La seconda serie di mandati di P. Sebastiano Casara (1866-1884)

Pp. 649-708, Libro Storia dell’Istituto Cavanis - Congregazione delle Scuole di Carità.

Titolo: Storia dell’Istituto Cavanis – Congregazione delle Scuole di Carità 1772-2020

Autore: Giuseppe Leonardi, CSCh

Numero di pagine: 3.793

Lingua: ITALIANO

Anno: 2022 (*Aggiornato 2023)

Parole Chiave:

Congregazione Cavanis, educazione cristiana, Marco Cavanis, Antonio Cavanis, Venezia, pedagogia, vocazione, spiritualità, formazione giovanile, missione educativa, carisma, scuola cattolica, storia ecclesiastica, apostolato, congregazione religiosa, povertà educativa, Chiesa cattolica, evangelizzazione, comunità religiosa, tradizione.

Riassunto:

Quest’opera offre un ampio e documentato percorso storico sulla nascita, lo sviluppo e la missione educativa della Congregazione dei Padri Cavanis, fondata dai fratelli Marco e Antonio Cavanis a Venezia nel XIX secolo. Attraverso un’accurata analisi delle fonti, Giuseppe Leonardi ripercorre i momenti chiave dell’espansione della Congregazione in Italia e nel mondo, mettendo in luce la vocazione alla formazione cristiana e civile dei giovani, in particolare dei più poveri. L’autore evidenzia inoltre la spiritualità cavanisiana, fortemente radicata nella pedagogia dell’amore, nell’apostolato educativo e nella fedeltà alla Chiesa. L’opera si conclude con una riflessione aggiornata sulle sfide e prospettive della Congregazione nel contesto contemporaneo

2.2 La seconda serie di mandati di P. Sebastiano Casara (1866-1885)

In questa riunione locale elettiva del 1o settembre 1866, Casara è eletto di nuovo preposito, dopo il mandato triennale piuttosto debole del suo predecessore Traiber, e sarà poi rieletto diverse volte e a lungo (1866-1884), sempre contro il suo volere, che egli esprimeva ogni volta, cioè quello di restare un semplice religioso obbediente. Le ragioni che l’avevano spinto a presentare le dimissioni tre anni prima si erano nel frattempo indebolite, ma soprattutto i tempi stavano cambiando e prendendo una direzione pericolosa, con lo scoppio e il risultato della guerra in Italia. 

Si sentiva l’esigenza di un superiore generale piuttosto deciso e dinamico. P. Sebastiano accettò a fatica l’elezione che considerava (a ragione) irregolare, dato che erano assenti, come conseguenza della guerra da poco conclusa, i delegati delle case di Lendinara e di Possagno. Non si trattava dunque di un capitolo provinciale, che avesse il diritto di accettare le dimissioni di Traiber, e meno ancora il diritto di eleggere un superiore provinciale, neanche con il pretesto dell’emergenza. Casara accettò solo perché obbligato dai confratelli che ne lo imploravano e a condizione che la sua elezione fosse ratificata o meglio ripetuta dal capitolo regolare successivo. Su sua richiesta esso doveva aver luogo non appena la situazione critica dell’immediato dopoguerra fosse finita e si realizzasse l’apertura dei passi, e dunque delle comunicazioni fra l’isola di Venezia e la terraferma. In verità, questo capitolo di conferma o ratifica non ebbe mai luogo. Era imminente una nuova tragedia.

A conclusione della guerra tra l’Austria e la Prussia alleata con l’Italia, il Veneto veniva annesso felicemente al regno d’Italia, ma essendo questo regno notevolmente anticlericale, ben presto venne applicato il regio decreto 3036 del 7 luglio 1866 di soppressione degli Ordini e delle Corporazioni religiose (in esecuzione della Legge del 28 giugno 1866, n° 2987), e la legge n° 3036 del 7 luglio 1866 per la liquidazione dell’Asse ecclesiastico. Nello stile linguistico italiano dell’ottocento queste leggi del Regno d’Italia furono chiamate “leggi eversive”, dalla radice latina evertĕre, che significa abbattere, rovesciare, sopprimere. 

Venivano dunque soppressi tutti gli istituti religiosi, ordini o congregazioni, maschili e femminili che fossero, e inoltre altre corporazioni religiose, ed erano incamerati i loro beni come pure altri beni ecclesiastici. Per esempio, a Venezia, anche il capitale della mensa patriarcale passò al demanio statale e il patriarca Giuseppe Luigi Trevisanato si trovò ridotto all’indigenza. Il cardinale dovette abbandonare il patriarchio e ritirarsi nel seminario diocesano fino al 1869. Maturava quindi anche per l’Istituto Cavanis una situazione molto grave. 

Il p. Casara si impegnò a fondo per salvare l’Istituto, adducendo la ragione che esso era composto di sacerdoti secolari, come era espresso anche nel suo titolo: “Congregazione dei chierici secolari delle Scuole di Carità”. Invano. Infatti, nonostante il nome, l’Istituto Cavanis era, se si legge lo statuto cioè le regole o costituzioni, una Congregazione religiosa di voti semplici, a tutti gli effetti. Il 12 maggio 1867 si riceveva comunicazione dalla prefettura di Venezia che il consiglio d’amministrazione del demanio aveva deciso l’applicazione della legge anche all’Istituto Cavanis. Il decreto era stato firmato proprio il 2 maggio, nel 65° anniversario dell’inizio dell’opera dei due fondatori! Questa coincidenza, se da un lato poteva sembrare una beffa crudele della sorte, poteva essere anche, per i credenti, un motivo di speranza per il futuro. 

Anche dopo i ricorsi per tutti i canali reperibili, la Congregazione delle Scuole di Carità fu dunque soppressa e perse tutti i beni mobili, immobili e semoventi a Venezia, a Lendinara e a Possagno. Inoltre, perse di nuovo – e per sempre – la proprietà della chiesa di S. Agnese, nella quale nel frattempo erano cominciati dei lavori provvisori e preliminari di rinforzo delle strutture murarie.

La data infausta è il 24 settembre 1867: è la data dell’applicazione delle leggi “eversive” per il nostro Istituto, e in particolare per la casa di Venezia, con la presa di possesso dei beni da parte del demanio. La legge era già stata applicata alla casa di Possagno il 20 maggio; e sarà applicata alla casa di Lendinara il 30 novembre 1867. Per la casa di Venezia, si scriveva nel diario: ” In questo giorno consacrato alla Vergine sotto il titolo della Mercede, fu applicata la legge di soppressione del nostro Istituto. Quanto successo avvenne in un giorno che faceva ben sperare nella protezione efficace della Vergine sotto i cui auspici nacque e crebbe il nostro Istituto. 

1868 – Un mese dopo la presa di possesso da parte del demanio dei beni della Congregazione, P. Sebastiano aveva già presentato la sua domanda d’acquisto degli edifici di Venezia all’asta, cominciando dalle scuole: scelta molto significativa. Scrive sul diario: «Con la benedizione di Dio, e con l’aiuto della Vergine Maria, si comincia a ricuperare i beni confiscati dallo stato italiano». Recuperare questi beni non sarebbe stato facile, la politica del nuovo governo era fondamentalmente anticlericale e la difficoltà di recuperare i propri beni risentiva pure del fatto che gli intestatari delle cariche pubbliche erano cambiati e gli amici dei Cavanis ne erano stati estromessi: le cariche erano occupate adesso da nemici della chiesa. Bisogna aggiungere che l’Istituto (come al solito) non disponeva per il momento del denaro sufficiente per recuperare i propri beni all’asta, dove si faceva guerra all’Istituto. Rimettere assieme i beni fu un’attività in cui P. Casara mostrò tutta la sua abilità diplomatica e il suo impegno. Dimostrò anche una grande capacità di chiedere e ottenere offerte sufficienti per gli acquisti con grandi campagne di propaganda a favore dell’Istituto. Nel dicembre 1870 la casa di Venezia fu riacquistata.

Attraverso un lavoro faticoso e straordinario, dopo quasi quattro anni, tutti gli edifici di Venezia furono riscattati, esclusa la chiesa di S. Agnese. Si perse, invece, definitivamente la proprietà delle scuole, della cappella e della casa della comunità di Possagno che, nel lotto di terra originario della donazione canoviana, restano ancora oggi di proprietà del comune di Possagno che le ha ricevute a suo tempo dal demanio e le ha concesse più tardi in uso all’Istituto attraverso l’affitto simbolico di un euro all’anno. 

A Lendinara, la situazione è stata anche più dolorosa, come si è visto, ed è stato necessario lasciare gli immobili originari e cambiare di casa, ricevendone in prestito provvisorio e poi acquistandone altre, e cambiando anche di quartiere e di parrocchia. In quest’ultima città, la lotta dei nemici della chiesa (e dell’Istituto in particolare) continuò sino alla fine della presenza dei padri.

In ogni casa, oltre al riacquisto degli edifici all’asta, fu necessario acquistare ancora una volta il mobilio, i libri e il materiale didattico e liturgico; anche se parte dei beni mobili fu salvata dall’esproprio dichiarando i religiosi ai funzionari della confisca che una certa parte del mobilio e un certo numero di libri e oggetti liturgici, che i religiosi su suggerimento di P. Casara avevano sistemato appositamente nelle camere di ciascuno, appartenevano personalmente ai singoli religiosi e non alla congregazione; ed essi vennero in genere rispettati.

P. Casara ebbe anche la soddisfazione, assieme ai suoi confratelli, che nessuno dei religiosi Cavanis lasciasse l’Istituto a seguito della soppressione e dell’incameramento dei beni; a differenza di quanto era accaduto in tanti altri istituti maschili e femminili del Veneto. Si continuò, come se niente fosse accaduto, a consacrarsi alla santificazione personale e all’educazione della gioventù, soprattutto più carente. Lo si fece anche a Lendinara, dove la lotta fu più dura, fino a quando nel 1896 si dovette chiudere la casa; ma fu una ritirata protratta nel tempo, programmata e ordinata, senza perdita di personale religioso.

In quegli stessi anni, molti altri naturalmente erano nella stessa difficile situazione. Il sacerdote diocesano don Luigi Caburlotto, ex-allievo delle Scuole di Carità a Venezia, e direttamente dei due Fondatori, anni più tardi scriveva così su quella congiuntura:

“Meglio austriaci o italiani? Ho sempre pensato che meglio di tutto è essere cristiani e poter vivere da cristiani nella propria terra. Avevo sangue veneziano che parlava di libertà. Valutavo gli aspetti positivi del governo austriaco: organizzazione, attenzione educativa e sociale, ma anche controllo eccessivo perfino sul pensiero, strumentalizzazione della chiesa …

Italia? Sì, Italia per tutti gli italiani, ma l’Italia arrivava nel Veneto prima che i veneti esprimessero la loro volontà di aderire al Regno. E le leggi applicate per prime non erano buone: confisca dei conventi e di parte dei beni delle parrocchie. Era così: arrivava un funzionario italiano per dire che, poiché le leggi del Regno d’Italia non riconoscevano gli Istituti religiosi, allora lo Stato si prendeva tutti i beni. Per cinque anni ho dovuto correre, lottare, trovare vie per recuperare a Ceneda e a Venezia quelle case che non avevamo nemmeno finito di pagare. Adesso lo ricordo come un temporale passato, ma quanta grandine e quanti fulmini!”

Lo stato italiano aveva concesso a ogni religioso (di tutti gli istituti religiosi, maschili e femminili del Veneto) una pensione vitalizia, con aliquote diverse secondo la situazione di ogni religioso (sacerdote o laico, professo o seminarista ecc.), in sostituzione ai beni confiscati; il denaro di tali pensioni, centralizzato e depositato nella cassa di comunità, aveva contribuito al riacquisto degli edifici e degli altri beni; ciò spiega anche la rapidità con cui parecchi furono recuperati.

Il 7 settembre 1871 P. Casara ottiene di nuovo la chiesa di S. Agnese indemaniata, non in proprietà questa volta, ma in «comodato perpetuo», per i buoni servigi del patriarca di Venezia Giuseppe Luigi Trevisanato, che la ricevette dal demanio soltanto in uso e la passò contestualmente all’Istituto Cavanis; Casara la fece restaurare ancora una volta, e poi benedire solennemente dal patriarca il 20 gennaio 1872, il giorno prima della festa di S. Agnese, quando fu aperta di nuovo al culto, dopo tante vicende e contrasti. 

“Il discorso d’occasione – riferisce Aldo Servini nella Positio – fu tenuto dal canonico Giovanni Ferrari e pubblicato a cura di un gruppo di sacerdoti ex allievi delle scuole di carità. In memoria di questi fatti il giornale di Venezia II Veneto Cattolico si fece promotore dell’erezione nella chiesa stessa di una lapide che ricordasse «ai posteri i meriti e le virtù dei padri Cavanis, veri amici del popolo, perché il loro amore attinsero alla verace virtù di Gesù Cristo»8. L’inaugurazione della lapide però non avvenne se non nel 1875, perché il Casara volle attendere l’esito di un processo intentato dal municipio di Venezia, che si era proposto di togliere a ogni costo all’Istituto femminile lo stabile in uso alle Eremite. La causa, portata in appello, fu vinta dall’Istituto, e fu così più completa la gioia dell’inaugurazione della lapide. La cerimonia si svolse il 22 aprile alla presenza del patriarca card. Trevisanato; e insieme con la lapide in onore dei Servi di Dio, se ne scoprì una seconda, che ricordasse le vicende più salienti del vecchio edificio. Il discorso commemorativo fu letto da un altro ex allievo dei due Cavanis, monsignor Giuseppe Epis.”

Alle spese della consolidazione strutturale delle pareti meridionali e dell’abside periclitanti, del restauro completo, del mobilio e del materiale liturgico collaborarono molti tra i “buoni”, come erano chiamati a quel tempo i collaboratori delle opere di chiesa, e lo fecero tanto più per evitare che quell’ambiente sacro, molto caro ai veneziani, fosse convertito in un ambiente profano, più esattamente, come era in programma, in una palestra di ginnastica statale o comunale.

Nell’occasione, furono affisse, scoperte e inaugurate due lapidi di marmo, poste in origine simmetricamente sulle pareti che chiudono a ponente le due navate laterali della chiesa (sulla superficie della controfacciata), più tardi, nel 1921, esse furono riunite sulla parete di fondo della navata di destra, sempre a ponente, dovendosi nell’altra navata aprire la nuova porta che dà accesso diretto alla cappella del Crocifisso e collocare sopra detta porta la lapide del primo centenario dell’Istituto. La prima lapide, sulla destra, in onore dei fondatori, del loro impegno per la chiesa di S. Agnese e più in generale della loro vita, dice così:

A VOI

O VENERATI SACERDOTI CONTI FRATELLI

ANTONANGELO E MARCANTONIO DE CAVANIS

CHE FIAMMANTI DELLA CARITÀ DI DIO

NOBILTÀ CENSO ONORI SPREZZATI

ALLA GIOVENTÙ D’AMBO I SESSI

POVERA SPECIALMENTE

INGEGNO STUDI FATICHE TUTTO

SACRANDO

PER ESSA DUE NUOVI INSTITUTI FONDASTE

A VOI O BENEDETTI

IN QUESTA CHIESA

A VOSTRO MERITO PER LA SECONDA VOLTA

IL XX DEL MDCCCLXXII

NON SENZA PRODIGIO RIAPERTA

FIGLI ALLIEVI AMMIRATORI

QUESTA PERENNE MEMORIA VOLLERO POSTA


La seconda lapide, sulla sinistra, fa memoria invece delle più salienti vicende della chiesa ed è così concepita:

VETVSTISSIMAM – S. AGNETIS – V – M AEDEM

INCENDIO – ABSVMPTAM – POPVLVS – INSTAVRAVIT

TRES – EPISCOPI – AN – MCCCXXI – DEDICARVNT

———-

TEMPORUM – EVENTORVMQ – INIVRIA – CORRUPTAM

PIENTVM – STIPE – A – PROFANIS – VSIBVS

SVB – MEDIO – XIX – SAECVLO

VINDICARVNT – SACRISQ – RESTITVERVNT

FRATRES – DE – CAVANIS – SCH – CHAR – AVCTORES

———-

INOPINA – SVBTERRANEI – AERIS – ERVPTIONE – FATISCENTEM

COLLATITIA – ITEM – PECVNIA – REFECTAM – EXPOLITAM

IOS – ALOYS – CARD – TREVISANATO – PATR.

SOLEMNI – RITV – DENUO – CONSECRAVIT

XV – KAL – SEPT – ANNI – MDCCCLXXlI

AD – DOM – V – POST – PASCHA – DIE – ANNIVERSARIA

STATVTA

Tuttavia dispiaceva, naturalmente, che la proprietà della chiesa, il cui restauro e la messa in funzione erano costate tanto da un punto di vista di denaro, lavoro e preoccupazioni ai fondatori e all’Istituto, e più tardi di nuovo ai tempi del Casara, fosse stata persa dall’Istituto, come si è detto sopra, il 24 settembre 1867.

Bisogna ricordare qui che Casara, prima di queste cose, era riuscito a convincere le autorità statali che non conveniva mettere all’asta la chiesa dato che essa aveva subito dei danni ingenti per la fuoriuscita di gas, acqua e sabbia (accaduta nel 1866 come si è detto sopra) e che aveva perso quasi del tutto il suo valore venale. Riuscì a ottenere così la concessione della chiesa al patriarca da parte dello stato nonostante le pessime condizioni strutturali; questi la ripassò all’Istituto. Il Diario della Congregazione riporta in questa data: «Oggi, giorno prima della Natività di Maria, fu sottoscritto l’atto di cessione della chiesa di S. Agnese che era stata confiscata dallo stato italiano all’Em.mo cardinale patriarca. Il decreto era arrivato da Firenze la sera prima dell’Assunzione».

Un privilegio ottenuto da Papa Pio IX, dal 13 luglio1871, permetteva all’Istituto di cominciare a festeggiare il secondo giovedì di luglio la festa pro pueris di S. Giuseppe Calasanzio per gli studenti.

La chiesa di S. Agnese era stata inaugurata e benedetta; restava da celebrare solo la dedicazione. La si fece il 18 agosto 1872, giorno in cui il cardinal patriarca Trevisanato la consacrò ancora una volta. 

Il diario dell’Istituto riporta l’8 maggio 1873: «Con la benedizione di Dio e la protezione della Vergine, di S. Michele e dei nostri avvocati, recuperiamo all’asta il palazzo delle scuole a Venezia», cioè il palazzo da Mosto. 

P. Casara era riuscito a riscattare solo i beni perduti, ma già pensava a dotare la comunità religiosa di Venezia di una nuova abitazione, perché non si poteva più vivere in quella piccola, umida e malsana “casetta” in cui era vissuta dall’inizio nel 1820 e continuava a vivere la comunità veneziana. I religiosi e anche P. Sebastiano, si rendevano conto che avevano perduto tanti giovani confratelli, seminaristi e preti, morti a causa di malattie cagionate anche dall’ambiente umido e troppo povero in cui abitava la comunità, e che questo aspetto avrebbe potuto allontanare dei giovani desiderosi di entrare nell’Istituto. 

Egli stesso aveva dichiarato in un capitolo di comunità tenuto a Venezia il primo dicembre 1856, a proposito dell’apertura della casa di Possagno, augurandosi che la comunità potesse trovare in quel ridente paese ai piedi delle Prealpi anche un ambiente climatico più propizio per i religiosi e soprattutto per una casa di formazione: “Finché resteremo qui [a Venezia, nella “casetta”] con questa Casa angusta, bassa, melanconica, giudicata per insalubre, sussisterà un fortissimo ostacolo anche per l’avvenire all’aumento degli operaj. Ricordavo già jeri stesso un nuovo caso di chi, sentendosi inclinato ad unirsi con noi, ne fu distolto per questo motivo, e ne dimise il pensiero. E di questi casi ne conosciamo ben varii, e chi sa quanti ne avvennero, senza che nulla mai ne sapessimo. Non ci esponiamo dunque a pericolo di tentar Dio, pretendendo una grazia, che fino ad ora non piaquegli di accordarci, aspettando una specie di miracolo, di cui non veggo necessità”.

Bisogna anche dire che dagli inizi della vita della comunità Cavanis a Venezia nel 1820 erano trascorsi 57 anni e che tempi e tradizioni stavano cambiando. Il seguente commento è datato 20 gennaio 1877, festa di S. Sebastiano e giorno della posa della pietra di fondazione della nuova casa: «Il nostro voto ardente si compie. Benediciamo e posiamo la prima pietra della nuova casa dell’Istituto a Venezia. Centuplicata la nostra gioia da un autografo prezioso dell’immortale Pio IX, che benedice qui la Congregazione e il preposito tanto degno di meriti ». 

Costruire richiedeva naturalmente molto denaro, e altro era necessario per mantenere le scuole gratuite; il salasso economico dovuto al riacquisto nelle varie aste dei beni delle tre comunità aveva realmente dissanguato la Congregazione. Una delle attività costanti di P. Casara, come era stata di P. Marco, era la richiesta di elemosine, nei modi più vari. Colpisce per esempio che chiedesse denaro anche a Londra, non a veneziani residenti laggiù, come faceva P. Marco, ma a nobili inglesi: per esempio, il 10 settembre 1879 scrive tre istanze per elemosine al duca di Norfolk, al marchese Bipon (?) e al marchese Bute, conosciuti (ma non da lui personalmente) benefattori, raccomandatigli da un tale P. Lanzoni, come pure a un’infanta di Spagna. Riceverà risposte negative, come era probabile. In particolare, il marchese Bute risponde che riceveva fino a 300 ricorsi per quattrini al giorno, e che non poteva soccorrere tutti. P. Casara riceverà tuttavia qualche sia pur modesta elemosina da altre persone a Londra, tra cui dai padri Scolopi.

In occasione del XIX anniversario della morte del venerabile P. Anton’Angelo, il 12 marzo 1877, si presenta una supplica al patriarca affinché apra il primo processo sulla virtù e sulla reputazione di santità dei nostri due fondatori. Questa supplica dell’8 marzo 1877 era firmata da tutti i religiosi preti della comunità di Venezia che ce ne hanno così lasciato l’elenco completo. 

Lo stesso anno 1877, P. Sebastiano intraprese un grande viaggio e visitò un notevole numero di città della Lombardia e del Piemonte, soffermandosi in particolare a Milano e a Stresa, casa centrale dei religiosi dell’Istituto della Carità (i religiosi Rosminiani), dove visita, pieno di commozione, la tomba del suo maestro. S’incontra sia con i religiosi rosminiani che con vari sostenitori del Roveretano. Il viaggio fu un trionfo per il nostro preposito, accolto con entusiasmo ovunque; egli ne parlava sempre con nostalgia. Lo scopo principale del viaggio era tuttavia quello di sollecitare delle offerte per l’Istituto e soprattutto per la costruzione della nuova casa di abitazione della comunità a Venezia: vedi nel capitolo su quella casa.

Nella seconda metà degli anni Settanta e ancor più dal 1880 si riaccende per iniziativa dei gesuiti e dei domenicani una nuova e più grave fase di lotta contro Rosmini e i rosminiani, di cui Casara è tra i principali esponenti in Italia. Un nuovo periodo di sofferenza prende il via anche per il nostro. La sua lettera a Papa Leone XIII su questa tematica non riceve risposta; così la maggior parte almeno delle sue lettere e l’invio sistematico dei suoi opuscoli a cardinali, a vescovi e superiori religiosi. 

Casara prevedeva una nuova condanna del Rosmini e dei rosminiani e ne era preoccupato. Così scrive nel diario il sabato 11 febbraio 1882: “Saputo dal Prada, che nella C[ongregazione] del S. Uffizio, di cui Prefetto è il Papa, è (sic) Vice-Prefetto è il Card. Lorenzo Nina, scrivo anche a lui per l’oggetto stesso che ai due Card. Bilio e Bartolini (nn. 58, 59) – E il fo anche in seguito a lettera ricevuta oggi dall’amico Paoli da Torino, al quale interessa assai che si avverta al senso troppo penoso e pericoloso che farebbe nei laici studiosi e credenti la condanna che si va prenunziando. Tocco perciò questo punto nella lettera al Cardinale”.

Il nostro dedica tutto il suo tempo libero – e anche di più – alle sue pubblicazioni filosofiche, pedagogiche e didattiche. Si può rendersene conto scorrendo le pagine del Diario di Congregazione da lui scrupolosamente compilato, osservando che sono molto più numerose le righe in cui tratta della sua corrispondenza “filosofica” che quelle in cui parla di cose della Congregazione, soprattutto al passaggio tra gli anni ’70 e ’80, nella parte iniziale del volume quinto del diario.

 Le polemiche contro i rosminiani diventano sempre più aspre; a Venezia il patriarca Domenico Agostini è intransigente in merito alla filosofia di Rosmini e controlla silenziosamente il P. Casara. Quest’ultimo diviene tuttavia sempre di più “strenuo campione (…) del rosminianesimo”, con il pericolo di essere dichiarato ontologista e panteista, ed inoltre, chissà, di far passare qualcuna delle sue pubblicazioni “quale parto di giansenismo, bajanesimo, quesnellianismo e poco meno che volterianismo”. In proposito, P. Casara scrive nel diario che l’Osservatore cattolico di Milano “nel suo n. 51 dei 4-5 del corrente mese di marzo 1880 publicò una vera o supposta Corrispondenza in cui mi mette a fianco di Voltaire”. C’era senza dubbio di che sentirsi onorati – non so se il Casara si sentisse tale – ma a quei tempi e in quelle circostanze c’era di che preoccuparsi davvero!

Dal 25 febbraio all’11 marzo 1880, P. Casara intraprende un altro viaggio a Firenze dove incontra il famoso naturalista, paleontologo, geologo, alpinista, patriota e sostenitore di Rosmini l’abate Antonio Stoppani, e a Roma (in compagnia di Stoppani), dove partecipa al simposio tomista e ad un’udienza in Vaticano da Papa Pio IX, concessa ai partecipanti al simposio. Negli anni ’80 la corrispondenza del Casara con Stoppani è piuttosto frequente e sistematica, sempre molto cordiale, segno di vera amicizia e stima reciproca e sempre registrata nel Diario della Congregazione.

Il Diario di Congregazione riporta memoria di varie lettere inviate da P. Casara al Papa Pio IX, con una certa famigliarità e un grande senso di “preoccupazione per tutte le chiese”. Merita di essere citato il seguente brano: “Ho spedito oggi al S. Padre lettera confidenziale, in cui da figlio gli significo in cenno la vita di strapazzo che conduce il santo nostro Patriarca; acciocché lo sappia, e proveda, per conservarne la salute e la vita”. 

La polemica anti-rosminiana intanto continuava e tra l’altro il giornalista Davide Albertario scrisse un articolo veemente “con frasi sature di sarcasmo” contro il nostro preposito il 28 febbraio 1880 nel giornale milanese da lui diretto, “L’Osservatore Cattolico”.

Dopo anni di desideri e speranze, la comunità di Venezia trasloca finalmente nella nuova abitazione: l’inaugurazione ufficiale avvenne il 20 gennaio 1881, ancora una volta in occasione della festa di S. Sebastiano, con la benedizione fatta dal patriarca.

La tempesta delle leggi “eversive” era passata e la comunità era rimasta fedele e stabile, anzi era aumentata di numero. In effetti, fra i 14 istituti maschili (ordini e congregazioni) che erano presenti a Venezia nel 1866, la maggior parte soffrì perdite notevoli di personale; nel complesso il numero di religiosi a Venezia si era ridotto da 431 nel 1866 a 261 nel 1879: secondo i dati del 1879, un Istituto risultava chiuso in città, altri dieci avevano diminuito i numeri al loro interno (più grave la situazione per gli ordini più antichi che per le congregazioni), due avevano mantenuto il numero di religiosi e solo i Cavanis erano passati da 17 membri a 21. La situazione degli istituti religiosi femminili, più numerosi in città (22 nel 1866, 20 nel 1879), è analoga; solo gli istituti votati all’educazione, tra i quali le canossiane, si sono sviluppati.

Nel 1883 comincia un lungo periodo di problemi interni nella comunità, dovuti soprattutto ma non esclusivamente ai dibattiti e diatribe a volte amare sulla seconda parte delle costituzioni, che si stavano redigendo, soprattutto da parte di Casara. I giovani padri, Giuseppe Miorelli (che restò a lungo in Congregazione, ma ne uscì più tardi), Michele Marini (che uscì dalla Congregazione nel 1887) e un altro (P. Giovanni Battista Larese, che moderò le sue pretese e continuò a lavorare con passione e amore nella Congregazione diventando un importante religioso), come conseguenza della situazione difficile di P. Casara in quanto filosofo rosminiano, ma anche per via del dibattito sulla seconda parte delle costituzioni, crearono un doloroso gruppo di fronda e di maldicenze. 

Lo stesso anno 1883, il 30 e 31 agosto, si celebra il capitolo provinciale e P. Casara fu tuttavia rieletto ancora una volta per un ulteriore mandato di preposito, un chiaro segno di stima della maggior parte dei confratelli.

Nel settembre dello stesso anno, i rapporti con il patriarca card. Domenico Agostini con P. Casara, essendo un rosminiano, e a causa anche di altri problemi, soprattutto le maldicenze dei religiosi della «fronda», diventarono sempre più difficili e perdurarono tali per diversi mesi. Per padre Casara, fu un periodo di grandi sofferenze. Ci fu un incontro del patriarca con la comunità, di cui si dirà più sotto, una dichiarazione scritta e letta al patriarca da padri sostenitori di P. Casara, ma la situazione continuava a essere pesante. P. Casara pensava che dopo la tempesta, cioè dopo il capitolo provinciale, l’aria si fosse rarefatta, ma non fu così.

La posizione anti-rosminiana del patriarca porta conseguenze sgradevoli per l’Istituto per quanto riguarda gli studi dei seminaristi, probabilmente teologi: nell’ottobre 1883 P. Casara scrive nel diario: “La sera stessa di venerdì, dopo scritta e chiusa la mia al patriarca (…). Ricevetti lettera sua del 31 8bre, nella quale mi significa essere sua intenzione e vivo desiderio che i nostri chierici concorrano alle scuole del Seminario – Per la gravità della cosa, che non posso fare da me, e molto più per la ragione, che non dice, ma io devo credere vera causa della sua determinazione, gli rispondo assai di proposito – Prima di parlarne coi Confratelli voglio un documento gravissimo a mio riguardo, ecc.”. Il sabato successivo, 10 novembre, “Il Patriarca mi risponde (…) con lettera che mantiene ferma la sua intenzione (…) , e parla di proposito sul sistema rosminiano. A questa parte dovrò io replicare, con tutto il rispetto ma apertamente. All’altra parte risponderà la Congregazione”.

“Intanto – scrive Casara l’11 novembre -, in ossequio al desiderio del Patriarca, scrivo oggi all’amico di Vincenzo Papa avvertendolo che sospenda la continuazione del mio lavoro in corso di stampa nella Sapienza, né potrò continuare l’associazione al Periodico per me e pel p. Larese”. È interessante registrare qui che sembra che P. Larese condividesse le idee di P. Casara, anche a differenza di altri confratelli.

Nel 1884 P. Casara registra con un bel testo la santa morte a novantadue anni dell’abate Daniele Canal “venerando amico dei nostri Padre (sic), amorevolissimo nostro, fondatore di due grandi Istitutori, e indefesso in ogni opera privata e pubblica di zelo e di carità, benemerentissimo della patria”.

Continua ad attendere vanamente un incontro con il Patriarca Agostini, e scrive nel diario il 22 marzo 1884: “Scrivo di nuovo al Patriarca, dimandando la udienza che aspetto da mesi”. E, due giorni dopo, registra: “Mi risponde il Patriarca, pregandomi di aver ancora pazienza, e assicurandomi del suo affetto”. 

Finalmente l’incontro con il Patriarca accadrà, purtroppo anche a seguito di una serie di visite fatte al prelato veneziano da P. Giuseppe Miorelli, persona sempre turbata e alquanto rissosa, che probabilmente era andato anche a parlar male del P. Casara e a prospettare litigi nella comunità. Così scrive nel diario quest’ultimo il 14 giugno 1884: “Il p. Miorelli che era stato mercordì, col mio consenso, dal Patriarca a manifestargli ciò che molto lo disturbava, ieri si sconcertò nuovamente, e sta mattina vi ritornò molto turbato. Lo calmò il Patriarca, e ritornò con letterina del medesimo che lo accompagnava, e insieme mi avvertiva che sarebbe venuto a visitarci lunedì dopo pranzo in forma amichevole e privata.”. E il 16 giugno 1884: “Ed oggi infatti è venuto con grande bontà ed amorevolezza, ed affrettandosi a dichiararmi che veniva proprio come amico, ma amico antico e di nuovo. Credeva di trovar qualche torbido, e per interporsi a cessarlo, e fu sorpreso assai e consolatissimo trovando tutto invece pienamente tranquillo. In seguito però a quanto erasi riferito dal P. Miorelli del suo colloquio col Patriarca, i pp. Bassi, Rovigo, Sapori e Giovanni Chiereghin aveano preparato una relativa Memoria da presentare al Patriarca, che gli avrebbero mandata, se non fosse venuto. Dissi dunque io a lui, che alcuni dei miei confratelli desideravano di presentarglisi e parlargli prima di me. Ed egli a me: Quand’ella è contento, vengano pure che io volentieri li ascolto. Gli si presentarono, gli lessero la Memoria, vi discorsero sopra alla lunga, ed egli ne fu contentissimo, e trattò e parlò con tanta esuberanza di affetto, che tutti e quattro ne rimasero entusiasmati. – Dopo essi andai io, e liberamente gli esposi e dissi quanto credetti necessario ed opportuno, ed egli mi corrispose sempre con tutta amorevolezza e cordialità. – Gli si presentò infine tutta la Comunità, che egli accolse con festa, e si trattenne con essa alla lunga, e finì col promettere di venir a celebrare il secondo giovedì di luglio, in che facciamo la festa di S. Giuseppe Calasanzio per gli scolari. Partì, lasciando tutti contenti”.

Il diario, il 20 giugno registra: “L’amico d.[on] Giuseppe Marchiori si affretta a comunicarci, le seguenti parole, dette a lui oggi dal Patriarca: “Vedi che aria di santità spira nell’Istituto Cavanis! L’altro giorno sono partito veramente edificato. Già ho deliberato di mandare a quei buoni Padri una lettera”. A cui il Marchiori: “Eminenza, la terranno preziosa”. E soggiunse nel suo biglietto: Il Patriarca fu commosso nell’udire dal P. Casara le proteste del suo affetto verso tutti i suoi soggetti e della carità con cui scusò lo sbaglio del p. Marini e del p. Miorelli. – Tanto a conforto di tutta la Congregazione”. 

Un aspetto notevole di questi anni, è il grande numero di aspiranti di cui si parla nel DC, provenienti principalmente dal “Tirolo”, ma anche da altre regioni, specialmente dal Veneto, tra loro anche di un sacerdote anziano di 60 anni, come pure due ragazzi delle scuole Cavanis di Venezia, che vogliono entrare in Istituto. C’è una grande attenzione alla pastorale vocazionale, con l’appoggio e i suggerimenti di vari parroci; in genere però la cosa non porterà a nessun risultato, per tutta una serie di motivi, in genere per mancanza di attitudini da parte dei candidati. Impressiona il bassissimo numero di vestizioni, professioni e ordinazioni in tutto questo periodo degli anni ’70 ai ’90. Nel 1888 per esempio c’è soltanto un novizio, il candidato a fratello laico Clemente Dal Castagné, entrato in Congregazione il 29 gennaio 1886. Non si parla più da tempo quasi mai di ordinazioni presbiterali: dal 1866 al 1895 (29 anni!) in Congregazione ci furono soltanto sette sacerdoti novelli, e di questi , tre usciranno in seguito di Congregazione, e soltanto quattro rimarranno perseveranti.

Riprende in quest’anno 1885, dopo un lungo silenzio, il dibattito sulla riforma delle regole della Congregazione, e principalmente sulla risposta da dare alla Sacra Congregazione di Vescovi e Regolari riguardo alle cinque osservazioni che questa aveva presentato. Ci sono nel diario del 1885 molte registrazioni di lettere tra P. Casara e i padri anziani al riguardo, ma senza che si giunga a un risultato. Ci si rimette al lavoro da compiersi su questo tema nell’imminente capitolo ordinario provinciale. 

Nel 1885, in conseguenza all’aggravarsi della situazione, ormai stanco anche per l’età avanzata, e dopo un breve periodo di riflessione che passò a Lendinara per rimanere più libero e tranquillo, P. Casara rinunciò nuovamente (e definitivamente) all’incarico di preposito. I motivi erano chiaramente espressi in una lettera indirizzata ai quattro definitori o consiglieri, residenti a Venezia e a Lendinara, che evidenziava i problemi della comunità. La rinuncia all’incarico fu formalizzata il 19 luglio 1885, poco prima che ci si riunisse per il capitolo provinciale straordinario del 10 settembre 1885, e P. Casara, aspettando il capitolo ed il suo risultato, si trasferì di nuovo provvisoriamente nella casa di Lendinara.

Il suo successore, eletto durante il suddetto capitolo straordinario del 10 settembre 1885, è padre Domenico Sapori. Il nuovo preposito invita padre Casara “ad essere Vicario, direttore delle Scuole presso le autorità civili; Preside delle conferenze di Morale, Compilatore delle Regole; ed accettare libera la corrispondenza epistolare”. C’è una lettera molto bella di P. Casara al nuovo preposito P. Sapori, del resto un suo caro amico, dopo la sua elezione: «Per ora basti che mi dichiari che voglio essere qual devo: sottomesso, rispettoso, obediente, tale da poter essere di aiuto e conforto al mio superiore, e di esempio ai confratelli. Guai a me se nol fossi! Guai a me, se non dessi sempre l’esempio di quello che raccomandai agli altri nella chiusa dello scritto lasciato da leggersi nel principiar del Capitolo! Iddio nol permetta! Piuttosto morire, che essere di pena, di danno, di scandalo nella Congregazione! ». E concludeva la lettera: « Padre mio! voglio essere, e spero che sarò in fatto, amorosissimo obedientissimo figlio Casara ». Padre Sebastiano aveva allora 74 anni.

Casara, dopo la fine di una lunga fase della sua vita come superiore generale, continuò a vivere a Venezia, in comunità, ora da semplice religioso, dal 1885 fino alla sua morte nel 1898, in umiltà e obbedienza come aveva promesso e praticando un’estrema povertà. Rimase sino alla fine consigliere (definitore) provinciale e poi consigliere generale, dal 1891, quando, dopo l’approvazione delle nuove costituzioni, stavolta anche con la seconda parte, preparata principalmente da lui stesso, si cominciò a chiamare preposito generale il superiore di tutta la Congregazione, e generali i capitoli, i definitori e le altre cariche della curia generalizia. 

Continuò a occuparsi attivamente dell’educazione, dello studio e della ricerca, delle pubblicazioni che continuò a produrre, della vita comunitaria, dell’aiuto spirituale alle comunità di suore, della ricerca di denaro per aiutare i «suoi» poveri. Come i suoi maestri fondatori, si era fatto lui stesso mendicante per aiutare i più deboli. Ripeteva spesso: «Carità, carità, carità!». Diventava sempre più magro, curvo, debole.

Una delle cose che decadde con l’interruzione della sua prepositura, fu la qualità del diario ufficiale della Congregazione: i suoi successori immediati nel corso dell’ultimo quarto del XIX secolo scrissero meno di lui e il loro diario non è che un’immagine debole e opaca per poter servire alla storia della Congregazione. Di conseguenza, la ricostruzione della storia dell’Istituto, a partire da questo punto, risulta più difficile.

Nel 1887, nel mese di ottobre, P. Sebastiano festeggiò il giubileo dei cinquant’anni di vita presbiteriale, circondato dall’amore dei religiosi, amici, ex-alunni e dalla stima di ricercatori e ammiratori. Sebastiano Casara infatti era stato ordinato prete il 23 settembre 1837 come membro dell’Istituto Cavanis. Come narra molto ampiamente il diario di Congregazione in una pagina e mezza, la celebrazione di questo giubileo era stata preceduta da un triduo, durante il quale si erano suonate le campane tre volte al giorno; la solennità stessa fu celebrata con grande festa, alla presenza di molti invitati, della scolaresca, del clero inclusi i canonici; con musica e canti, con un discorso gratulatorio tenuto dal P. Giovanni Chiereghin. Seguì un pranzo solenne. Non mancò un messaggio del Papa, un telegramma del Patriarca, e numerosi telegrammi e lettere gratulatorie di vescovi, preti, religiosi amici all’illustre festeggiato, che per la verità aveva chiesto e insistito che non si desse nessuna solennità alla data. 

Ci voleva del resto una festa di questo tipo e di tanta gioia e serenità; perché l’orizzonte era greve di nubi di tempesta.

Un duro colpo, infatti, si abbatteva sul P. Casara: “In un contesto ecclesiale lacerato dalle polemiche tra le diverse scuole teologiche”, un grave avvenimento turbò la santa vita di questo venerando padre nei suoi ultimi anni: il decreto « Post obitum » del S. Uffizio (oggi Congregazione per la difesa della fede): quaranta proposizioni di Rosmini, già morto da 33 anni, venivano condannate. Si trattava di proposizioni tratte da opere postume. Il decreto è datato 14 dicembre 1887, ma P. Casara ne venne a conoscenza solo il 22 marzo del 1888

Scrisse subito una lettera al patriarca Agostini, con la quale manifestava la sua totale e umile sottomissione alla chiesa, in particolare al papa che aveva firmato il documento. Chiedeva solo di far conoscere ai fedeli la sua obbedienza e sottomissione e in particolare chiedeva al patriarca di mandarne copia al papa Leone XIII. La lettera fu portata al card. Agostini dal nostro preposito generale che era allora P. Giuseppe Da Col, e il cardinale, molto soddisfatto dalla lettera e dalla sottomissione, acconsentì, ovviamente, ad ambedue le richieste di Casara.

P. Da Col, preposito, così commenta il fatto e la situazione nel diario: “Oggi presentai all’Eminentiss.mo Patriarca la lettera a Lui diretta dal nostro amatissimo P. Casara Vicario, nella quale dichiara e professa co’ sentimenti i più edificanti la sua piena Sottomissione al recente venerato Decreto del S. Ufficio, che condanna 40 proposizioni tratte dall’Opere dell’Ab. Antonio Rosmini – L’Eminentissimo aprì e lesse la lettera alla mia presenza; m’incaricò di recarne al P. Casara l’attestazione del più vivo gradimento con altre espressioni di stima e di affetto pel caro Padre, e quella sera si degnò di venire in persona a ripetergli i medesimi sentimenti, ed a crescere la gioia di tutta la nostra famiglia”. È interessante sottolineare che il preposito non aggiunge, qui o altrove, parole di preoccupazione, tristezza o rimprovero per il P. Casara; al contrario, parole di affetto, stima e amore. Lo appoggiava totalmente, anche se senza dubbio la condanna implicita al P. Casara da parte della S. Sede doveva creare dei problemi a tutta la comunità Cavanis.

Il giorno seguente, 24 marzo, P. Da Col scrive: “Oggi l’Eminentissimo Patriarca soddisfece il desiderio del M.R.P. Casara che la sua lettera allo stesso Eminentissimofosse pubblicata, e comparve nel periodico La Difesa preceduta da una lettera del Patriarca al direttore del Periodico di gran lode ed onore al carissimo nostro Padre. Siamo stati anche assicurati che oggi stesso S. Eminenza partecipava al S. Padre Leone XIII il Documento del P. Casara”.

Ci si può immaginare però quali sofferenze patirono P. Sebastiano Casara e di conseguenza la comunità. Ricevette per altro lato una quantità di lettere di stima da amici, ammiratori, discepoli e vescovi, tra cui monsignor Giuseppe Sarto, che all’epoca era vescovo di Mantova, e fu poi patriarca di Venezia e poi papa Pio X; ricevette lettere di lodi anche da qualche suo avversario. 

Così scrive in proposito P. Da Col: “In questi giorni da Prelati, e da altri distinti ammiratori del nostro P. Casara gli sono dirette dimostrazioni di stima e congratulazioni per l’atto da lui compiuto e i documenti relativi e da lui ceduti alle istanze della Comunità si raccolgono per conservarle nell’Archivio sotto il n° 96, mese corr.e”.

E il 10 aprile Da Col scrive: “L’Eminentissimo Patriarca oggi si compiacque di spedirci copia autentica della Sua lettera al S. Padre nella quale dette relazione a Sua Santità dell’atto di adesione pubblicato dal P. Casara alla condanna delle 40 proposizioni rosminiane e insieme la consolante risposta che ricevette dall’Eminente Card Rampolla, Segretario di Stato – L’Emo. Patriarca accompagna il prezioso Documento con Lettera al P. Casara, ripetendogli le usate espressioni di grande stima e benevolenza”.

Tuttavia da altri Sebastiano Casara fu accusato di aver fatto solo un atto di sottomissione formale ed esteriore (qualcuno lo definì addirittura ipocrita, qualcuno debole) e non interiore ed intellettuale..

La sua sofferenza è ben illustrata dal suo amico (e amico dell’Istituto, almeno fino a quel giorno) il conte Luigi Sernagiotto, che ricordava, circa 10 anni dopo: “Egli venne in quel giorno colla faccia stravolta e molto agitato a trovarmi, e leggendomi il testo della condanna, esclamò, visibilmente afflitto: ‘Dio mio, hanno osato condannare il Rosmini dopo il Dimittantur. Quanto male ciò porterà alla Chiesa!’ ”.

Uno di quelli che dichiararono P. Casara un debole, nel suo atto di sottomissione, fu proprio il conte Luigi Sernagiotto, nella sua breve nota pubblicata nella “Rassegna Nazionale”. 

Da notare che l’Istituto Cavanis non era rimasto molto soddisfatto da questa spontanea iniziativa di Sernagiotto di scrivere una biografia del Casara senza consultare i padri. Il Diario di Congregazione così riporta: “Il P. Giovanni Chiereghin nostro Vicario, letto l’opuscolo pubblicato dal Conte Sernagiotto sul benedetto P. Casara, che ci fu favorito da persona amica (non già dall’Autore), non poté trattenersi dallo scrivere e spedire al Conte col consenso del Preposito la lettera, che unita al detto opuscolo si conserva sotto il n° 28. Rispose il Conte con parole rispettose alla persona del P. Giovanni Chiereghin, com’era da aspettarsi, ribadendo, in modo ugualmente, se non più accentuato, i concetti del suo opuscolo contro gli avversari ecc., ripetendo pur lodi alla memoria del compianto defunto, e non accennando punto a qualche particolare e giustissima osservazione fattagli dal d.o P. Vicario”.

Ecco di seguito il testo completo di questa lettera del P. Giovanni Chiereghin, vicario generale della Congregazione, recentemente ritrovata, e finora inedita:

“Lettera al Conte Sernagiotto a proposito dell’articolo da lui stampato nella Rassegna Nazionale sul P. Casara.                                                                 N.28

Egregio Sig.r Conte

Venezia, 8 6.98

Lessi il suo articolo sul P. Casara, e apertamente Le dico che mi dispiacque assai assai. Educato alla scuola del benedetto Padre [Casara] appresi essere dovere della scrittore evitare sempre, massime nelle dispute che sorgono da diversità di opinioni delle scuole, i modi aspri e pungenti, che non si combinano punto colla carità raccomandata da S. Agostino, in omnibus caritas. E ciò tanto più quando si parli di Autorità e di Corporazioni rispettabilissime. Disapprovo quindi altamente quelle insinuazioni poco rispettuse (sic), per non dire ingiuriose, contro la Congregazione dell’Indice, e la Compagnia di Gesù.

Il classificare poi come atto di debolezza la sommissione del Padre Casara al Decreto Post obitum, è lo stesso che mostrare di non conoscere di che tempra fosse il desideratissimo Padre. Quando parlava, e quando scriveva specialmente per dare alle stampe, egli nulla diceva che non corrispondesse pienamente a ciò che sentiva nell’animo, né sapea mai e poi mai fingere sentimenti da cui non fosse veramente mosso. Non fu dunque debolezza, ma atto umile di figliuolo devoto alla Chiesa, come dichiarò nel suo atto di sommissione, fu cosa bellissima, e spontanea, non imposta da altri come Ella mostra di credere.

Lo scritto poi a cui Ella accenna, stampato tre mesi dopo il Decreto = Post Obitum = per me, e per tutti quelli che conobbero intimamente il p. Casara e non si lasciano guidare dallo spirito di parte, è non già un atto superbo di protesta, ma frutto di una semplicità di cuore veramente singolare. Compie il suo dovere col sottomettersi, ma nel tempo stesso, non trattandosi di Decreto irreformabile, non può resistere a una voce imperiosa interna che gli va ripetendo scrivi, e scrive. Ma scrive umile. Rispettoso, non già alzando il vessillo della ribellione, scrive secretamente a chi potea apprezzare la rettitudine delle sue intenzioni, non già pubblicamente, perché nessuno potesse fraintenderlo, e prendere ansa dal suo scritto a continuare nella opposizione, anzi per togliere ogni ombra di scandalo si asconde sotto il velo delle iniziali G.F. E perché Ella sig. Conte, tolse questo velo? Crede di aver fatto con ciò onore al P. Casara, un bene all’Istituto? (1)

Mi perdoni la libertà. Non ho scritto per iniziare una polemica: io non sono filosofo; spesa la mia vita tra le aridezze grammaticali sono talpa nel campo della Scienza. Ma nell’intima persuasione che al P. Casara non piacerebbe questo scritto, credetti mio dovere manifestarle il mio sentimento. Egli vivo mi onorò della sua confidenza. A Lui morto credo dovuto questo tributo.

Con tutta osservanza mi professo.

Della SV.

Devotissimo servitore

P. Giovanni Chiereghin

vicario dell’Istituto Cavanis

  1. Noi educati dalla sua parola, e più dai suoi esempi, non faremo mai un’azione, non diremo mai una parola, che possa in qualunque modo suonare poco rispetto alle autorità legittimamente costituite, massime alle Congregazioni della Curia Romana.”

P. Casara rispose formalmente a chi gli aveva scritto, con delle lettere molto belle indirizzate dapprima, il 3 ottobre 1888 al vescovo di Concordia monsignor Domenico Pio Rossi, domenicano, che lo accusava, in secondo luogo al patriarca di Venezia e anche al S. Uffizio, dichiarando che la sua sottomissione non era solo esteriore e di disciplina ecclesiastica, ancor meno opportunistica; era una sottomissione interiore nel profondo, autentica, simbolo di una umile e totale obbedienza e devozione al Papa; ma affermava pure che egli non riconosceva il decreto come un atto di magistero infallibile, né come un atto pontificio formale ex cathedra, perché non si trattava di questioni di fede bensì “di filosofia e di scienze”. Aveva dunque dichiarato obbedienza e sottomissione, ma non adesione di fede a un vero atto pontificio infallibile.

P. Sebastiano mantenne insomma la sua lodevole libertà di spirito e continuò le sue ricerche producendo ancora le sue ultime pubblicazioni filosofiche (spesso anonime, secondo la possibilità concessa dallo stile letterario del tempo, per non nuocere alla sua amata congregazione). Era, infatti, del tutto convinto che le quaranta proposizioni condannate fossero state stralciate dal contesto, e soprattutto dall’insieme del sistema rosminiano, della sua terminologia, della sua sensibilità, del suo spirito. Egli giudicava che, così com’erano state scelte e pubblicate nel decreto, esse “non rispechiassero l’autentico pensiero del Rosmini.

Sembra che il caso delle quaranta proposizioni del Roveretano fosse strettamente analogo a quello che accadde 74 anni più tardi, il 30 giugno 1962, a proposito delle opere del grande paleontologo dei vertebrati, paleo-antropologo, pensatore, filosofo e teologo Pierre Teilhard de Chardin S.J. (1881-1955), quando un brevissimo Monitum anche in questo caso postumo della “Suprema Sacra Congregazione del Sant’Uffizio”, presieduto allora dal cardinale Alfredo Ottaviani, emesso sette anni dopo la morte del Teilhard de Chardin, se pure non arrivava a metterne le opere all’Indice dei libri proibiti, esortava gli Ordinari, i superiori degli istituti religiosi, i rettori dei seminari, e delle università ecclesiastiche, di salvaguardare le anime, soprattutto dei giovani, dalle opere Teilhard de Chardin e dei suoi discepoli. In pratica, in genere esse furono ritirate dall’accesso nelle biblioteche delle suddette istituzioni, e dalla vendita nelle librerie cattoliche. Nel documento si può leggere come i testi del gesuita «racchiudono tali ambiguità ed anche errori tanto gravi che offendono la dottrina cattolica». 

Anche qui le luminose idee e le proposizioni del brillante e pio gesuita che venivano condannate, erano state con ogni evidenza estratte o meglio avulse dal contesto del sistema teilhardiano, dalla sua personale sensibilità filosofica, biblica, teologica e soprattutto molto “francese”, dal caratteristico stile letterario al limite a volte tra la prosa e la poesia, dalla terminologia propria, dal metodo proprio, dal proprio mondo della scienza, ed erano giudicate alla luce del metodo, della terminologia e dalla sensibilità alquanto arida e senza dubbio superata della scolastica. 

La storia di rapporti tra l’Istituto Cavanis e la questione rosminiana non era ancora terminata. Ormai l’Istituto era chiaramente sospettato di rosminianismo in blocco, a quanto pare dal seguente testo registrato nel diario da P. Da Col il 21 dicembre 1888 su un evento, fonte nella Chiesa di una preoccupazione che oggi sembra del tutto ridicola: “Oggi scrisse al Preposito l’Emo. Patriarca riguardo al monumento che in Milano si vuole innalzato ad Antonio Rosmini, ed oggi stesso rispose il Preposito assicurando Sua Eminenza che tutti di questa Comunità sono dello stesso sentimento di Lui in questo argomento e che niuno certo comparirà con verun atto aderente all’ideata dimostrazione”. 

Ritornando al Nostro, P. Bastian era insomma davvero un’anima bella. Tra l’altro, in quel contesto lacerante di cui si diceva, e pur dopo la promulgazione della Post obitum, che lo colpiva anche personalmente, la comunità ecclesiale lo vide “intervenire ogniqualvolta sembrasse possibile un dialogo e un chiarimento, e al tempo stesso lo vide farsi difensore appassionato e autorevole di quei rosminiani che a causa delle loro idee subirono censure e persecuzioni.”

Come costruttore di dialogo e di pace, “È noto ad esempio, che Casara fu uno dei rosminiani con cui il vescovo Geremia Bonomelli “mantenne rapporti abbastanza frequenti e sereni”. Casara gli indirizzò parecchie lettere esponendogli e chiarendogli le dottrine di Rosmini: anche monsignor G.B. Scalabrini fu in corrispondenza con Casara.” 

Come difensore coraggioso e intrepido di chi soffriva ingiustizie, M. Leonardi  ricorda in primo luogo che: “Nel 1878 Casara pubblicò a Milano l’opuscolo La verità per la carità in difesa dell’Istituto Villoresi di Monza per i chierici poveri e [in difesa pure] della qualità dell’insegnamento filosofico in esso impartito; rispondendo così alle accuse pubblicate da E. Fontana, prefetto agli studi del seminario arcivescovile di Milano. Nell’ottobre 1881 il Nostro fu coinvolto nel “caso” del prof. Pietro De Nardi, direttore della Scuola Normale maschile del Canton Ticino e docente di pedagogia e metodica a Locarno e Pollegio, che venne congedato dall’insegnamento perché rosminiano. “Il dovere”, giornale dei liberali ticinesi, pubblicò in tale occasione una lettera nella quale Casara – tre mesi prima che il fatto avvenisse – aveva scritto al prof. De Nardi che l’eventualità di una sua destituzione gli sembrava “un assurdo manifestissimo”, “una mostruosità (…) orribile”, “un’enorme ingiustizia”. Nel 1886 – in risposta a una lettera pastorale del vescovo di Concordia Domenico Pio Rossi, che aveva censurato in modo grave uno scritto dell’amico Cicuto – Casara inviò all’Accademia degli Agiati di Rovereto una comunicazione intitolata Di una pastorale vescovile contro il Rosmini. In essa egli ribatte punto per punto le argomentazioni di monsignor Rossi, accusandolo di essere vittima di “pregiudizii” e di non aver visto “neppur le coperte delle Opere rosminiane”.

Per una documentazione più completa sull’evento della promulgazione del Post obitum e sul difficile periodo che ne seguì, per il Nostro e per i rosminiani in genere (e per la Chiesa) si possono leggere le pagine 59-67 del libro di P. Beggiao, spesso citato, e la tesi di M. Leonardi. 

P. Casara intanto continuava nella sua attività in Congregazione, anche come vicario della stessa e della casa di Venezia. A volte si trova notizia nel Diario della Congregazione, ancora negli anni 1896 e 1897, di suoi viaggi a Possagno, naturalmente accompagnato da un confratello. Nonostante qualche periodo di malattia, anche grave, e gli inevitabili acciacchi della vecchiaia, soprattutto la cecità quasi completa a partire dal gennaio 1892, P. Casara riuscì a festeggiare il giubileo dei sessant’anni di sacerdozio il 23 settembre 1897, e fu anche questa una grande festa. La sua vita giungeva al termine.

Ne troviamo le prime avvisaglie nel Diario di Congregazione l’8 dicembre 1897: mentre stava per iniziare in S. Agnese la celebrazione della prima professione dei giovani Enrico Calza e Giovanni Rizzardo, e la comunità era in festa, “Il venerando nostro P. Vicario, per sofferenze cagionate dall’età, fu obbligato a trattenersi nella sua stanza. Avrebbe voluto celebrare nell’Oratorio domestico la S. Messa, tuttavia, fatti pochi passi, per la grande prostrazione di forze dovette ritornare alla sua sedia, e poi porsi a letto. Si degni la cara Madre Maria di esaudire le tante e fervide preci, colle quali s’implora la grazia di averlo, se a Dio piace, sufficientemente ristabilito”. Ma non fu così e dalle pagine successive si constata che P. Sebastiano continuò la sua vita tra letto e lettuccio, o piuttosto quasi sempre a letto. “Il Padre Vicario (…) pur troppo continua nello stato di abbattimento di forze, per il che, e per cattive giornate di questa stagione, il medico differisce a permettergli di alzarsi un poco da letto finché si abbia un bel Sole, ed una più mite e asciutta temperatura. Il benedetto infermo si adatta docile ad aspettare; ed è animato da viva fede di ottenere il frutto di tante orazioni, che si fanno per lui. 

Si prega da noi, e nella S. Messa si recita anche la Colletta pro infirmo. Altrettanto si farà dai Confratelli di Possagno. Si prega continuamente da tutte le anime pie, che nutrono speciali sentimenti di venerazione e gratitudine verso il venerato Padre. – Egli, che non conosce pienamente il suo stato, desidera e spera di poter celebrare entro il corr.[ente] mese la S. Messa, e se il Signore gliene farà la grazia, si è obbligato a celebrarne trenta secondo l’intenzione del Sommo Pontefice, secondo la Circolare dell’Eminentissimo Patriarca”. “Il 27 Gennaio il P. Vicario ebbe la visita carissima dell’Emo. Card. Sarto nostro Patriarca, che si trattenne alquanto assai amichevolmente al letto di lui, e dopo avergli dato la Pastorale Benedizione, passò in altra stanza colla Comunità, confortandoci nella speranza di rivedere in Patriarcato il caro Padre a restituirgli in persona la visita”. P. Casara ricevette il viatico l’11 marzo successivo e l’estrema unzione il 5 aprile, sempre perfettamente cosciente e con edificazione dei confratelli. Il 7 aprile troviamo nel diario: “L’Eminentissimo Patriarca, che pochi giorni fa si recò per la seconda volta a visitare il suo carissimo P. Casara, e dopo averlo affettuosamente baciato partì commosso al lasciarlo in istato ben più grave che in addietro; essendo stato oggi da noi informato della condizione attuale dell’infermo vieppiù pur troppo minacciosa, scrisse a Roma un telegramma, implorandogli l’Apostolica Benedizione, che dopo poche ore venne impartita”. E il giorno seguente, venerdì santo: “Questa mattina ricordai al Padre il santo giorno presente. Egli mi corrispose con sentimenti edificanti di pietà, e piena rassegnazione alla Volontà divina, e accompagnò con perfetta lucidezza di mente il rito della Benedizione Papale in articulo mortis”.

Dieci anni dopo la questione del decreto Post obitum, e quattordici anni dopo la sua rinuncia alla carica di preposito, arrivò per lui, come per tutti, «sora nostra morte corporale», dopo una malattia abbastanza lunga e sofferta. Era il 9 aprile 1898, un sabato santo. 

Così registra la sua morte, o meglio il suo felice passaggio, P. Da Col, preposito generale, nel diario di Congregazione:

“Sabato Santo – Transito beato del benedetto P. Casara.

Le ore di ieri e della notte seguente furono ore, nelle quali il Caro Padre ebbe a soffrir molto fisicamente, ma nello spirito sempre tranquillo, e sostenuto dalla sua abituale e piena rassegnazione alla Volontà del Signore, da lui espressa assai spesso colle parole, e poi coi cenni, in perfetta lucidezza di mente, quando gli venne meno la voce. – Con dimostrazioni di grande affetto quella mattina benedisse le buone suore Giuseppine, delle quali era l’ordinario Confessore, e le Madri Cappuccine agli Ognissanti, che spesso in addietro ebbe ad assistere spiritualmente, e con le quali mantenne sempre religiosa relazione. – L’ultima, e più affettuosa benedizione la diede alla nostra Comunità, ed in particolare a me, che ne lo pregai, più di tutti bisognoso. – Dopo di aver celebrato la S. Messa ritornai a lui, che non parlava più, ma mostrava di intendere, e di accompagnare le divote giaculatorie, che gli venivo a quando a quando suggerendo. Così proseguì la sua ultima agonia, finché alle ore 10 a[ntimeridiane del 10 aprile] la santa sua anima esalava in seno a Dio”.

P. Da Col continua nel diario del giorno 11 aprile: “Per alcune ore si lasciò esposta nel nostro Oratorio maggiore, e pubblico la salma benedetta per soddisfare alla devozione delle pie persone che concorsero a benedirla. Sulla sera fu chiusa in cassa di zinco ed esternamente di legno, dopo che da tutti i presenti, e da noi col più vivo affetto fu impresso l’ultimo bacio sulla paterna sua mano, continuandosi poi la privata uffiziatura di regola fino alla mattina seguente, nella quale si celebrarono più Messe fino all’ora, in cui si doveva trasferirsi nella pubblica nostra Chiesa. Prima di chiudere la cassa, vi si depose un vasetto colla memoria relativa”.

E il 12 aprile: “Trasporto della Salma a S. Agnese e Solenne Funerale.

(…) Nel lungo funebre corteo dal nostro pubblico Oratorio, donde fu levata la Salma, fino alla Chiesa di S Agnese, passando per le vie principali vicine, secondo il desiderio del Paroco [dei Gesuati], alternandosi il suono delle campane nostre e di quelle della Parochia, fu ammirato il grande concorso di popolo spettatore devoto; ma specialmente, durante tutta la funzione, nella Chiesa piena stipata, era edificantissimo il generale contegno di fede, pietà e venerazione. – Si nota che nell’avviso pubblicato pel Funerale la Congregazione pregò i benevoli a non voler onorare né con torcie né con corone. – Fatta l’assoluzione del feretro dall’Eminentissimo Patriarca [Sarto], dopo ch’ebbe recitata una funebre orazione, che ritrasse il compianto Padre, in modo da tutti ammirato, e commoventissimo, si avviò la processione colla Salma alla riva accompagnata dal Clero numeroso, dai nostri dell’Istituto, dei quali il P. [Giuseppe] Bassi fece le veci del Preposito [P. Da Col], che dopo di aver cantata la Messa e ascoltata l’Orazione funebre, rimase in Sagrestia, accompagnando col cuore commosso l’ultimo addio al venerato Padre”. 

Al funerale avevano partecipato (tramite una rappresentanza) anche il sindaco, il famoso conte Grimani, e mons. Francesco Mion, arcidiacono dell’insigne capitolo della basilica di S. Marco, che P. Da Col ringraziò distintamente per lettera il 13 aprile; mentre fu personalmente a ringraziare il Patriarca il 14 aprile: “Presentai in persona i sentimenti della nostra vivissima riconoscenza all’Eminentissimo Card. Patriarca per quanto fece spontaneo e di gran cuore ad onore del benedetto defunto padre, ed a nostro indicibile conforto. Pregai di nuovo l’Eminentissimo a concederci [il testo de] il funebre elogio da Lui recitato con ammirazione e lode di tutti che lo ascoltarono; Egli si rifiutava per la Sua rara modestia; ma speriamo che non lascierà deluse le nostre umili istanze”.

I contemporanei stimavano Casara come un santo. Ne fa prova anche l’elogio funebre, che i padri non avevano potuto ottenere nel testo originale. Dopo la messa funebre, celebrata dal preposito generale P. Giuseppe Da Col, il patriarca di Venezia card. Giuseppe Sarto, più tardi Papa Pio X e santo, aveva pronunciato coraggiosamente un discorso molto bello, che si può considerare quasi un vero panegirico, chiamandolo “Padre mio” e “Vir simplex ac timens Deum”. Non evitò di affrontare neppure il tema spinoso del rosminianismo del nostro padre, come un’umana prudenza avrebbe potuto suggerire. Non acconsentì tuttavia di cedere il testo del suo discorso completo né ai padri, né ai giornalisti, e ne distribuì soltanto uno schema. Erano tempi pericolosi, e un testo del genere, stampato in un opuscolo dai padri, o, peggio, pubblicato dalla stampa, avrebbe provocato senza dubbio dei problemi e delle critiche al caro Patriarca Sarto. Il testo del discorso del cardinale tuttavia fu ricuperato molto più tardi e può essere letto più sotto.

Un’altra eucaristia funebre fu celebrata a S. Agnese per la scolaresca il 19 aprile successivo, presieduta dal P. Giovanni Chiereghin, ora Vicario della comunità di Venezia e della Congregazione, e prefetto delle scuole. Egli “lesse l’elogio del lacrimato defunto, tutto appropriato alla Scolaresca, lumeggiando lo zelo per la cristiana gioventù, che il P. Casara ardente di amore per essa ebbe sempre manifestato nei lunghi anni, ne’ quali sostenne l’uffizio di maestro in varie scuole del nostro Istituto, oltre all’insegnamento domestico delle Scienze pei nostri giovani studenti (chierici o seminaristi maggiori); quantunque indefessamente applicato ad altri ministeri di carità interni e esterni a gloria di Dio, ed a bene del prossimo. Accennò pure colla dovuta e ben meritata lode agli scritti per direttorio di spirito pei nostri congregati, e per l’insegnamento nelle Scuole anche infime, oltre agli scritti ed opuscoli diversi editi, ed inediti, frutto del suo straordinario corredo di scientifiche cognizioni”.

La morte del P. Sebastiano Casara privava l’Istituto anche di un definitore e vicario. Come si è visto, a vicario fu nominato dal preposito, sentiti i definitori, P. Giovanni Chiereghin; come nuovo definitore, fu eletto P. Giovanni Fanton.

Per concludere questa breve biografia, segue qualche testimonianza sul nostro venerando «secondo o terzo fondatore», giudicato da molti un santo:

  • L’immaginetta-ricordo redatta dall’Istituto diceva:

M. R. P. SEBASTIANO CASARA

DELLA CONGREGAZIONE

DELLE SCUOLE DI CARITÀ CAVANIS 

ESAMINATORE SINODALE 

CENSORE

ECCLESIASTICO

N.                M.

8 Maggio 1811      9 Aprile 1898

LE CARE SEMBIANZE

 DEL

M. R. P. SEBASTIANO CASARA

DOPO I VENERANDI FONDATORI

 GLORIA ILLUSTRE 

DELLA CONGREGAZIONE 

DELLE SCUOLE DI CARITÀ CAVANIS

 RICORDANDO FEDELI

 IL DOTTO MAESTRO – L’ACUTO FILOSOFO

 IL TEOLOGO AMMIRATO

IL SACERDOTE SANTO

 INSPIRINO PERENNE

 LA FERVIDA PRECE

DELL’AMICIZIA – DELL’AMMIRAZIONE

 DELLA RICONOSCENZA

  • Il patriarca di Venezia card. Giuseppe Sarto, in udienza con il Papa Leone XIII, interrogato sulla fedeltà di P. Casara alla chiesa, avrebbe risposto: «Santo Padre, scambierei me stesso e la mia propria anima per l’anima di P. Casara!». 
  • P. Da Col non parlava della morte ma del «passaggio felice del benedetto P. Casara» o del suo “beato transito”.
  • Lo stesso Da Col scriveva: «Era copia fedele e vero ritratto» dei due fondatori.
  • P. Giovanni Chiereghin annotava: «P. Sebastiano Casara, lustro e decoro della città intera, nonché del nostro Istituto” e più avanti: “un’immagine viva, parlante dei fondatori” e ancora: “Con ragione dunque noi l’ammiravamo, l’amavamo come il nostro consigliere, il nostro conforto, la nostra gloria, ed il nostro decoro”. 
  • P. Antonio Dalla Venezia scriveva di lui: “Io lo conobbi appena entrato in Congregazione (11 novembre 1877) quando avevo sedici anni, e mi parve un santo.”
  • Le persone a Venezia in occasione della sua morte dicevano: «È morto un santo!».
  • Sulla testimonianza del venerabile P. Basilio Martinelli, si è detto all’inizio.
  • Monsignor Giuseppe Ambrosi scriveva di lui in un poema: “Santo e dotto Superior Casara / la figura per noi sempre ammiranda”.

Sulla morte di P. Casara, si suggerisce di leggere in appendice al libro di P. Beggiao, spesso citato, l’excursus «Ultime parole di P. Casara».

Le ossa del P. Casara il 9 giugno 1916, furono riesumate dal campo dei sacerdoti nel cimitero civico di S. Michele in isola, già il 25 maggio precedente raccolte nella cella mortuaria, vennero ora sistemate in una “piccola cassa”, come scrive P. Tormene nel Diario di Congregazione, trasportata da quattro dei religiosi nella cappella di S. Cristoforo e dopo benedette, furono messe in un loculo concesso dall’Arciconfraternita di S. Cristoforo e della Misericordia. Fu celebrata la S. Messa presieduta da P. Tormene, preposito. Sulla cassa fu scritto con colore a olio: “P. Sebastiano Casara delle Scuole di Carità – Morto 9 aprile 1898”. Il loculo fu murato con una pietra sulla quale era inciso: “P. Sebastiano Casara dei Cavanis”. 

Ma è bene, per chi volesse conoscere più dettagli, riportare per intero la narrazione del P. Tormene al 25 maggio 1916:

“25 maggio – Giovedì – Stamattina alle 9½, in seguito ad accordi presi col Cav. Turolla Ispettore del Cimitero, e colle Autorità Municipali, si procedette all’esumazione dei resti mortali del venerato e amatissimo nostro Padre Sebastiano Casara (+, in margine al testo), defunto il 9 Aprile 1898.

Erano presenti: il P. Preposito [Augusto Tormene], il P. Vincenzo Rossi, il R. Dn. GBatt. Vianello, Parroco a S. M. Formosa (uno dei membri dell’antico comitato formatosi per le onoranze funebri di trigesimo nel 1898), il Cav. Turolla, Il Sig.r GBatt. Duse (altro membro di quel Comitato) e il Capo dei Vigili del Cimitero. Scoperta la prima cassa di legno, si passò con diligenzaalla scoperchiatura della seconda cassa di zinco. Si rivide allora il caro defunto ben conservato, ma ischeletrito. Il teschio conservava ancora la pelle e tutti i suoi capelli: le occhiaie erano ancora completamente infossate: la mandibola inferiore ancora ricoperta di corti peli di barba: la spina dorsale e le coste ancora unite: il resto del corpo ridotto alle ossa meglio asciutte della spina dorsale e coste. – Con diligenza raccolti questi resti benedetti in una piccola cassetta di legno, dove vi fu incluso anche il vasetto di vetro ancora ermeticamente chiuso da ceralacca come era stato deposto nella cassa di zinco nel 1898, e chiusa la cassetta con sopra scrittovi il nome e la data dell’esumazione, si fece subito il trasporto nella Chiesetta di S. Cristoforo.

Deposta e ricoperta di drappo funebre la piccola bara in mezzo alla Chiesetta, il P. Preposito celebrò la S. Messa di Requiem, e diede poi l’Assoluzione. Presenti i sopra nominati, più il P. Arturo Zanon venuto a tempo della Messa. Quindi fu fatto il trasporto provvisorio alla Cella Mortuaria del Cimitero, in attesa del definitivo collocamento in un loculo perpetuo. – Passati quindi tutti nell’Ufficio del gentilissimo e pio cavalier Turolla (amico del P. Casara e dell’Istituto) si formulò la domanda al Municipio pel loculo e si stabilì di far il definitivo trasporto il 9 giugno con solenne esequie presente tutta la Comunità.

….. 

9 giugno – Venerdì —— Preannunziata dalla “Difesa” di jersera con un affettuoso articolo d’invito del M. R. Dn. Giov. B. Vianello Parroco a S. M. Formosa, si fece stamattina alle 9 la funzione funebre a suffragio del benedetto e veneratissimo nostro P. Sebastiano Casara. Intervenne tutta la Comunità, una rappresentanza dell’Istituto Solesin di cui P. Casara fu cofondatore, parecchi vecchi amici Sacerdoti e laici, il Reverendissimo monsignor Giovanni Jeremich per sé e pel Seminario, e parecchi alunni attuali dell’Istituto venuti spontaneamente. Nella Cappella di S. Cristoforo, cortesemente concessa dal cavalier Spadari, Presidente di quella Arciconfraternita, ci raccogliemmo tutti alle 9.

Trasportata dalla cella mortuaria alla Cappella la piccola Cassa ove il 25 maggio scorso furono raccolte le ossa del def.° Padre, il Preposito uscì per la Messa solenne assistito dai PP. Arturo Zanon ed Enrico Perazzolli. Cantarono i nostri giovani Chierici ed Aspiranti del Noviziato. Finita la messa e data l’Assoluzione alla bara, la Cassa portata da quattro dei nostri fu processionalmente trasportata al loculo destinato. Benedetto il quale, e scrittovi a color nero ad olio sul coperchio dela Cassetta “P. Sebastiano Casara delle Scuole di Carità – M. 9 aprile 1898” si compì la tumulazione e vi fu murata la pietra sulla quale è inciso: “P. Sebastiano Casara dei Cavanis”. Il loculo è:

Le spese del loculo perpetuo (£ 150) e delle due funebri funzioni del 25 maggio e 9 giugno furono interamente coperte col civanzo delle offerte raccolte dal Comitato nel 1898 per le onoranze di trigesimo al compianto P. Casara: anzi rimase ancora qualche cosa per fargli celebrare delle SS. Messe (30).-

Il buon Padre vegli dal Cielo, dove lo speriamo già Beato, sulla sua diletta Congregazione e conservi in essa lo spirito di Ven.mi PP. fondatori dei quali Egli ricopiava le virtù, la pietà, lo spirito di carità e di sacrifizio. E questi estremi onori resi oggi ai suoi benedetti resti mortali siano a Lui di gradimento, come attestazione della nostra religiosa pietà, e in noi e nei nostri giovani, eccitamento a sempre maggior fervore nella nostra S. Vocazione! – Volesse poi il Signore che un altro giorno potessero quelle ossa benedette essere trasportate a S. Agnese, presso le Salme venerate dei Fondatori, e ai nostri posteri fosse riservata la gioia immensa di celebrare, per giudizio della S. Chiesa, la loro glorificazione!”

Più tardi ancora, le ossa di P. Casara furono riunite, alla fine di aprile 1942, a quelle dei suoi confratelli che erano sepolti nel settore degli ecclesiastici e dei religiosi e sistemate in modo molto conveniente nella nuova cappella mortuaria per i religiosi defunti della comunità Cavanis, nella propria absidiola della chiesa di S. Cristoforo nel cimitero comunale di S. Michele. L’inaugurazione di tale cappella mortuaria dei Cavanis avvenne il 3 maggio dello stesso anno.

A proposito dell’antico dibattito e della polemica attorno alle idee di P. Casara, nel contesto del sistema rosminiano e ancora di più sull’atteggiamento spirituale di quest’anima obbediente e libera che era Casara, la Chiesa – in ritardo – diede ragione al suo maestro, l’abate Rosmini. Infatti, la condanna delle quaranta famose proposizioni è stata revocata nel 2001 da Giovanni Paolo II, e Benedetto XVI lo ha proclamato beato il 18 novembre 2007. Non si tratta di certo di un’approvazione del sistema filosofico, ma della santità della sua vita. Penso talvolta alla gioia che P. Sebastiano può provare quando trascorre il “tempo” con il suo maestro in Paradiso, cosa che fece raramente in terra; e a tutte le cose molto interessanti che avranno l’occasione di dirsi! 

Sono interessanti le ultime parole che P. Casara avrebbe detto prima di morire: «Muoio con la convinzione che Antonio Rosmini sarà dichiarato santo e dottore della chiesa: haec est fides mea reposita in sinu meu ». Ci siamo vicini.

Senza essere io un filosofo e neanche un buon conoscitore della materia, mi permetto qui un umile e tenue giudizio sul pensiero e sulle opere di Casara: era un filosofo acuto e originale di tutto rispetto, senza essere eccelso; fu un grande e appassionato divulgatore della filosofia rosminiana; un importante leader del gruppo dei discepoli e sostenitori di Rosmini in tempi molto difficili. 

Un aspetto del pensiero che, con tutta la buona volontà, non si può accettare, è quello che la dottrina, il metodo, il sistema rosminiani siano conformi a quelli dell’Aquinate, come sosteneva il Casara stesso. Si possono avanzare qui tre ipotesi, non necessariamente alternative ed esclusive una dell’altra:

  1. Casara realmente e sinceramente credeva che seguire il pensiero e il sistema filosofico del Rosmini volesse dire seguire il pensiero dell’Aquinate, sia pure con parole più moderne e con uno spirito e una terminologia più adatta ai tempi e ai problemi contemporanei: ciò mi sembra possibile ma piuttosto improbabile, salvo a dichiarare il Venerato P. Casara, ingenuo – cosa del resto non rara nell’Ottocento – e incapace di comprendere realmente il pensiero di ambedue i grandi filosofi, San Tommaso d’Aquino e il beato Antonio Rosmini.
  1. Casara dichiarava che la dottrina, il metodo, il sistema rosminiani erano conformi a quelli dell’Aquinate per motivo tattico e strategico, per facilitare l’adesione alle dottrine rosminiane nei seminari e in genere nella chiesa; e quindi, a suo parere “contrastare il processo di scristianizzazione in atto”.
  1. Casara dichiarava che la dottrina, il metodo, il sistema rosminiani erano conformi a quelli dell’Aquinate anche con l’intenzione pratica di evitare, come si suggeriva, di essere condannato come eretico e, ancora più, per il timore di danneggiare la sua cara Congregazione.

Non ho poi dubbi che P. Casara abbia letto integralmente almeno la Somma Teologica di S. Tommaso, da un lato, le opere del Rosmini per altro lato; rifiutando quindi il dubbio che sembra proporre su questo punto M. Leonardi. La biblioteca della comunità dei Cavanis a Venezia è sempre stata ampia e ricca, oggi e certamente al tempo di Casara, e che essa fosse ricca di libri era una delle principali e tipiche preoccupazioni dei fondatori dell’Istituto. Non poteva mancare delle opere dell’Aquinate. Poi perché – come ricordo dal tempo dei miei studi filosofici e teologici – in un tipo di vita in cui non esisteva ancora – almeno nel nostro Istituto fino al 1960 circa) la televisione, anche la radio fino a circa il 1962 nell’ambiente di formazione; in cui la biblioteca di comunità comprendeva abbondanza di letteratura teologica e devozionale, oltre ai classici latini e greci e a libri di testo, manuali, enciclopedie, dizionari per uso soprattutto della scuola, e in cui mancava quasi totalmente, come ancora oggi qui a Venezia, la narrativa, si leggevano da chierici le grandi opere teologiche in molti volumi e personalmente ricordo di aver letto la pars prima e la pars secundae complete della Somma teologica, per puro gusto personale; e di aver letto storie della chiesa in 12 o 14 volumi, con oltre 10.000 pagine nell’insieme (il Fliche-Martin negli anni Sessanta, il Mayeur, J.-M. et alii nell’ultimo decennio.

È vero piuttosto che P. Casara sembrava non occuparsi con intensità del pensiero politico e di riforma della chiesa del suo Maestro, temi sui quali mi risulta che non si soffermi, il che francamente dispiace; limitandosi a occuparsi degli aspetti strettamente filosofici e, in parte teologici.

Con ogni probabilità, Casara, nell’assimilare Tommaso e Rosmini nei loro rispettivi sistemi, seguiva il suo Maestro, il Rosmini stesso, che, forse per convinzione – il che mi sembra dubbio – sia più probabilmente per timore di essere chiamato eretico, come in pratica purtroppo avvenne, e per lungo tempo, voleva lasciar chiaro ad extra che egli rispettava e venerava le persone e il pensiero dei più grandi filosofi ufficiali del cristianesimo occidentale, S. Agostino e S. Tommaso d’Aquino, particolarmente quest’ultimo. Un’altra incongruenza, che risulta chiara dal testo citato qui sotto, consiste nel fatto che Rosmini afferma di seguire le orme appunto di ambedue i grandi pensatori della Chiesa, S. Agostino e S. Tommaso; sebbene sia evidente che il loro pensiero e il loro sistema filosofico siano chiaramente differenti.

Ecco come si esprime il Rosmini:

“Né egli sarà difficile che il leggitore scorga per questi Saggi le membra sparse del corpo di una filosofia dall’autore seguita costantemente. Che se si chiede di che genere ella sia, parmi che si possa descrivere non già nelle sue parti singole, ma nel suo spirito, con pochi cenni, dicendo ch’essa, in sull’orme di sant’Agostino e di san Tommaso, tutte le sue meditazioni rivolge al gran fine di far tornare indietro lo spirito umano da quella falsa strada, nella quale col peccato si mise, e per la quale, allontanandosi da Dio, centro di tutte le cose e unità fondamentale onde tutto riceve ordine e perfezione, si divagò nella molteplicità delle sostanze disordinate, quasi brani di un universo crollato, privi del glutine che tutti univa in un’opera sola meravigliosa.

Ma chi volesse avere anche fermato con alcune parole lo stesso spirito e la forma di una simile filosofia, basterà ch’egli ritenga due vocaboli, i quali disegnano i suoi due generali caratteri, atti a farla conoscere e contraddistinguere, e questi sono unità e totalità.

Nessuna filosofia può giammai pienamente conseguire l’uno di questi due caratteri senza l’altro; ché la piena unità delle cose non si può vedere se non da chi risale al loro gran tutto; né si abbraccia giammai il tutto, se non si sono concepiti ancora i più intimi cioè gli spirituali legami delle cose, che dall’immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente una sola”.

Più debole era Casara quando toccava, nel corso delle sue riflessioni filosofiche, temi connessi in qualche modo con le scienze matematiche, fisiche e naturali – di cui era appassionato ma incompetente – e quando faceva riferimento agli studi contemporanei in questi campi. Correttamente, credo, Maria Leonardi scrive su questo punto, a proposito per esempio del concetto di spazio espresso dal nostro: “… le soluzioni che egli offre a problemi tipicamente “moderni” come – tra gli altri – quello della natura dello spazio, lasciano sconcertati per una impostazione che, nonostante i numerosi richiami alle più recenti acquisizioni delle scienze fisiche e chimiche, oseremmo quasi definire ‘medioevale’ ”. Ciò del resto avviene nella Chiesa di Dio non raramente ancora oggi.

Essendo io stesso biblista, mi sembra di poter dire poi con piena coscienza che Casara fosse piuttosto conservatore in campo teologico e senza dubbio debole soprattutto nel campo dell’interpretazione della Sacra Scrittura, anche per i suoi tempi. Mi sembra pure che a volte si esprimesse con idee peregrine, del tutto al di fuori della teologia (e tanto più dell’esegesi biblica) anche del suo stesso tempo. Si veda per esempio quando propone che la creazione del mondo, nelle sue varie parti (i giorni di Gen 1,1-24a) sia stata realizzata per mezzo di cause seconde, e suggerisce che queste cause seconde sarebbero gli angeli, ai quali Dio dava l’ordine di chiamare all’esistenza le varie creature ad eccezione dell’uomo.

Il suo contributo teologico fu tuttavia stimato nell’ambiente ecclesiastico di Venezia – che non era per niente avanzato – e particolarmente nel concilio delle chiese delle Tre Venezie. Era inoltre un buon pastore, un grande educatore, un maestro di spirito e un predicatore molto stimato in questo campo anche a livello di diocesi di Venezia e delle altre diocesi del Veneto. Era poi estremamente originale e innovatore nella pedagogia e nella didattica. 

Sfortunatamente i suoi scritti, sia in quest’ultimo campo, sia in quello filosofico-teologico, sia editi che inediti, non sono stati finora sufficientemente studiati e valorizzati; “smentendo così la profezia di Luigi Cesare de Pavissich, che, a un mese dalla morte di Casara scrisse, a proposito dei suoi lavori filosofico-teologici: ‘Verrà giorno, tra breve, che se ne farà inchiesta e studio diligente’ ”. 

Al contrario, nel 1973, G. De Rosa notava che “Sulla figura di Sebastiano Casara siamo fermi ancora allo studio biografico di L. Sernagiotto”.

Nel 1980-1981, Maria Leonardi osservava nella sua tesi che fino a quell’anno le uniche pubblicazioni che parlassero del Casara erano, oltre alla brevissima biografia a mano di Luigi Sernagiotto, che ha dei pregi, nonostante alcune inesattezze, e la breve biografia a mano di L. C. Pavissich, avevano trattato di Casara e della sua opera Silvio Tramontin, di passaggio, scrivendo che bisognava dare “maggiore considerazione” a questa “eminente figura” di rosminiano; A. Gambasin Bruno Bertoli e Gianni Bernardi (1998) commentano l’attività di Casara come membro della commissione preparatoria del primo concilio provinciale veneto (1859); Aldo Servini nella Positio da lui compilata per la causa di beatificazione e canonizzazione dei fondatori dell’Istituto presentava una breve biografia del nostro e trascriveva poi la lunga serie di documenti (soprattutto excerpta dal Diario della Congregazione di mano del Casara stesso) e la testimonianza personale di lui sulla vita e sulle virtù dei fratelli Cavanis; per la verità, ne aveva trattato, con una breve biografia che metteva in risalto più che l’aspetto di filosofo quello dell’educatore e del religioso, già nel 1909, anche il P. Giovanni Chiereghin.

Negli ultimi decenni le cose sono migliorate. Nel 1980-1981 Maria Leonardi ha difeso presso l’università di Padova una tesi dal titolo: “Sebastiano Casara e il Rosminianesimo – scritti e dibattiti dal 1857 al 1876”, nella quale definisce, nell’introduzione, Casara come “figura non secondaria ma trascurata del rosminianesimo veneto”; tesi poi parzialmente pubblicata nell’ottavo volume della serie “Contributi alla storia della Chiesa veneziana”, pubblicata dallo Studium Cattolico Veneziano; Marco Chizzali nel 1996-1997 difese, pure all’università di Padova, una tesi dal titolo “Introduzione alla pedagogia di Sebastiano Casara, secondo fondatore dell’Istituto Cavanis”.

In occasione del centenario della morte del nostro, nel 1998, P. Diego Beggiao, allora archivista generale e storiografo dell’Istituto Cavanis, ha organizzato un prezioso volume su P. Casara, diviso in tre parti: la prima è una biografia del Casara a firma dell’organizzatore stesso; la seconda è di Luciano Malusa e verte sul tema “La fedeltà al Lume della verità”, discorrendo quindi sull’attività filosofica del Casara; la terza è di don Gianni Bernardi e si occupa di “Il concilio provinciale veneto: da una chiesa sottomessa a una chiesa libera”.

Sono più recenti due tesi di laurea di Natascia Poloni, la prima (2003-2004) sulla pedagogia dell’Instituto Cavanis e in particolare di P. Casara; la seconda (2009-2010) sull’influsso del Rosmini sulla formazione filosofica di Sabastiano Casara. Vi si aggiunge un altro studio della stessa autrice (2014). 

Anche in internet, in Google per esempio, sono poche le pagine che riportano riferimenti al nostro filosofo veneziano, quattro o cinque, e sono in genere riferimenti molto deboli. Manca una sua biografia in Wikipedia e nelle pagine web della Treccani. 

C’è dunque ancora molto lavoro da compiere sulla figura del P. Casara, sulla sua immensa corrispondenza e sulla sua attività di ricerca, di studio e di pubblicazioni; molte delle sue opere edite anticamente devono essere studiate e illustrate; altre, ancora inedite, devono essere trascritte, pubblicate, commentate. Alcuni ricercatori sono al lavoro in quest’opera.

Ci si ricorderà che il cardinal patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto, aveva coraggiosamente accettato di tenere il discorso funebre per i funerali di P. Casara, facendone il panegirico, ma che aveva rifiutato, certamente per prudenza e riservatezza, dati i tempi, di consegnarne una copia dei testo a un giornalista e ai padri dell’istituto. 

Essendo un testo inedito, vale la pena di riprodurlo integralmente in queste pagine, di leggerlo e di farlo conoscere.

PER IL REV.MO PADRE CASARA IN DIE OBITUS

Discorso funebre tenuto dal Cardinale Patriarca di Venezia Giuseppe Sarto

È sempre penoso il parlare davanti ad un feretro, perché il cuore vorrebbe lacrime e non parole, perché sembra di turbare la pace di chi dorme nel Signore e profanare quasi il sacro silenzio della morte, che torna eloquente più di ogni eloquente parola.

Penosissimo poi riesce a me dover parlare davanti a questo feretro che racchiude l’esanimi spoglie del venerando Padre Sebastiano Casara, che appresi fin da fanciullo a venerare maestro, che per sua bontà volle tenessi con lui amorevole corrispondenza e abbassandosi alla mia pochezza mi trattò sempre come fratello ed amico.

D’altronde Pastore di questa Chiesa veneziana, testimone del gran bene che egli ha fatto alla città e alla Diocesi come Preposito ed esecutore fedele della pia istituzione dei venerandi Fratelli Cavanis, a dimostrare come posso, per quanto meschinamente, la mia gratitudine anche a voi, o cari padri, del bene immenso che avete fatto e fate alla città e alla Diocesi nella cristiana educazione di tanti giovani alle vostre cure amorose affidati, crederei mancare ad un sacro dovere, se in questo momento non dicessi una parola in nome mio, in nome di Venezia, delle mille e mille famiglie beneficate, degli amici e di tutti quelli che lo hanno conosciuto circondandolo della loro stima e del loro rispetto: tributo questo nobilmente conquistato dalla sua bontà, dal suo ingegno, dai suoi studi e dai suoi dotti lavori.

A far questo non mi perdo in esordii, ma colto come di volo l’elogio che fa lo Spirito Santo di Giobbe, mi pare che si possa giustamente attribuire al nostro padre Casara: erat ille vir simplex et rectus ac timens Deum. Era quell’uomo semplice e retto e timorato di Dio: semplicità di costumi, rettitudine d’animo, timor santo di Dio, ecco il suo carattere e la sua vita.

Non vi annoierò intrattenendovi della sua fanciullezza che corse suppergiù come quella di tutti gli altri, salvo un certo contegno serio e dignitoso, e una cotal aria di amabilità, che gli divenne poi sempre abituale e che attirava rispettosamente i suoi compagni verso di lui, che se per una parte si potrebbe dire non essere stato mai fanciullo, siccome il vecchio batte la medesima strada, che ha imparata da giovane, voi che l’avete conosciuto negli anni della virilità e della vecchiaia, voi potete dire d’aver sempre in lui ravvisata la semplicità del fanciullo innocente.

Erat vir simplex. Semplice io dico quell’uomo, che nemico d’ogni falsa apparenza, qual è di fatto, tale senza velo si manifesta agli occhi di tutti. Che se fu detto: nel viso scintillare la luce dell’intelletto e fiammeggiare la vampa del cuore, chi al solo vederlo non avrebbe detto il nostro Casara un’anima di candore ingenuo? Il suo aspetto, il suo andamento, il vestito dimesso, il tratto cortese ma alla buona, la fronte ilare sempre e serena, l’occhio modestamente vivace, la parola incisiva, ma pacata ed amabile, la bassa opinion di se stesso, per cui ai suoi occhi era un nulla tutto ch’egli operava di bene, quella compiacenza nel mettere in mostra non le molte cognizioni di cui era fornita la sua mente, ma quelle che gli mancavano, rivelavano nella calma profonda di quell’anima semplice che mai si turbava, che non conosceva parole di rimprovero, la sincerità la schiettezza, caratteristiche della sua vita, che lo rendevano a tutti amabile e caro?

Ardua se altra mai è la parte del buon educatore, cui spetta curare l’amorosa osservanza della disciplina, promuovere gli esercizi di pietà, lo studio, la gentilezza dei modi, aiutare efficacemente ogni buon germe, drizzare ogni storta inclinazione, col timido adoperare lo stimolo, correggere l’andare col freno, distribuire a tempo e con misura la lode e il rimprovero, il castigo e il premio. E si dà da fare con giovanetti diversi per indole, per capacità, per età, per educazione domestica, che scattano come molla al minimo urto, che confondono nella loro inesperienza il bene ed il male, l’utile e il danno, pronti magari a gridare crudele chi li protegge e li salva da maggiori pericoli. Eppure in così difficile compito il Casara nella sua semplicità riuscì a cattivarsi l’affetto degli alunni, i quali ormai, capitani nell’esercito o nel mare, giudici o promotori nei tribunali, prefetti o consiglieri nei pubblici uffici, maestri nelle cattedre e sacerdoti anche in dignità costituiti non hanno dimenticato, né si dimenticheranno mai nella sua semplicità la sua sempre cara immagine paterna – probi negozianti, laboriosi artieri operai.

È proprio della semplicità il credere a tutti e mai giudicare sinistramente di alcuno e il Casara fu semplice al punto di restar tante volte vittima della troppa sua bonarietà sfruttata facilmente. Della massima di Gesù Cristo estote prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae, si atteneva più alla seconda parte che alla prima, ed era proprio di quelli che piacevano a S. Francesco di Sales, e che avrebbero lasciati cento serpenti per una sola colomba. E me lo conferma il non parlare mai male di nessuno, perché di nessuno male pensava, il sapersi adattare alla varietà dei caratteri e il compatire il temperamento di tutti, quella facile condiscendenza agli altrui pareri, ben intesi, salva sempre la coscienza, perché allora verificavasi il frangar non flectar, insomma un tesoro nascosto, perchè la semplicità quand’è virtù, è mansuetudine, docilità, purezza, verità, umiltà.

Che se il Divin Redentore invitandoci a modellare il cuor nostro sul suo, esemplare perfettissimo, non ci disse già che fosse il suo cuore fragrante di purezza, invitto ad ogni prova, inaccessibile ad ogni paura, ardente dello zelo più eroico, dell’amore di Dio più sublime, della più profusa carità verso degli uomini, ma solamente umile e mansueto: discite a me quia mitis sum et humilis corde, poteva forse a quest’anima semplice mancare l’umiltà? Ditelo voi, venerandi padri, che l’avete conosciuto da vicino, quale importanza egli dava alle corrispondenze degli ingegni più eletti, quale sussiego all’autorità di Preposito: ufficio che esercitò per tanti anni, portandone bensì il peso, ma sempre nemico di privilegi ed esenzioni, tenendosi come l’ultimo di casa e rifiutando persino quelle attenzioni, quei riguardi e quei piccoli servizi, che il dovere, la stima, l’affetto suggerivano ai suoi figli.

Il Casara era umile perché era semplice, di quella semplicità che ci deve rendere come fanciulli se vogliamo entrare nel regno dei cieli, di quella semplicità che formava il carattere della stessa Sapienza increata, della quale sta scritto, che avrebbe conversato coi semplici, di quella semplicità che nel nostro caro Padre non saprei se fosse causa o effetto della rettitudine che informava tutta la sua vita: erat vir simplex et rectus.

Leggo nel libro dell’Ecclesiaste che Deus fecit hominem rectum, e la rettitudine mi avverte l’Angelico, è cotal dote per cui la ragione serve come ancella a Dio, alla ragione sono sottomesse le forze inferiori, e all’anima è soggetto il corpo: Erat rectitudo secundum hoc quod ratio subdebatur Deo et rationi inferiores vires et animae corpus. Or chi potrà dire che il Padre Casara non fosse vir rectus, quando solo a tracciarne i lineamenti si riscontra in lui una immagine dell’uomo innocente? E a testimoniare il primo carattere della sua rettitudine, quod ratio subdebatur Deo, mi si presenta splendente la viva fede di lui, quella fede che fin dagli anni più teneri gli formò lo spirito, gli temprò il cuore e lo guidò sulle ardue vie dell’onestà e della innocenza. Per essa dedicandosi allo stato ecclesiastico ed entrando in questa Congregazione, il solo servizio di Dio fu il gran motivo, la norma ed il fine di ogni pensiero, di ogni affetto della sua vita. Per essa, per la pietà, per lo zelo fu sempre lucido specchio, modello compiuto a tutti i ministri del Santuario.

Poteva bene rimaner sepolto fra le ombre della stanza il quotidiano costume di consacrare al Signore tante ore nella preghiera, ma splendeva agli occhi di tutti la luce della sua fede nella frequenza alla Chiesa per adorarvi Gesù in Sacramento; splendeva sul volto, come su quello d’un comprensore nella celebrazione della S. Messa, in quel tenero trasporto per le cose sante, in quella rassegnazione con cui in ogni evento adorava i consigli divini, in quell’ardore magnanimo con cui dimostrava la verità della fede e la difendeva contro gli assalti dei suoi nemici.

Perché non crediate, o dilettissimi, che il Casara semplice e pio fosse ricco soltanto di quella semplicità che è derisa dal mondo e di una pietà superficiale che ha sede soltanto nel cuore; la semplicità e pietà di lui hanno per fondamento la fede ragionevole, la piena convinzione sorretta dalla scienza, perché egli è dotto e sapiente. 

Se fu necessario in ogni tempo che le labbra del sacerdote custodissero la scienza, perché esso ha da essere la luce del mondo e il sale della terra, ciò è specialmente necessario in questi nostri tempi, nei quali una scienza superba e procace, invece di farsi ancella e aiutatrice della Rivelazione, s’impanca a maestra e tiranna in nome della libertà, e tutto quello che non intende o nega dommatizzando, o sogghignando dileggia. Povera umanità caduta nel più sciocco e servile razionalismo.

Quale sarà pertanto il compito di quanti, sacerdoti o laici, hanno cuore che sente e rimpiange tanto dannosa cecità delle menti? Combattere ad armi uguali l’audacia degli avversari: vincere la scienza fatua e mentitrice colla scienza soda e verace. E il Casara che assai per tempo aveva compreso questa sublime missione, lanciossi con amore indomabile allo studio delle divine Scritture, dei Padri, dei filosofi antichi e moderni, dalle cui opere egli era riuscito a spillare quelle ben sistemate verità, di cui si è servito a tacer d’altro per difendere il Vangelo e la Chiesa nell’ora nefasta in cui vennero i Novatori a piantare le loro tende a Venezia. 

Ma qual era il sistema da lui propugnato? Quale la sua filosofia? Lo sapete, o Signori, ed è superfluo che io ve lo dica, vi inviterò invece a fare alcune osservazioni. Non crediate da prima che l’autos epha dei Pitagorici fosse per lui un dogma rivelato. L’ha detto egli, dunque è vero, è un entimema che non ha forza logica per il Casara: la verità per la verità, non la verità per le persone, questa era la sua impresa e quell’effato era per lui nulla più che uno stimolo: la tale dottrina è insegnata da tale uomo? Dunque non bisogna dispregiarla, si deve esaminare, vagliare, discutere per veder se si abbia da accogliere o da rigettare. Poi ponete un uomo che con tanto apparato di studi si è formato un convincimento profondo e inconcusso, non sarebbe egli stato un ipocrita codardo, se nel campo delle libere discussioni l’avesse rinnegato? Aggiungete che in quel sistema egli vedeva, o gli pareva di vedere, la catena più tenace con cui stringere fra ceppi i moderni errori che si chiamano: materialismo, razionalismo, ontologismo, panteismo e vedeva la sola arma affilata ed acuta per conquidere nemici così pericolosi; or chi senza vigliaccheria e senza ribellione alla coscienza avrebbe spezzato quella catena, gittata quell’arma? Finalmente la sua indiscutibile buona fede lo assicura da qualunque attacco: buona fede che si manifesta nel modo delle sue discussioni, senza ira, senza passione, temperate e caritatevoli; si manifesta nella venerazione di tutte e singole le verità contenute nel deposito della fede; si manifesta luminosamente nel suo contegno dopo il Decreto Post obitum. Parla la Chiesa, che condanna e riprova le quaranta proposizioni, or che fa egli? È risaputo da tutti quello che ha fatto. Quel Decreto non lo mette né in pensieri né in lotte, ma trionfatore di se medesimo, pronto ad immolare le sue convinzioni, come Abramo il figliolo, in omaggio alla obbedienza si leva sereno e quasi sorridente esclama: “È finito, si abbassi la fronte, si taccia e si ubbidisca, perché la Chiesa ha parlato”. E da quel giorno né dalle labbra né dalla penna gli cadde più parola intorno a quelle che fino ad allora erano state questioni. La notizia di tale atto, senza far sorpresa corre come baleno per la città e per tutti i luoghi dov’era conosciuto il Casara, come prova evidente della più perfetta rettitudine e intemerata buona fede: erat vir rectus.

E ben prima e in tutta la sua vita aveva dato prova della più pura ortodossia. Vissuto in tempi gravi e procellosi, quando il turbine rivoluzionario travolge uomini e cose, opinioni, intelletti, coscienze, istituzioni, allora come sempre appare in tutta la sua grandezza lo sviscerato amore ch’ei portava alla sposa di Cristo, la Chiesa, allora, come sempre, quella sua riverenza piena, illimitata, profonda al Romano Pontefice; riverenza ed amore che come di questa Veneranda Congregazione così fu la stella polare della sua vita: riverenza ed amore che confermò quel giorno in cui morente ricevendo la Benedizione dell’augusto Vicario di Gesù Cristo si commosse fino alle lacrime.

E ben giustamente avevano fatto omaggio alla dottrina di lui, così come alla perfetta rettitudine delle sue intenzioni i Superiori ecclesiastici che con fiducia illimitata a lui affidarono gli affari più importanti e delicati come quello di Esaminatore Sinodale, di Censore Ecclesiastico, di Esaminatore dei Predicatori, persuasi di trovare in lui un valido appoggio. Nelle questioni più astruse a lui ricorreranno i sacerdoti che riguardandolo come onore e decoro del Veneto Clero erano sicuri di trovare un consigliere prudente e illuminato ed ecco spiegato lo spettacolo sorprendente di persone d’ogni classe, che ricorrono a lui per depositare nel suo cuore i loro più intimi segreti, i loro dubbi e i loro affanni, i loro dolori, sicuri di riportarne aiuti, lume, consiglio, direzione e i conforti di quella carità ch’egli estendeva a tutti senza accettazione di persone, ma con maggior sollecitudine pei poveretti. Non andava a diporto tutte le volte che lo incontravate a camminare lesto per le calli della nostra città, ma saliva le scale degli uffici per raccomandare il povero impiegato, il giovane studente, la ragazza pericolante, la famiglia diseredata. Forse alcuna volta andava elemosinando per sovvenire a poveri Istituti, per coltivare la vocazione di novelli leviti, per trovare un asilo a novelle spose di Cristo, per far custodita la pericolante innocenza, per raccogliere le gemme fra le macerie e guardarle da nuovi ladri insidiosi. 

E questo fu il lavoro costante e assiduo di tutta la vita e specialmente negli ultimi anni senza prendersi mai una giornata di ricreazione o di sollievo. Egli fu proprio l’evangelico operaio della prima ora e non lasciò il lavoro che all’ultimo crepuscolo della lunga giornata cessando allora soltanto che il celeste Padrone lo chiamò per retribuirlo con la ben meritata mercede. Ma nel dimostravi la ragione del Casara gradita a Dio mediante la fede, ve l’ho presentata regina in atto d’imperare a ogni bassa passione e di farlo ricco di tutte le virtù ch’egli coltivò in tante opere di carità e di religione e fuori e dentro le mura di questo Istituto, che furono al suo cuore ciò che per la passera è il luogo del riposo dopo i suoi voli, per la tortora il nido, per il pellegrino l’asilo di pace, dove compì la sua piena consacrazione a Dio: erat vir simplex et rectus ac timens Deum.

Non è da fare le meraviglie, che un santo timore s’impossessi delle anime anche più illibate. Anziché un neo che le offuschi è questo istesso timore il sigillo del loro eroismo. Chi mai più innocente, chi all’eterno Padre più accetto dell’Incarnato suo Figlio? Eppure per il Profeta ci ha fatto sapere di lui che lo avrebbe riempito lo spirito del suo timore: replebit eum spiritus timoris Domini (Isaia 11,3). Ed è in questo che tutta si manifesta l’anima bella del Padre Sébastiano Casara, che teme il Signore, ma non di quel timore servile che teme la pena, ma per quel timor puro delle anime amanti, per cui trepida all’ombra sola di colpa, ma trepida per nobile affetto, qual conviene ad amatissimo figlio. Vi piacerebbe accertarvene alla prova non dubbia della sua illibata coscienza?

Creati per vivere nell’immortalità guardiamo la morte come un nemico che viene in un silenzio muto, che agghiaccia per assalire ed abbattere il più vivo, il più nobile, il più forte dei nostri sentimenti, il sentimento della vita; e spaventa maggiormente il pensiero di questo passaggio il terribile pensiero di dover comparire al tribunale di chi giudica le istesse giustizie. Ma il venerando padre nostro guardava la morte con quella calma, con cui il navigante guarda il porto. E a me che mesi addietro gli diceva di congratularmi con lui, che nella grave sua età era ancora sano e robusto, rispondeva con una calma tranquilla: sono nelle mani del Signore. Egli mi chiamerà ed io risponderò nella cara speranza che all’opera delle sue mani egli stenda la destra. Vocabis me et ego respondebo tibi, operi manuum tuarum porriges dexteram. E questa calma scevra da ogni timore compare in lui tranquillo tra le angustie del male che lo aggrava. All’annuncio del Santo Viatico: o questa, egli esclama, è la grazia più bella che possa farmi il Signore, il desiderio più ardente della mia anima. Quando nelle angustie crescenti del male e al mancar delle forze lo si dispone al Sacramento degli infermi, allarga le braccia, e mostra dipinta quel volto la pace e il sorriso del giusto. Si recitano le preghiere dei moribondi e tra le lacrime dei cari suoi figli, che gli prodigarono tante cure e facendo genuflessi corona al povero suo letto, presentono l’imminente suo passaggio, all’intonare il tremendo Proficiscere, tranquillo come uomo, che s’addormenta sulle spighe dal suo braccio mietute maturo alla palma, ritorna al Signore per unirsi agli Angeli proprio in quell’ora in cui si preparavano a rispondere al solenne Alleluia della Chiesa di quaggiù, inneggiante al Redentore che è resurrezione ai morti, che passata la vita nella semplicità, nella rettitudine e nel timor santo di Dio vanno a vivere eternamente con lui.

Non piangete, o venerandi Padri, la perdita del caro vostro Casara: il navigante ha già trovato il porto, il virtuoso campione di Cristo è al possesso della sua corona, il Padre vostro non è morto, ma vive di una vita più bella e gloriosa e vi ha solo preceduti di un giorno nella patria donde vi invita a calcar quella via sulla quale egli ha lasciato vestigia di virtù così luminose per raggiungerlo domani. O cari Padri, onore e sostegno di questa santa Chiesa veneziana, voi che amaste il buon Padre come la pupilla degli occhi vostri, voi che con pietà filiale e con immenso affetto lo guardaste specialmente in questi ultimi anni, serbatene perpetua nel vostro seno con quella dei venerandi Cavanis la cara immagine, e vi sarà stimolo efficace a seguire con piè sicuro le grandi sue orme. Egli vi ha posto in luogo di pascolo abbondante: in loco pascuae ibi vos collocavit, vi ha condotti a un’acqua che riconforta: super aquam refectionis educavit vos, vi ha insegnato a camminare nei sentieri della giustizia: deduxit vos super semitas justitiae. Fate tesoro di tutte queste grazie acciochè si rinnovellino per voi, gli ottimi cittadini, gli operosi ministri, i petti apostolici; e con la gratitudine dei beneficati la divina misericordia vi seguirà per tutti i giorni della vostra vita: misericordia Domini subsequetur vos omnibus diebus vitae vestrae, affinché poi insieme con lui abitiate nella casa del Signore per tutta la eternità: ut inhabitetis in domo Domini in longitudinem dierum.

Card. Giuseppe Sarto 

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