Dell’abito della Congregazione delle Scuole di Carità

Pp. 147-154, Libro Storia dell’Istituto Cavanis - Congregazione delle Scuole di Carità.

Titolo: Storia dell’Istituto Cavanis – Congregazione delle Scuole di Carità 1772-2020

Autore: Giuseppe Leonardi, CSCh

Numero di pagine: 3.793

Lingua: ITALIANO

Anno: 2022 (*Aggiornato 2023)

Parole Chiave:

Congregazione Cavanis, educazione cristiana, Marco Cavanis, Antonio Cavanis, Venezia, pedagogia, vocazione, spiritualità, formazione giovanile, missione educativa, carisma, scuola cattolica, storia ecclesiastica, apostolato, congregazione religiosa, povertà educativa, Chiesa cattolica, evangelizzazione, comunità religiosa, tradizione.

Riassunto:

Quest’opera offre un ampio e documentato percorso storico sulla nascita, lo sviluppo e la missione educativa della Congregazione dei Padri Cavanis, fondata dai fratelli Marco e Antonio Cavanis a Venezia nel XIX secolo. Attraverso un’accurata analisi delle fonti, Giuseppe Leonardi ripercorre i momenti chiave dell’espansione della Congregazione in Italia e nel mondo, mettendo in luce la vocazione alla formazione cristiana e civile dei giovani, in particolare dei più poveri. L’autore evidenzia inoltre la spiritualità cavanisiana, fortemente radicata nella pedagogia dell’amore, nell’apostolato educativo e nella fedeltà alla Chiesa. L’opera si conclude con una riflessione aggiornata sulle sfide e prospettive della Congregazione nel contesto contemporaneo

3. Dell’abito della Congregazione delle Scuole di Carità

Il nostro abito oggi è molto semplice: la norma prevede soltanto la veste talare e la fascia, con frange. C’è anche, naturalmente, benché non sia scritto nella norma, il colletto romano. Il colore dell’abito non è fissato dalle Costituzioni e Norme, ed è diverso nelle parti territoriali. Per curiosità, in Congo, la prima promozione congolese (2006-2007), preparandosi alla prima professione religiosa temporanea, con l’autorizzazione del Preposito, attraverso il maestro, ha optato per il color nero, nonostante l’ambiente equatoriale, dove più spesso si utilizza il bianco. Decisione comunitaria, rimasta scritta e conservata negli archivi della delegazione e della Curia generalizia. Tale decisione del gruppo “fondatore”, ossia della prima promozione, mirava a “essere come nella provincia-madre italiana”; essa vale fino al giorno in cui ci sarà eventualmente una decisione diversa di un capitolo futuro.

La storia del nostro abito religioso Cavanis è complessa e merita di essere conosciuta. I Fondatori, personalmente, per la maggior parte della loro vita adulta, portarono la veste talare degli ecclesiastici del loro tempo. C’è una poesia di Marco Cavanis (dicembre 1796 o gennaio 1797) ancora laico, che elogia don Antonio suo fratello, tra l’altro, perché portava la “vesta longa” (= la veste lunga, ossia specificamente la talare, propria degli ecclesiastici, in dialetto veneziano), in un’epoca in cui molti sacerdoti indossavano piuttosto un abito corto, di sapore secolare, e ne erano criticati dal Patriarca di Venezia il Card. Flangini. In previsione e nella preparazione dell’erezione canonica della nostra Congregazione, il Card. Jacopo Monico, allora patriarca di Venezia, prese (con ogni probabilità abusivamente) l’iniziativa di dare ai membri del nuovo Istituto, che pur era di diritto pontificio e non diocesano, un abito specifico. I Fondatori non ne furono particolarmente contenti, ma lo accettarono con spirito di obbedienza all’autorità del loro vescovo. Tuttavia, lo trovavano più opportuno per un istituto monastico che per un istituto di vita attiva, e quanto attiva, consacrata all’educazione della gioventù. 

Durante alcuni capitoli del XIX secolo si decise di eliminare gli elementi di carattere o aspetto “monastico” dell’abito, come pazienza e bavero, che i religiosi Cavanis dell’ottocento chiamavano “le sopraggiunte” (= le aggiunte) ma poi non se ne fece niente.

Quest’abito, che verrà sempre indossato (con una rara eccezione) fino alla fine degli anni ‘60 del novecento (1967) comprendeva:

  1. La veste nera, abbottonata, piuttosto ampia, ma senza faldoni;

  2. La fascia con frange;

  3. Il colletto romano, che era in stoffa, non in plastica come oggi, evidentemente; la plastica non era ancora stato inventata! Gli anziani mi dicevano che tale colletto era in stoffa bianca per i fratelli laici, e di colore azzurro celeste, o verde chiaro per i preti.

  4. Uno scapolare lungo, nero, chiamato “pazienza”, con riferimento simbolico alla pazienza che bisogna esercitare verso i bambini e i giovani; 

  5. Una mozzetta corta, nera, che arrivava solamente fino alla piega della spalla, e si chiamava “bavero”; all’inizio anche “collare”;

  6. Il berretto quadrato, da prete, che si utilizzava piuttosto in casa e nel culto; e il cappello di feltro, a larghe tese, che si utilizzava uscendo dalla casa; ambedue erano neri. Il berretto quadrato era usato, in congregazione, dai religiosi preti e anche dai seminaristi, dal noviziato incluso in poi, se erano avviati all’ordinazione e allo stato presbiterale. Non lo portavano i fratelli.

  7. Un lungo capotto o soprabito o più raramente un mantello, nero, invernale

    Quest’abito veniva indossato fin dalla cerimonia della vestizione, che allora si celebrava all’inizio del noviziato; tuttavia i fratelli laici non portavano il bavero. Purtroppo la vestizione dei fratelli laici si celebrava separatamente da quella dei novizi candidati al sacerdozio, come tempo e come luogo, dall’inizio dell’istituto nel 1838 e almeno fino al 1940 e probabilmente anche in seguito. In genere infatti i candidati al sacerdozio ricevevano l’abito al mattino durante la celebrazione solenne dell’Eucaristia nell’oratorio delle scuole, davanti alla scolaresca e al popolo; e i fratelli laici, magari della stessa annata di seminaristi, al pomeriggio nella cappella domestica, privatamente. Una segregazione del tutto assurda e ingiusta, che va tuttavia inquadrata nelle abitudini dell’epoca.

    Nella prima professione si dava ufficialmente al neo-professo candidato al sacerdozio anche il berretto quadrato (che per la verità era già dato al momento della vestizione, un anno prima, e portato durante il noviziato; cosa che fece sorgere dei dubbi al P. Giovanni Chiereghin) , come quello che utilizzavano i sacerdoti diocesani, con un rito particolare e una formula molto interessante: “Accipe biretum, signum magisterii, et scias te ad juventutem erudiendam mancipari” (= Ricevi il berretto, segno del magistero, e sappi che sei consacrato (come un servo) all’educazione della gioventù.  Segno forte di un impegno che era quasi un quarto voto, credo, ad imitazione del quarto voto dei   Scolopi.

    Si era piuttosto severi riguardo all’uso dell’abito al completo: lo si portava sempre, anche negli ambienti interni della casa religiosa, non si usciva praticamente mai dalla propria camera senza l’abito completo, lo si portava anche in bicicletta o motocicletta, giocando a calcio, nelle escursioni in barca o in montagna. Portare tutti questi abiti lavorando e viaggiando provocava naturalmente delle difficoltà o addirittura degli incidenti, in bicicletta e soprattutto in motocicletta.

    La decisione di eliminare la “pazienza” e il “bavero” è stata presa nel XXVI capitolo generale del 1967. In quegli stessi anni si cominciò ad utilizzare il clergyman da alcuni dei nostri, trovando qualche volta delle difficoltà da parte di confratelli conservatori. In seguito la cosa divenne comune, e più tardi spesso l’abito venne usato solo nelle grandi occasioni, e in alcune parti territoriali, in tempi ancora più recenti, praticamente mai. 

    Purtroppo non abbiamo conservato un abito completo per l’esposizione. Sarebbe interessante farne tagliare e cucire uno, e metterlo su un manichino nel nostro museo della memoria dei Fondatori a Venezia. In questo c’è comunque la preziosa reliquia della “pazienza” del venerabile P. Anton’Angelo, che si è trovata su lui, nella tomba, durante la riesumazione del 1923.  

    Vale la pena di concludere questo excursus sull’abito Cavanis con una descrizione ufficiale dello stesso da parte di P. Marco Cavanis, in una lettera del 4 novembre 1837, doc. n° 1069, al Card. Castruccio Castracane, in cui chiede al cardinale di sollecitare la richiesta fatta alla S. Sede dell’approvazione di un abito religioso proprio. 

    Da notare che lo scapolare chiamato da noi “pazienza” è stato imposto dal card. Monico patriarca; mentre il collare di panno nero, chiamato in seguito piuttosto “bavero” è stato proposto e richiesto proprio dai padri e serviva per nascondere il buco dello scapolare, che naturalmente doveva essere più largo della testa, e faceva un brutto effetto se non coperto dal bavero. Pure dai padri viene d’idea e la proposta che i fratelli laici portassero (fino a tempi recenti) la pazienza più corta (probabilmente per non inciamparvi nel lavoro manuale) e non portassero il bavero, il che mi sembra piuttosto assurdo. Ecco il testo parziale della lettera, omettendo una introduzione generica, una breve altra richiesta di carattere liturgico e la conclusione.

    “(omissis). L’oggetto di questa lettera è ormai ben noto a V.ra Em.za Rma, poiché in essa fu interessata la di lei carità ad ottenere dal S. Padre un qualche particolar distintivo nell’abito dei Congregati, di cui ne fu anche proposta riverentemente la forma. Vedo bene che correndo finora il tempo delle ferie autunnali dovea restare interrotta la trattazione degli affari, ma ora che si riaprono le Sacre Congregazioni si potrà dar corso anche a questo. Ma perché ci preme moltissimo di vederlo presto compito, onde godere l’effetto della preziosa grazia ottenuta, supplico istantemente la generosa di lei bontà a voler consolarmi benignamente coll’affrettare quanto si possa il sospirato riscontro. Vedrà dalla lettera dell’E.mo nostro Prelato che il riverente progetto lascia ai Congregati la veste clericale qual è appunto nelle Costituzioni prescritta, ed aggiunge soltanto uno scapolare (che ai fratelli laici potrebbe darsi alquanto più corto e senza il collare) ad oggetto di unire alla distinzione nell’abito l’aggiunta di un decoroso riguardo alla gravità e modestia degli Ecclesiastici alunni, mentre essendo essi spesso affollati a cagione del proprio lor ministero da numerosa turba di figli e da molti loro aderenti di ogni età e di ogni sesso, che si presentano a baciar loro le mani, sarebbe cosa assai più decente che dessero invece a baciare lo scapolare medesimo, e si farebbe ciò dai fedeli più volentieri, se si degnasse il S. Padre di accordare a tal atto di religione qualche indulgenza, che potesse pure lucrarsi, baciandolo, da ognuno dei Congregati. La forma di questa veste io la accludo nell’unito disegno, ed è quella precisamente che fu proposta dall’E.mo Patriarca, colla unica differenza che da noi si è aggiunto un collare che scende un poco sopra le spalle, col doppio fine di chiuder la imboccatura di detto scapolare, che male adattandosi al collo produr potrebbe uno sconcio, e di non apparir nel prospetto simili affatto ai Patri Ospitalieri di S. Giovanni di Dio. (omissis)” 

    Interessante anche il testo che si riproduce qui di seguito, e che proviene da una lettera dei fondatori al cardinal patriarca Jacopo Monico, del 3 luglio 1838, pochi giorni prima dell’erezione canonica:

    “(omissis) Si affrettano essi pertanto ad implorare il suddetto grazioso Decreto nel quale a perpetua memoria ed a precisa lor direzione e piena tranquillità supplicano umilmente che l’Emza Vra Rma si degni esprimere:


    1) La ottenuta autorizzazione di portare un abito proprio di saglia o di panno nero a tenore delle stagioni; consistente pei Cherici in una veste talare larga stretta ai lombi con una fascia di lana, e scapolare chiuso alla imboccatura con un collare alle spalle di roba eguale alla veste, oltre alla cinta al collo di color ceruleo communemente usato dagli Ecclesiastici; e per i Fratelli Laici in una nera veste con fascia e scapolare di simile qualità, ma però alquanto più corta, senza collare alle spalle, e con lista al collo di color bianco; portando poi sì gli uni che gli altri il mantello nero ed il cappello alla foggia comune degli Ecclesiastici.


    2) (omissis)”.

    Si noti in quest’ultima lettera, rispetto alla precedente, l’aggiunta di vari elementi nella descrizione dell’abito proprio:

    la forma della veste talare che, come l’usiamo ancora oggi, è larga, cioè a campana e senza faldoni, cioè senza cuciture alla vita;

    la fascia di lana [che è nera, con frange, ma qui non si dice, n.d.a.]

    la “cinta” al collo di color ceruleo per i preti, bianco per i laici. Oggi si chiamerebbe colletto romano.

    Il mantello nero ed il cappello.

    Da notare che, dato che la lettera è stata scritta il 3 luglio, 11 giorni soltanto prima del 14 luglio, giorno della vestizione di P. Antonio Cavanis e 12 prima del 15, giorno della vestizione di tutti gli altri congregati, padri, seminaristi e laici, è probabile che i padri, dopo intendimento orale, avessero già provveduto tutti gli abiti, e che la lettera servisse più come documentazione dell’approvazione da parte del patriarca. Le vesti o tonache o talari, come pure le fasce e i collari potevano forse essere preparate in fretta dai fratelli laici sarti; ma difficilmente si poteva acquistare la saia o saglia (stoffa), i mantelli e i cappelli e confezionare l’abito completo per 22 persone, solo dopo aver ottenuto la lettera di approvazione del patriarca.

    Il lungo e interessante decreto corrispondente del Patriarca Jacopo Monico, che fissa i dettagli dell’abito Cavanis, esattamente secondo quanto indicato sopra e secondo la richiesta dei fondatori, fu firmato il 14 luglio 1838 (il che dimostra quanto detto sopra ), pridie Id[us]. Julii MDCCCXXXVIII nel latino del decreto.

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