 e tanto più nel 1904 diventa sempre più piccola e a volte difficilmente comprensibile. Si potrebbe anche pensare che la malattia che gli impedì di concludere normalmente il suo triennio e di essere eventualmente rieletto consistesse nei prodromi della malattia che lo portò alla morte nel 1905.
Furono i quattro definitori e principalmente il buon vicario, P. Giambattista Larese, a consigliare e a chiedere al preposito di attendere un anno. Il P. Giovanni Chiereghin, più degli altri, era preoccupato della legalità di questo aggiornamento o ritardo di un anno. Si consultò tramite P. Larese, che gli mostrò il numero 164 delle Regole, il cancelliere del patriarcato di Venezia don o monsignor Marchiori, che consigliò di non preoccuparsi. Bisognava invece, probabilmente, chiedere la licenza della S. Sede.
In precedenza, il preposito Chiereghin aveva pubblicato due lettere di indizione del capitolo generale il 6 giugno 1903, fissando anche la data dell’inizio del capitolo, il 6 agosto 1903. Stabiliva che si procedesse all’elezione del discreto (delegato della casa) di Venezia e proponeva che si pregasse per l’evento con speciali preghiere.
La lettera non è di mano del preposito, che si limita a firmare, ma probabilmente il testo fu scritto sotto dettatura dal P. Augusto Tormene. Nel verso, si trova la preziosa lista di tutti i religiosi, sia padri e un diacono, sia, cosa molto più rara, dei cinque fratelli laici della famiglia di Venezia; il preposito così aveva richiesto, per essere sicuro che tutti conoscessero l’indizione. Nella stessa data, una analoga lettera di indizione del capitolo fu inviata anche alla comunità di Possagno, e qui si trovano le firme del tre padri soltanto, residenti a Possagno. Possagno non aveva un numero sufficiente di religiosi per inviare un “discreto”, ma ci avrebbero partecipato comunque di diritto due dei tre padri di quella comunità, i due definitori (consiglieri generali) P. Giuseppe Bassi e P. Vincenzo Rossi.
Tuttavia, su suggerimento della comunità, di amici, forse da parte del medico, e specialmente dei definitori, un po’ da tutti, P. Chiereghin (che a questo punto era chiaramente ammalato nel corpo e inquieto nel carattere e nello spirito, come accenna lui stesso in una lettera), durante l’estate 1903, passò qualche mese a Possagno, riposandosi e curandosi, pensando di prepararsi meglio al capitolo generale; ma senza molto risultato per la sua salute.
Segue, nell’ordine delle carte, una lettera dei due definitori di Venezia, scritta da P. Giambattista Larese e firmata da lui e da P. Francesco Bolech, e diretta, stranamente “Ai RR.i pp.i Definitori: P. Giovanni Chiereghin, P. Giuseppe Bassi e P. Vincenzo Rossi – in Possagno”, che dice:
“Attese le circostanze in cui ci troviamo, noi due Definitori di Venezia siamo persuasissimi di rimandare il Capitolo all’Agosto dell’anno venturo. Venezia 22 Luglio 1903”.
Ai padri Giobatta Larese e a P. Francesco Bolech insieme, cioè ai due definitori che appartenevano alla casa di Venezia, scrive così, o meglio detta la lettera al P. Giuseppe Bassi, e firma:
Possagno, 23 luglio 1903
Voi dunque, sentito il parere dei PP. Bassi e Rossi, siete persuasi di rimandare il Capitolo all’agosto dell’anno venturo. Ora mi si presentano due questioni; ve le espongo schiettamente; pensateci e nel tempo degli Esercizi, risolvete. 1.° È legale questa dilazione? Possiamo noi, motu proprio, protrarre di un anno l’esercizio del diritto che ha la famiglia (= la Congregazione) di eleggersi il suo Superiore? – 2° – È opportuna questa dilazione? Che cosa può fare un povero uomo decimato nelle sue forze, che si sente ricantare da ogni lato quiete e riposo, e che dopo due mesi di quiete e riposo poco o nulla ha migliorato? Se nello stato normale non mancarono qualche volta gli scatti piacevoli a questo e a quello, non saranno più frequenti nelle condizioni in cui si trova al presente? Ripeto, pensateci; per me devo sospirare e pregare di ritornare com’ero prima dell’82; ma non mi opporrò mai al volere chiaro e preciso della Comunità. Le stesse cose le scrivo ai Definitori di qua; tu conserva questa copia da unirsi agli altri scritti relativi, che devono essere conservati nell’Archivio.
P. G. Chiereghin preposito
Segue, tra gli atti capitolari (in realtà pre-capitolari) una lunga lettera di tre pagine e mezzo di P. Chiereghin (dettata il 7 agosto 1903 ad altro padre, forse a P. Vincenzo Rossi), diretta a tutti i “Sacerdoti della Congregazione dei Chierici Secolari delle Scuole di Carità”, e inviata alla comunità di Venezia, in cui riassume lungamente la situazione, il carteggio intercorso con i definitori, le questioni giuridiche, la decisione da lui accettata di posporre di un anno il capitolo. Da essa possiamo dedurre che P. Chiereghin si trovava in una situazione di malattia mentale di qualche tipo, di cui era conscio e che l’umiliava moltissimo: lui stesso scrive, domandando scusa per le sue mancanze “mancanze però che procederanno sempre dal difetto di testa, non dalla mancanza di cuore”. Ne ricaviamo anche che gli altri padri lo invitavano spesso ad acquietarsi, a calmarsi, ad accettare la situazione e il protrarsi di un anno del suo mandato. La lettera è molto lucida, ma al tempo stesso rivelatrice di un uomo malato, umiliato dalla situazione di salute e sofferente. Al tempo stesso però è una lettera in cui accetta la decisione del Definitorio, davanti alle “critiche circostanze in cui si trova l’Istituto. La lettera porta in calce le firme di nove padri (solo i preti questa volta) della comunità di Venezia.
I Definitori forse speravano che P. Chiereghin guarisse e si calmasse, e che si potesse quindi celebrare il capitolo l’anno seguente con maggiore tranquillità; purtroppo sembra che la malattia, o l’esaurimento nervoso, fosse irreversibile e la situazione non migliorò.
Un’altra lettera uguale, nella stessa data del 7 agosto 1903, il preposito consegnò alla comunità di Possagno, e qui troviamo le firme dei padri di Possagno, con l’aggiunta di quella del P. Enrico Calza, che doveva trovarsi a Possagno in vacanze.
La carta successiva è una breve dichiarazione di P. Giuseppe Bassi, primo definitore (non propriamente vicario; il vicario della casa di Venezia era P. Larese), così concepita:
“J.M.J.
Attese le circostanze piuttosto dolorose in cui ci trovavamo l’anno trascorso, i Definitori avevano deciso che il Capitolo generale fosse rimandato all’agosto dell’anno venturo. Ritengo quindi che il Capitolo si deva tenere quest’anno, previa la debita intimazione voluta dalle nostre Costituzioni.
Possagno, 18(?) Maggio 1904.
P. Gius. Bassi def.re
P. Vincenzo Rossi def.”
Si ha dunque l’impressione chiara che il Definitorio, ossia quello che si chiama oggi il Consiglio generale, avesse già dall’anno scorso assunto in pratica il governo della congregazione e che P. Chiereghin avesse rinunciato nell’ultimo anno a esercitarlo.
Tuttavia gli atti di questo capitolo contengono come allegato il testo base di una circolare del preposito P. Chiereghin (non firmata e non scritta materialmente almeno da lui), diretta a ciascuno dei Definitori, in cui dice:
“L’anno scorso, viste le condizioni speciali di salute del P. Bassi, cedetti alla opinione dei Definitori e continuai ad occupare un posto ormai superiore alle mie forze e tutti lo veggono: la mia energia è più che dimezzata, anzi quasi nulla, il male, i frequenti disturbi mi tolgono la calma dello spirito, la serenità della mente, la tranquillità del discorso, che si rendono necessarie in un Superiore. Per questo credo mio dovere il proporre di convocare per i primi di agosto il Capitolo generale che doveva tenersi l’anno scorso, perché l’Istituto possa avere un Superiore sano ed energico. Tuttavia, per non procedere di mia testa, volontà dei Definitori sarà la mia norma e regola.
Che il Signore e la Patrona dell’Istituto La illumini a consigliarmi per bene.
1° Maggio 1904”.
Senza dubbio i definitori diedero tutti e quattro il loro parere positivo. La lettera di risposta di P. Giovanni Battista Larese del 14 maggio 1904 è conservata negli atti di questo capitolo, in allegato non numerato, e conferma al preposito che egli giudica che bisogna celebrare il capitolo e che è bene che il P. Chiereghin stesso si ritiri, si riposi in “assoluta quiete, e di non aver né pensieri, né brighe, né affanni.”. Commuove questa lettera, perché sarà una delle ultime del P. Larese: morirà due mesi e un giorno dopo, il 15 luglio, prima del capitolo. P. Giovanni Chiereghin lo avrebbe seguito “per la strada di ogni uomo sulla terra” l’anno successivo, il 15 novembre 1905.
Risulta come settimo allegato ai verbali del capitolo la tardiva lettera di indizione (o intimazione, come scriveva P. Rossi, e poi P. Chiereghin in questa lettera) a firma di P. Chiereghin preposito, in data 2 luglio 1904, memoria della Visitazione della Vergine Maria e diretta ai religiosi della Casa di Venezia. È interessante la decisione che “Tutti i PP. godono della voce attiva, ma della passiva non godono i quattro ultimi ordinati, ossia P. Zamattio, P. Rizzardo, P. Calza e P. D’Ambrosi. I PP. Zanon, Borghese e Martinelli l’ottennero per dispensa nel Capitolo definitoriale del 1901.” La lettera dice anche “Ognuno comprende da sé quanto critiche siano le nostre circostanze, e quanto bisogno abbiamo che la Patrona dell’Istituto ci attiri benedizioni ecc.” Il preposito chiede che la lettera sia restituita con le firme di tutti i religiosi professi. Infatti, si trovano le firme di 12 padri (preti), 4 fratelli laici, con la caratteristica scrittura dei quasi illetterati (nonostante la firma del P. Preposito, professore di lettere e scrittore di parecchi libri sia pure abbastanza rozza) e dello studente Agostino Menegoz, evidentemente già professo. Una lettera uguale fu inviata alla casa di Possagno, e porta le firme dei tre sacerdoti di quella casa. Il tono delle due lettere è più sereno di quello dell’anno precedente.
Ci fu la riunione a Venezia per l’elezione del “discreto” della comunità per il capitolo, il 10(?) luglio 1904, “Presidente dell’adunanza era il dilettissimo P. Giovanni Battista Larese che appariva già oppresso dal male che quasi inopinatamente lo tolse il 15 luglio al nostro cuore.” Fu eletto discreto il P. Carlo Simeoni, tramite varie votazioni “per schedulas” e poi alcune per fabas queste evidentemente di ballottaggio.
Il Capitolo generale fu tenuto a Venezia, nella Casa primaria, come usava dire P. Chiereghin, in due giorni, il 9 e 10 agosto 1904. Gli atti, più ampi del solito, di questo capitolo, cominciano con un foglio che dice: “Carte relative al Capitolo generale che doveva tenersi nel 1903 e fu protratto per dolorose circostanze.”
Fu tenuta una seduta preliminare, come costumava a quel tempo, la sera del giorno 8 luglio, in conformità all’art. 170 delle Costituzioni del 1891, sotto la presidenza dell’anziano, nel caso il P. Giuseppe Bassi. I capitolari erano ben pochi:
Il secondo definitore e vicario della comunità di Venezia, P. Giovanni Battista Larese, sarebbe stato membro di diritto, ma era defunto una ventina di giorni prima.
I capitolari erano pochi, si diceva; ma rappresentavano due comunità insieme molto piccole: la Congregazione contava, in quei giorni, dopo due morti recenti: P. Giambattista Larese e fratel Clemente Dal Castagné, 16 padri, 6 fratelli laici, uno studente professo, per un totale di 23 professi. Non risultavano novizi.
Nella riunione preliminare, il presidente, o Preside come era chiamato, P. Giuseppe Bassi, “elesse” segretario del capitolo il P. Augusto Tormene; e furono invece eletti realmente, dal plenario, i PP. Francesco Bolech e Vincenzo Rossi come scrutatori. In seguito il discreto ossia rappresentante della Comunità di Venezia “presentò al Preside le sue proposte”; non è chiaro dal verbale se, in questa fase, le presentò per iscritto, ossia depositò il documento, o se lesse oralmente le proposte in questa riunione preliminare.
Il giorno seguente, 9 agosto, iniziò il capitolo generale in senso stretto, con la celebrazione della S. Messa e la prima riunione alle 9,15. In seguito “Il P. Chiereghin lesse una sua Relazione sullo stato della Congregazione, esponendo alcuni bisogni speciali della medesima; rese conto del suo governo duranti gli ultimi quattro anni: in ginocchio chiese a tutti perdono delle sue mancanze. E quindi consegnò il sigillo e le chiavi al Preside del Capitolo, P. Giuseppe Bassi: il tutto secondo n. 172 delle nostre Costituzioni”. Il Preside prima di dar inizio alle elezioni, tenne un dolce discorso, non nascondendo che “critiche assai sono le condizioni dell’Istituto, ma che non si deve per questo dubitare che sia abbreviata la mano del Signore”. E “si diffuse alquanto”, scrive il segretario P. Augusto Tormene.
“Dato quindi il segno della Campanella per le preghiere di Comunità, il Preside, coeteris respondentibus, recitò le Litanie e il Veni Creator: quindi si passò all’elezione del primo Definitore. Primo definitore riuscì subito per schedulas il P. Giuseppe Bassi, con 5 voti su 6 votanti. Per secondo Definitore ebbe per schedulas il P. Rossi 3 voti, il P. Fanton 2, il P. Bolech 1. Si dovette quindi venire alla votazione per fabas per ciascun candidato, che riuscì così: P. Rossi 4 sì, 1 no; P. Fanton 3 sì, 3 no; P. Bolech 3 sì, 2 no. Rimase quindi eletto Secondo Definitore il P. Vincenzo Rossi.
Per Terzo Definitore ebbe per schedulas il P. Fanton 2 voti, 2 il P. Chiereghin, 1 il P. Bolech, 1 il P. Tormene, Passati perciò alle votazioni per fabas, nessuno ebbe voti sufficienti e si dovette rinnovare la votazione per schedulas, la quale ebbe questo risultato: P. Fanton voti 2, P. Chiereghin 2, P. Bolech 1, P. Tormene 1. Quindi per ciascun candidato si fece la votazione per fabas, con questo esito: P. Fanton, 4 sì, 2 no; P. Chiereghin 2 sì, 3 no; P. Bolech, 1 sì, 4 no; P Tormene 1 sì, 4 no. Eletto quindi Terzo Definitore il P. Giovanni Fanton, il quale fu tosto chiamato a prender parte alle altre votazioni.
Quarto definitore riuscì eletto subito per schedulas il P. Francesco Bolech con 4 voti su 7 votanti: il P. Chiereghin ne ebbe 2, il P. Simeoni 1.
Per Quinto Definitore ebbe per schedulas il P. Tormene 3 voti, il P. Chiereghin 2, il P. Simeoni 1, il P. Dalla Venezia 1. Quindi fu necessaria la votazione per fabas, che non diede però nessun eletto. Rinnovatasi la votazione per schedulas, ebbe il P. Chiereghin 3 voti, il P. Tormene 2, il P. Simeoni 1, il P. Dalla Venezia 1. La votazione che dovette seguire per fabas riuscì così: P. Tormene 4 sì, 2 no; P. Chiereghin 3 sì, 3 no; P. Simeoni 2 sì, 4 no; P. Dalla Venezia 2 sì, 5 no. Eletto quindi il P. Augusto Tormene, 5° definitore.
Compiutasi l’elezione dei Definitori, si passò, secondo il N° 175 delle Cost. all’elezione del Preposito Generale. Fu proposto a candidato il Primo Definitore, il P. Bassi, ma egli espose varie ragioni per poter essere dispensato: ad ogni modo fu proposto ai Vocali una votazione con questa formula: “Se sì o no si accettano le ragioni di dispensa esposte dal P. Bassi”; e la votazione per fabas diede 4 sì, 2 no; e quindi si passò al secondo Candidato P. Vincenzo Rossi. Malgrado le sue proteste di inabilità e le sue preghiere ai votanti per esserne dispensato, la votazione per fabas diede 4 sì, 2 no; e quindi rimase eletto a Preposito Generale.
Recitato il Simbolo degli Apostoli, il nuovo Eletto diede il bacio di pace ai suoi elettori, mentre la campanella chiamava la Comunità a riconoscere e baciare il nuovo preposito. Si recitò quindi il Te Deum, come nel N° 176 delle Costituzioni”. E la riunione venne aggiornata al giorno dopo in cui si doveva tenere la seconda sessione.
Il nuovo governo era allora così costituito:
P. Vincenzo Rossi Preposito
P. Giuseppe Bassi 1° definitore
P. Giovanni Fanton 2° definitore.
P. Francesco Bolech 3° definitore
P. Augusto Tormene 4° definitore
Il 10 agosto si tenne la seconda e ultima sessione, dalla 9 di mattina. In primo luogo, dopo i soliti preliminari, si elesse il Maestro dei novizi, e si ottenne, a 5 voti a uno, il nome del P. Enrico Calza, con la maggioranza qualificata dei due terzi. Il verbale della riunione non lo dice, ma si capisce dagli allegati che, dovendo il preposito risiedere nella casa di Venezia, il nuovo eletto P. Vincenzo Rossi doveva lasciare la carica di rettore della casa di Possagno, e egli ne incaricò, già nella serata del giorno 9, il P. Augusto Tormene, e fu un’ottima scelta. Restava però vacante la carica di maestro dei novizi, che fino al capitolo era sostenuta dal P. Augusto Tormene. Si propose evidentemente il nome del P. Calza, anche se il verbale non lo dice; e si deve anche aver programmato l’iter: P. Enrico Calza era giovanissimo, aveva venticinque anni ed era stato ordinato prete di recente, da poco più di un anno, il 26 luglio 1903. Per essere maestro dei novizi, secondo le leggi canoniche dell’epoca, occorreva un minimo di trentacinque anni. Era necessaria dunque la maggioranza qualificata di 2/3 dei voti, e la dispensa della Santa Sede. P. Tormene, segretario del Capitolo, giovane evidentemente molto intelligente e capace, elegante nella scrittura e dotato di una bella prosa, scrive “Avendo così il P. Calza riportato i due terzi dei voti dei Capitolari, venne per ciò stesso per privilegio ammesso alla voce passiva (Vedi N° 155 delle Costituzioni) e insieme eletto maestro dei Novizi. Converrà però scrivere subito alla S. Sede per ottenere la dispensa dall’età, essendo necessario che il Maestro abbia 35 anni compiuti”.
P. Enrico Calza evidentemente godeva di molta stima, da parte del nuovo preposito e di quasi tutti i vocali, ottenne tale maggioranza, e subito il preposito scrisse una lettera al Patriarca di Venezia Aristide Cavallari, e gli presentò il P. Calza con le parole: “è giovanissimo, ma per le sue doti offre molti motivi a sperare un’ottima riuscita per il bene della Congregazione”, e chiede al Patriarca di voler a sua volta chiedere la dispensa al papa. Il primo incaricò il suo pro-vicario generale Canonico Francesco Pantaleo di scrivere al secondo, chiedendo la dispensa. Il Papa Pio X, amico dell’Istituto Cavanis che conosceva molto bene, si limitò a scrivere in calce alla lettera del canonico “Juxta preces pro gratia. Die 13 Sextilis An. 1904. Pius PP.X”.
Furono eletti in seguito gli esaminatori, per le ammissioni alle vestizioni e professioni; bisognava eleggerne otto, ma per riserva se ne elessero dieci: era quasi tutta la congregazione! Furono eletti i PP. Giuseppe Bassi, Giovanni Fanton, Giovanni Chiereghin, Francesco Bolech, Carlo Simeoni, Antonio Dalla Venezia, Augusto Tormene, Francesco Saverio Zanon, Basilio Martinelli; più il P. Vincenzo Rossi che “come Preposito, è Esaminatore nato”!
P. Chiereghin a questo punto, come ex-preposito, sostituì P. Larese, procuratore ossia economo generale recentemente defunto quasi all’improvviso, nel rendiconto economico; e qui c’erano delle irregolarità, e si provvide a rinforzare in qualche modo il regolamento dell’economo e l’uso delle tre chiavi della cassaforte, che dovevano essere tenute da persone diverse, e non tutte dall’economo.
Le proposte del discreto della Casa di Venezia, P. Carlo Simeoni, furono spacciate rapidamente e senza molta difficoltà; così pure alcune altre cose minori. Il capitolo terminava alle ore 16, con l’elezione del visitatore della casa di Venezia, di cui ci si era dimenticati, e quindi con l’elezione a questo fine del P. Giuseppe Bassi con 6 voti, il P. Chiereghin ne ebbe uno. E così si concluse il capitolo generale.
Il giorno stesso e subito dopo, alle 16 ebbe luogo il capitolo definitoriale, cioè la riunione del preposito con i consiglieri generali, e fu costituita la famiglia religiosa di Possagno con tre padri, e non si fa menzione di nessun fratello; tutti gli altri evidentemente costituivano la famiglia religiosa di Venezia. Si elessero anche, mediante schede, i quattro esaminatori per le sacre ordinazioni (i PP. Giovanni Chiereghin, Francesco Bolech, Antonio Dalla Venezia e Giovanni Fanton) e dei confessori da presentarsi all’ordinario.
Il preposito suggerì che a Possagno ci fossero sempre non uno ma due fratelli laici, e che essi vi andassero a turno, a bene della loro salute. Presentò poi, come ex-rettore della casa di Possagno, il bilancio e un inventario molto accurato degli oggetti e mobili di quella casa, ricordando che ciò che non risulta nell’inventario appartiene al Comune di Possagno.
A Venezia il giorno dopo, 11 agosto, si tenne il capitolo locale, fungendo da Preside il P. Giovanni Fanton, come anziano, che nominò come segretario P. Carlo Simeoni e come scrutatori i padri Francesco Bolech e P. Antonio Dalla Venezia. Si elesse come rettore lo stesso preposito, P. Vincenzo Rossi, con 9 voti, 1 scheda bianca e un voto “disperso”. Entrò allora in sala il P. Vincenzo Rossi, nuovo rettore, nominò come suo Vicario per la casa di Venezia e come Prefetto degli Studi il P. Antonio Dalla Venezia; confermò P. Francesco Bolech nella carica di Sacrestano e confermò pure P. Francesco Bolech come bibliotecario, e inoltre lo nominò Maestro delle Cose Spirituali. Si elesse poi il Procuratore, ossia economo, con due scrutini, rispettivamente per schedulas e per fabas, e riuscì eletto il P. Carlo Simeoni.
La comunità, incluso il preposito-rettore, comprendeva 12 padri, che si firmarono in calce al verbale; 4 fratelli laici, che non si firmano e non avevano partecipato al capitolo locale, e dei quali non si parla, e 1 studente professo.
A questo punto vale la pena riassumere in poche parole il discorso sullo stato della Congregazione pronunciato dal preposito uscente P. Chiereghin, nella prima sessione.
Ricorda in primo luogo gli eventi di “consolazioni”, secondo il termine tipicamente ottocentesco, anche se siamo già nel Novecento,
Tra gli eventi tristi, P. Chiereghin, che senza dubbio non era portato a scoppi di allegria e di ottimismi date le condizioni di salute, ricorda:
Insomma, non erano stati quattro anni particolarmente felici, sotto molti aspetti.
Il 6° capitolo generale ordinario (11° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) del (23)-24-25 luglio 1907.
Esso fu indetto dal P. Vincenzo Rossi preposito generale “nella seconda metà del p. v. mese di luglio a. c. 1907”. Il foglio, breve e laconico, è sottoscritto, come richiesto dal preposito dai padri, ossia membri sacerdoti; e sono dodici. Meno di quelli del capitolo precedente. Tolti il preposito e i quattro definitori, la Congregazione aveva sei padri e probabilmente sei fratelli e uno studente professo.
Il 13 giugno 1907 la comunità di Venezia si riunì in capitolo locale, assente come d’abitudine il preposito, e con la presidenza del vicario, P. Antonio Dalla Venezia, con 8 vocali, per eleggere il “discreto” ossia il delegato al Capitolo. Anche questa volta sarebbe stato l’unico delegato. E anche questa volta i vocali di diritto avrebbero subissato l’unico vocale eletto.
Fu eletto P. Francesco Saverio Zanon, con 5 voti; ne aveva ricevuti poi due P. Agostino Zamattio e uno P. Giovanni Rizzardo.
Il capitolo generale si riunì la sera del 23 luglio 1907, a Venezia, per la riunione preliminare, cui come di prassi non era presente il preposito, P. Vincenzo Rossi nella fattispecie; sotto la presidenza de Preside, cioè l’anziano, P. Giovanni Fanton, che nominò P. Carlo Simeoni come segretario del capitolo e propose per scrutatori del Capitolo P. Antonio Dalla Venezia e P. Enrico Calza; e questi due, a voti segreti per mezzo di schede furono eletti entrambi a pieni voti.
I capitolari erano:
P. Vincenzo Rossi – Preposito
Il giorno dopo, 24 luglio 1907, iniziò il capitolo vero e proprio con la prima sessione. Il preposito P. Vincenzo Rossi presiedeva e, dopo le preghiere d’uso, tenne il discorso o resoconto sullo stato della Congregazione, in modo più ottimistico di quanto era accaduto nel capitolo precedente. Compiuto le formalità d’uso per il passaggio di governo, con la consegna del sigillo e delle chiavi, iniziarono le elezioni. Furono eletti i definitori in quest’ordine:
Si passò quindi ad eleggere il preposito: fu eletto preposito (o meglio, rieletto) per fabas P. Vincenzo Rossi con 5 voti sì e uno no.
Durante la votazione si decise anche all’unanimità di mutare le parole della regola 196: “Non si pubblicherà l’esito della votazione se non sarà compiuta la votazione dell’ultimo dei proposti” nelle seguenti parole: “E si pubblicherà l’esito appena riesca eletto uno di quelli che ebbero i voti”.
Il giorno successivo, 25 luglio, nella seconda sessione e ultima, si compirono altre votazioni: l’elezione del maestro dei novizi, e fu rieletto a tale carica P. Enrico Calza; in seguito si elessero gli esaminatori, di cui si parlava nel capitolo precedente. La cosa suscitò una lunga discussione “sul senso ambiguo esistente nelle Regole di dare la voce passiva a chi non ha i dieci anni di magistero; si passò alla votazione delle tre seguenti proposte al caso:
Riguardo al privilegio di cui si parla al N° 155 §I parte II delle Costituzioni, il Capitolo Generale giudica quanto segue:
Gli esaminatori eletti furono dieci su undici sacerdoti presenti in Congregazione, cioè il 91 per cento dei preti. Era una cosa abbastanza ridicola. Evidentemente il numero di esaminatori era troppo elevato per una comunità così piccola, che per di più aveva al momento un solo studente professo da esaminare!
Nella stessa sessione si propose e approvò, “per alzata e seduta” una cosa strana: “che il Segretario del Capitolo Generale resterà Segretario anche per la famiglia alla quale appartiene, fino al nuovo Capitolo Generale. Peccato nel caso specifico, perché il segretario eletto per questo capitolo generale, il P. Carlo Simeoni, aveva una scrittura piuttosto rozza e si esprimeva in una prosa assai poco brillante.
Si presero decisioni anche su un miglioramento della formazione dei novizi e dei fratelli laici, anche quest’ultima affidata al maestro dei novizi. Si affidò a P. Francesco Saverio Zanon la compilazione di una raccolta dei decreti capitolari.
Si regolò la strana pratica del baciamano, evidentemente già in uso, ma della quale non si era mai sentito parlare: i seminaristi fino all’ordinazione presbiterale e i fratelli laici fino alla professione perpetua, dopo la cena, “piegando il ginocchio bacieranno (sic) la mano al Superiore od al suo Vicario” e si prescrivevano altri dettagli. Si confermò la ripresa del costume (che era stata abbandonata) della benedizione impartita dal superiore la sera dopo la cena a tutti i religiosi. Insomma, la cena tendeva a diventare una liturgia. Ora questa benedizione s’impartisce dopo la preghiera comunitaria dei vesperi e della meditazione serale, in modo liturgico.
Si passò poi, dopo cena, a dibattere questioni amministrative; si votò e approvò la vendita della casa di S. Sofia e di quella a S. Biagio a Lendinara, dato che quest’ultima casa era stata chiusa da 13 anni: si approvò fissando anche il prezzo della prima “a non meno di Lire 5000 nette. Purtroppo non si spiega bene di quali case si tratta e non se ne dà l’indirizzo. Quella di S. Sofia doveva essere una casa intestata a uno dei padri, e non l’antica casa di comunità, che era stata incamerata dal demanio nel 1867; non risulta che fosse stata ricomprata. L’altra invece doveva essere la casa che si era lasciata in prestito e poi in affitto alle suore, probabilmente quelle della Nigrizia. Della vendita e/o dell’affitto di queste case si tratta più ampiamente alla fine del secondo capitolo di questo libro sulla casa di Lendinara.
Della lunga relazione e delle proposte e richieste del discreto di Venezia ricorderemo solo l’essenziale:
Il capitolo si conclude con la decisione, che poi non si compirà, di concedere temporaneamente un padre e un (o più) fratello (-i) laico (-i) per collaborare con un sacerdote di Treviso, che è chiamato Professor Mazzarollo nell’opera da lui fondata. La decisione è approvata con 6 voti su 7. Il Capitolo si concludeva così la sera del 25 luglio 1907.
Il 7° capitolo generale ordinario (12° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) del 17-19 luglio 1910, a Venezia.
La breve lettera di indizione, redatta dal Preposito, P. Vincenzo Rossi, è del 16 giugno 1910, poco più di un mese prima del Capitolo. La lettera porta in calce il nome dei padri di Venezia e Possagno. In tutto sono 12 religiosi sacerdoti, compreso il preposito.
L’elezione del discreto di Venezia si tenne in capitolo locale il 26 giugno, con nove partecipanti; la comunità di Venezia aveva dunque 9 su 12 dei sacerdoti della Congregazione; ce n’erano dunque tre soli, oltre a fratelli, a Possagno, che anche questa volta non poteva esprimere un discreto. Contrariamento al solito, partecipava alla riunione anche il P. Rossi, non come preposito ma come rettore, come fu precisato. Non sembrava una buona idea. Partecipavano anche i padri Agostino Zamattio e Giovanni Rizzardo, nonostante risiedessero a Possagno, perché il Preposito li aveva inviati lì ma avvertendoli che rimanevano membri della comunità di Venezia.
Appare in questa riunione, forse per la prima volta, quella che poi divenne un’abitudine, di eleggere scrutatori “il più anziano ed il più giovane”.
Dopo tre votazioni per schede, in cui sembrava fosse stato eletto P. Zanon, alla quinta votazione fu eletto invece P. Giovanni Rizzardo, anche se non aveva propriamente la voce passiva secondo la regola, ma l’aveva ricevuta nel capitolo precedente.
La seduta preliminare si tenne la sera del 17 luglio 1910. L’anziano, P. Carlo Simeoni, nominò segretario P. Giovanni Rizzardo e propose a scrutatori i PP. Basilio Martinelli ed Enrico Calza, che furono eletti a pieni voti. Si viene sapere, da questo verbale della riunione preliminare, che il Preposito non godeva al momento di buona salute.
I padri Capitolari erano:
P. Vincenzo Rossi, preposito
Nelle elezioni, furono eletti i cinque definitori con il risultato e l’ordine seguente:
P. Carlo Simeoni.
P. Dalla Venezia.
P. Vincenzo Rossi.
Il nuovo preposito e il suo consiglio si presentano allora nella forma seguente:
P. Antonio dalla Venezia Preposito generale
Nel pomeriggio si realizza una breve terza sessione in cui si dibattono alcune questioni: gli studi dei chierici, la formazione (“educazione”) dei giovani sacerdoti.
Tra gli atti, segue un fascicolo di deliberazioni del Capitolo. Eccole in breve:
In complesso questo capitolo generale del 1910 è uno dei più ricchi di decisioni, riflessioni, arricchimenti. Si preparava, a quanto pare, un tempo migliore.
L’8° capitolo generale ordinario (13° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) del 23-26 luglio 1913.
P. Antonio Dalla Venezia, Preposito generale, inviò la lettera d’indizione in data 24 giugno 1913. Come al solito, la lettera reca in calce la firma di tutti i sacerdoti delle due case: 10 a Venezia e 4 a Possagno. I padri (preti) erano dunque 14 all’epoca. Non si parla dei fratelli laici.
Il foglio 2 riporta il verbale della riunione del 1° giugno 1913 per eleggere il discreto di Venezia, in cui uscì eletto P. F.S. Zanon, al quarto scrutinio.
La Famiglia di Possagno, che questa volta aveva quattro membri, votò ed elesse come discreto P. Agostino Zamattio.
La seduta preliminare si tenne a Venezia il 23 luglio 1913. Il Preside, ossia l’Anziano che presiedeva, secondo l’usanza, era il P. Carlo Simeoni. Egli nominò segretario del Capitolo il P. Augusto Tormene e propose a scrutatori i PP. Basilio Martinelli e Agostino Zamattio, che riuscirono eletti a pieni voti. Il Preside annunciò che le sessioni del Capitolo generale si sarebbero tenute nell’oratorio domestico (ora aula magna), dopo aver trasportato il SS.mo Sacramento in Chiesa di S. Agnese.
I capitolari erano:
P. Antonio Dalla Venezia Preposito e rettore della casa di Venezia
P. Vincenzo Rossi3° definitore
“Accennò alle due nuove opere che ebbero vita nell’Istituto, cioè la Congregazione dei Figli di Maria e il Circolo giovanile S. Giuseppe Calasanzio; con animo riconoscente al Signore ricordò l’Ordinazione Sacerdotale di tre nostri giovani”. Ricordò con gioia il numero crescente di seminaristi, cioè chierici e aspiranti.
Fece poi leggere dal segretario i bilanci delle due case. Infine, secondo il rito previsto, chiese perdono delle colpe, consegno al Preside sigillo e chiave e si sedette nel posto che gli spettava per precedenza.
Si passò alle elezioni, dopo lette le costituzioni relative. Furono eletti definitori nell’ordine:
P. Augusto Tormene, al primo scrutinio.
P. Vincenzo Rossi, ugualmente.
P. Augusto Tormene preposito generale.
P. Vincenzo Rossi 3° definitore.
Si discussero poi un’infinità di questioni minori, in buona parte corrispondenti alle proposte del P. Zanon, che realmente aveva fatto la parte del mattatore in questo capitolo. Ne scegliamo alcune più importanti.
La terza sessione si tiene il 26 luglio 1913 pomeriggio. Si fissano delle norme per il bibliotecario e sacrista, e alcuni dettagli liturgici.
Si conferma una norma evidentemente già in uso, che bisogna conoscere per capire il senso del termine “maestro dei novizi” in quei decenni: “Sia osservato esattamente quanto fu prescritto nel Capitolo del 1907. In particolare come i Chierici sono soggetti al Maestro dei Novizi fino al Sacerdozio; anche i Fratelli Laici, almeno per un triennio dopo la Professione perpetua assistano alla lettura Spirituale e alle pratiche di pietà nel Noviziato”. Questa norma rende chiaro che il Maestro dei novizi in realtà era il formatore universale della formazione iniziale in senso molto ampio; e che quando si parla, come edificio e come istituzione, del Noviziato, in realtà si parla di tutto l’ambiente e il sistema della formazione. Per la verità, nel capitolo del 1907 si era deciso soltanto di affidare al maestro dei novizi anche la formazione dei fratelli laici, novizi e professi.
Si elegge in seguito il visitatore della casa di Venezia: si decide che durante il triennio sia tale il più anziano dei padri residenti a Possagno.
Si approvano in seguito le seguenti tre organizzazioni già in atto: la Congregazione mariana, il Circolo giovanile S. Giuseppe Calasanzio e l’Osservatorio meteorologico di Possagno. I primi due sono approvati all’unanimità. Sul terzo non si vota e se ne prende soltanto atto.
Il Capitolo generale si conclude così a questo punto, come al solito con il richiamo al segreto su quanto si è detto e fatto in capitolo. Questa volta il P. segretario parla di “dovere della taciturnità”!
Il 9° capitolo generale ordinario (14° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) del 16-18 luglio 1916. L’Italia, entrata nelle ostilità il 24 maggio 1915, era già in piena guerra. Parecchi membri giovani della Congregazione erano stati richiamati.
P. Augusto Tormene, Preposito generale, inviò la lettera di indizione in data 9 giugno 1916. Come al solito, la lettera reca in calce la firma di tutti i sacerdoti delle due case: 9 a Venezia e 4 a Possagno; in tutto 12 congregati sacerdoti, con diminuzione di una unità rispetto al capitolo precedente. Non si parla purtroppo, come al solito, dei fratelli laici.
Il secondo foglio degli atti riporta il verbale della riunione del 16 giugno 1916 per eleggere il discreto di Venezia, in cui uscì eletto P. Giovanni Rizzardo, con 8 voti su 9, l’altro voto, andato al P. Giuseppe Borghese, essendo dato evidentemente dal P. Rizzardo. Il verbale di questa elezione di discreto spiega l’assenza di P. Arturo Zanon, che si era rifiutato ripetutamente e definitivamente di partecipare e di firmare questo verbale (e la lettera di indizione).
La Famiglia religiosa di Possagno, che anche questa volta aveva quattro membri, votò ed elesse come discreto P. Giovanni D’Ambrosi.
La seduta preliminare del capitolo si tenne a Venezia il 16 luglio 1916, nella festa della Madonna del Carmine, titolo principale con cui si venera la Vergine Maria in Congregazione. Il Preside, ossia l’Anziano che presiedeva, secondo l’usanza, era ancora una volta P. Carlo Simeoni. Si nominò il segretario, P. Giovanni Rizzardo; e si elessero i due scrutatori, i PP. Basilio Martinelli e Agostino Zamattio; ma osservando P. Vincenzo Rossi che essi appartenevano alla stessa famiglia religiosa, si votò di nuovo e uscirono eletti questa volta i PP. Basilio Martinelli e P. Antonio Dalla Venezia, all’unanimità, senza votazione.
Si discusse un problema di procedura: quando i due discreti presentarono in iscritto le loro proposte, in seguito a un dubbio espresso dal P. Rizzardo, P. F.S. Zanon ricordò che la prassi era di depositare le due relazioni tra gli atti del capitolo, e che, numerate le proposte, sarebbero poi state presentate al capitolo quelle che il Preside e gli scrutatori “giudicassero di presentare all’adunanza”.
I capitolari erano i seguenti:
P. Augusto Tormene preposito cessante e rettore della casa di Venezia
P. Vincenzo Rossi definitore
P. F.S. Zanon maestro dei novizi
Sulla situazione economica, diede un panorama positivo, e osservò che la comunità non aveva avuto troppo a soffrire dai disagi dovuti alla guerra.
Dopo le solite formalità e le preghiere, si passò alla fase delle elezioni, con nove votanti. Furono eletti:
P. Augusto Tormene 1° definitore, in uno scrutinio
Si venne direttamente all’elezione del preposito, e si ottenne come eletto o meglio rieletto il P. Augusto Tormene. Il governo e consiglio erano allora così costituiti:
P. Augusto Tormene preposito generale
P. Vincenzo Rossi 1° definitore
La seconda seduta si tenne il giorno dopo, 18 luglio 1916. Si elesse in primo luogo il maestro dei novizi, e fu eletto il P. Basilio Martinelli, dopo un’infinità di votazioni. Furono poi eletti, più semplicemente, nove esaminatori, con qualche difficoltà per l’ultimo nome proposto.
Si passa alla disamina della situazione economica. I revisori dei conti eletti dal capitolo precedente garantirono della correttezza del bilancio. Si deciso poi che era necessario seguire le disposizioni delle S. Sede nell’elezione dei Probi viri o revisori dei conti, e cioè che la loro elezione “sia fatta dal Capitolo Generale nella sua seduta preliminare, e possibilmente non cada su quelli che fossero stati, nel triennio, membri del Consiglio economico”.
Si leggono a seguire cinque proposte del discreto (delegato) di Venezia e una di quella di Possagno. Le altre proposte, che erano d’interesse locale, furono lasciate ai rispettivi rettori, il Preposito per Venezia. Il preposito e in genere i capitolari sono favorevoli allo spirito delle proposte di Venezia, ma vedono che sarà necessario trattarne in altro momento. Sull’ordinamento economico, dopo aver consultato un consultore della S. Congregazione dei Riti, tramite l’amico monsignor Pescini, si approva la formula: “Sull’ordinamento economico resti il deliberato dal Capitolo precedente (conforme all’Istruzione della S. Sede) e per uniformarsi alla nostra regola 192, d’ora avanti si chiami in consiglio [economico] anche il Sagrista, dove sia distinto da Consigliere e goda di voce passiva.”
Si vota per eleggere il visitatore della Casa di Venezia, ed è eletto il P. Antonio Dalla Venezia al secondo scrutinio.
È in questo momento di questo capitolo che si è introdotto il costume, ancora in vigore al tempo del Concilio Vaticano II, di proporre dopo il De Profundis della sera, l’argomento della meditazione del giorno successivo e si annunci in anticipo, per il giorno dopo, l’eventuale commemorazione di confratelli defunti.
La “Relazione e proposte del Discreto della Casa Madre di Venezia”, che era P. Giovanni Rizzardo, è un testo molto verboso e nel genere letterario più simile a un sermone che a una relazione. Si può capire che sia stato rapidamente spacciato nella riunione plenaria. La maggior parte parla della scuola come unico e assoluto ministero dei Cavanis e lo struttura in modo molto piramidale ed esclusivo.
In secondo luogo si dimostra contrario al Circolo giovanile S. Giuseppe Calasanzio, e rimpiange che non si sia messo in pratica ciò che si era deciso (stranamente) nel capitolo precedente, cioè che i membri del Circolo non appartenessero alle nostre scuole. Gli pareva che ciò provocasse disordine. Rivoluzioni, contraddizioni con la Congregazione mariana, senza contare che alcuni membri del circolo appartenevano anche alla scuola e alla congregazione mariana. Criticava del resto anche questa, che gli sembrava creasse degli alunni privilegiati e oziosi di serie A, rispetto agli altri alunni, di serie B. E questo può capitare.
Critica pure “il disagio dell’attuale ordinamento del Novizi e Chierici nelle relazioni con la Comunità”. Non manca di criticare i fratelli laici e l’organizzazione della biblioteca. L’unica proposta non critica è quella di preparare uno dei nostri, chierico o prete, per suonare l’organo.
Se non bastasse, perché i capitolari si sentissero sommersi e affogati dalle osservazioni, più che da proposte, del P. Rizzardo, esistono anche altri due fascicoli di relazioni del discreto di Venezia L’allegato B1 espone:
La necessità di un maggior controllo degli alunni negli oratori;
Proposta di raccogliere memorie e testimonianze su P. Sebastiano Casara.
L’allegato B2 espone poi una lunga bozza intitolata: “Norme per l’Assistente dei Fratelli Laici”.
La “Relazione e proposte del Discreto della Casa di Possagno”, che era P. Giovanni D’Ambrosi, è molto più modesto e umile, e il suo autore sarà stato benedetto dai Capitolari: contiene una sola proposta: “…è sentito il bisogno vi sia introdotto un tenore comune nelle Pratiche di pietà, atteso che il Congregato, abbandonato al proprio spirito, trova, nell’ambiente del Collegio, più difficile l’osservanza della vita religiosa”.
Questa osservazione corrispondeva a quella che sarà sempre la difficoltà negli internati: mentre negli esternati i religiosi hanno il tempo libero e necessario alla mattina presto, prima dell’arrivo degli alunni, e hanno (avevano soprattutto, prima che la scuola continuasse anche dopopranzo come oggi) il pomeriggio completo e la sera liberi per la preghiera comunitaria, i capitoli locali, i casi di coscienza e così via; negli internati invece i religiosi, e soprattutto gli assistenti di disciplina (i padri giovani ed eventuali chierici), erano occupati con i ragazzi dell’internato 24 ore su 24, ed era molto più difficile l’osservanza regolare delle pratiche di pietà e altri impegni di comunità. Provare per credere.
Seguono tre missive tecniche rivolte dal preposito P. Augusto Tormene, scritte probabilmente prima della rielezione, e dirette ai capitolari. Hanno le sigle di allegati D1, D2 e D3.
La prima parla (D1) dell’Amministrazione economica, alla luce dell’Istruzione della S. Congregazione dei Religiosi del 7 settembre 1909.
La seconda (D2) ha lo stesso tema, ma svolge in dettaglio e con ampia citazione di nostre regole, l’idea che la congregazione Cavanis ha già abbastanza Consigli di vario livello (P. Tormene, facendo qui secondo la mia opinione, un po’ di confusione, parla di questi tre livelli di consigli: 1) Capitolo (=Consiglio) generale; 2) Consiglio locale; e 3) Consiglio Definitoriale (in luogo del provinciale, dato che ancora non avevamo province). Gli sembra dunque che non sia necessario, nella nostra piccolezza, aggiungere un altro consiglio, quella economico-amministrativo di cui si è parlato nei capitoli precedenti (e del resto anche in questo del 1916).
La terza (D3) ricalca più schematicamente il documento D2. Insieme le tre missive del Preposito cessante e poi rieletto contengono nove pagine.
Il 10° capitolo generale ordinario (15° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) del (15)17-18 luglio e 31 luglio-1° agosto 1919.
L’Italia aveva vinto e finito la guerra, con la data convenzionale del 4 novembre 1918 ed era durata tre anni e mezzo circa, per quanto riguarda la partecipazione Italiana. Alcuni membri giovani della Congregazione erano morti tragicamente (tre). Altri erano segnati per tutta la vita da malattie del corpo e dello spirito. Chi scrive ne ha conosciuto personalmente più d’uno. Altri erano ritornati in buona salute, ma chi può dire la sofferenza nel profondo del cuore? Qualcuno poi dei membri della Congregazione, che non avevano partecipato alla guerra, che non avevano visto le trincee fangose e insanguinate, si preparavano a cantare inni e cantici alla gloria nazionale. Leggevo oggi la frase scritta sul “monumento della piazza del cannone”, o sul “cannone”, come si chiama semplicemente il monumento ai caduti del quartiere Casilino a Roma sud-est, all’incrocio della Via consolare Casilina con Via Francesco Baracca e via Carlo della Rocca, non lontano dal nostro Istituto e della parrocchia dei SS. Marcellino e Pietro a Torpignattara. In un improbabile fusione di colonne, ruderi e di un modesto cannoncino austriaco, preda di guerra, una lapide dice “Balza dal nostro cenere / come da rovine antiche / la gloria immortale / della Patria”. Vallo a raccontare alle madri, ai padri, alle fidanzate o mogli e ai figli di quei caduti, forzati della gloria.
Erano ritornati a Venezia tutti i religiosi o seminaristi Cavanis che non erano morti al fronte come il giovane fratello Corrado Salvatori, prigioniero, fuggitivo e affogato come il novizio Nazzareno de Piante o in esilio e di malattia come fratel Corrado Salvadori. Alcuni erano ritornati direttamente dal fronte, altri da lunghe prigionie, altri dall’esilio (sia pure tra cari amici Orioniti) di Tortona; due erano ritornati dal loro impegno veramente pastorale di accompagnare i Possagnesi a Marsala e dintorni, nel grande esodo bellico forzato, lontani dal fronte.
Rappresenta bene questo Capitolo generale del 1919 e il suo periodo una bellissima fotografia scattata a Venezia nel cortile grande della Chiesa di S. Agnese, il 27 agosto 1919, solennità di S. Giuseppe Calasanzio, in cui i Cavanis ci sono proprio tutti là, una trentina, notevolmente aumentati, nonostante tutto, e con la grazia di Dio.
P. Augusto Tormene, Preposito generale, inviò la lettera di indizione di questo capitolo generale in data 12 giugno 1919. Come al solito, la lettera reca in calce la firma di tutti i sacerdoti delle due case: 16 a Venezia e 2 soltanto per il momento a Possagno; in tutto 18 congregati preti, Non si parla purtroppo, come al solito, dei fratelli laici. Nella foto di cui sopra (del 27 agosto 1919) però, ci sono proprio tutti, anche i fratelli, con la possibilità di riconoscere i loro volti e i loro nomi. Ci sono i fratelli Sebastiano Barbot, Vincenzo Faliva, Filippo Fornasier, Angelo Furian, Giuseppe Vedovato. Di recente erano morti nella guerra fra Corrado Salvadori al fronte dell’Isonzo, in battaglia; e fra Bortolo Fedel, trentino in esilio a Bologna, morto di malattia.
Il 19 Giugno 1919 la comunità di Venezia si riunì e elesse il proprio discreto al capitolo: P. Agostino Menegoz, dopo quattro scrutini. La casa di Possagno, con solo due religiosi al momento, non inviò un discreto, e nessuno dei due religiosi della casa partecipò al capitolo per altro titolo.
La riunione preliminare si tenne a Venezia il 15 luglio 1919 ed elesse, sotto la presidenza dell’Anziano, P. Carlo Simeoni, P. Giovanni Rizzardo come segretario capitolare e i PP. Antonio Dalla Venezia e Vincenzo Rossi come scrutatori.
I Capitolari erano:
P. Augusto Tormene preposito generale uscente
P. Vincenzo Rossi 1° definitore e secondo scrutatore
P. Basilio Martinelli Maestro dei novizi
“…P. Augusto Tormene diede breve e famigliare relazione del suo triennio di governo, durante il quale, e in vicende a tutti note, l’Istituto aveva trovata una particolare assistenza divina. Constatò il buono spirito da cui furono in generale animati i Confratelli, così nell’adempimento del ministero della scuola, come nell’osservanza della vita religiosa, affermando che l’impressione di conforto non deve scemare di fronte a qualche rara ombra di deplorevole esempio.” Seguì la relazione economico amministrativa. Il bilancio si chiudeva senza nessun debito; “Da ieri però, 16 luglio – soggiunse – ne abbiamo uno grosso: ma siamo fortunati d’averlo [il debito di riconoscenza, NdA] col Signore”, alludendo al conchiuso acquisto della “Casetta”. Ricordò poi che la piccolissima comunità di Possagno e particolarmente il rettore P. Zamattio erano al lavoro alla ricostruzione dell’edificio del collegio. Dice proprio così: “ricostruzione”, tanta era stato il disastroso trattamento che la nostra casa aveva ricevuto dai soldati (e ufficiali) italiani occupanti. “…manifestando speranza che, nel prossimo ottobre, sia possibile venire, entro limiti modesti, alla sua riapertura”.
Dopo le solite formalità si passò alle elezioni. Furono eletti nell’ordine:
P. Augusto Tormene 1° definitore, in uno scrutinio
P. Vincenzo Rossi 2° definitore, in uno scrutinio
In seguito, si scelse il preposito generale: fu rieletto in un solo scrutinio, per fabas, all’unanimità, P. Augusto Tormene, che evidentemente era molto amato, e se lo meritava. Subito fu scritto alla S. Sede, tramite il Patriarca di Venezia, Pietro La Fontaine, chiedendo la dispensa per l’elezione a un terzo mandato, permesso dalla cost. 157 (costituzioni del 1891), ma contraria al cn. 505 del nuovo Codice di Diritto Canonico Pio-Benedettino, da poco (1917) promulgato. La richiesta fu firmata da tutti i capitolari.
Il nuovo governo allora era costituito in questo modo:
P. Augusto Tormene preposito
P. Vincenzo Rossi 1° definitore
P. Antonio Dalla Venezia 2° definitore
Nella terza sessione, nel pomeriggio dello stesso giorno, si trattò un problema di legislazione, ossia della necessità di adattare le costituzioni al nuovo Codice di diritto canonico. Il capitolo generale formulò alcune proposte e poi dette delega al Preposito di dar forma ai quesiti da inviare alla Congregazione dei religiosi.
In seguito, si elesse un procuratore generale, ossia un economo generale; fu eletto per schede, in un solo scrutinio, il P. Vincenzo Rossi. Questa fu la prima volta in cui si elesse un economo generale in congregazione. Il visitatore per la casa di Venezia fu eletto nel P. Agostino Zamattio.
La quarta sessione del capitolo si tenne il 1° agosto 1919, e per la prima volta, si ebbe realmente l’impressione di aver in congregazione un vero e proprio capitolo generale.
“Il preposito diede comunicazione di alcune offerte di fondazioni, perché i Capitolari esprimessero il loro parere e, nel caso concreto, dessero il loro voto, a tenore del numero, 183 delle nostre Costituzioni. Le offerte sono quattro”.
Nella stessa quarta sessione il preposito comunicò un po’ lungamente che un sacerdote diocesano di Venezia, parroco a S. Felice, don (monsignor) Luigi Marco D’Este, voleva ritirarsi dalla vita parrocchiale e entrare in un istituto religioso, e chiedeva di entrare nel nostro. Aveva chiesto al preposito “che gli conceda la sospirata grazia, qualora negli ultimi anni della sua vita il Signore lo faccia degno almeno delle briciole [della vita religiosa]”. Il preposito voleva che i capitolari conoscessero la situazione a riguardo, ma naturalmente non aveva bisogno del loro voto. Don Marco D’Este poi non entrò in congregazione come religioso, ma come collaboratore dell’Istituto, risiedendo principalmente a Possagno, per otto anni. Rimase poi sempre amico dell’Istituto e dei suoi padri e fratelli.
Si propose e poi si decise all’unanimità che anche la casa di Venezia doveva avere un segretario eletto, e non il segretario nominato nel capitolo generale precedente.
Furono in seguito lette, discusse e a volte votate le proposte del discreto della Famiglia religiosa di Venezia. Se ne ricordano qui solo le principali:
Con questo, si dichiara chiuso il 10° (15°) Capitolo generale della Congregazione. Il plico degli atti del capitolo contiene anche un fascicolo con la minuta di una lettera di accompagnamento del P. Vincenzo Rossi, in qualità di Procuratore generale e il testo di questioni e quesiti che il capitolo, tramite il preposito e il suo consiglio, presentava alla S. Congregazione dei Religiosi: lo scopo era di provvedere all’adattare le costituzioni al nuovo Codice di Diritto Canonico del 1917. Tale lavoro sarà soltanto l’inizio di un lungo cammino, in questa fase, che si concluderà nel 1930 con l’approvazione da parte della S. Sede delle nuove Costituzioni, adattate al Codice di Diritto Canonico, e ancora alle Mutationes del 1937.
LISTA DI CONSISTENZA DELLA COMUNITÀ CAVANIS DEL 27 AGOSTO 1919
Durante il capitolo del 1919, nell’intervallo tra la prima e le altre sessioni, mentre si aspettava il rescritto della santa Sede che autorizzasse il terzo mandato di P. Augusto Tormene, i Cavanis, tutti riuniti per la prima volta dopo la grande guerra che li aveva separati in gruppi in giro per l’Italia, si fecero fotografare tutti insieme, nel cortile tra la chiesa di S. Agnese, avendo sullo sfondo l’ala delle scuole e quella della comunità. Fortunatamente, scrissero i nomi di quasi tutti i 30 presenti sul retro. Possiamo così riconoscere in dettaglio la lista di consistenza dei religiosi e seminaristi Cavanis di quella data anche in forma visiva. La comunità, accresciuta rispetto agli anni precedenti comprendeva:
P. Augusto Tormene preposito e rettore della casa di Venezia
P. Antonio Dalla Venezia 2° definitore
P. Francesco Saverio Zanon
P. Agostino Menegoz
P. Michele Busellato
P. Mario Janeselli
P. Vincenzo Saveri
Asp. innominato
Asp. Innominato.
5 fratelli laici, di cui due professi perpetui, un professo temporaneo e due novizi;
6 chierici
6 aspiranti
Per questo Capitolo, celebrato all’ombra della tristezza, a causa della morte prematura e dolorosa del P. Augusto Tormene, Preposito generale, avvenuta il 20 dicembre 1921, fu il vicario generale, P. Antonio Dalla Venezia, superiore interino, che inviò la lettera di indizione alle tre case di Venezia, Possagno e Porcari, in data 16 giugno 1922. Questa volta, una copia della lettera reca in calce solo la firma di tutti i sacerdoti della casa di Venezia, e sono nove padri; una copia, più breve, della lettera di indizione raggiunse Possagno, e ha in calce la firma di tre padri; una terza copia è diretta alla nuova comunità di Porcari, e ha in calce la firma di tre padri.
Il foglio n° 2 degli atti riporta il verbale della riunione del 19 giugno 1922 per eleggere il discreto di Venezia, in cui uscì eletto il P. Agostino Menegoz, con 6 voti su 9 vocali. Le case di Possagno e di Porcari, con tre sacerdoti (e due fratelli) ciascuna, non avevano avuto accesso all’elezione di un discreto.
La riunione preliminare si tenne a Venezia il 22 luglio 1922 alle 18 ½, ed elesse, sotto la presidenza dell’Anziano, P. Antonio Dalla Venezia “designato Preside del Capitolo”, “costituì” P. Giovanni Rizzardo segretario capitolare e propose i PP. Francesco Zanon (sic) e Agostino Menegoz come scrutatori. Ambedue furono eletti per fabas all’unanimità. I vocali di questa riunione erano sei, cioè i sei capitolari.
I Capitolari erano:
P. Antonio Dalla Venezia Vicario generale e preposito interino
P. Giovanni Rizzardo definitore e segretario capitolare
P. Basilio Martinelli maestro dei novizi
Dopo le preci e formalità varie, P. Antonio Dalla Venezia tenne un discorso iniziale, o meglio una relazione, “del suo governo interinale e dello stato della Congregazione per il tempo successivo alla morte ‘del carissimo e veneratissimo P. Preposito Augusto Tormene, morte che ancora ci pesa sul cuore’”. Il capitolo, chiaramente, pur essendo un capitolo ordinario, aveva per primo e più importante compito di eleggere un preposito che sostituisse il defunto preposito.
Si passò dunque alle elezioni. Dopo le preci previste e la lettura delle costituzioni e le raccomandazioni varie, furono eletti nell’ordine:
P. Agostino Zamattio 1° definitore, in uno scrutinio
P. Giovanni Rizzardo 2° definitore, in uno scrutinio
Governo e consiglio erano stati allora così costituiti:
P. Agostino Zamattio preposito
P. Giovanni Rizzardo 1° definitore
P. Antonio Dalla Venezia 2° definitore
Si votò poi per l’elezione del procuratore generale, a norma del cn 517 §1, e in tre scrutini si elesse P. Antonio Dalla Venezia. In seguito si elesse l’economo generale in senso stretto, attuale, conforme il cn 516 del CJC. Fu eletto al terzo scrutinio il P. Giovanni D’Ambrosi. Dopo il controllo d’abitudine degli impegni di celebrazioni di SS. Messe, il P. Menegoz, discreto della casa di Venezia, che aveva dichiarato all’inizio del capitolo di non aver ricevuto incarico dai membri di quella casa di presentare proposte o osservazioni, si limita a consigliare che tutti i membri della Congregazione siano presenti a Venezia al momento, che si stimava ormai imminente, della ricognizione e traslazione delle salme dei Fondatori. P. Francesco Saverio Zanon propone con passione e con dettagli pratici e tecnici, ciò che aveva già proposto in capitolo definitoriale, cioè che si istituisse a Venezia il liceo, per dare continuità alla formazione ed educazione degli studenti che abbiano completato il ginnasio in Istituto. Il capitolo lascia la decisione al capitolo definitoriale.
In seguito, si esaminano alcune questioni pratiche: il riscaldamento per le aule scolastiche, dettagli riguardanti il guardaroba invernale dei religiosi; si insiste sull’osservanza della cost. 23 (del 1891) sul mobilio; sul ritorno alla pratica per tutti dell’accusa comunitaria. Si presentano e si esaminano poi i bilanci delle case.
“Il Preposito infine riferisce e spiega intorno al progetto, già comunicato precedentemente ai Definitori, di formare una società commerciale anonima, denominata “Georgica”, allo scopo di tutelare, specialmente nelle successioni, i beni della Comunità. (…) Il Capitolo (…) raccomanda al Preposito (che se ne dichiara per primo persuaso) di trattare l’affare colla massima oculatezza”.
La terza sessione si tenne al pomeriggio del 25 luglio. Si parla del Pensionato diretto da P. Zanon, nell’ambiente della “Casetta”; egli stima che non sia una cosa proprio interessante, ma che in mancanza di un’utilizzazione più utile può continuare così. P. Zanon avvisa i capitolari che la biografia dei Fondatori che sta scrivendo si può considerare giunta ai due terzi del lavoro. Dice che sarebbe anche interessante pubblicare le lettere dei Padri nel testo integrale. La prima opera sarà poi completata e pubblicata nel 1925. Il capitolo conclude che si può cominciare a trattare per la stampa con la Tipografia editrice Emiliana, degli Orionini, che oltre al resto aveva il vantaggio di aver sede di fronte all’Istituto.
Si loda e si approva la presenza del reparto di Esploratori Cattolici o Scout, presente nell’Istituto. Il Capitolo inoltre chiede che il palco teatrale mobile costruito dagli Scout possa essere utilizzato anche per altre rappresentazioni teatrali. Ma vieta che il teatro possa produrre rappresentazioni per un pubblico misto. Gradualmente tutto il pianterreno del ramo meridionale della Casetta sarà più tardi trasformato in un unico salone occupato appunto da un teatro e più tardi dal cinematografo.
Infine P. Rizzardo parla dell’associazione degli Ex-allievi da poco istituita, e della rivista Charitas che era uscita con il suo primo numero il 2 maggio 1922.
Si conclude così in serata questo 11° capitolo generale.
Il 12° capitolo generale ordinario (17° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) del 16-18 luglio 1925.
Nella riunione del 16 giugno 1925 per eleggere il discreto di Venezia, si elesse come tale all’unanimità il P. Aurelio Andreatta. I vocali, ossia i preti della comunità di Venezia erano undici. Le case di Possagno e di Porcari, con tre o quattro sacerdoti (e uno o due fratelli) ciascuna, non avevano avuto accesso all’elezione di un discreto. Le nuove case di Pieve di Soligo (TV; aperta il 30 settembre 1923) e di Conselve (PD; aperta il 23 novembre 1924) avevano ciascuna solo un padre e un fratello.
Prima dell’inizio del Capitolo, P. Francesco Saverio Zanon, 3° definitore (consigliere generale) aveva inviato ai capitolari una lettera lunghissima, manoscritta, di 11 pagine, con circa 5.000 parole, contro P. Agostino Zamattio, preposito, e contro il suo governo. Nella lettera, assolutamente polemica e velenosa, manifestava il suo totale dissenso contro tutto: principalmente contro una certa autonomia del P. Zamattio, che era molto intraprendente e innovativo. P. Zanon ripetutamente lo accusa di agire in modo del tutto indipendente e assicura di non essere stato messo al corrente di niente.
Oltre al modo di governare, critica tutto: l’amministrazione in genere e in specie; l’apertura delle due nuove case; l’apertura del cinematografo a Venezia; l’ambiente misto, cioè di ragazzi e ragazze insieme nella sala di teatro e nel cinematografo, come pure nei cortili prima e dopo delle rappresentazione; la conduzione del collegio di Possagno; la fretta nel far avanzare senza studi sufficienti i seminaristi verso il sacerdozio per metterli subito al lavoro; l’istituzione di una tipografia a Venezia. Lo critica pure per l’amicizia con don Orione e con don Sterpi, il cui istituto chiama “rudimentale e indeciso”. E si potrebbe continuare. P. Zanon poteva aver ragione su vari punti, e sarebbe interessante uno studio dettagliato di questo documento, comparato con altri. Alcuni tristi risultati delle due case di cui si parla, cioè Pieve di Soligo e Conselve, potrebbero dargli ragione. Ma, quanto veleno aveva accumulato P. Zanon nel suo cuore! Come genere letterario, anche per le frequenti formule deprecatorie, questi fogli hanno più il carattere di una Filippica e di una Catilinaria che di una lettera di un religioso a un Capitolo Generale. Ne parleremo ancora.
La riunione preliminare del Capitolo si tenne a Venezia il 16 luglio 1925 alle 17, ed elesse, sotto la presidenza dell’Anziano, P. Antonio Dalla Venezia, Preside del Capitolo”, “costituisce” P. Aurelio Andreatta segretario capitolare e propone i PP. Basilio Martinelli e Giovanni Rizzardo come scrutatori. Ambedue furono eletti per fabas all’unanimità. I vocali di questa riunione erano sei.
I Capitolari erano:
P. Agostino Zamattio Preposito generale uscente
P. Antonio Dalla Venezia definitore e Preside capitolare
Vien fatta poi una domanda: se all’indomani, alla prima seduta del Capitolo, dopo la relazione triennale del Preposito uscente, sia libero a chiunque di aprire una discussione o di fare delle dichiarazioni, prima di passare alla elezione del nuovo Definitorio.
Si risponde di sì, tale diritto essendo contenuto in quelle parole della regola Nro 172: sui regiminis rationem reddit.
Spetta naturalmente al Preside regolare una eventuale discussione.”
La prima sessione del Capitolo propriamente detto si tenne il 17 luglio 1925 e si svolse, come nelle sessioni successive, a Venezia.
Dopo la celebrazione della messa dello Spirito Santo e le preci e procedure d’uso, il Preposito, “P. Agostino Zamattio dà relazione del suo governo triennale e dello stato attuale di tutta la Congregazione. Tale relazione, dopo un accenno alle prove dolorose dei tre anni decorsi – stato del Collegio di Possagno preoccupante nel 1923, defezione del P. Enrico Perazzolli, morte di P. Miotello, malattia di fra Giuseppe [Vedovato] e del P. Antonio Dalla Venezia – ed alle gioie elargite da Dio all’Istituto – ricognizione delle salme dei nostri Venerati P.P. Fondatori, nuove ordinazioni, Associazione ex-allievi, casa del Probandato, nuove fondazioni – prospetta la situazione delle singole case, situazione morale e finanziaria, entrambe soddisfacenti, eccetto quelle di Conselve: dell’una e dell’altra si uniscono al verbale le esposizioni scritte in allegato.
Finita la sua relazione il P. Agostino Zamattio domanda perdono in ginocchio dei suoi mancamenti e, consegnate le chiavi e il sigillo, va a sedersi al posto che gli spetta per anzianità; e il P. Antonio Dalla Venezia assume la Presidenza del Capitolo.
Il P. Francesco Saverio Zanon a questo punto domanda la parola e legge un’ampia relazione, il cui testo è agli atti capitolari, che contiene le seguenti osservazioni al governo del cessato Preposito:
Sistema amministrativo disordinato e pericoloso; mancata ostensione dei registri al Definitorio; le troppo rosee previsioni dinanzi a progetti finanziari; la preparazione affrettata di nuove fondazioni; l’ammissione di pubblico misto al Teatro e al Cinematografo e la poca sicurezza morale delle (sic) film; l’acceleramento degli studi dei giovani; l’avviamento di alcuni aspiranti all’arte tipografica; il caso Mainetti; la voce corsa tra i Padri giovani di contrasti esistenti tra il Preposito e il Definitorio.”
Si controllano gli atti dell’ultima riunione del consiglio generale (definitorio) “per accertare se in passato i Definitori abbiano chiesto al Preposito i bilanci e i registri; e fu letto il punto relativo alla questione. Il Preposito cessato ebbe poi a dichiarare che la registrazione finanziaria c’è ed è regolare. Il P. Zanon termina la sua relazione dichiarando di non poter votare per il Preposito cessato”.
P. Andreatta prende le difese punto per punto del Preposito generale P. Zamattio. Dal verbale pare che questi si sia limitato a mostrare i libri, ma che non abbia controbattuto o si sia difeso in qualche modo.
Dopo le formalità prescritte, si passa finalmente alle elezioni. Furono eletti nell’ordine:
P. Agostino Zamattio 1° definitore, in quattro scrutini
P. Giovanni D’Ambrosi 2° definitore, in uno scrutinio
Fu chiamato in sala capitolare il P. D’Ambrosi, che non era finora membro del Capitolo e si passò all’elezione del preposito, e, per fabas, fu eletto subito Preposito generale, in un solo scrutinio, il P. Agostino Zamattio–. I votanti erano sei, dato che il candidato non votava in questa specie di ballottaggio. P. Zamattio aveva ricevuto i due terzi dei voti “numero richiesto dalle costituzioni per la elezione ad un secondo triennio”, dice il verbale.
Governo e consiglio erano allora così costituiti:
P. Agostino Zamattio preposito
P. Giovanni D’Ambrosi 1° definitore
P. Francesco Saverio Zanon 2° definitore
La seconda sessione si svolse il 16 luglio, nella festa della Madonna del Carmine. Alla lettura del verbale della prima sessione, qualcuno fa osservare: “contrariamente a ciò che in esso è scritto, che l’attestazione di ossequio e sudditanza al nuovo preposito da parte dei Religiosi extra-capitolari non fu conforme alla regola 176, che prescrive il solo bacio della mano per tutti, per i non Sacerdoti in ginocchio”. Qualcuno, in questo capitolo, era realmente fastidioso.
Si elesse il maestro dei novizi, e fu eletto P. Giovanni D’Ambrosi con tre votazioni; il procuratore generale P. Francesco Saverio Zanon con unica votazione; l’economo generale P. Giovanni D’Ambrosi con un solo scrutinio; il visitatore della casa-madre di Venezia P. Antonio Dalla Venezia con due votazioni.
Seguono le proposte del discreto della casa di Venezia (P. Aurelio Andreatta), l’unica casa su cinque ad avere questo privilegio, in questo caso ossia in questo particolare capitolo; le proposte in genere vertono su dettagli: la data della chiusura dell’anno scolastico, la produzione di un’Accademia; il premio per il profitto in religione, la necessità di rimessa in funzione ottimale del reparto Esploratori. Su questo tema si discute lungamente. Si parla ancora del modo di vestire dei ragazzi delle nostre scuole (calzoncini lunghi fino al ginocchio e piedi coperti) e si sceglie di fare delle ammonizioni caso per caso; mentre, per quanto riguarda la “moda” delle donne che mettono piede in Istituto, si decide di mettere un avviso alla porta d’ingresso; si decide di preparare un libretto di pedagogia (o piuttosto di “requisiti per ben compiere l’assistenza ai ragazzi”) per i chierici; si parla ancora dell’importanza della presenza di tutti i “Maestri” alle ricreazioni. Interessante che ciò è visto in genere a scopo educativo, ma in particolare tale presenza “deve impedire soprattutto – come vogliono le nostre regole – gli atti di violenza e di fatti. Del resto, si osserva, non solo nelle ricreazioni, ma anche nelle scuole, in accordo all’intero programma di educazione, si deve combattere quello spirito di aggressione e vendetta, che nei ragazzi è favorito dalle condizioni dei tempi attuali”. Osservazione importante! Era il tempo del primo dopoguerra, dei nazionalismi, del sovranismo, del Partito Nazionale Fascista-PNF, fondato il 7 novembre 1921 e ormai quasi dominante. Era l’anno dell’assassinio del deputato Giacomo Matteotti (3 gennaio 1925); l’anno seguente il PNF sarebbe diventato l’unico partito legale in Italia. Gli squadristi, con le loro sistematiche violenze imperversavano già da parecchi anni, Nelle scuole statali, la violenza era una filosofia spesso praticata e difesa da numerosi insegnanti, specialmente quello di “educazione” fisica, come ricorda chi scrive.
In Capitolo, si parla ancora delle vacanze estive in famiglia dei probandi (una settimana all’anno, per la prima volta proprio nel 1925); e delle vacanze dei religiosi.
A questo proposito si disse e si decise una cosa assolutamente inesatta, e contraria alla vera spiritualità Cavanis, di fronte al fatto che i Fondatori, e con loro la comunità primitiva, facevano tutti gli anni delle salutari vacanze in campagna e/o in famiglia, e che le vacanze a Possagno e/o a Lendinara o anche nelle Ville venete di amici furono un’abitudine della Congregazione durante tutto l’Ottocento. In questa seconda sessione del Capitolo 1925 però si procedette così:
“A questo punto la discussione passa ad argomento affine: le visite di Congregati alle loro famiglie. Siccome pare che qualcuno almeno in passato avesse l’opinione che tale visita, in base a una consuetudine, fosse per i Congregati un vero diritto, il Capitolo decide in proposito:
Se taluno credesse formata nel nostro Istituto la legittima consuetudine che desse in qualche modo un diritto di recarsi periodicamente in famiglia o presso altre famiglie secolari, il Capitolo generale dichiara:
I che la consuetudine non esiste.
II che qualora pure esistesse viene col presente decreto riprovata ed abolita. (Cost. 67 – 138 C.J.C. can 606§2)”.
Si trattò, a partire da una domanda del discreto di Venezia, anche un altro importante tema: “Quindi alla domanda se siano conforme al nostro spirito le Case di Missione, almeno come esercizio di scuole, e, se possiamo quindi accettare nel nostro Probandato vocazioni per future Case missionarie, si risponde che le case di Missioni vere e proprie, in zone pagane, con tutti gli obblighi annessi, sono fuori del nostro spirito; si possono invece ammettere le Scuole in terre dove già siano delle Cristianità per la educazione dei ragazzi.
Non si può poi parlare nel nostro Istituto di vocazioni specializzate, che creino poi quasi un diritto; ma solo, caso mai di abilità favorite e assecondate, sempre però sotto la piena dipendenza dei Superiori, ai quali solo spetta assegnare a ciascuno il campo di lavoro e di apostolato”
Il futuro avrebbe insegnato una visione molto differente.
La terza sessione si tenne nel pomeriggio dello stesso giorno 16 luglio 1925. Il Preposito presentò il registro di amministrazione della casa di Venezia. Avendo P. F.S. Zanon chiesto di vedere anche o libri di Possagno, P. Zamattio ricorda che durante i suoi anni come rettore di quella casa non aveva mai dovuto presentare i registri ai Definitori. Sottopone tuttavia alla visione dei Capitolari alcune cartelle, che mensilmente riceve da Possagno, col resoconto particolareggiato delle entrate e uscite del fondo Rive (Cartelle per la “Georgica”). Rispondendo ad alcune delle critiche esposte da P. Zanon nella prima sessione, rende conto di varie spese e lavori resi necessari dalla situazione della casa. Spiega anche che le rette sono piuttosto alte, come osservato dallo stesso padre, per il prestigio del collegio, perché i collegi a rette basse sono disprezzati. Inoltre dice che i civanzi vistosi del collegio sono dovuti anche ai sacrifici e agli sforzi dei religiosi; curiosamente, dice che tali civanzi dipendono anche dalla vendita del miele, e, a questo riguardo, tesse le lodi di Fra Sebastiano Barbot.
Stabilisce, il Preposito, che d’ora in avanti ai Capitoli generali siano presentati in esame ai Capitolari, già qualche giorno prima dell’inizio, i libri amministrativi di tutte le case.
Si passa a parlare delle varie case, e prima di tutto della casa di Conselve, aperta da un anno circa, più esattamente dal 23 novembre 1924. La casa non va bene, e si fanno molte osservazioni, che sono riportate nel verbale della terza sessione; e che corrispondono a quelle scritte durante l’anno nel diario della Congregazione; per le quali si rimanda al breve capitolo sulla casa di Conselve. Il preposito propone di chiudere quell’esperienza, in particolare data la scarsità di personale. La proposta, pur “grave e dolorosa” del Preposito è approvata per fabas all’unanimità.
Sulla casa di Pieve di Soligo, aperta il 30 settembre 1923, si parla su qualche difficoltà con il parroco del paese, e poi abbastanza lungamente della situazione giuridica della casa: la congregazione desiderava una trasformazione dell’Opera Pia, con un nuovo capitolato, che il Consiglio di Stato non vuole concedere, almeno fino alla data del capitolo di cui si parla. “Tutti i Capitolari sono d’accordo nel dichiarare la posizione di Pieve di Soligo grave e insincera e il Capitolato inaccettabile. Il Preposito dichiara che sono riaperte le pratiche per ottenere da Roma il decreto di trasformazione dell’Opera Pia e che ci sono buone speranze di felice esito, dietro assicurazioni date dal Ministro Federzoni e Don Orione; quindi nella necessità di rimandare ad altro tempo in sede di Capitolo Definitoriale ogni decisione sulla fondazione di Pieve di Soligo, afferma che intanto non si devono assumere nuovi obblighi per quella Casa, né fare trattative prima di aver ottenuto il Decreto”.
Non si parla di altri aspetti della vita di quella casa; evidentemente il P. Zamattio non voleva e probabilmente non poteva ancora affrontare in capitolo generale la vera e tragica situazione della casa di Pieve di Soligo. Nel diario di Congregazione aveva già annotato in data 3 luglio 1925, 13 giorni prima di questa terza sessione del capitolo di cui si parla: “Riguardo ai fatti dolorosi di Pieve di Soligo e di P. Menegoz –vedi memoria a parte”; e ne aveva già parlato in sede di Capitolo definitoriale. Era tuttavia troppo presto per trattarne in Capitolo generale, dato che i fatti e le responsabilità non erano ancora del tutto chiari e non lo sarebbero stati ancora almeno fino al 20 luglio 1926.
Il Capitolo del 1925 si concluse in tarda serata del 18 luglio 1925.
Il 13° capitolo generale ordinario (18° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) del 30 giugno-4 luglio 1928.
Nella riunione del 7 giugno 1928 per eleggere il discreto di Venezia, si elesse con 7 voti su dieci il P. Aurelio Andreatta. I vocali, ossia i preti (con età prevista dalle costituzioni) della comunità di Venezia erano dieci. In data simile, o la stessa, si deve essere tenuta la riunione di elezione del discreto di Possagno: fu eletto il P. Mario Janeselli.
La casa di Porcari, con tre sacerdoti (e uno o due fratelli), non aveva avuto accesso all’elezione di un discreto. Le case di Pieve di Soligo e di Conselve erano state chiuse da tempo.
La riunione preliminare del Capitolo si tenne a Venezia il 30 giugno 1928 alle 16, ed elesse, sotto la presidenza dell’Anziano, P. Antonio Dalla Venezia, “Preside del Capitolo”, “costituisce” P. Aurelio Andreatta segretario capitolare e propone di eleggere due scrutatori i PP. Mario Janeselli (per schede, in primo scrutinio) e Basilio Martinelli (per schede come secondo, e poi per fabas al secondo scrutinio) e come scrutatori. I vocali di questa riunione erano sei, cioè i sei capitolari.
I Capitolari erano:
P. Agostino Zamattio Preposito generale uscente
P. Antonio Dalla Venezia definitore e Preside capitolare
P. Giovanni Rizzardo
Nel giorno previsto, i capitolari si riunirono “nella Cappella, dove sono le salme dei Servi di Dio, i nostri Padri Fondatori”, cioè la cappella del Crocifisso, cappella riaperta al culto il 2 maggio 1902 in occasione del centenario dell’inizio dell’opera dei Cavanis, e da poco, nel 1923, in occasione dell’inizio del processo informativo per la causa di beatificazione dei Fondatori, a livello del Patriarcato di Venezia, era stata realizzata la ricognizione delle salme e il loro trasporto dalla tomba situata nel presbiterio della chiesa, dietro l’altare maggiore, alla cappella del Crocifisso.
Dopo la S. Messa, le preci d’uso e alcune formalità, il preposito uscente, P. Agostino Zamattio, espose oralmente e presentò un breve scritto sullo stato della Congregazione. Così è registrato in proposito, tra l’altro, nel verbale della prima sessione: “Fu un triennio tribolato, come a tutti è noto, (…). Non mancarono però le consolazioni nella stima e nell’affetto di tanti benevoli e nella bella corrispondenza di tanti cari figliuoli”. Nella brevissima minuta, di poco più di mezza pagina, del discorso del P. Zamattio si trova, dopo la prima frase, anche la seguente (che non corrisponde agli “omissis” indicati sopra): “Il Signore ha permesso dolori dei quali Egli solo conosce lo spasimo”.
P. Francesco Saverio Zanon volle parlare a questo punto, fuori di qualsiasi uso o costume come gli fu fatto notare dal Preside e da alcuni altri, ma insistette tanto e comunque prese la parola e presentò un foglio annesso negli Atti.
Chiuso questo sgradevole (e abbastanza abituale) incidente, si passa finalmente alle elezioni. Furono eletti nell’ordine, dopo un numero molto rilevante di scrutini, per schedulas e per fabas:
P. Giovanni D’Ambrosi 1° definitore, in quattro scrutini
P. Giovanni Rizzardo 2° definitore, in due scrutini
Nel primo scrutinio fu proposto come preposito generale, come di costume e di regola, chi era stato eletto primo definitore, ossia il P. Giovanni D’Ambrosi. La votazione per fabas dette i seguenti risultati:
Votanti 7 – (L’interessato naturalmente non votava, quindi si passava da 8 a 7 votanti)
Voti favorevoli 4 –
Voti contrari 3 –
In realtà, cosa poco conosciuta, il P. D’Ambrosi era stato eletto validamente preposito generale, ma per un grossolano errore, la sua elezione non fu riconosciuta: si disse e si scrisse nel verbale della sessione: “Il P. Giovanni D’Ambrosi non è eletto, non avendo raggiunto la maggioranza assoluta, a norma del Can. 101 del Codice di diritto canonico”. Si è trattato di una svista colossale, perché 4 voti positivi su 7 votanti è maggioranza assoluta. Nel cn. 101 del CDC del 1917, per la verità, non si definisce esattamente che cos’è la maggioranza assoluta; quindi non si poteva citare come prova che P. D’Ambrosi non era stato eletto. A volte di dice che la maggioranza assoluta corrisponde alla metà più uno dei voti; ma ciò è falso o almeno incompleto; in realtà “Un’opzione consegue la maggioranza assoluta se ottiene un numero di voti superiore alla metà del numero totale degli aventi diritto al voto. Detto in altri termini, la maggioranza assoluta è conseguita dall’opzione che raggiunge un quorum funzionale fissato in più della metà degli aventi diritto al voto”. Tuttavia, contro la prassi normale, in uso fin dal tempo del diritto degli antichi romani, ancora al tempo della tarda repubblica, si dichiarò ingiustamente non eletto P. D’Ambrosi. È possibile che non si sia trattato di una svista, ma che abbia agito anche il desiderio politico, conscio o inconscio, di non avere come preposito il padre regolarmente eletto. Ma quasi certamente l’ignoranza del diritto (che è sempre colpevole, almeno tra gli ecclesiastici e in chi ha studiato) ha avuto la sua parte, qui e in molte altre circostanze della congregazione.
“È quindi proposto il II secondo Definitore [ossia P. Giovanni Rizzardo], ed anche per lui si fa la votazione per fabas con l’esito seguente:”
Votanti 7 – (L’interessato anche qui non votava, quindi si trattava di 7 votanti)
Voti favorevoli 6 –
Voti contrari 1 –
P. Giovanni Rizzardo veniva proclamato eletto. Da notare, di passaggio, come si fa anche nella biografia di P. Giovanni D’ambrosi in questo libro, che, a memoria di chi scrive e di altri da lui consultati, che P. D’Ambrosi mai ebbe a lagnarsi di questo fatto, né il fatto fu divulgato da lui o da altri, che io sappia. Altri lo avrebbero fatto.
Governo e consiglio erano allora così costituiti:
P. Giovanni Rizzardo preposito generale
P. Giovanni D’Ambrosi 1° definitore
P. Agostino Zamattio 2° definitore
P. Francesco Saverio Zanon 3° definitore
Nella II sessione, del 3 luglio, si elesse Maestro dei novizi P. Alessandro Vianello; procuratore generale (in senso stretto) P. Francesco Saverio Zanon; per l’economo generale si lasciò l’elezione o nomina al preposito e consiglio, come da can 516§4° del CIC 1917.
Sempre nella seconda sessione, «Si inizia la revisione delle Costituzioni per emendarne il testo in conformità del Codice di Diritto Canonico. Il lavoro era già stato compiuto nel Capitolo Generale del 1919, ma, non essendo la forma con la quale era stato inviato il testo emendato corrispondente ai desideri della Congregazione dei Religiosi, questa invitava il Preposito a rifare il lavoro, udito il Definitorio ed eventualmente il Capitolo Generale.
Nel corso della revisione è stata prospettata l’opportunità di mutare la procedura attuale delle nostre Comunità per ciò che riguarda la elezione dei Rettori delle Famiglie, e si propone per varie ragioni di affidarla al Preposito Generale col suo Definitorio.
Trattandosi di una mutazione importante, allo scopo di maturare meglio la cosa, si stabilisce di rimandarne la discussione ad altra seduta».
Nella terza sessione, celebrata il 4 luglio 1928, fu data voce ai discreti delle case.
Il discreto della casa di Venezia, P. Aurelio Andreatta, presenta una lista di proposte di miglioramenti per la formazione dei nostri seminaristi:
Si favorisca il loro raccoglimento, preferendo in genere che partecipino alla preghiera e liturgia nella cappella del Noviziato.
Li si abitui al rispetto e alla creanza (buona educazione) nei riguardi dei Padri (!)
Si innalzi il livello degli studi in genere.
P. Luigi Janeselli, direttore della casa di Porcari, presenta per scritto una relazione molto dettagliata su quella casa, in quattro dense pagine.
Sempre nella III sessione «… i capitolari (…) trattano dapprima la proposta, discussa a suo tempo nel corso di questo Capitolo Generale, (…), riguardante la mutazione della procedura stabilita dalla regola nostra per l’elezione dei Rettori delle Famiglie. Dopo uno scambio di vedute, si conviene di lasciare immutata la regola».
Alla fine degli atti di questo capitolo generale si trova anche il testo manoscritto di P. Zanon, letto purtroppo da lui all’inizio dello stesso capitolo; consta di 6 pagine, più di 1.100 parole. Il pessimismo tragico (facile nell’occasione; ma non per chi avesse fede e speranza) e la cattiva scrittura non ne rendono gradevole né interessante la lettura (che è stata fatta da chi scrive), tanto meno la trascrizione. Non è difficile immaginare quanto questo testo accusatorio abbia pesato sull’ottimo preposito uscente, P. Zamattio; e quanto l’ombra di questo documento abbia impedito a questo capitolo generale di brillare nella storia dell’Istituto.
Il 14° capitolo generale ordinario (19° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) del 30 giugno-25 luglio 1931.
La riunione preliminare di questo capitolo generale ordinario, probabilmente l’ultima di tal genere ad essere tenuta, dalle mutazioni delle Costituzioni che seguirono, si tenne a Venezia, nella casa-madre, il 30 giugno 1931.
I capitolari erano:
P. Giovanni Rizzardo Preposito generale
P. Giovanni D’Ambrosi Vicario e 1° Definitore (Consigliere)
P. Basilio Martinelli 2° Definitore
P. Mansueto Janeselli Discreto (delegato) di Porcari
La prima sessione fu tenuta il 1° luglio, e si tenne ancora nella cappella del Centenario, ossia del Crocifisso, annessa alla chiesa di S. Agnese. Presiede il preposito uscente P. Giovanni Rizzardo, che “legge subito una lunga relazione” sullo stato della Congregazione. Dopo che il preposito uscente consegna come di costume il sigillo e le chiavi e chiede perdono delle mancanze, la presidenza della riunione passa all’anziano, P. Basilio Martinelli, come Preside.
Si passò alle elezioni dei definitori. Furono eletti i seguenti:
P. Giovanni Rizzardo 1° definitore, in tre scrutini
P. Aurelio Andreatta 2° definitore, in tre scrutini
P. Agostino Zamattio 3° definitore, un solo scrutinio
Cominciava per il buon P. Aurelio, a 37 anni, un lungo periodo di mandati successivi come preposito generale: rimase tale per 18 anni, cioè per tre sessenni. Fu rieletto, ma restò preposito anche a causa della seconda guerra mondiale, che almeno dal 1943 al 1945, divise l’Italia in due parti e rese i viaggi impossibili durante la guerra e anche nei primi anni del dopoguerra. Il periodo dei suoi mandati fu caratterizzato da una grande apertura della congregazione.
Il governo e consiglio generale si trovava allora così articolato:
P. Aurelio Andreatta preposito generale
P. Giovanni Rizzardo 1° definitore
P. Agostino Zamattio 2° definitore
P. Mario Janeselli 3° definitore
Il capitolo riprese con la seconda sessione il 24 luglio successivo (1931) e si ebbe la lettura del Decreto Patriarcale per cui aveva vigore la risposta alla postulazione fatta alla S. Congregazione dei Religiosi”. P. Aurelio Andreatta accettò la sua elezione; dato che precedentemente egli era segretario del Capitolo, si procedette a nuova elezione e con uno scrutinio risultò eletto segretario P. Giovanni Rizzardo, a maggioranza relativa, con solo metà dei voti (4 su 8); ma questi non accettò l’elezione allegando motivi personali; fu allora eletto P. Mario Janeselli, con la stessa maggioranza relativa di 4 voti su 8.
A questo punto “P. Giovanni Rizzardo legge un suo scritto (“Nota per un dettaglio di procedura”) che domanda sia messo agli atti e che riguarda alcune sue osservazioni sull’osservanza della regola N°. 195 e sulle nozioni del Codice di Diritto canonico nei riguardi delle elezioni e propone una votazione per assicurarne la esatta osservanza. I Capitolari prendono in considerazione le osservazioni fatte ma non credono di dover votare”. In sostanza, P. Rizzardo accusava i capitolari di non conoscere bene né le costituzioni né il Codice di Diritto Canonico; in particolare critica il fatto che non sia stata tenuta presente sufficientemente la regola 195, di cui secondo lui bisognava aver letto in capitolo prima delle elezioni “il preciso testo latino”. Evidentemente non aveva digerito bene la sua mancata rielezione a preposito, il che succede.
Fu eletto in seguito il procuratore generale, che è P. Giuseppe Borghese (che non era del numero dei capitolari), con due scrutini. Si elegge ancora l’economo generale, e risulta eletto il P. Agostino Zamattio, pure con due scrutini.
La terza seduta si tenne il pomeriggio dello stesso giorno 24 luglio alle ore 16. Si aggiunse ai capitolari P. Giuseppe Borghese. Fu eletto il maestro dei novizi, con 7 voti su 9, P. Pellegrino Bolzonello (non capitolare finora). Non si dice nei verbali, ma sembra probabile che la situazione fisica di P. Alessandro Vianello e la lunga malattia di quei giorni abbiano consigliato di cambiare ed eleggere un altro. Ottima scelta del resto. E P. Alessandro per conto suo sarà poi maestro nei novizi e poi degli studenti per moltissimi anni ancora.
Dopo compiute le formalità amministrative (offerte delle messe e bilanci), di cui si dà conto nei verbali in dieci righe, P. Rizzardo, preposito precedente, dà conto delle trattative con il Real Collegio di Lucca per un’eventuale accettazione da parte dell’Istituto. Dopo breve dibattito, viste le condizioni di assoluta dipendenza dalla fondazione, imposte da quell’ente, e anche secondo il parere negativo del P. Rizzardo, si vota all’unanimità (nove voti a questo punto) contro l’accettazione di quest’opera.
La quarta seduta si tenne il 25 luglio, sempre a Venezia, con la presenza anche del P. Pellegrino Bolzonello, eletto maestro dei Novizi. I votanti ora divengono dieci e si allarga il capitolo.
Riprendendo il discorso aperto di passaggio il giorno precedente, P. Rizzardo relata sui suoi contatti con il vescovo di Massa che propone di accettare una fondazione nel borgo di Aulla, sull’Appennino Tosco-Emiliano. Si decide, con il solito argomento della mancanza di personale, di comunicare al vescovo che si soprassiede per il futuro triennio.
Si parla lungamente degli studi degli studenti teologi e in particolare dell’esperienza fatta nel triennio precedente, di far fare tirocinio nelle varie care (tre) agli stessi. Dati i buoni risultati, senza negare che gli studi teologici frequentati, per modo di dire, fuori sede, sono stati alquanto deficitari, si decide
“Che si può continuare con questo esperimento;
Che non deve durare più di un anno per ciascuno;
Su saggia ancorché modesta e ovvia richiesta di P. Mansueto Janeselli, si decide che gli atti capitolari siano custoditi nell’archivio sotto il controllo del preposito, e che non siano accessibili ai confratelli almeno per 10 anni. Attualmente, ed è naturale, i documenti dell’archivio corrente non sono accessibili per almeno 50 anni.
Con questo, si chiude il 19° capitolo generale ordinario (14°, se non si contano come tali i primi cinque capitoli detti provinciali.
Il 15° capitolo generale ordinario (20° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) del 1-3 luglio 1934.
La riunione preliminare si tiene, come seduta separata dalle altre, con la presidenza di un anziano per professione, nel caso il P. Giuseppe Borghese, Preside anche nella prima parte del Capitolo.
I capitolari, tutti presenti, sono i seguenti:
P. Aurelio Andreatta Preposito generale
P. Giovanni Rizzardo Vicario e 1° Definitore (Consigliere)
P. Agostino Zamattio 2° Definitore, economo generale e rettore di Porcari
P. Pellegrino Bolzonello Maestro dei Novizi
P. Aurelio Andreatta, preposito, tenne una lunga relazione (sei fitte pagine), seguendo lo schema dell’attuale cost. 3, con i tre classici punti (santificazione personale, educazione, esercizi spirituali, e poi alcuni punti secondari). Interessante il punto in cui parla della necessità di formare i novizi e chierici “di dirozzarli, per renderli più desti, più sensibili, più oculati, più compresi di responsabilità in relazione alla loro futura missione di maestri”. A questo riguardo, qui come nelle precedenti relazioni di altri prepositi precedenti, si nota che, anche se esistevano di fatto altre attività educative, si parla quasi sempre solo in termini e con termini di scuola. In fatto di aperture di nuove fondazioni (l’ultima che fosse stata fondata e che avesse avuto continuità era Porcari, aperta 15 anni prima), riferendosi a proposte recenti (Lucca, Aulla) di fondazioni piccole e ristrette, è interessante anche l’accenno sul fatto che “è meglio fare un passo verso campi vasti, dove l’Opera nostra possa svilupparsi con autonomia e con largo respiro”.
Si procede quindi, ancora con il vecchio sistema, a eleggere i cinque definitori, Furono eletti i seguenti:
P. Aurelio Andreatta 1° definitore, in uno scrutinio
P. Agostino Zamattio2° definitore, in uno scrutinio
P. Giovanni Rizzardo 3° definitore, un solo scrutinio
Nella seconda seduta tenuta il 1° luglio 1934, si comincia la giornata eleggendo per schede il maestro dei novizi, nella persona del P. Pellegrino Bolzonello, rieletto, in un solo scrutinio, con 8 voti su 11. In seguito, una novità: seguendo la regola 214, come fa notare il padre preposito, le relazioni delle case e i rendiconti economici non saranno più presentati e letti in seno al capitolo generale ma nel capitolo definitoriale, come si fa già negli anni in cui non c’è capitolo generale. Tutti sono d’accordo.
Una ben più grossa novità venne annunciata dal preposito, sia pure con la sua caratteristica calma e intenzione di evitare allarmi e tensioni tra i religiosi: la questione dell’invalidità dei noviziati e quindi delle professioni religiose e forse di altro per molte annate di novizi. Il verbale si pronuncia così: “Negli anni trascorsi, in tempo di vacanze, i chierici novizi e i novizi fratelli laici sono andati col P. Maestro o cogli altri studenti e fratelli laici professi, per due mesi a Possagno. Tale usanza non è apparsa conforme alla regola N. 251 delle Costituzioni, né al Codice di Diritto Canonico (Cann. 555-556) e perciò fu fatta in proposito una interrogazione alla S. Congregazione dei Religiosi. Si ebbe in risposta che l’usanza invalsa non deve continuare sotto pena di invalidità dell’anno di noviziato. Perciò, al cominciare dall’anno presente, i novizi resteranno per le vacanze nella Casa Madre. Del resto si osserva pure che in tempo passato i novizi, durante l’anno di noviziato, non andavano cogli altri chierici in campagna e che questo abuso ha cominciato ad introdursi solo dal 1904”.
Il testo del verbale, o più probabilmente anche l’annuncio orale da parte del P. Preposito, minimizza. In realtà era da 30 anni che si era introdotto un grave abuso che, dal 1904 o per lo meno dal 1917 (data di promulgazione del CIC Piano-Benedettino) aveva fatto sì che varie generazioni di religiosi Cavanis non fossero in realtà religiosi. Pare che in capitolo ciò non sia stato detto, o almeno non consta dai verbali; dopo la dispensa ottenuta dalla Santa Sede dal dover far rifare il noviziato a tutti gli interessati, il preposito pare abbia chiamato uno per uno i religiosi “invalidati” e privatamente abbia loro ingiunto di emettere i voti, oralmente e in scritto, voti che valevano per i temporanei e i perpetui insieme, davanti a lui in camera charitatis.
P. Andreatta parla poi della proposta di una fondazione a Comacchio, consistente in una “scuola per istruzione media”, che si potrebbe chiamare “a partecipazione statale”. Il voto su tale possibile fondazione ottiene 11/11 voti contrari. Lo stesso preposito presenta anche la situazione incerta del gruppo di “inservienti” (come scrive il verbale) di Porcari, ossia il nucleo di ciò che sarà l’Istituto del Santo Nome di Dio. Revoca a sé la questione, dice che tale iniziativa non doveva essere presa di iniziativa di una sola persona (si nomina qui P. Agostino Zamattio) ma della Congregazione. Si informerà e prenderà provvedimenti al riguardo.
Dispone che il religioso, un giovane padre, che assiste il rettore del Collegio di Possagno nella disciplina dei giovani, non sia chiamato Vice-rettore, ma Assistente di disciplina. Parla della preparazione e programmazione dell’ormai vicino anno del centenario dell’erezione canonica dell’Istituto (1838-1938). Tale programmazione includeva il restauro della cappella dell’Oratorio dei piccoli (dove si era tenuta la celebrazione dell’erezione canonica; il restauro di S. Agnese; la “Riduzione in cappella del locale dove morirono i PP. Fondatori”.
Seguì la lettura e il dibattito sulle relazioni e proposte dei discreti delle tre case, che vennero lette dal Segretario capitolare, discusse e in parte votate.
Il Capitolo si chiuse con le preci recitate alla fine di questa riunione; alla sera dopo cena si firmarono i verbali.
Il 16° capitolo generale ordinario (21° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) del 6-7 luglio 1937.
Questo capitolo generale ordinario fu indetto dal preposito generale, P. Aurelio Andreatta, il 16 giugno 1937, con una lettera formale e di tipo moderno, su carta intestata della Congregazione, e battuta a macchina ossia dattilografata. Già da qualche tempo e anche in questo caso si fa uso del timbro in gomma.
La riunione preliminare o preparatoria si tiene come di costume, come seduta separata dalle altre, il 5 luglio pomeriggio, con la presidenza dell’anziano per professione, nel caso il P. Agostino Zamattio, Preside anche nella prima parte del Capitolo.
I capitolari, tutti presenti, sono i seguenti:
P. Aurelio Andreatta Preposito generale
P. Agostino Zamattio Vicario e 1° Definitore (Consigliere)
P. Giovanni Rizzardo 2° Definitore
La prima sessione si tenne a Venezia come sempre, nella cappella del Crocifisso, qui chiamata cappella dei Fondatori, il 6 luglio 1937. Dopo le preci e i preliminari di regola, il P. Preposito Aurelio Andreatta pronunzia la sua relazione sullo stato dell’Istituto, anche questa volta di sei pagine manoscritte. La tecnologia rimaneva, per questa volta almeno, solo a livello segretariale!
A proposito dello stato morale, P. Aurelio fa notare tra l’altro che “talora si desidererebbe più zelo, pietà più sentita, più amore alla cultura sia sacra che profana in relazione alla nostra vocazione di insegnanti”. Sullo stato strutturale e giuridico, ricorda le recenti (18 giugno 1937) nuove modifiche (Mutationes) apportate alle Costituzioni. Ricorda in particolare la maggiore continuità dell’azione dei superiori a causa del passaggio dal triennio al sessennio per i mandati generali. Parla lungamente e con amore della formazione, dei suoi ambienti, di coloro che dovevano essere formati e dei formatori. Manifesta curiosamente una certa preoccupazione perché la massima parte dei membri sono giovani, data l’espansione; la chiama “situazione delicata”. Magari fosse così oggi, in Italia e altrove! Celebra l’inaugurazione della desiderata casa di Esercizi Spirituali a Possagno.
P. Zamattio, Preside, presiede allora all’elezione dei definitori e poi del Preposito.
Sono eletti dagli undici vocali:
P. Aurelio Andreatta 1° definitore, in uno scrutinio
P. Agostino Zamattio2° definitore, in uno scrutinio
P. Giovanni Rizzardo 3° definitore, un solo scrutinio
Segue allora l’elezione del preposito generale: al primo scrutinio è eletto, anzi rieletto P. Aurelio Andreatta, con 6 voti su 11. P. Agostino Zamattio continua a godere di una notevole stima in Congregazione, ricevendo 4 voti per la stessa carica. P. Aurelio evidentemente accetta – ancora una volta –, anche se il verbale non lo dice – ancora una volta –, e tutto procede secondo le regole e i costumi in occasione di una rielezione particolarmente festosa. I religiosi Cavanis evidentemente amavano P. Aurelio e ne avevano una grande stima.
Il governo e il consiglio della Congregazione per il prossimo sessennio venivano così costituiti:
P. Aurelio Andreatta Preposito generale
P. Agostino Zamattio1° definitore, Vicario generale
P. Giovanni Rizzardo 2° definitore
P. Giovanni D’Ambrosi 3° definitore
La seconda seduta si tenne il 7 luglio 1937 e durò tutta la giornata, in due riprese. P. Aurelio Andreatta presiede. Non si elegge il maestro dei novizi (la cui nomina probabilmente spettava da quel momento in poi al preposito col consenso del consiglio.).
Il preposito propose l’apertura di una casa dell’Istituto a Roma, sotto forma di una chiesa non parrocchiale, alla Madonna della Consolazione, con annessa una casetta capace di dare alloggio a sei o sette religiosi, e alcuni obblighi di aiutare la domenica nelle parrocchie vicine. La proposta sembra assolutamente non conveniente e la votazione riesce con 10 voti contrari su 11. Così era successo in precedenza per una parrocchia rurale sulla Prenestina, offerta all’Istituto, che era stata rifiutata gentilmente, a livello di preposito e consiglio.
Seguono rendiconti economici e altre questioni del genere. Tra l’altro il capitolo accetta che si cominci ad intestare edifici e altri beni della congregazione, da alcuni anni riconosciuta come ente giuridico, alla congregazione stessa, mentre prima erano intestati “in ditta di alcuni confratelli”.
Le proposte dei discreti delle tre case dell’Istituto suggeriscono altri temi, in genere non molto rilevanti, che sono discussi e a volte votati.
Il preposito conclude questo capitolo generale parlando della programmazione avanzata della celebrazione dell’anno centenario della erezione canonica della Congregazione (1838-1938).
Il 17° capitolo generale ordinario (22° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) dell’1-5 luglio 1943.
Questo capitolo generale ordinario fu indetto dal preposito generale, P. Aurelio Andreatta, il 20 maggio 1943. Da notare subito che questo fu il primo capitolo generale ordinario indetto e convocato dopo un sessennio anziché dopo un triennio, a norma delle Mutationes del 1937 apportate alle Costituzioni, e in particolare della regola n° 187 citata nella lettera.
La riunione preliminare o preparatoria si tiene come di costume, e ora a norma della regola 193, come seduta separata dalle altre e non computata (stranamente, come sempre) tra i giorni del capitolo generale, il 30 giugno pomeriggio, ore 16. È alla presidenza l’anziano per professione, nel caso il P. Giovanni D’Ambrosi, Preside anche nella prima parte del Capitolo.
I capitolari (salvo il P. Giovanni Rizzardo, che avrebbe diritto di partecipazione, “come ex Preposito Generale” ma che del resto poco tempo prima aveva dato con lettera al Preposito le dimissioni dalla sua carica di Vicario e primo Definitore) sono i seguenti:
P. Aurelio Andreatta Preposito generale
P. Giovanni D’Ambrosi 2° Definitore
P. Mario Janeselli 3° Definitore
P. Alessandro Vianello 4° definitore e Procuratore generale
Dieci vocali in tutto.
P. Mario Janeselli è eletto anche questa volta al primo scrutinio segretario del Capitolo. Si eleggono i due scrutatori, P. Alessandro Vianello (in due scrutini) e P. Gioachino Tomasi (con un solo scrutinio).
P. Mario Janeselli, commentando la lettera sopra citata del dimissionario Vicario generale e 1° consigliere, manifesta il “massimo rispetto per la persona del P. Rizzardo (…). Tuttavia non può fare a meno di deplorare il fatto stesso come dannoso al bene dell’Istituto e di cattivo esempio ai Congregati e di fare voti perché questo modo di agire non diventi una tradizione. Tutti i presenti approvano le giuste osservazioni e P. D’Ambrosi, mentre lascia al nuovo Preposito di significare al P. Rizzardo il pensiero del Capitolo, insiste perché nella Comunità vi sia il vero amore ed anche la manifestazione esteriore della carità della quale vi è tanto bisogno nel nostro Istituto”.
Si conclude così la riunione preparatoria.
La prima seduta si tiene il 1° luglio 1943, nella casa di Venezia, in luogo imprecisato, probabilmente nella cappella del Crocifisso o dei Fondatori, dato il piccolo numero di vocali.
Il preposito legge la sua relazione sul sessennio trascorso, consistente in sette pagine manoscritte.
Il Preposito uscente ricorda in primo luogo i quattro confratelli defunti: i primi tre, dei giovani: P. Giovanni Tamanini morto di malattia, e i due religiosi morti affogati in laguna nel 1940: P. Luigi D’Andrea e fratel Enrico Cognolato; e poi P. Agostino Zamattio.
Passando alle gioie, descrive lungamente la celebrazione dell’anno del centenario (1838-1938), con le feste, la partecipazione del papa Pio XII (con lettera benedicente), del patriarca e dei vescovi delle diocesi dove sono le case dell’Istituto, inclusa Patti in Sicilia; le costruzioni, i restauri, il nuovo mosaico di Cristo re nel probandato di Possagno, le statue dei Fondatori a Possagno; la nuova cappella nella Casetta; e poi la pubblicistica sul centenario e sui Fondatori.
Giudica molto positiva nel complesso, la vita spirituale e la ricerca di santificazione; buona la situazione delle nostre scuole, con eccezione del problema della mancanza di professori laureati e abilitati Cavanis, a causa di una deficienza culturale e del ritardo di molti religiosi nel sostenere gli esami all’università. Sul terzo punto degli impegni della congregazione, loda la casa del S. Cuore a Coldraga con i suoi quasi 7 anni di attività.
Ricorda le nuove fondazioni a S. Stefano di Camastra e del probandato di Vicopelago; qui stona e dispiace senza dubbio nel testo della relazione (ancor più sulle labbra e sulla penna di un Trentino), l’osservazione che “i ragazzi [Toscani] sono meno intelligenti dei Veneti”. Il razzismo regionale italiano era già infiltrato in Congregazione!
Tocca poi l’associazionismo e l’aspetto economico delle case e della congregazione.
Un solo accenno di passaggio e quasi per caso alla terribile guerra che era in corso, e in cui l’Italia stava per subire il peggiore tracollo, quello che sarebbe giunto l’8 settembre seguente.
Compiute le altre formalità di rito da parte del preposito uscente, P. D’Ambrosi riassume la funzione del Preside capitolare; sembra che si sentisse nell’aria il progetto e il desiderio di molti di eleggere ancora una volta P. Aurelio; infatti il Preside legge le regole riguardanti l’elezione del preposito (179-180), “per mettere in chiaro la posizione del P. Aurelio Andreatta: resta fisso che se fosse eletto Preposito, questa sarebbe la terza rielezione e quindi per la cost. 180, in tale caso vi dovrebbe essere la postulazione”.
Si passa alla elezione del primo definitore e in seguito in ordine degli altri, con dieci votanti. Sono eletti:
P. Aurelio Andreatta 1° defin., uno scrutinio, 10 voti su 11
P. Mario Janeselli2° definitore, in uno scrutinio
P. Giovanni D’Ambrosi 3° definitore, un solo scrutinio
Si vota ora per il Preposito Generale, che deve essere scelto tra i cinque definitori: Con undici vocali, viene eletto preposito generale, con 10 voti, P. Aurelio Andreatta. L’altro voto, evidentemente di P. Andreatta, è dato al P. Mario Janeselli. Il numero di dieci voti supera largamente i due terzi dei voti: “A questo punto la seduta è sospesa per aspettare la conferma dalla S. Sede trattandosi di postulazione”. Il Presidente (P. D’Ambrosi) compilerà la domanda e il segretario il verbale che saranno portati a Roma da P. Giovanni Battista Piasentini in giornata”. Il viaggio di P. Piasentini, andata e ritorno fu breve e fruttuoso, data anche la sua abilità. Sarebbe stato differente a partire dall’8 settembre seguente, quando l’Italia fu occupata dai tedeschi, e le comunicazioni divennero, per molti anni, almeno fino al 1948, un problema serio.
La seconda riunione si tenne il 3 luglio, e cominciò alle 18,30. Il Preside lesse il rescritto della Congregazione dei Religiosi, ottenuto in forma graziosa (e molto rapida!). Il governo e consiglio generale era allora così costituito:
P. Aurelio Andreatta Preposito, 10 voti su 11(quarto mandato)
P. Mario Janeselli 1° definitore
P. Giovanni D’Ambrosi 2° definitore
P. Alessandro Vianello 3° definitore
La terza e ultima seduta fu celebrata il 4 luglio mattina. P. Aurelio Andreatta presiedeva la riunione. Dopo una breve revisione dei rendiconti economici e della situazione economico-amministrativa della congregazione, Il Preposito espone la possibilità di aprire un seminario minore più esattamente un aspirantato, a Pergine (Provincia e arcidiocesi di Trento); in realtà, a Costasavina, piccola frazione di quel borgo. L’arcivescovo aveva dato il suo accordo, la casa era conosciuta, non era il caso di farne l’acquisto in tempo di guerra e si pensava di prenderla per il momento in affitto, con opzione chiara per l’acquisto a momento opportuno; la localizzazione era molto favorevole, dato il grande numero di religiosi Cavanis provenienti dal Trentino.
Ai capitolari sono presentate le seguenti questioni “1ª: Se il Capitolo crede opportuna la fondazione di un aspirantato per alimentare di nuovi soggetti l’Istituto. 2ª: [manca il testo di questa questione nel verbale]”.
Non si trova stranamente nel verbale di questa riunione la risposta del capitolo a queste due questioni, ma essa fu certo positiva, perché di fatto il seminario minore o aspirantato, con annesso noviziato fu fondato il 31 agosto 1943, con un pro-rettore che era anche maestro dei novizi e direttore dell’aspirantato o probandato, un vice-maestro e un fratello laico. La sede era la “Villa Moretta” nella ridente valle del Fersina, nella detta frazione di Costasavina.
Dai verbali non risulta che siano state trattate in dettaglio le proposte dei discreti delle case, forse dato il modesto ritardo incontrato con la richiesta di indulto alla S. Sede, forse per la situazione di guerra, ma nei verbali non se ne dà motivo.
Dopo poche questioni minori, il Capitolo generale fu dichiarato concluso.
Finisce qui la serie dei capitoli generali ordinari della prima metà del XX secolo. In tutto, considerando anche il capitolo del 1900, sono stati 14 capitoli generali ordinari fino al 1943; ci fu un solo Capitolo generale straordinario in questa metà del secolo (8-10 luglio 1930), che ebbe lo scopo di presentare le Costituzioni emendate.
Il 18° capitolo generale ordinario (23° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) dell’18-24 luglio 1949.
Questo capitolo generale ordinario fu indetto dal preposito generale uscente P. Aurelio Andreatta il 21 giugno 1949. Da questa lettera si apprende tra l’altro che era ancora valida la regola antica che prescriveva che la voce passiva era riconosciuta soltanto ai religiosi (sacerdoti, pertanto) che avevano esercitato il magistero per almeno 10 anni dopo la prima professione. La lettera ricorda anche che la congregazione prevedeva che solo le case formate (Cioè con più di cinque religiosi) potevano eleggere e inviare ai capitoli dei discreti, ossia delegati. Si era bensì chiesto alla S. Congregazione dei Religiosi di includere un comma nella cost. 188, per permettere che le case definite non formate potessero, riunite in gruppi, eleggere un discreto. Non era tuttavia ancora arrivata la risposta favorevole, come si sperava.
Lo stesso giorno però doveva essere arrivata la risposta, perché il preposito invia una lettera alle comunità nella stessa data del 21 giugno, in cui annuncia che la risposta era arrivata ed era favorevole; le case non formate a gruppi di 2 o 3 potevano riunirsi ed eleggere discreti per rappresentarle ai capitoli.
La seduta preparatoria fu tenuta a Venezia, come sempre, in data 18 luglio 1949 alle 16. I capitolari sono i seguenti:
P. Aurelio Andreatta Preposito generale uscente
P. Giovanni D’Ambrosi 1° Definitore
P. Mario Janeselli 2° Definitore
P. Alessandro Vianello 3° Definitore
P. Pellegrino Bolzonello 4° Definitore
Sono tredici vocali in tutto.
P. Vincenzo Saveri chiede poi la parola per esprimere il dubbio (molto tardivo!) sulla validità dell’rielezione del P. Aurelio Andreatta (nel capitolo del 1949 Preposito uscente) alla sua elezione prima del capitolo del 1937 aveva già governato la Congregazione per due trienni. P. Aurelio risponde “che allora non esisteva alcun impedimento perché non era ancora spirato il 2 (sic) triennio della sua prepositura quando furono promulgate le Mutationes. La risposta non convince molto, e questo brevissimo dibattito può essere occasione di un piccolo studio giuridico su una delle tante questioni storico-giuridiche che presentano ancora oggi i capitoli generali dell’Istituto.
Il 20 luglio 1949 si svolge la prima sessione vera e propria, “nel presbiterio della Chiesa di S. Agnese” per le elezioni.
Il Preposito uscente P. Aurelio Andreatta presenta la sua relazione sullo stato della Congregazione, un testo manoscritto di nove pagine. Egli esordisce dividendo il tempo del suo mandato sessennale in due periodi distinti. “Il primo caratterizzato da una guerra, di cui anche l’Italia ha subito le turbinose vicende; il secondo permeato e scosso da quei fermenti morali, politici e sociali che di ogni guerra sono l’inevitabile e triste eredità”. Ricorda il bilancio di guerra nei riguardi dell’Istituto, dicendo “La nostra fiducia in Dio e nella Vergine Santa non fu delusa: il lavoro nostro a Venezia, a Possagno e nei Probandati continuò nonostante alcune restrizioni dovute alle contingenze belliche; a Porcari, occupato il Collegio dalle truppe tedesche, la scuola poté essere trasportata per un certo numero di allievi nella Villa di S. Giuseppe di Vicopelago, la quale specialmente nella fase critica del passaggio degli eserciti combattenti, funzionò come asilo di sicurezza e per i nostri Religiosi di Toscana e rimasti staccati dalla Casa Madre di Venezia dal settembre 1944 al 2 maggio 1945.
Ci furono per la Congregazione danni materiali a Porcari, al Cinquale, a Possagno, ma non eccessivi: la sorte dei collegi di Porcari e di Possagno poteva essere irreparabile.
Niente danni alle persone e con evidenti interventi dall’alto, come possono testimoniare i Padri di Porcari, sottoposti a continui pericoli per mantenere i collegamenti tra il Collegio e Vicopelago, e quelli di Possagno, coinvolti nel tristissimo rastrellamento del Grappa.
Dei cappellani militari richiesti al nostro Istituto, uno fu subito congedato, l’altro rientrò incolume dopo aver compiuto il suo ministero spirituale in circostanze molto pericolose.
Questo il nostro bilancio di guerra, dinanzi al quale anche oggi riconosciamo la benignità del Signore a nostro riguardo, come l’abbiamo riconosciuta appena finite le ostilità in solenni funzioni a Venezia, a Porcari, a Possagno.”
Particolarmente interessante, nella relazione del P. Aurelio, i dettagli numerici di carattere anagrafico e religioso:
“L’incremento del personale. La statistica nostra è la seguente: dal gennaio 1937 vestirono l’abito dell’Istituto n. 113 novizi; uscirono o furono dimessi 18 novizi, 3 professi temporanei expleto triennio, 12 professi temporanei perdurantibus votis.
Al 31 dicembre 1948 l’Istituto contava N. 113 professi, dei quali 34 temporanei, perpetui 79.
I Sacerdoti oggi sono 59, i Novizi 13, dei quali 11 studenti e due fratelli laici.
Sono passati a miglior vita in questo periodo il P. Giovanni Rizzardo, il P. Amedeo Fedel; fra Angelo Furian.”
P. Aurelio ricordava poi l’inizio del probandato in Trentino a Costasavina, poi trasferito (1949) a Levico; di Borca e di Roma dal 1946. Tra i lavori eseguiti si parla della nuova ala della casa del S. Cuore, del musaico del Cristo re nel probandato di Possagno e dei pannelli di legni della chiesa.
Ricorda la consacrazione episcopale del primo (e unico per ora) vescovo della congregazione. Senza volersi diffondere troppo, si accenna qui all’interesse delle considerazioni di P. Aurelio sulla formazione, sulla vita morale e spirituale dei religiosi, sulla secolarizzazione che già prendeva piede, sulla difficoltà di dedicarsi a fondo alle associazioni senza lasciarsi andare a una vita con caratteristiche mondane e con orari e forme di comportamento inaccettabili per religiosi.
La relazione, estremamente interessante, si conclude parlando delle Figlie del S. Nome, ormai stabilite come Istituto secolare.
Completata questa, P. Aurelio Andreatta, dopo 18 anni di governo di alta qualità, torna al suo posto di anzianità tra i confratelli vocali e, dopo un’esortazione a ben votare del Preside del Capitolo, P. Giovanni D’Ambrosi, si passa alle elezioni, secondo il sistema classico. Sono eletti i seguenti:
P. Antonio Cristelli 1° Definitore, un solo scrutinio
P. Aurelio Andreatta 2° Definitore, con 2 scrutini
P. Giovanni D’Ambrosi 3° Definitore, tre scrutini
P. Mansueto Janeselli 4° Definitore, due scrutini
Compiute altre formalità, nella elezione del preposito, rimane eletto Preposito generale al primo scrutinio il P. Antonio Cristelli. Il governo e il consiglio generale della Congregazione sono allora così costituiti:
P. Antonio Cristelli Preposito generale, uno scrutinio
P. Aurelio Andreatta 1° Definitore e Vicario generale
P. Giovanni D’Ambrosi 2° Definitore
P. Mansueto Janeselli 3° Definitore
Vengono anche eletti P. Aurelio Andreatta alla carica di Procuratore generale (incarico che eserciterà finalmente con sede a Roma) e economo generale inizialmente P. Livio Donati. Con il Te Deum cantato nella bella Chiesa di S. Agnese, con la presenza della comunità, si chiude la sessione.
Il 20 luglio 1949 si tenne la seconda sessione, dedicata all’ascolto delle proposte dei discreti o delegati, questa volta numerosi, e al dibattito sui temi. Era presente anche il P. Livio Donati, eletto economo generale, che del resto apparteneva alla comunità della casa madre, di cui era secondo consigliere.
Si parla dei lavori in corso per la costruzione del Liceo Calasanzio a Possagno, e si approva la loro continuazione, nonostante ciò crei un debito rilevante; si conferma la prassi, iniziata durante la guerra, di adibire a sede canonica del noviziato la casa del S. Cuore, nonostante alcuni dubbi iniziali; si dichiara di passaggio che gli esercizi spirituali sono “scopo secondario” dell’istituto. Si aggiunge anche la notizia che il P. Francesco Saverio Zanon aveva scritto una lettera al P. Pellegrino Bolzonello, direttore della Casa de S. Cuore (casa degli Esercizi spirituali), in cui dichiarava, autorevolmente, “che gli Esercizi spirituali non sono un ostacolo alla scuola, ma anzi ne completano l’opera.”
Si discute sulle mutuae relationes tra il preposito e il rettore della comunità di Venezia. Si lascia chiaro che “i compiti del Rettore sono quelli stessi dei Rettori delle altre case dove non risiede il Preposito”.
Si richiede e si vota il ritorno in comunità del P. Riccardo Zardinoni, che per tre anni era stato concesso dal Preposito come segretario al vescovo Cavanis monsignor Padre Piasentini, vescovo di Anagni (Frosinone); “cui il Preposito non ha potuto opporre un rifiuto”. L’ultima importante questione trattata, è quella della necessità, su cui si concorda, di un aggiornamento e revisione della II parte della Costituzioni in cui “non mancano mende e incongruenze”.
Il 24 luglio 1949 si tenne ancora una sessione, forse non programmata in antecedenza, dato che il verbale porta il sottotitolo “per la rielezione dell’Economo Generale”. In seguito al suo trasferimento da Venezia alla Casa de S. Cuore di Possagno, P. Livio Donati non potrebbe svolgere i compiti di economo generale. Presenta le dimissioni, che sono accettate, e si elegge al suo posto P. Cesare Turetta.
Il Preposito approfitta per dar lettura della convenzione per l’uso (e in pratica la locazione) dell’Albergo Dolomiti di Borca di Cadore. Ci si lamenta che il vescovo di Feltre e Belluno, monsignor Girolamo Bortignon, che senza consultare la Congregazione a firmato detta convenzione a svantaggio della stessa, che porta il peso delle spese di affitto. Si annunciavano cose peggiori. Si veda in proposito la dolorosa storia di quella casa, nella sezione apposita.
Il capitolo generale del luglio 1949 si chiude così il 24 luglio, dopo senza dubbio aver preso visione dei numerosissimi documenti annessi, sia che si tratti di verbali di elezioni di discreti, di proposte degli stessi, di lettere al preposito o al capitolo, di rendiconti economici e di offerte di messe; documenti di cui non di parla nei verbali e che qui quindi non esporremo in dettaglio.
Il 19° capitolo generale ordinario (24° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) 12-27 luglio 1955.
Questo capitolo generale ordinario fu indetto dal preposito generale P. Antonio Cristelli con lettera del 2 maggio 1955.
La seduta preparatoria fu tenuta a Venezia, in data 12 luglio 1955 alle 18. I capitolari o vocali sono i seguenti:
P. Antonio Cristelli Preposito uscente
P. Aurelio Andreatta 1° Definitore, proc. gen.
P. Giovanni D’Ambrosi 2° Definitore uscente
P. Mansueto Janeselli 3° Definitore uscente
P. Gioachino Tomasi 4° Definitore uscente
P. Francesco Dal Favero Discreto casa Porcari-Pianore
Il giorno successivo, il 12 luglio 1955, nella chiesa di S. Agnese si tiene la prima riunione effettiva ed elettiva. P. Antonio Cristelli, preposito uscente, che già aveva celebrato la S. Messa allo Spirito Santo nella stessa chiesa, fa il suo discorso sullo stato della congregazione che è agli atti. Mette in risalto l’aumento di opere e di risultati, ma anche “un sensibile regresso” specialmente da parte di alcuni dei congregati nel campo della disciplina, della pietà e del ministero.
Lo stato del personale è il seguente nel sessennio 1949-1955:
Novizi 38, e ne uscirono 6;
Professi temporanei che lasciarono l’Istituto 16
Professi perpetui che lasciarono l’Istituto 4
Membri che portano l’abito dell’Istituto 134
Di cui:
Sacerdoti 84
Fratelli laici 14?
Novizi 5
Mette in risalto, accanto ad abbondanti virtù di tanti, il gap generazionale, la secolarizzazione, lo spirito di indipendenza e di poco rispetto da parte di alcuni, soprattutto dei più giovani.
Si viene a sapere, di passaggio, che i seminaristi teologi a Venezia sono stati trasferiti dalla “casetta” alla casa gotica prospiciente alla piscina Venier (n° 834), sia nelle stanze superiori, sia in due ampie stanze al primo piano, per evitare l’andirivieni tra le due case.
Un intervento con richiesta di informazioni su alcune questioni un po’ scottanti, da parte di P. Vincenzo Saveri, viene stoppata (opportunamente) e rimessa alla sessione successiva a quella delle elezioni.
Iniziate queste, vengono eletti definitori, sempre seguendo ancora, stranamente, il metodo antico, vengono eletti definitori nell’ordine:
P. Gioachino Tomasi con uno scrutinio;
P. Federico Grigolo al 1° scrutinio;
P. Luigi Ferrari al 3° scrutinio;
P. Antonio Eibenstein al 1° scrutinio;
P. Vincenzo Saveri al 1° scrutinio.
Il 13 luglio, dalle ore 8, si procede all’elezione del preposito generale e delle altre cariche di curia. Dopo pochi preliminari, è eletto preposito generale il P. Gioachino Tomasi, al primo scrutinio.
Segue l’elezione di P. Antonio Cristelli come procuratore generale (due scrutini); di P. Narciso Bastianon come economo generale (1 scrutinio); questi resterà tale fino al 1989, quando fu sostituito da P. Pietro Luigi Pennacchi nella carica. Sarà dunque economo generale per ben 34 anni, segno di grande fiducia a stima.
Nel pomeriggio del 13 luglio 1955, si esaminano e discutono i bilanci e altri aspetti economici della gestione, senza grandi dibattiti; si decide in pratica di non cambiare la indesiderabile situazione del probandato di Possagno, dove sono alloggiati insieme probandi della medie, del ginnasio e del liceo (lo si farà nel 1957-58, quando i liceali si trasferiranno a Venezia); e infine si decide di rinunciare a aggiungere un terzo piano all’edificio detto anche allora (nel 1955 e nelle conversazioni del capitolo) edificio dello studentato eppure non utilizzato per gli studenti teologi né per altri studenti; e di aspettare tempi migliori. In realtà, P. Tomasi, nuovo preposito, comincerà i lavori per la costruzione del terzo piano suddetto e la completa ristrutturazione dell’edificio dello studentato pochi mesi dopo il capitolo, nel 1956, di sua iniziativa, e l’inaugurazione sarà celebrata il 10 febbraio 1958.
Si scarta la possibilità offerta di acquistare l’antico (e storico in sé e per l’Istituto) Ospedale degli Incurabili, allora adibito a centro di rieducazione dei minorenni, in cui alcuni padri operavano in favore di quei poveri giovano traviati.
Si approva infine di iniziare le trattative per l’acquisto di un tratto di un lotto di terreno lungo la spiaggia di Bibione (frazione di S. Michele al Tagliamento, Venezia), per farne una colonia marina. Da notare che il terreno era venduto a un prezzo incredibile modico – nulla, anche a quei tempi, solo £ 150/m²! – poi non se ne fece nulla. Forse il prezzo era ben differente.
Fino a qui il capitolo si era tenuto nella chiesa di S. Agnese. La quarta sessione, celebrata il 14 luglio 1955, nonostante non fosse domenica ma giovedì quell’anno, si sposta per qualche motivo nella classe di IV ginnasio, al quel tempo sita dove attualmente ci sono l’aula di fisica e scienze, o quella di informatica. Vi si trattano varie questioni minori; tra le altre:
Si rifiuta alla Casa del S. Cuore una quota pro-capite di contributo economico per il mantenimento dei novizi, da quella casa richiesta.
La quinta sessione, del 14 luglio pomeriggio, tratta di varie questioni minori, che qui non vale la pena di ricordare, anche perché saranno riassunte nelle (magre) decisioni capitolari. La più importante è quella della proprietà dell’immobile occupato dal Centro di avviamento professionale di Chioggia. Si dice chiaro che è stata “donazione effettiva all’Istituto con tutti i vantaggi e oneri relativi e di donazione sospensiva perché qualora non si adempia la volontà del donante, cessa”. Non è dunque, in realtà, una vera donazione, a parere di chi scrive. In capitolo, si perfeziona nei dettagli il testo dell’atto.
Più interessante la risposta data dal P. Aurelio Andreatta a chi chiede quali siano le relazioni tra il nostro istituto e quello del S. Nome; curioso il termine usato. P. Aurelio dice che “l’Istituto delle Figlie del S. Nome è una germogliazione del nostro, con regole modellate sulle nostre ed il Preposito e un Padre suo delegato le dirige spiritualmente “. Dice anche che la posizione non è ancora definita, ma è in via di assestamento.
Non è per nulla chiaro perché la sesta sessione si tenga 13 giorni dopo, il 27 luglio 1955. Sembra però che la pausa sia legata all’elaborazione definitiva del documento di “donazione” del terreno del Centro professionale; ma l’intervallo, che del resto non cambia la situazione, sia eccessivo. In questa sessione si discute ancora su dettagli e poi si passa al voto di accettazione; compresi i voti inviati per lettera da quattro vocali assenti giustificati, il documento definitivo ottiene, su 16 votanti, 14 “sì” e 2 “no”.
Il vescovo di Ponta Grossa (Pontagrossa, si scrive nel verbale) chiede un invio di sacerdoti e si decide di incaricare il preposito di fare o far fare un sopralluogo. Si parla brevemente anche dell’Istituto Tata Giovanni, in cui si era cominciato a operare, piuttosto per forza che per intenzione, come fa capire una risposta del P. Andreatta, ma non si ha ancora una formale convenzione scritta con l’Istituzione del Tata Giovanni.
Il capitolo generale produce sei magre delibere (datate 30 luglio 1955), in genere di scarso rilievo e qui riassunte:
Sulla gratuità, la cost. 96 rimane immutata. Non è contro tale regola ricevere il modesto contributo per le spese di segreteria e cancelleria. Già si faceva così al tempo di P. Casara.
Restano vietati i regali e doni dagli alunni e loro famiglie. Si possono accettare offerte per le messe.
La lettera di indizione di questo capitolo fu inviata dal preposito l’11 maggio 1961, convocando i capitolari per le ore 9 del 17 luglio 1961.
Il capitolo si riunisce a Venezia, avendo come aula capitolare l’aula scolastica di IV ginnasio (vedi sopra per la localizzazione), sabato 15 luglio 1961, alle ore 16.15. Vige ancora il sistema di sempre, della riunione preliminare per le elezioni del segretario e degli scrutatori, il cui il Preside è il più anziano dei vocali; e vige ancora, incredibilmente, ma come si vede doverosamente annotato verso la fine della prima pagina del verbale di questa riunione, la regola che la voce attiva e passiva è posseduta solo dai religiosi preti che rispondono al requisito dei 10 anni d’insegnamento.
I capitolari o vocali sono (in ordine di professione, secondo il verbale capitolare):
P. Aurelio Andreatta preposito emerito
P. Vincenzo Saveri definitore
P. Antonio Eibensteindefinitore
P. Antonio Cristelli preposito emerito-procuratore generale
P. Luigi Ferrari definitore
P. Nicola Zecchin rettore del probandato di Possagno
Presa una giornata di riposo la domenica, il capitolo riprende, o meglio, comincia formalmente, il lunedì 17. Il preposito uscente P. Gioachino Tomasi pronuncia la sua ampia e lucida relazione sul sessennio, I membri della congregazione sono:
Membri 135 di cui:
Sacerdoti 103
Chierici con voti perpetui 2
Chierici con voti temporanei 12
Fratelli con voti perpetui 14
Con voti temporanei –
Novizi 3
Novizi studenti 2
Novizi fratelli 1
Durante il sessennio avevano preso l’abito 25 studenti e un fratello. Si preannunziava la sparizione di questi ultimi. Lasciarono la congregazione, nel periodo di sei anni, 5 novizi, 13 professi temporanei; 2 professi perpetui.
“Inoltre ci fu la dolorosa defezione di due nostri religiosi in sacris, il suddiacono Valandro Egidio, che di sua spontanea volontà chiese e ottenne dalla S. Sede la laicizzazione; e il sacerdote Nani Sartorio, al quale fu concessa temporariamente la excaustratio qualificata, che comporta l’esonero da tutti gli obblighi ecclesiastici e religiosi, eccetto il sacro celibato”.
Ricorda i lavori eseguiti per lo studentato di Venezia, il completamento del liceo Calasanzio a Possagno, opere e nuove ali o piani a Chioggia, Capezzano, Levico e altro. Ricorda anche la donazione della proprietà (casa e terreno), sia pure non assoluta, della casa di Roma a via Casilina, effettuata dalla santa sede il 18 maggio 1961. La congregazione aveva acquistato nel sessennio anche un buon numero di immobili per vario motivo, incrementando così il capitale patrimoniale.
Il preposito uscente parla poi dei sacri ministeri dentro del carisma proprio: quasi tutti i religiosi preti si dedicano alla scuola ed è aumentato il numero dei laureati o (e questo è importante) diplomati (dopo un solo anno di frequenza, in genere) presso la Pontificia Università Lateranense-PUL. Importante, mi pare importante notare, in senso negativo; perché la licenza (più che diploma) alla PUL divenne una scorciatoia, introdotta da P. Tomasi, per avere a buon mercato insegnanti di lettere, tramite l’equipollenza accettata dallo stato italiano; si diminuì così la qualità e la preparazione, come del resto fa notare P. Tomasi, pur non mostrando la dipendenza di un fatto dall’altro.
L’altro ministero che viene sottolineato è quello della casa degli esercizi spirituali a Possagno.
Il preposito tocca brevemente i temi della congregazione mariana, degli ex-allievi e del gruppo zelatrici.
Tocca la brevissima esperienza non andata a buon fine della casa di Cesena. Stranamente non fa riferimento al viaggio prezioso, anche se senza effetto immediato, del P. Riccardo Zardinoni in Brasile.
Dopo aver ricordato i momenti fausti del sessennio e le virtù della maggioranza dei confratelli, ricorda alcune difficoltà, come i normali problemi di mancanza di osservanza o di carità che accadono nelle comunità.
Tocca alcuni fatti notevoli in questo campo: e in particolare la difficoltà di alcuni ad accettare, ancora un quarto di secolo dopo, le Mutationes del 1937, e che considerano “un deviazionismo” la casa del S. Cuore e la casa di Chioggia: e cioè, rispettivamente il ministero degli Esercizi Spirituali – pur tanto evidente nelle regole di sempre, e il ministero dell’educazione, anche fuori dalla scuola di tipo classico; cosa ancora più assurda. Ma il fenomeno, che durerà a lungo, porta alcuni a parlare imprudentemente, a scandalizzare seminaristi e giovani. “C’è infine qualche religioso malcontento che sogna Superiori ideali e intanto calpesta l’autorità degli attuali e sparge in altre case la zizzania del malumore”.
Propone un aggiornamento della seconda parte delle regole. E auspica una chiarificazione sui due punti ministeriali sopra citati. Sarà quello che farà il capitolo straordinario speciale del 1969-70, otto anni più tardi, sia pure con gravi difficoltà, proprio per via delle persone malcontente e sempre critiche, cui accennava il preposito uscente verso la fine della sua relazione.
Iniziano poi le elezioni, con 22 votanti. Sono eletti come definitori nell’ordine:
P. Giuseppe Panizzolo, al terzo scrutinio;
P. Valentino Pozzobon, al primo scrutinio;
P. Antonio Cristelli, al terzo scrutinio;
P. Giovanni De Biasio, al terzo scrutinio.
P. Livio Donati, al primo scrutinio.
Il governo e consiglio della congregazione rimane allora così costituito:
P. Giuseppe Panizzolo preposito generale
P. Valentino Pozzobon 1° definitore;
P. Antonio Cristelli 2° definitore;
P. Giovanni De Biasio 3° definitore.
P. Livio Donati 4° definitore.
Si elegge poi il procuratore generale, il P. Luigi Candiago, con un solo scrutinio.
Economo generale è rieletto il P. Narciso Bastianon, al primo scrutinio.
Mercoledì 19 luglio il capitolo riprende e la giornata e anche la seguente del 20 luglio sono occupate quasi completamente da argomenti di carattere economico-finanziario.
Il venerdì 21 luglio il capitolo in primo luogo dichiara che la scuola professionale (a Chioggia, nel caso) e l’assistenza data ai giovani carenti e orfani (al Tata Giovanni) rientrano pienamente nel carisma dell’Istituto. Lo stesso si dichiara poco dopo per l’opera degli esercizi spirituali e in particolare per la casa del S. Cuore.
Si parla poi di vari dettagli del ministero dell’educazione della gioventù nella scuola, nell’associazionismo. Una questione che si dibatté a lungo in quel periodo (e anche in seguito) era quella dell’opportunità di separare le due comunità del collegio Canova e del Liceo Calasanzio: ma si decise con voto all’unanimità di non dividere la comunità.
P. Aurelio Andreatta illustra la storia e lo spirito dell’Istituto secolare femminile, attualmente di diritto diocesano e ne spiega i rapporti con l’Istituto maschile. La guida spirituale dovrebbe esserne il preposito stesso, che ne delega un altro religioso.
Sabato 22 luglio durante l’ultima seduta del capitolo si parla di una miriade di piccole cose; si raccomanda che ai padri iscritti all’università si conceda del tempo, almeno durante le vacanze, per prepararsi agli esami (!). Si esamina tiepidamente una richiesta di riprendere la fondazione (appena lasciata) di Cesena. Si accenna all’eventuale utilità dell’“impianto televisivo nella Casa Madre” ma con qualche cautela. Il capitolo generale si chiude la mattina stessa, alle ore 11.30 del sabato 22 luglio 1961.
Le delibere del capitolo del 1961, firmate il 22 luglio 1961 dal nuovo preposito P. Giuseppe Panizzolo, dal segretario capitolare P. Antonio Eibenstein, come pure dal P. Giovanni De Biasio, sono numerose e qui sotto sono riassunte in poche parole (salvo alcune più importanti, citate letteralmente), per ordine:
Sono confermate e delibere del Capitolo generale del 1955.
“Si precisa che la Casa del S. Cuore in Possagno corrisponde pienamente allo spirito delle Costituzioni”.
“Circa la scuola professionale (=Chioggia, N.d.A.) e l’assistenza prestata dai nostri Religiosi presso il “Tata Giovanni” si precisa che dette attività rientrano nello spirito della Regola 3 comma 2”.
Data la donazione effettuata dalla S. Sede del terreno e villa di via Casilina, si prevede la costruzione di un edificio per 200 alunni nel sessennio, con spesa di 150 milioni.
Sui compiti dell’economo generale.
“La famiglia religiosa del Collegio Canova sia conservata unita”.
A titolo di conclusione, si può affermare che questo capitolo fu uno dei primi in cui la parte di trattazione delle questioni e dei temi pendenti e, in parte, riguardanti il carisma, hanno avuto la prevalenza sulla sezione elettiva.
Il 21° capitolo generale ordinario (26° considerando i capitoli provinciali ordinari celebrati prima del 1891) 30 luglio-12 agosto 1967.
Questo capitolo generale ordinario è il primo celebrato in forma moderna, sia per il numero delle sedute (19, includendo la preliminare), sia per la portata e la vastità dei temi trattati, sia per la prevalenza chiara della trattazione dei temi sulla parte elettiva, sia per lo “spessore” (in tutti i sensi) del libro dei verbali, sia per i risultati del capitolo: esso diede una importante svolta nella vita della congregazione, all’altezza di un capitolo celebrato dopo la grande svolta operata nella Chiesa universale con la celebrazione del Concilio ecumenico Vaticano II.
Difficile riassumere in poche pagine tanto lavoro, tanti temi, tanti avvenimenti.
Il capitolo fu indetto il 14 maggio 1967 dal preposito uscente, P. Giuseppe Panizzolo. Non esiste invece una vera convocazione, ma un avviso ai capitolari sull’ora e il luogo della riunione preliminare, datato 30 luglio 1967 da Venezia, a firma pure del P. Panizzolo.
Ebbe inizio il 30 luglio 1967 alle 17.30, a Venezia, nell’aula di quella che era la 5ª ginnasiale, al primo piano del palazzo antico delle scuole, nell’attuale (2021) aula di fisica o nell’attuale aula di informatica. Era la riunione preliminare e non fu computata nel numero delle sedute.
Erano presenti i padri capitolari o vocali:
P. Giuseppe Panizzolo preposito uscente
P. Valentino Pozzobon definitore
P. Antonio Cristelli definitore e preposito emerito
P. Giovanni De Biasiodefinitore
P. Livio Donati definitore e rettore di Solaro
P. Nicola Zecchin maestro dei novizi
Il presidente o preside, P. Antonio Cristelli, che fin dall’inizio dà il tono nuovo a questo capitolo, “esorta, a titolo personale, i Capitolari a procedere secondo le regole e la prassi tradizionale, anche se in esse si notano alcune incongruenze ed incompletezze, rimandando la modifica al Capitolo Generale Speciale”. Se ne parlava dunque già da allora e l’intenzione di rinnovare le costituzioni, oltre che obbligatoria, era stata resa chiara e necessaria già da questa premessa del presidente interino del capitolo.
Si propone (Gioachino Tomasi) che ci siano due moderatori ad affiancare il presidente e che si compili un foglietto informativo sui lavori per i confratelli. Si propone (Aldo Servini) che siano formate commissioni per organizzare il materiale da discutere.
Si crea una lunga discussione su queste proposte, e ci si polarizza in due tendenze:
Rispettare la prassi di fare prima le elezioni e poi la discussione delle relazioni dei discreti (ossia delegati delle case) sui problemi generali della congregazione.
Nella 1ª seduta, del 1° agosto, presieduta questa volta dal preposito generale uscente, P. Giuseppe Panizzolo, assistito dai suoi consiglieri, ancora chiamati definitori, il suddetto legge la sua relazione sullo stato della Congregazione.
Dopo le formalità di uso, riprende a presiedere (dopo che il preposito uscente ha lasciato il luogo di presidenza ed è passato al suo posto di anzianità) il preside, ossia P. Antonio Cristelli. Dopo ampia discussione, si eleggono due commissioni che saranno incaricate di esaminare la parte patrimoniale della relazione del preposito (la prima commissione) e le altre parti della relazione (la seconda commissione).
Nella prima sono eletti i PP. Cortelezzi, Del Debbio e Merotto; nella seconda i PP. Zecchin, Tomasi e Grigolo. Il capitolo si riunirà ancora in plenario dopo completato il lavoro delle commissioni.
La 2ª seduta si riunisce il 2 agosto. Il preside invita il P. Zecchin della 2ª commissione a leggere i risultati. Questi possono essere riassunti nei punti seguenti:
Si nota che i probandi sono pochi, nonostante le migliorie ambientali apportate ai seminari. Il preposito risponde saggiamente mostrando l’inizio del fenomeno di carattere demografico (diminuzione dei figli) e di cambiamento della società.
Si parla ancora della situazione spirituale e disciplinare delle comunità, di qualche problema personale che viene definito dal preposito riservato e non definito; delle visite canoniche; dello studentato.
Il 3 agosto si tiene la 4ª seduta, prendendo ora come aula capitolare la chiesa di S. Agnese. La 1ª commissione presenta la propria relazione sugli aspetti patrimoniali e amministrativi con varie critiche. Ne segue un ampio dibattito, con contestazioni anche molto forti; si critica soprattutto la libertà illegale con cui rettori, case e preposito hanno effettuato lavori di costruzione e restauro di fondo, acquisto di terreni e altre grandi spese, per decine di milioni di lire, senza seguire la procedura prevista. Ci sono spiegazioni, tentativi di spiegazioni non ben riconosciute, presentazioni di scuse. Una seduta vivace, senza dubbio. Il dibattito riguarda soprattutto le case di Capezzano Pianore, di Porcari e del collegio Canova: quelle più grandi e con maggiore disponibilità di capitale, essendo collegi ossia convitti.
Si tratta anche della situazione (cronicamente deficitaria) della casa del S. Cuore, delle spese per il rifacimento liturgico (molto ben riuscito) del presbitero della chiesa di S. Agnese, di cui si aveva il permesso del preposito e consiglio ma in cui non di era consultata la comunità locale; si chiedono e danno spiegazioni sulle spese di costruzione di Solaro. Si lamenta la mancata interruzione della presenza dei fittavoli Picchiani da Roma/Casilina.
La 5ª riunione del 3 agosto pomeriggio dà inizia alla fase elettiva del capitolo. Data la vicinanza relativa di questo evento (52 anni), si evita, qui e a partire da questo capitolo, di dare ragguagli sui dettagli delle elezioni, sulla base del verbale. Basterà dire che sono eletti:
P. Orfeo Mason preposito generale (postulato, in attesa di dispensa).
P. Giovanni De Biasio 1° definitore e vicario generale
P. Ugo Del Debbio 2° definitore
P. Giuseppe Simioni 3° definitore
P. Nicola Zecchin 4° definitore
Si tiene allora la 6ª seduta, esattamente alle 20,30; dopo la lettura dei verbali del giorno precedente e una lunga serie di richieste di correzioni su questioni attinenti all’amministrazione (tema che con tutta evidenza aveva pesantemente colpito alcuni superiori e rettori), il presidente comunica che la S. Sede ha concesso la dispensa d’età al P. Orfeo Mason, quindi egli viene dichiarato eletto (e dunque non solo postulato); a questo punto si procede come al solito e si comunica alla comunità locale e poi a tutti l’avvenuta elezione.
Si procede, ancora quella sera, all’elezione del P. Gioachino Tomasi a procuratore generale, e del P. Narciso Bastianon a economo generale. La riunione si conclude alle 21,30.
La 7ª seduta si tiene il giorno successivo 5 agosto, sotto la presidenza dal neo-eletto preposito generale P. Orfeo Mason.
Si leggono nell’ordine di anzianità delle case (e prima le case formate e poi le case non formate) i documenti dei discreti. Si leggono anche alcuni studi sulle case di formazione e uno sulle vocazioni. Quello sulle vocazioni è firmato dal P. Fabio Sandri, promotore delle vocazioni della casa di Levico. Statistiche sul tema sono presentate dai padri Franco Degan e Nicola Zecchin. Viene letto anche uno studio del P. Luigi Ferrari sull’assistenza e la guida dei seminaristi maggiori, che sono sotto la sua cura.
Si procede alla formazione di commissioni, cosa non abituale finora nei capitoli precedenti, e si formano le seguenti quattro:
Commissione sulle Case di Formazione, per la quale sono eletti i PP. Dogliani, Degan e Dal Pos, i tre che avevano ricevuto più voti, in quest’ordine.
Si arriva a formulare il testo di una prima delibera: “Sono interdette almeno per tre anni tutte le spese straordinarie per acquisti, migliorie, ampliamenti e nuove costruzioni, salvo particolari situazioni lasciate al giudizio del Consiglio Generale”. La delibera è approvata con 17 voti a 8.
Si decidono poi in linea di massima i contributi che le case devono versare alla Curia generalizia.
La 9ª seduta si opera il 7 agosto. Si delibera in questa forma: “Il Capitolo Generale decide i contributi annuali che le Amministrazioni delle Case sottoelencate dovranno versare alla Curia Generalizia per l’ammortamento dei debiti contratti dalla Curia Generalizia, dalla Casa Madre e dalla Casa del S. Cuore” (seguono i valori dei contributi). Si approva quasi all’unanimità questa 2ª delibera, con 23 voti su 25.
La 3ª delibera è così stilata “È data facoltà al Consiglio generale di aggiornare tali contributi pro temporum adjunctis (sic) in base ai bilanci preventivi e consuntivi delle singole case; ed è approvata all’unanimità.
Segue la formulazione e l’approvazione all’unanimità di tre delibere sui bilanci delle case e sulla concentrazione delle attività nel conto della Curia Generalizia. Un’altra delibera sull’obbligo di presentare entro il 1968 un inventario d’immobili, mobili e semoventi operato da un tecnico è pure approvata all’unanimità. Seguono delibere sui contributi che la curia verserà alle case di formazione (approvata) e sulla quota d’iscrizione e diritti di segreteria da versare dalle famiglie alle scuole (approvate). Su quest’ultima, P. Ugo Del Debbio fa presente la quota di £ 5,00 richiesta come quota di iscrizione all’inizio del secolo XX. Altre delibere proposte dalla commissione sono demandate al consiglio generale.
La 10ª seduta si tiene il 7 agosto pomeriggio. Si discute molto lungamente ancora sulla quota di iscrizione e diritti di segreteria. Essa dovrebbe comprendere: “spese di segreteria, tassa parifica, e Commissario governativo, Riscaldamento, corrispondenza della Direzione e della Amministrazione, luce, uso mobilio, pulizia, portinaio ecc.”. Si parla anche delle assicurazioni, per i ragazzi nei mezzi di trasporto e per i religiosi; dei tetti di spesa ai vari livelli; di sanzioni da applicare, secondo alcuni, ai superiori che manchino contro queste delibere e regolamenti economici. Infine, la decima delibera stabilisce il tetto di spesa per il rettore, per il rettore e il suo consiglio, e per il rettore e la sua comunità.
L’11ª seduta avviene l’8 agosto pomeriggio. Si lavora sul testo preparato dalla commissione sui ministeri e attività varie. Si dibatte la questione dell’opportunità del celebrare la messa tutti i giorni negli oratori, oppure di prepararvi gradualmente i ragazzi. “Si notano evidenti disparità di idee”, osserva il preposito; e sembra, ma non è chiaro dal verbale, che proponga di rimettere la decisione all’imminente capitolo speciale. Dopo un intervallo, si vota (probabilmente in questo senso; e si ottiene quasi l’unanimità. Si parla anche degli universitari; delle vacanze estive; delle ripetizioni estive; dell’opportunità di continuare a offrire il corso delle elementari o no. Sempre di più, il capitolo tende a trasformarsi anzitempo in un capitolo speciale per la riforma dell’Istituto, volendosi parlare di tutto. Resta chiaro che si sente il bisogno di cambiamento da parte di molti. Il concilio senza dubbio (e anche lo spirito dell’imminente 1968?) stava incidendo su molte certezze.
La 12ª seduta si celebra il 9 agosto. Il preposito, dopo i preliminari, propone che come primo atto missionario della congregazione si studi la possibilità di aprire un pensionato per studenti afro-asiatici nel palazzo Marcello, edificio donato dalle sorelle Cosulich che si disporrebbero anche a sostenere le spese di un adattamento dell’immobile a questo uso. Occorrerebbe impegnarvi due religiosi.
La cosa piace ad alcuni, altri, per esempio P. Dal Pos, sostengono che dovendo avviare un’attività missionaria, sarebbe meglio avviarla all’estero, per esempio in Kenya; e che i nostri chierici e giovani in generale sperano in una decisione di questo tipo. E che lì, la parrocchia sarebbe indispensabile. P. Incerti dice che la parrocchia dovrebbe essere assunta anche in Italia.
Si formula una delibera in proposito, di fondamentale importanza: “Il Capitolo Generala ha preso in serio esame le varie proposte di carattere missionario e, ritenendo la cosa molto sentita nella nostra Congregazione, afferma l’urgenza del problema e fa mandato al Consiglio Generale di procedere quanto prima ad una pratica attuazione”. Tale testo, sia pure alquanto sibillino, messo ai voti, ne riceve 24 favorevoli e una scheda bianca!
Si parla in seguito sulle “case marine e montane” per i religiosi; dei rapporti tra rettori e presidi, nella stessa casa; di associazionismo.
La 13ª seduta del pomeriggio dello stesso giorno, verte sulle proposte preparate dalla commissione sulla vita religiosa. Il testo è letto dal P. Servini. Ne segue un ampio dibattito che è un pot-pourri di opinioni e osservazioni su devozioni, feste, pratiche, santi, novene, spiritualità. La cosa più saggia sembra quella accennata dal nuovo preposito ripresa poi da altri, pro o contro, che è strano che le preghiere e pratiche devozionali (come il rosario) siano celebrate o recitate insieme, mentre quelle corali, come l’ufficio, siano celebrate da soli. Si porrà ordine in questo senso dopo il Capitolo Geberale Straordinario Speciale.
Si parla molto del fumo (tabacco); di passaggio all’uso del clergyman, come abito religioso alternativo; e dei mezzi di comunicazione sociale nei seminari; più importante il tema toccato nell’ultima parte di questa seduta, ma rimandato alla prossima, cioè quello del cambiamento dell’abito religioso Cavanis.
Nella 14ª seduta, del 10 agosto 1987, si comincia con la lettura della relazione della commissione sulle vocazioni e sulle case di formazione.
Si nota che, per ora, la formazione liceale degli studenti seminaristi è quella del liceo classico. P. Orfeo Mason nota che tale formazione ha un livello appena passabile. P. Giuseppe Panizzolo insiste sull’urgenza di dare preparazione specifica ai formatori. Si parla anche di interrompere lo Studium teologico Cavanis a Venezia e si ventilano due ipotesi: 1) di inviare gli studenti teologici allo Studium dei Cappuccini al convento del Redentore a Venezia (Giudecca); 2) di inviarli alla casa di Roma, dove potranno studiare nelle università ecclesiastiche romane; e sarà ciò che avverrà l’anno successivo a questo capitolo, anche se la decisione non fu presa a livello capitolare generale.
Si parla della scuola media per gli aspiranti seminaristi di Fietta del Grappa (ancora in corso a quel tempo) e della validità del suo livello di studi, con opinioni diverse. Si propone che l’anno del noviziato sia spostato a dopo del liceo (fino a quel tempo si viveva l’esperienza del noviziato dopo il ginnasio, a 15 anni circa); ma si rimanda questa decisione, come tante altre, al capitolo speciale, prossimo ormai. Appaiono periodicamente, su tutti i livelli della vita di formazione dei seminaristi, due blocchi di idee opposte, e ambedue ragionevoli: da un lato l’importanza di mantenere i seminaristi in ambienti idonei alla formazione, e alla formazione specifica Cavanis, quindi l’utilità di farli vivere e studiare completamente nelle sedi dei seminari dell’Istituto (con il pericolo di vivere nella bambagia dell’eccessiva protezione ed in un ambiente chiuso e ristretto); e dall’altro il darsi conto del fatto che le scuole medie e liceali tenute all’interno dei seminari dell’Istituto erano inferiori di qualità a quelle tenute nelle scuole tenute dall’Istituto per i ragazzi non seminaristi; e che la qualità dell’insegnamento della teologia nello Studium Cavanis di Venezia era piuttosto bassa, dato che gli insegnanti, con una sola eccezione, quella del P. Feliciano Ferrari, professore di dogmatica, avevano soltanto la formazione teologica seminaristica ricevuta a loro volta (e al loro tempo!) nel seminario Cavanis; ma non avevano né il grado di licenza né tanto meno quello del dottorato nelle materie che insegnavano. Si rendeva anche chiaro che, nel caso in cui i seminaristi fossero inviati a scuole esterne, bisognava poi completare l’insegnamento e la formazione per quando riguardava lo specifico dell’Istituto.
15ª seduta, dell’11 agosto 1967. La giornata ricalca molte delle linee della precedente. Si parla anche della formazione all’uso dei mezzi si comunicazione sociale, del programma di materie da insegnare ai novizi, della ratio studiorum e della ratio spiritualis; della dipendenza o indipendenza dei seminari dai superiori locali, quando le case di formazione sono unite a casa con altra identità e con altro scopo principale; dell’anno di pastorale verso la conclusione del ciclo di corsi della formazione. Altre questioni, molto dibattute, sono rimesse al capitolo speciale.
Una delibera viene così definita e poi approvata: “Il Capitolo Generale chiederà alla S. Sede di dare voce attiva a tutti i professi perpetui non sacerdoti per l’elezione del Discreto della Casa al Capitolo Generale Speciale”: essa ottiene 23 voti positivi e due negativi. Questo capitolo si dimostra, su questo punto e su vari altri, di una insospettata apertura alle novità. C’era un clima da immediato post-concilio, prima dell’inizio del riflusso post-conciliare!
Si parla parecchio anche dei fratelli religiosi, della loro formazione, del rispetto loro dovuto – e molte volte loro mancato nella storia dell’Istituto – e ci si propone di inviare loro un messaggio speciale. Si decide anche di chiamarli soltanto “fratelli”, non “fratelli laici”, scartando poi il titolo proposto da qualcuno: “fratelli coadiutori”.
Si decide di ritirare al confratello vescovo di Chioggia, Mons. Padre Giovanni Battista Piasentini il servizio di un segretario membro dell’istituto, mediante opportuna delibera, che vince di stretta misura.
Il pomeriggio dello stesso giorno si tiene la 16ª seduta, e ci si avvia alla fine. Si parla della relazione della “Commissione istituita per lo studio sull’Oratorio”, di cui non ci sembra ci sia cenno nei verbali precedenti. Legge la relazione il P. Vittorio Di Cesare. Dopo le lodi espresse dal P. Giuseppe Panizzolo, si apre un ampio e non facile dibattito. Ottiene però l’approvazione, all’unanimità, la seguente formula di delibera: “Si faccia l’Oratorio feriale fissato in ora opportuna per gli alunni delle Scuole Elementari e Medie inferiori, alternando Messa, preghiere, istruzione catechistica, liturgica e canto sacro. Ai Superiori locali è data facoltà di deroga a tale norma, in casi particolari”.
La discussione si prolunga con il tema del rapporto tra oratori e la celebrazione dei sacramenti nelle parrocchie; e sarebbe troppo lungo riportare dettagliatamente questo tema.
Nella stessa seduta, a questo punto il presidente propone il tema della riforma dell’abito religioso, tema proposto nel 3° foglio della relazione della commissione sulla vita religiosa. Si rifà, da parte di vari capitolari, la storia completa a tappe dell’abito Cavanis, e questa può essere vista sopra, in questo stesso libro e non occorre ripeterla qui. Si dibatte anche l’opportunità di prendere la decisione sulla riforma e semplificazione dell’abito:
In questo stesso capitolo.
Dopo una nuova consultazione dei confratelli
Nel futuro e prossimo capitolo speciale.
Nel fascicolo degli Atti del Capitolo che fu distribuito ai religiosi, e a pag. 153 del libro dei verbali di questo capitolo generale ordinario del 1967 si trova la seguente delibera:
“Semplificazione dell’abito.
Il Capitolo Generale, tenuto conto delle norme del Concilio Vaticano secondo circa l’abito religioso (PC 17) e del parere espresso dalla maggioranza dei membri della Congregazione delibera che il nostro abito sia adattato alle esigenze dei tempi moderni, sopprimendo ad experimentum lo scapolare e il “bavero” e chiede alla S. Sede il relativo permesso”.
La 17ª e penultima seduta del capitolo si tenne il 12 agosto 1967 e vede come tema soprattutto quello del ridimensionamento, ante litteram. Si rileggono e rivedono, con correzioni, le delibere ufficiali del capitolo generale che si sta per concludere.
Infine, la 18ª e ultima seduta, celebrata brevemente lo stesso giorno del 12 agosto 1967, si conclude, con l’approvazione per alzata di mano di tutti i capitolari, alle ore 17.35. L’unica cosa di rilievo da notare, è che P. Gioachino Tomasi chiede “di introdurre al più presto la causa presso la diocesi di Treviso, per il riconoscimento delle virtù eroiche, praticate dal P. Basilio Martinelli”. Seguono, nel libro dei verbali, le firme di tutti i capitolari.
Il libro-registro dei verbali e in genere degli atti di questo capitolo, prima del verbale dell’ultima riunione, riporta, incollati sulle pagine del registro, a partire da pagina 97 fino a pagina 130 compresa i seguenti documenti:
Bollettino informativo ai confratelli, del 6 agosto 1967.
Proposte della commissione incaricata della Revisione amministrativa.
Provvedimenti amministrativi per il sessennio 1967-73.
Prima stesura della relazione della IV commissione, proposte varie.
Relazione della commissione per l’oratorio.
Testo definitivo della stessa.
Seconda redazione della stessa.
Idem, sull’amministrazione.
2° (e conclusivo) Bollettino informativo ai confratelli sui lavori capitolari, compilato anche su richiesta dei capitolari nell’ultima riunione.
I documenti 5, 6, 8, 10, 12, 13 e soprattutto il testo completo del fascicolo degli Atti di questo 26° capitolo generale sono particolarmente interessanti e meriterebbero di essere qui illustrati con maggior dettaglio. Alcuni di loro, con le loro delibere, considerazioni, meditazioni sono letture di grande interesse, soprattutto di carattere storico e spesso hanno il tono dei decreti capitolari. D’altra parte, gli atti sono accessibile a tutti, almeno negli archivi delle case che esistevano a quel tempo; inoltre essi sono stati in qualche modo messi in ombra dai decreti, ben più ampi e profondi, del capitolo generale straordinario speciale del 1969-70, che a mio parere dovrebbero essere conosciuti da tutti, tradotti e ripubblicati.
Altri Capitoli Generali Ordinari del Secolo XX e dei primi due Decenni del Secolo XXI
Seguirono poi, dopo il grande capitolo generale straordinario speciale (CGSS) del 1969-70, i seguenti nove capitoli generali ordinari:
29° (24°), del 1985, capitolo principalmente elettivo, nel quale fu rieletto preposito il P. Guglielmo Incerti; il suo consiglio generale fu costituito questa volta dai padri Angelo Moretti, Attilio Collotto, Luigi Bellin, Pietro Luigi Pennacchi.
Di questi ultimi nove capitoli generali ordinari (1973-2019) non è possibile né opportuno dare qui ulteriore relazione, sia pure abbreviata. Non è possibile perché non c’è accesso allo storiografo a dei documenti d’archivio così recenti; anche se sarebbe possibile ricorrere agli atti pubblicati dagli stessi capitoli, ai notiziari ufficiali per gli atti di curia e agli articoli della rivista Charitas. Non sembra tuttavia opportuno farlo, per l’eccessiva vicinanza di questi importanti eventi di congregazione. Lasciamo dunque a ulteriori eventuali edizioni di questa “Storia della Congregazione” un esame più approfondito di questi importanti eventi.
Per altri dettagli, si possono esaminare anche la tabella: “Tabella dei Prepositi, Vicari e Definitori (Consiglieri)”; e i capitoli relativi ai corrispondenti prepositi generali del periodo 1967-2013.
8.10 I capitoli generali straordinari del xx secolo
A differenza del secolo XIX, che vide una quantità di capitoli provinciali e generali straordinari celebrati dall’Istituto Cavanis, il secolo XX e i primi 19 anni del secolo XXI videro solo tre capitoli generali straordinari: quelli celebrati nel 1952, nel 1962 e nel 1969-70, quest’ultimo essendo il capitolo generale straordinario speciale, voluto dalla chiesa universale, nella persona del Papa Paolo VI, e celebrato obbligatoriamente da tutti gli istituti religiosi.
Il 12° capitolo generale straordinario del 7-10 luglio 1930.
Il preposito generale in carica, P. Giovanni Rizzardo (1928-1931) aveva inviato un biglietto ai definitori il 12 marzo 1930, in cui accennava all’idea di convocare un capitolo generale straordinario terminato l’anno scolastico. Un’altra lettera sul tema era stata scritta ai definitori, datata 2 maggio 1930, scritta a mano su 11 pagine di piccolo formato, a quanto pare a matita e con carta copiativa (carta carbone, ma di color blu) tra le varie copie, sicché la copia conservata agli atti del capitolo (particolarmente debole, pare) è di non facile lettura. In nove punti tale lettera espone il proposito di celebrare un capitolo generale straordinario, ne dà l’ordine del giorno di massima, ed espone i maltrattamenti in cui a suo parere è stato sottomesso dai chierici, da religiosi della casa di Venezia, dalle dimissioni di P. Francesco Saverio Zanon, da altre cose e fatti, inclusa la recente morte di P. Antonio Dalla Venezia, da incertezze sulle nuove regole inviate recentemente dalla Congregazione dei Religiosi.
Il capitolo generale straordinario fu poi indetto formalmente il 6 giugno 1930 dal preposito generale pro tempore P. Giovanni Rizzardo, con lettera manoscritta ai rettori, di 10 pagine. Questa lettera in parte fu scritta a penna, in parte invece in matita su fogli alternati a carta carbone blu, su foglietti sciolti non numerati, con grafia quasi illeggibile e di contenuto assolutamente confuso, pur contenendo citazioni delle regole corrispondenti. Come al solito, nelle carte del P. Rizzardo essa è in parte in italiano, in parte in latino. Non è chiaro il motivo dell’indizione salvo il fatto che il preposito voleva l’appoggio di altri religiosi, a quanto pare fuori del suo consiglio e rinsaldare così la propria posizione.
Da notare che P. Giovanni Rizzardo era stato eletto il 2 luglio 1928, nel corso del 13° capitolo generale ordinario, e concluse il suo mandato triennale (unico) nel 14° capitolo generale ordinario nel giorno 24 luglio 1931, dopo una difficile e quanto mai lunga elezione del successore.
La seduta preliminare di questo 12° capitolo generale straordinario si tenne a Venezia, il 7 luglio 1930. I vocali furono i seguenti:
In questa riunione preliminare rimangono eletti: segretario capitolare P. Aurelio Andreatta; primo scrutatore P. Alessandro Vianello; secondo scrutatore P. Giovanni Battista Piasentini. I discreti delle tre case presentarono al preposito le loro relazioni. Non furono presentate relazioni dai rettori delle case; e in genere non si parla di loro come rettori, sebbene lo siano; si sono dovute consultare le tabelle delle case corrispondenti per il 1930 per accertarlo.
La prima adunanza in senso stretto si tiene il giorno successivo, 8 luglio 1930. Il preposito ricorda le sue tre lettere: quelle ai definitori del 12 marzo e del 2 maggio e la lettera di indizione del 6 giugno, sempre dell’anno corrente cioè il 1930. Davanti ai gravi problemi della Congregazione che al preposito e presidente del capitolo sembra di ravvisare, e che fino a qua non sembravano chiari (salvo ai definitori, che avevano ricevuto la lettera del 2 maggio), propone di leggere il nuovo testo delle costituzioni, “concordato col Codice di diritto canonico e approvato dalla S. Sede” e giunte a Venezia da poco tempo. Tale lettura prese tutta la mattina e quasi tutto il pomeriggio. Sono considerate particolarmente questi tre punti:
Si chiude con questo la prima seduta. La seconda si tiene il 9 luglio. Il preposito raccomanda ai definitori che, in attesa della promulgazione delle nuove regole, istituiscano un’attenta revisione di esse, segnalando le eventuali desuetudini e inosservanze, perché poi i rettori ne facciano argomento dei soliti sermoni alle famiglie religiose fin dall’inizio dell’anno scolastico. Parla poi del processo [di beatificazione] dei Fondatori, che sembrava entrare in una fase di maggiore “agevolezza”, ma in realtà, come fa capire, sembra bloccato. Aggiunge che, rimanendo vice-postulatore P. F.S. Zanon, il P. Rizzardo stesso chiese a monsignor Pescini di assumere l’incarico di Postulatore, ed egli accettò di buon grado.
Introduce il tema del riconoscimento giuridico della congregazione da parte dello stato, dopo i Patti Lateranensi (e il Concordato tra la S. Sede e il Regno d’Italia). Per una certa diffidenza verso lo stato, di decide di aspettare e vedere che cosa fanno gli altri istituti. Ciò, nonostante la Sacra Congregazione dei Religiosi avesse inviato un chiarissimo opuscolo di “Istruzioni della Sacra Congregazione dei Religiosi per l’applicazione dell’articolo 29, lett. B del Concordato stipulato tra la S. Sede e il Regno d’Italia”, fascicolo che si trova allegato in originale agli atti di questo strano capitolo; invitando tutti gli istituti religiosi con case e religiosi in Italia a inviare entro due mesi la richiesta di riconoscimento giuridico tramite la stessa congregazione dei Religiosi, e la lista dei beni e dei religiosi italiani o naturalizzati, e il nome di un rappresentante legale dell’istituto.
P. Rizzardo parla di due offerte di fondazioni dell’Istituto, da parte dei vescovi di Rovigo e di Belluno, senza entrare in dettagli; e la proposta di occuparsi del patronato di S. Trovaso a Venezia. Rinvia tutto ciò al futuro senza che di dibattano queste proposte.
Parla poi, e si dibatte invece lungamente (per tutta la mattina), della fondazione di una casa dell’istituto nel Real Convitto di Lucca, di cui si era già parlato in altre occasioni. Ci si propone di documentarsi meglio. Non se ne farà nulla.
Al pomeriggio si leggono le proposte dei tre discreti. Si tratta di argomenti assolutamente di dettaglio, come “il camerino da bagno”; temi che non meritano di essere ricordati qui.
Nell’ultima riunione, del 10 luglio, il preposito sottopone ai capitolari la proposta di trasferire per un biennio il noviziato da Venezia a Possagno presso il Probandato, previa licenza della S. Sede. Si rimette la cosa al definitorio.
Infine, ricorda che era diventata vacante la carica di procuratore generale, dato che il P. Francesco Saverio Zanon aveva presentato le dimissioni. Si vota e se ne elegge il successore, Rimane eletto, al terzo scrutinio, il P. Aurelio Andreatta.
Si decide di stampare in appendice alle costituzioni le preghiere delle comunità. E se ne studia l’ordine e la posizione.
P. Zamattio chiede che si dia una posizione chiara e giuridica al gruppo di pie donne di Porcari, tramite un abito religioso proprio e una regola. Il preposito mette ai voti la proposta, dichiarando però che il risultato non avrà valore legale ma solo consultivo. E così vanifica la votazione, che però risulta chiaramente positiva, con 8 voti favorevoli e uno contrario.
Il capitolo generale straordinario chiude a questo punto le sue sessioni. Di fronte alla situazione tragica prospettata per la congregazione dal preposito P. Rizzardo nelle lettere preliminari e d’indizione, e di riscontro, di fronte alla leggerezza dei temi trattati e dei risultati quasi nulli, non si capisce il senso di questo capitolo, se non con le condizioni indebolite della salute mentale del preposito, che – se se ne può fare un’ipotesi che sembra ragionevole – soffriva di esaurimento nervoso.
I documenti allegati comprendono anche la richiesta alla S. Sede (al S. Padre) di spostare a Possagno per un biennio, a titolo di esperimento, il noviziato a Possagno; e la richiesta alla Congregazione dei Religiosi di prendere atto della rassegnazione delle dimissioni da parte di P. Francesco Saverio Zanon e della nomina del nuovo procuratore P. Aurelio Andreatta; e inoltre un’altra lettera alla Congregazione dei Religiosi, questa redatta dal neo-procuratore generale, chiedendo spiegazioni sul nuovo testo della cost. 83, che indubbiamente, nella nuova formulazione imposta dalla S. Sede era troppo dura e impossibile da osservare, specie, come nota P. Andreatta nella lettera, per chi si dedica al ministero della scuola. Su questo punto, gli atti contengono anche la risposta della Congregazione dei Religiosi in originale, che permette di ritornare alla formula precedente, certamente ben più saggia.
Gli atti contengono anche la drammatica lettera del P. D’Ambrosi, sui rapporti tra il preposito e i chierici Cavanis, di cui si parla nella biografia del P. Giovanni Rizzardo, preposito; e una brevissima risposta di monsignor Pescini su alcune questioni, soprattutto sulla regola 83 e sulla causa dei fondatori,
Gli atti contengono ancora una lunga lettera di P. Francesco Zanon, come al solito durissima e come al solito difficilissima da leggere, data la qualità della scrittura. In pratica dichiara di non firmare gli atti e di non aver apprezzato tutto l’andamento del capitolo.
In effetti, manca alla fine dei verbali la firma di questo padre; ma mancano anche altre tre firme (per un totale di quattro firme mancanti su nove capitolari), non si sa se per distrazione del segretario e dei capitolari o per non aver voluto firmare, e quindi per probabile insoddisfazione riguardo al capitolo o addirittura per protesta. È un caso piuttosto raro nella stroia dell’Istituto. La lettera di P. Zanon parla delle sue dimissioni da: 1) Definitore; 2) Procuratore generale; 3) Bibliotecario e 4) Esaminatore. La lettera è come al solito piena di sottolineature, di punti esclamativi, di termini durissimi. P. Zanon si sente padrone della verità. Dichiara poi che la sua persona è stata demolita sistematicamente in questo capitolo. Pare anche che giudichi che i suoi interventi non siano stati messi debitamente a verbale e che questa sia la causa principale della sua decisione di non apporre la sua firma.
Il 13° capitolo generale straordinario del 2-5 agosto 1952.
Il capitolo fu indetto il 26 maggio 1952, con lettera dattiloscritta, dal preposito generale pro tempore P. Antonio Cristelli (1949-1955). La lettera era rivolta a tutti i religiosi dell’Istituto, e indiceva il capitolo per il 4 agosto 1952. Il capitolo straordinario era indetto per “la revisione delle costituzioni secondo quanto era stato convenuto nel Capitolo Generale [ordinario] del luglio 1949. La commissione apposita, costituita nel Capitolo Definitoriale del luglio dello stesso anno per un esame preventivo dell’argomento, ha finito il suo mandato e quindi tale revisione può essere sottoposta alla discussione e approvazione dei membri, che faranno parte del Capitolo Generale. In esso non può essere trattato nessun altro argomento ecc.”.
La riunione preparatoria si tenne a Venezia il 2 agosto 1952 alle ore 18. I capitolari erano i seguenti:
Il preposito con un breve discorso di benvenuto, mette anche in rielevo l’importanza della riunione. In seguito nelle modalità consuete si eleggono come segretario capitolare il P. Guido Cognolato e come scrutatori, nell’ordine, i PP. Antonio Turetta e Valentino Pozzobon.
La 1ª seduta vera e propria si tenne il 4 agosto mattino nella chiesa di S. Agnese. P. Preposito tiene un lungo discorso, il cui testo è conservato, dattiloscritto, in cinque pagine fitte. Rifà la storia della redazione delle nostre costituzioni da parte dei fondatori e poi della lunga fase di riforma e completamento che portò, con molta difficoltà e a volte con lotte interne, alla costituzione del 1891; poi le Mutationes del 1930; infine aggiungeva: “Nel giugno del 1937 il Preposito Generale a nome anche del Definitorio chiedeva di poter introdurre nel testo delle costituzioni le mutazioni di alcune regole che tutti conosciamo. La S. Congregazione dei religiosi con decreto 18 giugno 1937 concedeva che le mutazioni in parola venissero inserite nelle costituzioni dell’Istituto”.
Aggiunge che lo scopo del capitolo in corso era “la trattazione e l’approvazione della revisione compiuta dagli incaricati a tale scopo e delle proposte presentate dai membri del Capitolo stesso [del 1949].”. Nota però che la commissione ha sconfinato dai suoi compiti, perché detto capitolo li aveva incaricati di rivedere solo la II parte delle costituzioni, ed essi al contrario hanno lavorato anche alla prima. Il preposito quindi indica ai capitolari: “Fermiamoci dunque alla seconda parte”. Per quanto poi riguarda questa seconda parte, avverte i capitolari, con tutto il rispetto per la loro libertà, “che riguardo alle mutazioni introdotte nel 1937 e specialmente delle regole 215, 221, 222, è stato ufficiosamente interpellato dal Procuratore Generale dell’istituto la S. Congregazione dei Religiosi, la quale ha risposto che il rescritto da essa emanato nel 1937 è valido e lecito; ed ha soggiunto che sconsiglia di sottoporre alla sua approvazione una eventuale revisione delle mutazioni in parola; se poi venisse presentata, risponderebbe negative et amplius”.
Si apre il dibattito. Parla contro le Mutationes del 1937 P. Vincenzo Saveri, P. Mario Janeselli e P. Antonio Turetta. Essi “sono d’accordo nell’impugnare le mutazioni, in generale circa la loro validità e liceità, non essendo stati interpellati i Religiosi.” Citano in proposito il disaccordo anche del P. F.S. Zanon e del fu P. Agostino Zamattio. “In particolare si critica aspramente la regola 12, che sottrae ai membri delle singole Case il diritto di eleggersi il proprio Rettore, lesivo della libertà del Religioso”. Si oppone P. Aurelio Andreatta, che ricorda che il capitolo definitoriale aveva il diritto di approvare la nuova regola, e che la S. Sede ha il diritto di approvare. Il dibattito va avanti tutta la mattina, e dimostra l’ostinazione, contro la S. Sede addirittura, di alcuni padri capitolari, i quali poi, almeno due di loro, continueranno ad opporsi al concilio ecumenico Vaticano II e alla S. Congregazione dei Religiosi anche dopo di questo, contro il Capitolo Speciale e contro il preposito P. Orfeo Mason per 18 e più anni ancora dopo il capitolo straordinario di cui si parla. I PP. Vincenzo Saveri e Antonio Turetta saranno proprio lo zoccolo duro di tale opposizione sistematica. Il secondo dice in mattinata che nel 1937 tutti i religiosi della Congregazione furono ingiustamente privati della voce attiva impedendo loro di eleggere il loro rettore. P. Alessandro Vianello, che riferisce un’opinione di P. F.S. Zanon, dice che il capitolo o la congregazione potrebbero essere commissariate da un “visitatore apostolico per i dissensi su questo argomento”. “Si ritiene che questo pericolo sia inesistente perché il Capitolo straordinario è stato indetto dal Preposito a norma delle Costituzioni”, si risponde. Ma, chiaro che non è previsto dalle Costituzioni che ci si opponga in questo modo alla Santa Sede! Non si aveva l’intenzione di ricevere le decisioni di Roma “qua par foret reverentia”, come era di abitudine.
Al pomeriggio si riprende il dibattito acceso, e quasi tutti i vocali ricordano che la maggioranza dei religiosi delle case da loro rappresentate è favorevole al ritorno alle regole del 1930, cioè come erano prima delle Mutationes.
Il P. Antonio Cristelli, preposito generale, “a questo punto invita tutti a votare secondo coscienza o per la regola 1930, oppure per quella del 1937 (sic). Egli personalmente, sebbene ammetta che le opinioni di coloro che sostengono le prime abbiano il loro valore, senza voler influire sulle libertà degli altri votanti, dichiara di esser per le seconde. Egli chiede poi se, qualora la maggioranza dei presenti si dichiari per la regola del 1930, sia da sospendere il Capitolo ed attendere il responso da Roma, oppure se ci si debba conformare alle regole vigenti. Gli astanti si trovano d’accordo nel ritenere che per il prossimo triennio ci si attenga alle regole attuali. Dopo ciò si passa alla votazione che dà il seguente risultato: 10 membri sono per le Regole del 1930; 9 membri sono per le Regole del 1937.”
Il dibattito così acceso, almeno nel verbale, si ferma qua, anche se la votazione sembra mostrare una situazione di stallo; e tuttavia si passa ad altri argomenti minori, come la preparazione di un direttorio di carattere spirituale, il perfezionamento spirituale dei chierici, sulla meditazione, sulle ripetizioni autunnali (si parla degli esami a ottobre oppure delle ripetizioni a studenti che devono prepararsi alle stesse? Non è chiaro).
Non è chiara neppure la numerazione delle sedute di questo capitolo. Si riprende comunque con un’altra seduta la mattina del giorno successivo, 5 agosto per l’ultima riunione.
Si è preparata una lettera per il papa, nella quale si chiede quanto segue:
“Beatissimo Padre, il Preposito Generale ecc., prostrato al bacio del Sacro Piede, espone umilmente che il Capitolo Generale straordinario dell’Istituto, composto di diciannove membri, nella seduta del 4 agosto 1952 a maggioranza di voti (dieci su diciannove) ha proposto:
Ragioni morali e considerazioni pratiche hanno determinato la suddetta proposta, che si chiede sia accolta dalla Santità Vostra.
Che della Grazia, ecc.
Venezia, 5 agosto 1952
Il capitolo si conclude alle ore 12.30 del 5 agosto, dopo poche parole di esortazione e di commiato del Preposito generale. Non si è trovata finora risposta della lettera del papa o più probabilmente della congregazione dei religiosi, alla lettera al papa Pio XII di questo capitolo straordinario. È evidente comunque che le costituzioni non sono ritornate mai a come erano nel 1930; ma sono rimaste come erano state approvate dalla Congregazione dei Religiosi nel 1937; la risposta dunque deve essere stata la prevista: “Negative et amplius”.
Il 14° (ed ultimo, per ora) capitolo generale straordinario speciale del 31 Maggio 1969- 3 settembre 1970.
Dopo due anni dal 26° capitolo generale ordinario del 1967, che rimase un po’ oscurato, nonostante il suo grande valore, dal capitolo generale straordinario che seguì, fu celebrato il grande capitolo generale straordinario speciale (CGSS o CGEE in altre varie lingue) del 1969-70, per la riforma delle Costituzioni e della congregazione stessa, dopo il concilio ecumenico Vaticano II. Il CGSS fu celebrato a norma del Motu proprio Ecclesiae sanctae di papa Paolo VI.
9. Alcuni collaboratori e benefattori dell’Istituto Cavanis defunti nel XX secolo
9.1 Pietro Baio
Il Diario di Congregazione parla con qualche frequenza, negli ultimi anni del XIX secolo e nei primi del XX, di questo Pietro Baio. Se ne ha spiegazione nello stesso diario, quando riporta il 20 ottobre 1912: “Dopo poco più di una settimana di malattia, durante la quale fu sempre edificante la sua pietà, morì a 89 anni passati Pietro Baio, che era entrato nel nostro Istituto l’anno 1866 in qualità di servo; visse in esso quasi uno dei nostri sebbene non vestiva l’abito nostro. Morì santamente – Requiescat in pace”.
9.2 Don Giovanni Andreatta
Giovanni Andreatta, trevigiano, nato a Fietta di Paderno del Grappa (dal 2019 comune di Pieve del Grappa, con Crespano del Grappa), in provincia di Treviso, fu allievo dei Padri Cavanis nel Collegio Canova di Possagno e mantenne sempre una spiccata gratitudine e stima verso l’Istituto. Ordinato presbitero diocesano, fu parroco di Santa Bona di Treviso, e più tardi, lasciata la vita parrocchiale e deciso a dedicarsi all’educazione della gioventù e alla predicazione delle missioni popolari e agli esercizi spirituali, si avvicinò sempre di più ai Cavanis. Fu padre spirituale per molti anni negli Istituti Filippin e poi nel Collegio Canova dei Cavanis.
In tutto il Veneto e fuori tenne numerosissime missioni al popolo con un grande esito pastorale e spirituale.
Il 28 giugno 1945 comunicò al preposito P. Aurelio Andreatta che intendeva ritirarsi dall’Istituto Filippin e chiese l’ospitalità dell’Istituto Cavanis. Il preposito e l’Istituto lo accolsero volentieri e senza difficoltà. Passò ad abitare nella casa di comunità religiosa del Collegio Canova, più esattamente (per il periodo che ricorda chi scrive) nell’ultima camera a sinistra del corridoio dei padri, una piccola cella di angolo, con una finestra sul cortile della cappella e degli ippocastani, e una finestra sulla piazza Pio X, di fronte alla canonica. Nella sua camera aveva una vera e interessante biblioteca, che aveva portata con sé, molto ricca di testi preziosi, che prestava volentieri ai religiosi, anche ai seminaristi durante le vacanze.
La Casa del Sacro Cuore ha un particolare dovere di riconoscenza verso don Giovanni Andreatta, verso la persona di questo sacerdote, veramente missionario ed apostolo totalmente dedicato a dispensare con passione e spirito la parola di Dio nelle Missioni al popolo e negli Esercizi Spirituali ai giovani e agli uomini adulti: in questo pienamente addentro al carisma proprio dell’Istituto Cavanis
Esplicò la sua attività di predicatore e poi anche di consigliere spirituale a giovani e a uomini nella Casa del S. Cuore, seguendo spesso le persone che aveva conosciuto nella casa di Coldraga anche nella vita successiva. In casa del S. Cuore predicò più di 200 corsi! La Casa gli è grata per questa sua dedizione gratuita a bene delle anime. Si ammirò in lui, sacerdote, non solo la efficacia della sua predicazione sempre viva, ma anche la grande esperienza nel guidare le anime nel campo della direzione spirituale. Il confessionale era per lui il luogo preferito; là egli sapeva plasmare le coscienze secondo il suo spirito sacerdotale. Tra l’altro guidò parecchi giovani nella ricerca della propria vocazione cristiana e in vocazioni speciali, e ne diresse alcuni a entrare nei seminari Cavanis.
Prestò nei primi tempi e donò poi la sua casa natale a Fietta del Grappa (con il podere annesso), trasformata all’inizio a casa di abitazione dei religiosi Cavanis che negli anni Quaranta collaboravano con monsignor Filippin insegnando nelle sue scuole e nel suo collegio.
Don Giovanni morì, “di un male terribile” si dice nelle cronache, di cancro in pratica, il 31 dicembre 1961. Dal Charitas risulta la mattina del 12 febbraio 1961. Il rito funebre fu celebrato il 14 successivo nel tempio canoviano di Possagno, e fu un vero e vasto tributo d’affetto, di stima, di riconoscenza, da una moltitudine di allievi, ex-allievi, religiosi Cavanis. Presiedette la celebrazione eucaristica il preposito, P. Giuseppe Panizzolo e impartì l’assoluzione al tumulo monsignor Padre Giovanni Battista Piasentini, che tessé le lodi di don Giovanni “… e si ebbe l’impressione di vederlo vivo, Don Giovanni, tanto bene ne fu tratteggiata la fisionomia spirituale ed umana dall’Eccellentissimo vescovo di Chioggia. La salma del caro Scomparso fu tumulata nel Cimitero di Possagno, accanto alle salme dei Padri defunti, secondo il suo desiderio; e gli studenti del liceo [di cui era da tempo padre e guida spirituale, NdA] sorressero e scortarono il feretro, come si fa con una persona di famiglia a cui si vuol testimoniare un affetto meritato che il tempo non estinguerà”.
Qualche mese dopo la sua morte, si inaugurò il seminario minore “Villa Buon Pastore”, costruito sul podere da lui donato a Fietta di Paderno del Grappa, e inglobante la casa natale del nostro, da lui donata con il terreno circostante all’Istituto. In proposito, il libretto Dies quas fecit Dominus scrive al 1° maggio:
“1° maggio 1962 – In questo giorno con semplice cerimonia fu inaugurato da S. Ec.za monsignor Giovanni Battista Piasentini, vescovo di Chioggia, Cavanis, il Probandato di Fietta del Grappa (Treviso) col titolo di “Villa Buon Pastore”.
La casa era stata donata alla Congregazione da Don Giovanni Andreatta, proprio perché fosse asilo alle future speranze della Congregazione Cavanis”.
9.3 Don Costante dalla Brida
Il 19 agosto 1954, 60 anni fa, moriva nel primo mattino Alcide De Gasperi, uomo politico e intellettuale italiano tra i più grandi di sempre. Deputato al parlamento di Vienna, del Regno d’Italia e della Repubblica italiana, fu presidente del Consiglio (Capo del Governo) italiano dopo la Seconda guerra mondiale. Per l’Italia fu lui a fare la cosiddetta “scelta occidentale”; grande europeista (considerato fondatore dell’Unione Europea), per il “suo” Trentino (era di Pieve Tesino) volle una autonomia sancita anche dall’accordo internazionale con l’Austria (è il cosiddetto “Accordo De Gasperi-Gruber, del 5 settembre 1946) che tutelasse l’integrità politico linguistica e la statutarietà speciale. Pochi però sanno che un sacerdote trentino, don Costante Dalla Brida, insegnante al Cavanis di Possagno di materie scientifiche e “indimenticabile maestro di vita” (come lo ricorda l’ex allievo Franco Scaldaferro che gli volle dedicare una lapide e un bassorilievo del volto nell’attuale biblioteca del Cavanis) fu amico e collaboratore di Alcide De Gasperi.
Don Costante Dalla Brida (ma si trova più spesso Dallabrida, scritto attaccato) fu giornalista redattore del “Trentino” dal 1906 al 1915 e conobbe in quella occasione De Gasperi, che del “Trentino” era direttore: De Gasperi pubblicò (senza firmarli) in quegli anni molti articoli di fondo su quel giornale che poi Dallabrida riconobbe, raccolse e commentò. Don Costante rimase di De Gasperi amico e consigliere, uomo di fiducia e giornalista di supporto, per tutta la vita. Chi era don Costante Dallabrida? Era nato l’8 luglio 1880 a Vigolo Vattaro. Compì gli studi ginnasiali e liceali nel Collegio Vescovile di Trento dal 1893 al 1901, quando ancora il Trentino era un principato (e il Vescovo di Trento ne era il Principe) sotto l’autorità degli Asburgo. Frequentò teologia nel Seminario “maggiore” di Trento dal 1901 al luglio 1905. Passò a Caldonazzo col ruolo di Cooperatore dal 1905 al 1906. Poi divenne, come si è detto, redattore del Trentino dal 1906 al 1915, sostituendo molte volte nella direzione Alcide De Gasperi. Dallabrida diresse con successo il settimanale “La Squilla”; fondò e diresse il Segretariato Operaio e fu direttore fino al 1919 delle Società Operaie Cattoliche. Dallabrida, su sollecitazione continua di De Gasperi, prestò la sua opera di assistenza durante il primo conflitto mondiale (la “Guerra Europea” come veniva chiamata allora) a soldati richiamati (i soldati del Trentino, appartenenti all’Impero austro.ungarico anche se chiaramente italiani, erano stati mandati fin dal 1914 in Serbia e nella lontana Galizia, sul fronte russo: a Pergine, ancora oggi, il 1914 viene ricordato dai vecchi come “l’anno delle vedove”) e a popolazioni profughe (circa 70.000 profughi trentini, alloggiati in baraccamenti nei lontani paesi dell’Austria inferiore e superiore, della Moravia, Stiria, Boemia, Salisburghese e perfino dell’Ungheria: Dallabrida con De Gasperi fu in assistenza ai profughi nel Vorarlberg, la provincia austriaca ai confini con la Svizzera). Aveva cominciato a Vienna gli studi universitari che completò dopo la guerra a Napoli, laureandosi in Scienze Naturali nel 1924 (tra l’altro insegnò a Filiberto Luzzani, grande botanico, noto per la costruzione del suo famoso erbario). Da allora, si dedicò fino alla morte (avvenuta il 26 ottobre 1966: è sepolto nel cimitero di Possagno) all’insegnamento nei licei classici, negli istituti tecnici e magistrali, senza però mai lasciare il giornalismo e l’approfondimento sociopolitico della situazione italiana ed europea: scriveva – assieme all’inseparabile De Gasperi – sulla “Voce Cattolica” e fu grande animatore del movimento operaio tra le due guerre. Don Costante Dallabrida, dopo la morte di De Gasperi, collaborò con lo storico Gabriele De Rosa alla costruzione del fondo di documentazione e testimonianza a Trento intitolato a De Gasperi; fu amico del vaticanista Giancarlo Zizola (nativo di Valdobbiadene e morto a 75 anni nel 2011) col quale collaborò per la divulgazione delle attività dei cattolici trentini dell’entourage di Alcide De Gasperi. De Gasperi così si espresse circa l’amico e consigliere fidato Dallabrida “ho un vero culto per don Costante, mio insegnante di scienze, ma molto più mio educatore vero. Le sue lezioni di chimica diventavano a volte anche riflessioni sulla scienza politica e la storia contemporanea … una eccezionale figura di giornalista, scienziato, umanista, democratico e antifascista”. Giulio Andreotti (in: “De Gasperi e il suo tempo”, 1964) riferisce un aneddoto curioso: durante la Grande guerra, arrivati in Austria per soccorrere i profughi trentini, una sera, sfiniti, si gettarono vestiti come erano sulle brandine per dormire quando De Gasperi si alzò dicendo: “don Costante, dobbiamo ancora dire il rosario”. Don Dallabrida aveva trasmesso alcuni valori profondi e perenni nell’animo di De Gasperi: C’era una sfera nella quale il dubbio, lo stesso del quotidiano affanno, non entrava, cioè in quella della fede, “regola fissa”, “anima e midollo delle cose” e ancor più in quella dell’obbedienza alla Chiesa di cui egli ebbe una nozione teologica tradizionale, rispetto alla quale l’autonomia del credente era storicamente da determinarsi nella sfera politica e sociale, non in quella ecclesiale o dottrinale, onde la renovatio implicava sempre distinzione tra individuale e sociale e quindi tra fede e politica, la quale ultima era sempre soltanto storicità concreta. Olivo Belli, di Toful di San Vito del Cadore, ex allievo Cavanis dell’Istituto “Dolomiti” di Borca di Cadore (era una casa offerta il 21 novembre 1945 da monsignor Girolamo Bortignon, Vescovo di Belluno e Feltre, per l’istituzione di un convitto, di Scuole Medie e Superiori, e Soggiorno estivo: i Cavanis la gestirono fino al 1954 quando la struttura andò in proprietà della diocesi di Padova) e ex allievo di Dallabrida, nel periodico il Cadore (Agosto 2010) riferisce – ultima in ordine di tempo – una testimonianza straordinaria e indimenticabile di don Costante Dallabrida che lo preparò all’Esame di Maturità (svolto a Bolzano, nell’immediato Secondo Dopoguerra) con metodi didattici attualissimi… A Possagno, don Costante Dallabrida insegnò scienze al liceo dal 1954 quasi all’ultimo dei suoi giorni (in realtà la cattedra la tenne fino al 1960), ospite al secondo piano del Liceo dei Cavanis (attualmente ci sono le classi dello Scientifico); nella sua camera oltre al letto e a poche sue cose personali, una marea piacevolmente disordinata e vivace di reperti, di piante, di cultivar, di essenze, di fossili, di ossa, … E un cane, non sempre pulitissimo, ricordava padre Giulio Avi (che insegnò Scienze al Classico di Possagno negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso e che di don Costante aveva “ereditato la stanza da letto) con il quale condivideva la vita ormai ridotta a un romitaggio silente e riflessivo dopo la morte di De Gasperi. Oltre alla lapide già ricordata nella biblioteca delle superiori, a Possagno (vedi: http://musica.cavanis.net/archeo/una-lapide-in-biblioteca), c’è una statua che ritrae il bambino Dallabrida, con la di lui madre Sabina, su modello dello scultore Francesco Rebesco, voluta dall’ex allievo di Dallabrida Marco Scaldaferro di Dolo (VE).
9.4 Angelo (Lino) Architetto Scattolin
Detto più comunemente Angelino e quindi Lino, l’architetto Lino Scattolin, nato a Venezia, il 27 agosto 1904 e morto pure a Venezia, il 5 novembre 1981, è stato allievo, amico e benefattore notevolissimo dell’Istituto Cavanis. Era figlio di Leone Scattolin, come lui ex-allievo, estimatore e benefattore dell’Istituto.
Dopo un anno di presenza ai corsi di architettura dell’Università degli Studi di Roma, oggi “La Sapienza”, si trasferì all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, dove si laureò nel 1928. Non lasciò poi quest’istituto, situato ai Tolentini; dall’anno accademico 1928/29 al 1944/45, fu professore assistente incaricato di Restauro dei monumenti e Architettura liturgica presso lo stesso Istituto. Nello stesso tempo agiva come libero professionista, soprattutto ma non esclusivamente nell’ambiente di chiesa.
Assieme al collega veneziano Virgilio Vallot istituì il Gruppo Architetti “L’Alveare”, che si occupava soprattutto di arredamento interni. Nel 1949 progettò la nuova chiesa della parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Mussolente, la cui costruzione subì numerosi ritardi e venne inaugurata solo nel 1959. La sua opera maggiore è il Palazzo Nervi-Scattolin, progettato assieme a Pier Luigi Nervi, sede centrale della Cassa di Risparmio di Venezia, inaugurato nel 1972 nel sestiere di San Marco in campo Manin. Tale edificio, pur avendo soluzioni interessanti dal punto di vista funzionale, e pur essendo in sé esteticamente notevole, non sembra a chi scrive, adatto per il luogo dove fu eretto, e stona nettamente, soprattutto con il suo prospetto sul Campo Manin.
Era proprietario di una dimora signorile a Venezia in calle del Tragheto de la Madoneta, che dopo la sua morte gli eredi cedettero ad una società immobiliare che la trasformò in un hotel di lusso (Hotel Ca’ Angeli).
Veniamo ora alla sua collaborazione con l’Istituto Cavanis. La sua collaborazione con l’Istituto iniziò soprattutto perché suo padre Leone aveva un’impresa di costruzioni che lavorava frequentemente per l’Istituto Cavanis. Le principali opere di Lino Scattolin in favore dell’Istituto, all’inizio con progetti semplici e non artistici, sono le seguenti:
Il suo lavoro principale, tra quelli elencati sopra, a parere di chi scrive, è quello della Casa de S. Cuore a Possagno. Lino Scattolin, che stilò i progetti di tutti gli splendidi ed originali edifici di Coldraga, si può considerare il primo benefattore della Casa con la sua generosità di geniale (e gratuito) artista di tutto il complesso dei moduli o settori della casa in Col Draga, compresa la Casa Alpina (per prima) e la Chiesa del S. Cuore. Era stato allievo, e poi ex-allievo dell’Istituto Cavanis di Venezia, e il suo enorme lavoro in favore della Casa del S. Cuore si spiega anche perché era stato compagno di scuola e classe, e sempre amico, del primo Rettore del Collegio e della casa di Esercizi di Coldraga, P. Giovanni Battista Piasentini. In questa opera, si vede, oltre a un notevole architetto, l’appassionato progettista di arredamento: non compilava solo i progetti degli edifici ma, come si è detto, quelli di ogni dettaglio, mobile, ornamento, musaico, vetrata, bibelot del complesso. L’unitarietà dell’opera, effettuata in una grande unità di stile, e con un buon gusto straordinario, che rivela anche il gusto degli anni ’30-’40, è stato purtroppo qua e là, anzi con alcuna frequenza, danneggiato da interventi successivi, di rettori poco avvisati.
Noto qui l’importanza di mantenere ben conservato il “corpus” di progetti relativi alla Casa del S. Cuore, che si trova nell’archivio della casa stessa, come detto dettagliatamente nel capitolo specifico; e di proteggere da incauti travisamenti opere d’arte importanti che fanno parte del patrimonio dell’Istituto.
A Lino Scattolin, per quanto riguarda la casa del S. Cuore, possono essere aggiunti come benefattori insigni:
9.5 Maria Pianezzola
Maria Pianezzola, di Cavaso del Tomba in provincia e diocesi di Treviso, un paese prossimo a Possagno, fu una grande benefattrice dell’Istituto Cavanis e più particolarmente delle missioni Cavanis, del Brasile soprattutto. Per ricordarla, con grande personale affetto, si riprende qui un articolo di P. Diego Spadotto che, più che farne la biografia, ne ricorda l’anima.
“Un dono per il Brasile: Maria Pianezzola
Ricordo di aver letto da qualche parte che la vera vita di una persona non si descrive: si ammira. Pensando a Maria Pianezzola, o come era chiamata da tanti bambini e giovani in Brasile la “Zia Maria”, il sentimento che predomina è di ammirazione.
Penso anche a quello che diceva Gandhi: “Una vita senza fede è come una barca senza timone”. Timone sicuro quello della “Zia Maria”!
I ricordi con il passar del tempo sbiadiscono, restano solo alcuni punti luminosi, forse pochi e una grande ammirazione, un grande desiderio di Dio secondo la confessione di Sant’Agostino: “Signore, il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in te!”.
P. Diego Spadotto
9.6 Professor Andrea Tonietto
Prof. Andrea Tonietto. La sua improvvisa scomparsa ci ha colto tutti di sorpresa e il nostro cuore piange un amico che ci è diventato caro e familiare per un lungo tratto di strada che abbiamo percorso assieme. Non soltanto la comunità di Possagno o della Pedemontana ne risente per la sua dipartita, ma la Congregazione Cavanis che era diventata per lui quasi una seconda famiglia, lo piange come un vero fratello.
Andrea ha fatto della sua vita una vera missione, vivendo il carisma Cavanis e dedicandosi al servizio dell’educazione dei ragazzi e dei giovani nella scuola e nelle altre iniziative che egli stesso intraprendeva come i campi scuola estivi fino all’ultimo del mese scorso, feste delle famiglie, promozioni missionarie insegnando ai ragazzi con la testimonianza della sua vita a vincere l’egoismo e l’individualismo e a mettersi al servizio degli altri.
Preposito generale. In questi anni si è fatto promotore di varie iniziative di carattere sociale a favore delle famiglie, ha tessuto una rete di amicizie a favore della scuola Cavanis e ha cercato da enti pubblici e privati aiuti per migliorare sempre più la scuola e per premiare con borse di studio gli alunni più meritevoli. Come P. Marco Cavanis, non aveva vergogna di chiedere aiuti a favore della scuola e degli alunni che lui considerava come figli.
Dai nostri Fondatori ha appreso la passione per la scuola e da P. Basilio Martinelli una virtù che sempre lo ha caratterizzato, l’umiltà. Non si metteva in mostra, non gli piaceva apparire. Anche alla biografia dei Fondatori “I CAVANIS” con il sottotitolo “Da 200 anni uno spirito giovane che infiamma i giovani” pubblicata nell’aprile del 2002, non ha voluto apporre il suo nome.
Andrea aveva sviluppato una grande fantasia della carità, aveva in mente nuovi progetti e nuove iniziative che avrebbe ancora voluto realizzare e ne aveva fatto parola con qualche Padre e qualche professore a lui più vicini. Guardava sempre al futuro e dopo aver servito Dio nei giovani sempre con entusiasmo è entrato ora nel futuro di Dio dove c’è pace e gioia senza fine.
Il Prof. Andrea Tonietto ci ha lasciati
A nome di tutta la Congregazione Cavanis, delle generazioni di ragazzi che hai educato, delle persone alle quali hai fatto del bene e ti hanno voluto bene, sento il dovere di dire Grazie carissimo Andrea. Grazie per il tuo prezioso servizio, grazie per aver comunicato attraverso le parole, gli scritti, il Charitas, il nostro bollettino trimestrale, che hai sempre curato con grande amore e competenza, grazie dell’amicizia che ci ha offerto e grazie soprattutto per la tua coerenza e testimonianza di vita. Chi ama non muore ma passa da questa vita a quella ben più importante. Chi insegna a molti la giustizia brillerà come stelle per sempre!
Roma 21 luglio 2014
9.7 Don (Mons.) Luigi Feltrin
Era nato a Cornuda (Treviso) il 15 settembre 1915. Da giovane, era stato seminarista minore dell’Istituto Cavanis (probando, come si diceva allora), prima a Possagno (1927-1931), poi brevemente a Venezia dal 1931; ma se ne era ritirato, senza che ciò gli togliesse l’affetto e la stima dell’Istituto e viceversa.
Sacerdote della Diocesi di Treviso, esercitò per lunghissimi anni il suo ministero sacerdotale quale cappellano militare. Ex-allievo dell’Istituto, dimostrò, con un legame affettivo, amore, riconoscenza e appartenenza spirituale ai Cavanis e alle loro opere missionarie per le quali contribuì anche materialmente con grandissima e riservata carità. Rimase memorabile un suo viaggio di visita e beneficienza alle case dell’Istituto in Brasile nel 1984-85; durante il viaggio passò un tempo nel lebbrosario di Bambuí, nello stato di Minas Gerais, dove visitava un suo collega prete di Treviso, cappellano di quell’ospedale per gli Hanseniani; dando anche là spiccata testimonianza di vera carità cristiana tra i lebbrosi, dei quali non dimostrava alcun timore, abbracciandoli e stringendo loro le mani.
Di animo semplice e gioioso, ha educato generazioni di giovani militari ispirandosi anche al Carisma e all’esempio di P. Antonio e P. Marco Cavanis. Negli ultimi anni abitava alla casa del clero di Treviso, spesso visitato particolarmente da P. Pietro Luigi Pennacchi. Morì il 6 febbraio 2015. La mattina stessa era stato visitato dal preposito P. Pietro Fietta, assieme al vicario generale P. Irani Luiz Tonet. È tumulato nel cimitero di Cornuda (TV), nella cappella del Clero.
9.8 Don Felice Del Carlo
Il diploma di benemerenza e di amicizia e riconoscenza che ricevette dice così:
“Prot. 250/94.
1944-1994
La Congregazione delle Scuole di Carità –
Istituto Cavanis
Profondamente grata a
Don Felice Del Carlo
Per i 50 anni di cara presenza fraterna e di prezioso aiuto pastorale nell’Istituto di Porcari, lo invita a considerarsi per sempre Padre Cavanis Onorario, fratello nostro in tutti i sensi, e a vivere nelle Comunità dell’Istituto Cavanis quando e quanto voglia, trovando in esse la sua casa e la sua famiglia.”
(seguono le firme del preposito P. Giuseppe Leonardi e del segretario).
l giorno 17 marzo 2018 alle ore 5,30 dall’Ospedale di Barga – Lucca, è tornato alla casa del Padre il
M.R.P. Don FELICE DEL CARLO
Nacque a Capannori il 5 maggio 1925, fu ordinato Sacerdote il 9 aprile 1950. Dedicò la sua attività pastorale in alcune Parrocchie di montagna della Garfagnana e per tanti anni visse con i Padri Cavanis del Collegio di Porcari, apprezzandone il carisma, collaborando per l’educazione della gioventù e seguendo con competenza la segreteria della scuola, impegnandosi nel ministero delle confessioni, nella direzione spirituale e nella formazione delle vocazioni.
I funerali si sono svolti a Fornovolasco LU il 19 marzo 2018 alle ore 15,00 e riposerà nel cimitero di San Pellegrinetto LU.
9.9 Alberto Cosulich e famiglia
Alberto Cosulich, nato a Venezia nel 1920 e discendente di una storica famiglia di armatori e impegnato anche in altri settori imprenditoriali, tra cui l’industria dell’acciaio e l’agricoltura. In campo culturale è stato l’ideatore e fondatore del Centro di Cultura Cosulich, che ne porta il nome e che oggi è seguito dal figlio dott. Paolo ai Gesuati, e nel tempo si è distinto proponendo cicli di conferenze a tema etico-religioso e istituendo il premio “Angelo d’Oro”, destinato a personalità affermatesi per contributi tangibili alla società veneziana.
Per due mandati, dal 1980 al 1989, fu anche primo Procuratore di San Marco riuscendo, in tale periodo, a finanziare i lavori di restauro ai mosaici della Basilica, oltre a promuovere mostre itineranti dei cavalli e del Tesoro marciano a Londra, Parigi, Francoforte, New York, Tokyo, Los Angeles e Sidney. Autore di numerose pubblicazioni, tra cui alcune dedicate a Venezia ed a San Marco, Alberto Cosulich aveva aperto a Susegana uno dei più grandi musei etnografici privati d’Italia, Morì il 4 dicembre 2014. I funerali furono celebrati nella basilica di San Marco.
(Da un articolo dell’ex-allievo Cavanis Titta Bianchini per il Gazzettino di Venezia, 5 dicembre 2014). Benefattore abituale dell’Istituto Cavanis, Alberto Cosulich si fece promotore del dono all’Istituto di un edificio prospiciente al Canalazzo, da parte delle sorelle Elena e Luisa Cosulich; attribuì all’Istituto Cavanis il premio “Angelo d’Oro” il 24 novembre 1979; acquistò e donò all’Istituto di Venezia una Via Crucis, con 14 quadri corrispondenti alle 14 stazioni, rilevante complesso pittorico di Ernani Costantini attorno al 1964.
9.10 Professor Antonio Lazzarin, restauratore
Il prof. Antonio Lazzarin di Padova, che tra l’altro era cognato del P. Angelo Guariento dell’Istituto Cavanis, fu un grande restauratore. Una vita dedicata a restaurare e salvare i capolavori degli artisti del passato. Tra le sue mani sono passate opere straordinarie di maestri straordinari: Tiziano, Tintoretto, Giovanni Bellini, Paolo Veronese, Giambattista Tiepolo e molti altri che non possono certo essere definiti minori. Nato a Candiana in provincia di Padova il 16 febbraio 1915, egli ha frequentato l’Istituto d’arte di Venezia conseguendo, nel 1938, il Diploma di abilitazione. Negli anni 1939-40 ha partecipato a corsi di figura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia e durante gli anni di studio si è avvicinato alle tecniche di restauro delle opere antiche. Nel 1943 la Soprintendenza alle Gallerie di Venezia decise di affidargli il restauro di una tavola trecentesca conservata nella chiesa di San Samuele a Venezia. Da quel momento, Antonio Lazzarin scopre nel restauro una vera e propria vocazione. Tanto per dire, dopo che inizia a lavorare ininterrottamente per la Soprintendenza, nel 1968, inizia il laborioso restauro dei 58 teleri del Tintoretto della Scuola di San Rocco a Venezia; restaura il grande capolavoro di Tiziano ai Frari: la celebre pala dell’Assunta (1974) e la pala Pesaro sempre di Tiziano nella chiesa dei Frari (1977). E la lista delle sue opere di restauro sarebbe troppo lunga.
Antonio Lazzarin fu anche un grande benefattore dell’Istituto Cavanis di Venezia: senza richiedere e ricevere alcun compenso, restaurò brillantemente una per una, negli anni ’70 e ’80 le pale di altare ottocentesche della chiesa di S. Agnese, annessa all’Istituto Cavanis, e anche la piccola tavola quattrocentesca di scuola bizantina o bizantineggiante della Madonna che si trova, ora scoperta dalla “camicia” d’argento, nell’altare della Madonna a destra dell’altar maggiore di detta chiesa.
L’Istituto Cavanis non dimentica questa preziosa opera compiuta in suo favore.
9.11 Suore della Pia Società del Santo Nome di Dio
Tra i collaboratori dell’Istituto Cavanis nel secolo XX, come pure nel XXI, devono essere ricordate delle preziose collaboratrici. In primis, le Suore della Pia Società del Santo Nome di Dio, che per decenni, a partire dal 1919, hanno collaborato, con spirito di servizio, umiltà e amore, con l’Istituto Cavanis, nelle varie case: scuole, collegi, comunità religiose, seminari. Di loro e della loro preziosa opera, non sempre adeguatamente riconosciuta, si parlerà meglio nella sezione sul ramo femminile della Congregazione.
9.12 Le assistenti della nostra casa di riposo di Possagno per religiosi anziani non più autonomi, e/o infermi
Oggi queste signore si chiamano “badanti”, e sono perlopiù provenienti dall’Europa orientale. È una categoria di donne che svolge un servizio prezioso, retribuito sì a termine di legge, almeno nel caso del nostro Istituto, ma di cui non si riconoscono abbastanza l’importanza e la generosità. Non possiamo ricordarle tutte, una per una; ma possiamo ricordare a titolo di esempio quella che si può considerare la prima, questa, una possagnese: la carissima signora Luigina Dagli Agnoli, di Possagno, residente allora a via Zoppona nel citato paese. I suoi generosi, competenti e pazienti servizi furono anche riconosciuti pubblicamente con la consegna da parte del preposito generale di un regalo simbolico e di un diploma nel 1995. Ma vogliamo ricordarle e ringraziarle tutte, fino ad oggi, anche da queste pagine, con grande rispetto e con riconoscenza sincera.