Dal palazzo dei Dogi alle Scuole di Carità – Vita dei Fratelli Cavanis

Icilio Felici, Dal palazzo dei Dogi alle Scuole di Carità, (Vita dei Fratelli Cavanis). 

INDICE

01 – L’Istituto “Cavanis”

A Venezia tutti vi sanno indicare l’Istituto “Cavanis”; il fattorino del Vaporetto, il gondoliere, il giornalaio, lo sfaccendato che sta sulla riva del Canal Grande ad ammazzare il tempo, il signore distinto che va frettolosamente pei fatti suoi, la fruttivendola, il mendicante… Tutti! E ve lo indicano con una compiacenza tutta particolare che è qualche cosa di diverso, e di più, della ordinaria tradizionale grazia dei veneziani. Sicché voi ci potete arrivare senza fatica sboccando da una “calle “qualsiasi nel largo silenzioso – appartato, si direbbe! – e fermarvi, senza tema di sbagliare, davanti a un fabbricato solido e sobrio, il cui portone v’immette in una gran sala quadrata, severa, spoglia e al tempo stesso accogliente…

D’ordinario il salone d’ingresso si gremisce e si anima due volte al giorno: di buon mattino, poco prima che comincino le lezioni e nel primo pomeriggio quando le lezioni hanno termine. C’è animazione; ma è animazione composta. C’è della confusione; ma è una confusione che di momento in momento si dipana e si assottiglia ordinatamente sotto l’incalzare di una voce che dal microfono chiama, ordina, dirige.

Al termine delle lezioni la moltitudine degli alunni (settecento, fra piccolo e grandi!) si assottiglia spandendosi per le viuzze e lungo i canali con quel moto misurato e discreto che è proprio degli abitanti della Serenissima; al mattino invece si avanza dall’esterno e viene con lo stesso ritmo inghiottita dai corridoi lunghi e dalle aule ridenti.

Aule piene d’aria e di gaiezza, ridenti com’è ridente la laguna quando la bacia il sole, dove gli alunni, classe per classe, apprendono il sapere dalla viva voce di un “ Padre” che è l’insegnante – il Maestro – ma anche e prima ancora – l’amico e il fratello maggiore.

In certe ore l’animazione s’incanala di nuovo per i corridoi e sfocia nella Casa di Dio!…

L’Istituto “Cavanis” ha, per la sua non trascurabile popolazione, due Chiese; una – quella Sant’Agnese – grande austere e solenne come una Basilica, onusta di vicende e di ricordi; l’altra, più modesta (una Cappella, per essere esatti), situata nell’interno dell’Istituto, ma vasta anch’essa, e decorosa, e provvista di quanto può servire ad appagar la vista e a riposare il cuore.

La prima è per i grandi, la seconda per i piccolo.

In Sant’Agnese sfocia e si spegne la fremente animazione di una gioventù gagliarda e serena per tramutarsi in umile preghiera e prorompere poi in canti poderosi e devote: Il Magnificat, le Litanie, il Tantum Ergo, le Laudi mariane!…

Nell’Oratorio interno (o Cappella) s’acquieta la vivacità cinguettante dei piccolo – che schierati sui banchi danno al vasto spazio l’aspetto di un prato disseminato di margheritine – dalle labbra dei quali il canto del Tota pulcra es Maria “per l’aver sacro a Dio muove le penne” con tanta grazia e con tanto impeto che chi l’ha ascoltato una volta “sempre nell’anima lo sente”, per dirla con un poeta di casa nostra.

In altre ore la turba gaia che ha l’argento vivo addosso invade i piazzali ombrosi e li riempie di clamore; ma è un clamore festoso cui la gaiezza non impedisce di rimaner misurato e composto. Anche perché il “Padre” – che è insieme, come abbiamo detto, maestro, amico e fratello – è lì in mezzo alla baraonda non a far da guardiano ma a condividerne la giocondità.

Difficile sarebbe dire, così a prima vista, se il Padre conduca o… si lasci condurre. Certo è che egli figura al centro del gioco, della conversazione, dello scherzo lecito ed onesto…Figura, insomma, al centro della ricreazione.

Ed è – questa – una “particolarità” tutt’altro che trascurabile; una “particolarità” che osservata, in incognito, da una finestra del primo piano interessa, diverte e desta una profonda ammirazione; perché … noi tutti sappiamo che per far del bene ai ragazzi bisogna saper farsi ragazzo; ma altra cosa è saperlo (o dirlo) e altra cosa è riuscirvi.

…Riuscire a ravvivare il gioco se languisce, ad animare l’ilarità se manca; e al tempo stesso a contenere l’uno nei limiti necessari, frenare l’altra quando tendesse a sconfinare, richiamare all’ordine lo sventato che tentasse turbare l’armonia indispensabile. Talvolta si vede il “Padre” staccarsi dal grosso e appartarsi verso un angolo con l’uno o con l’altro… Il ragazzo ha i capelli arruffati e il viso del “Padre” invece è sereno anche se contristato; l’aspetto, dolce anche se un po’ velato di severità; i suoi gesti, misurati e tranquilli.

E’ facile indovinare che ammonisce, che rimprovera; ma lo fa da amico, da fratello maggiore. Poi il più delle volte tutto finisce con un leggero passar della mano sui capelli arruffati, e il sereno è bell’e tornato.

Finisce la ricreazione; i piazzali si vuotano, la turba gaia si ordina a squadre, in silenzio, e così ordinate si dirige verso le sale di studio ( o vero il refettorio), verso il teatrino od il cinema; ma dovunque si diriga, chi la conduce sono ancora e sempre i “Padri” – maestri, amici, fratelli maggiori – uno per ogni squadra!

Il “Cavanis” di Venezia è “ un Istituto”; e un Istituto è quello che sorge a Possagno, ai piedi dello storico massiccio del Grappa e all’ombra del Tempio canoviano, come è l’altro sorto in epoca più recente nella fertile pianura lucchese; ma il visitatore si accorge ben presto di “qualche cosa” che li distingue da altri istituti del genere; qualche cosa che non è nella disposizione delle aule né nelle materie d’insegnamento, ma – si direbbe – nell’aria che vi si respire; nel comportamento degli alunni, nel modo di trattare dei Padri e nei rapport che intercorrono fra questi e quelli…

Un Padre dell’istituto di Venezia al quale espongo questa mia “impressione” sorride con serafica umiltà.

“Le nostre – dice – si chiamano e sono Scuole di carità; ma che cosa diventerebbe la carità della cultura se non vi si unisse quella della formazione morale e religiosa?

“Noi, continua l’umile e sereno Religioso, all’educazione della gioventù consacriamo mente, cuore, affetti, tutto!

“La nostra Congregazione non è che un corpo di volontari sorta appunto per assolvere a questo compito che possiamo senz’altro definire paterno. Le nostre costituzioni infatti hanno come principali capisaldi.

  1. Abbracciare con amore di padri i fanciulli ed i giovani;
  2. Educarli gratuitamente;
  3. Preservarli con sollecita vigilanza dal contagio del secolo;
  4. Ammaestrarli ogni giorno nello spirito di intelligenza e di pietà.

Queste sono le basi (e lo spirito) poste alle nostre scuole e alla nostra Congregazione dai venerati Fondatori!…

Ecco: le basi! E lo spirito!

“Basi” sicure su cui si possa costruire solidamente e “spirito” che vivifichi gli sforzi e le pietre, che dia ali al lavoro e al sacrificio!

Per questo alle origini di ogni istituzione intesa a collaborare in un modo o in un altro (le mansioni son tante!…) all’avvento del Regno di Dio, c’è sempre qualche anima santa che in silenziosa modestia le ha dato non solo il volto ma la linfa vitale.

In fondo alla grande Chiesa di Sant’Agnese, a sinistra di chi entra per la porta centrale, , c’è una Cappella dedicata al SS. Crocifisso. Sulla parete di destra di detta Cappella una semplicissima lapide di bardiglio annunzia in lettere latine, dorate, che lì presso sono sepolte le salme dei Servi di Dio fratelli Antonio Angelo e Marco Antonio conti Cavanis “iuventutis vere parentes” : veri padri della gioventù.

Sono le due “anime sante” che alle Scuole di Carità dettero spirito e basi, cioè quel “qualche cosa” che si respire nell’aria visitando le loro Opere le quali sono certamente frutto di santità.

02 – Lo stemma di Famiglia

Al tempo della gloriosa Repubblica di San Marco l’aristocrazia veneziana occupava tutte le cariche civili e militari del Governo.

Quella di Segretario della Repubblica era una carica non di primissimo ordine ma pur sempre di grande importanza, tanto vero che ai Segretari venivano affidate le mansioni di notai del governo e gli uffici di Segretaria di tutte le cariche anche le più gelose ( Senato, Consiglio dei Dieci, Inquisizione di Stato, ecc.) e dovevano appartenere alla cittadinanza veneziana originaria, titolo che rappresentava quasi una nobiltà di second’ordine.

I Cavanis appartenevano a questa categoria, dei Segretari, e per meriti acquistatisi erano una delle principali famiglie cittadine. Vero è che erano oriundi di Bergamo; ma un loro ramo si era trapiantato in Venezia fino dai primi del 1500 e un Cavanis (Nicolò) fu Segretario di Angelo Morosini inviato dalla Serenissima come ambasciatore a Giovanni Sobieski, Re di Polonia, il quale in attestato di soddisfazione per l’opera sua diligentissima e saggia, conferì a lui ed ai suoi discendenti il titolo di Conte, col diritto di portare sopra lo stemma di famiglia il suo stemma regale, fra due palme.

Ora è di moda buttar gli stemmi in soffitta fra i ferri vecchi e gli oggetti fuori d’uso; ma lo stemma dei Conti Cavanis con le due palme regali noi lo rimiriamo campeggiante in quel salone d’ingresso delle Scuole di Carità dove da un secolo e mezzo, ormai “ si pensa a provvedere nel miglior modo alla buona riuscita dei cari allievi e a tale oggetto non si risparmia diligenza o fatica per istruirli nei sacri doveri di Religione, per allontanarli dai cattivi compagni, per invigilare sulla loro condotta privata, per animarli con premi e con ricreazioni innocenti, per prestare ancora possibilmente alle loro indigenze gli opportuni soccorsi”. E non ci sembra affatto meritevole di passar fra gli oggetti fuori d’uso!

Sobieski è l’eroe che battendo i turchi a Vienna, e ricacciandoli, si acquistò l’imperitura riconoscenza della Cristianità; al suo stemma, dunque, si può far tanto di cappello; ma tanto di cappello meritano bene anche le due palme da lui concesse ai Cavanis, palme che per la vita e l’opera dei due Fratelli di cui stiamo per narrare la storia acquistano un nuovo alto significato e diventano doppiamente regali.

E neppure è da sorvolare distrattamente sul motto che lo “rifinisce”: “Sola in Deo sors” (la nostra sorte è soltanto in Dio); perché se quanto sappiamo della famiglia Cavanis ci induce a ritenere che per i suoi membri esso abbia sempre rappresentato un programma di vita, fedelmente e volenterosamente osservato, quando vedremo i nostri protagonisti andare ai giovani con cuore di padri, educarli gratuitamente, non risparmiare sacrifici di sorta per aprire loro le porte di un avvenire cristianamente onesto, e ciò senza mezzi, senza aiuti, anzi il più delle volte fra difficoltà e contrasti d’ogni genere, confidando pienamente e soltanto nella volontà e nella protezione divina, dovremo riconoscere che il loro stemma era – e rimane – gentilizio nel senso più vero e più alto della parola.

03 – Un gentiluomo

Auguriamoci che dietro agli stemmi, nella fretta di far piazza pulita,, non vadano a finire in soffitta anche i gentiluomini, altrimenti per i nostri posteri la gioia del raccontare – o dell’ascoltare – le storie del nostro tempo sarebbe destinate a diventare una ingiusta condanna ai lavori forzati.

E’ tanto piacevole e riposante tirar fuori dale ombre più o meno fitte del tempo delle persone dabbene anzichè dei criminali!

Guardate questo Conte Giovanni Cavanis, padre dei nostri protagonisti, quanto è simpatico: il vero tipo del gentiluomo amabile e benigno!

Nato sulla Riva delle Zattere (e quindi vero veneziano di Venezia) il 3rd giorno di Natale del 1738, educato prima da un buon Sacerdote, poi dai Padri Domenicani Osservanti presso i quali studia filosofia ed anche teologia, a trentun’anni prende possesso (in seguito a concorso e a votazione) della carica di Segretario della Cancelleria Ducale e quasi contemporaneamente si sposa con la Nobil Donna Cristina Pasqualigo Basadonna, d’illustre famiglia patrizia.

Da scapolo s’è distinto nelle opera di beneficenza a vantaggio dei poveri e soprattutto in opera di religione, a vantaggio della sua Chiesa parrocchiale di S. Agnese e delle altre parrocchie vicine, dove participava alla vita attiva ed alle cariche di parecchie pie Confraternite; or ache s’è formato una famiglia ed è diventato un pezzo grosso

…Ora che ha moglie ed è un pezzo grosso, fa esattamente lo stesso: cioè continua a vivere la vita della Chiesa ed a collaborare nel bene coi suoi Preti e coi bravi Domenicani delle Zattere, tal quale come farebbe oggi un membro zelante dell’Azione Cattolica.

Perché il Conte Giovanni è un uomo profondamente religioso, non solo per tradizione ma per intima convinzione attinta dalla buona educazione e dagli studi sacri; e il Cristiano convinto sa che…non è da Cristiani il far da santo con le mani in mano.

A poco più di un anno dalla celebrazione del matrimonio, e precisamente il 30 luglio 1770, la famiglia dei Conti Cavanis è allietata dalla nascita di una bambina, cui vengono imposti i nomi di Apollonia Beatrice Maria.

Nel 1772, ai 16 di Gennaio, nasce il secondogenito, Antonio Angelo Maria, e due anni dopo, ai 4 di Maggio del 1774, viene al mondo il terzo genito, Marco Antonio Pietro Maria. “Maria” tutti e tre, in omaggio alla Madre di Gesù. Da rilevarsi!

Il Conte Giovanni, uomo colto, amante delle lettere, poeta e “cuor gentile”, celebra le “occasioni” cittadine e familiari, liete e tristi, con dei piccolo trattati o con poesie – in italiano, in latino o in veneziano – e tiene un Diario personale in cui annota tutto ciò che nella sua vita è degno di ricordo. Figuriamoci dunque se avrebbe lasciato passar sotto silenzio la nascita dei figli!

L’annota, nel suo Diario, con il rilievo che meritano avvenimenti così importanti nella vita di due sposi e complete l’annotazione con tutto ciò che a suo giudizio può servire ad impreziosirla e ingentilirla.

Così, a proposito della primogenita, ha premura di far sapere che la prima volta che si sentì chiamare dalla voce infantile di lei col nome di papà, fu dinanzi alla Sacra Immagine dell’Ecce Homo appesa nella sua stanza. Così a proposito del secondo arrivato, Anton’Angelo Maria, nota che al momento della nascita del figlioletto suonarono a festa le campane della Chiesa di S. Eufemia della Giudecca, situata dirimpetto alla casa dei Cavanis, e che si fecero salve gioiose di fucili e di mortaretti, perché proprio allora era avvenuta la elezione di un prete titolato di quella Chiesa. E considerando la graziosa coincidenza come un buon’auspicio per il neonate, prega Dio Signore a degnarsi di benedirlo, onde abbia anzi sempre più da crescere l’esultanza concepita nella sua nascita; ed abbia a riuscir sempre grato a Dio e agli uomini il tenor Cristiano della sua vita. Così il terzogenito è salutato nel Diario paterno con l’augurio Cristiano: “Qual mio figlio Iddio Signore benedica ed eternamente renda felice. Amen”.

Con un tal babbo, e per mamma una donna degna di lui, è facile immaginare quale educazione ricevessero i future Segretari della Serenissima e Fondatore delle Scuole di Carità; una educazione affettuosa ma seria e forte e ispirata ai principi Cristiani in base ai quali i genitori sono i legittimi rappresentati di Dio.

Il Conte per gran pare della giornata era assente, impegnato nelle incombenze inerenti al suo alto ufficio; e se la Contessa fosse stata una di quelle Dame aristocratiche che anche a quei tempi dividevano volentieri il loro tempo fra lo specchio e il salotto, la modista e il teatro, noi dovremmo andare a cercare i tre fanciulli nelle stanze assegnate alla servitù, in braccio alla balia o alla cameriera; li troviamo invece in braccio o attaccati alla sottana della mamma perché lo Contessa Cristina, compresa intimamente de’ suoi doveri di madre, non permise mai ad alcuno di far le sue veci.

Così ebbe modo di osservare e studiare la loro indole, tanto diversa… – Anton’Angelo calmo, riflessivo, timido, tutto riguardi, Marcantonio, invece, pronto, vivace, intraprendente – e di armonizzarle in maniera che l’una e l’altra si correggessero e si completassero a vicenda, facendone scaturire una unità di cuori ed una concordia di sentimenti che nei due fratelli si manterrà poi inalterata per tutta la vita.

All’età di quattro anni, non ancora compiuti, Anton’Angelo fu mandato a Scuola a S. Trovaso da certe sorella Invardi, maestre amorevoli e pie; Marcantonio, al contrario, mostratosi insofferente delle maniere femminili, venne affidato ad un maestro.

Il che non significa affatto che i genitori stanchi del peso ad essi spettante si affrettassero a scaricarlo sulle spalle degli altri, ma soltanto che, preoccupati di assolvere nel migliore dei modi, di dettero premura di procurarsi dei buoni collaboratori.

Infatti è la mamma  che ancor piccolo li dispone ad accostarsi ai Santi Sacramenti, ed è il babbo che li conduce con sè alle sacre funzioni nella parrocchiale di Sant’Agnese o nelle Chiese vicine; sono il babbo e la mamma insieme che allevano le giovani pianticelle nella purezza degli affetti familiari e le fanno crescere rigogliose alla luce divina ed al calore benefico del sole della Religione, professata e praticata con semplicità cordiale e con devote fervore.

04 – Per la diritta via

Man mano che i piccolo Cavanis diventano grandicelli il babbo completa e perfeziona l’opera della mamma sorvegliando la loro educazione, regolandola secondo i suoi gusti, e cercando di trasfondere nell’animo  dei figli le sue nobili passioni: religione, osservanza scrupolosa d’ogni dovere, amore allo studio e alla poesia.

All’eta di sei anni circa, prima Anton’Angelo e poi Marcantonio, furono affidati alle cure del P. Gioachino Calderari, Domenicano osservante del vicino Convento.

Nel giorno in cui il primo compiva i sette anni il babbo regalò a lui un grosso quaderno… – Per farne che cosa? Domandò il fanciullo.

  – Qui, gli rispose il babbo con molta serietà, annoterai di giorno in giorno gli avvenimenti più importanti!

Così aveva fatto lui, e continuava a fare tuttora, tenendo il suo Diario sempre aggiornato; e convinto com’era dei vantaggi derivanti da una tale quotidiana ginnastica dell’intelligenza e dello spirito, voleva che anche i suoi figli ne approfittassero.

Anton’Angelo si trovò in una situazione molto simile a quella di tanti altri ragazzi – e non di sett’anni soltanto – i quali obbligati dall’insegnante a “ fare il Diario” non sanno da che parte rifarsi e il più delle volte lasciano i fogli in bianco come se nel mondo ( e diciamo pure nel loro piccolo mondo) non accadesse mai nulla di nulla.

Ma il Conte dapprincipio dettò lui stesso al figliolo ciò che conveniva ricordare finché il fanciullo si abituò a descrivere da sé con candida semplicità le vicende familiari e i fatti pubblici della città.

E questo diario, conservato gelosamente negli archivi della Congregazione dei padri delle Scuole di Carità, si legge ancora con piacere e con interesse per la spigliatezza e il discernimento che lo contraddistinguono.

Nulla ci autorizza ad affermare che il Conte Cavanis abbia imposto una simile ginnastica anche a quel frugolo di Marcantonio. Forse non lo ritenne opportuno o consentaneo al suo temperamento scoppiettante; ma che anche questi abbia compiuto opportune esercitazioni, conforme alle sue attitudini ed al suo carattere, è provato da un libriccino di poche pagine, non immune da correzioni e da sgorbi, da lui scritto all’eta di nove anni e intitolato “Orazioni devote”, che non saranno un capolavoro, ma che manifestano l’indole del fanciulletto e la pia educazione ricevuta in casa e in scuola.

“Ecco (dice la canzoncina con cui il libretto comincia) il Cielo aperto – Gli angeli spettanti – Noi Pellegrini andante – alla sacra Maggior. Colassù in mezzo all’empireo Coro – Gesù vedrem – Con faccia serena il riverirem – Ed in pace starem – In sempiterno – In sempiterno.

E l’orazione a Gesù: “O bambinello Gesù, vero custode dell’anima mia, senza il quale non trovo riposo in alcun luogo, e perciò vi chiedo una grazia ed è   che possa morire, ricevuti li Sacramenti e nelle vostre braccia e nel spalancato petto di Maria. Amen.”.

E quella allo Spirito Santo: “O Spirito Santo Terza Persona della SS. Trinità foco del divino amore, Voi che illuminate ogni uomo, Vi prego di illuminarmi acciò mai più vi offenda e dopo morte possa adorarvi nel Cielo”.

Lasciamo andare la forma; ma i sentimenti espresso da questo bimbo di nove anni farebbero onore anche ad un cristiano di quaranta o cinquanta.

All’età di otto anni Anton’Angelo è cresimato e a dieci (il 16 luglio 1782, festa della Madonna del Carmine) fa la prima Comunione; avvenimento che gli rimarrà indelebilmente scolpito nel cuore per tutta la vita.

  Nel 1784 anche Marcantonio riceve la Cresima e nel 1785 (all’età di 11 anni) nel giorno della festa del Nome di Maria, si accosta per la prima volta al Banchetto Eucaristico.

Dopodichè non tralascerà più di accostarsi alla S. Comunione tutte le Domeniche e feste, anche quando vivrà in mezzo alle occupazioni del Secolo. E altrettanto si può affermare di Anton’Angelo (ancorchè non si abbiano esplicite testimonianze in proposito), perché qualità come le sue – di somma pietà, di ritiratezza e di innocenza – non si riscontrano se non in anime nutrite di sovente del Pane soprasostanziale che forgia gli eroi ed i santi. Ma con tutto ciò si sbaglierebbe di grosso chi pensasse di trovarsi di fronte a due… chierichetti sottoposti ad una cura di pietismo esagerato da un babbo bigotto e da una mamma beghina.

Dal Diario stesso del Conte Giovanni si apprende che tutti e tre i figli fra i dieci quattordici anni furono mandate a scuola da un maestro di ballo e di cerimonie; che Apollonia imparò a suonare il mandolin, Anton’Angelo (il più timido dei tre) il violin, e tutti e tre furono convenientemente istruiti nella lingua francese, mentre il babbo, personalmente, continuava a coltivare in loro l’amore alle lettere e l’estro poetico.

Il che sta a dimostrare che i Conti Cavanis erano dei cristiani convinti e coerenti ma non dei bigotti; che i loro figlioli erano destinati e indirizzati non al Chiostro ma alla vita del secolo; e, in fine, che la Religione non è quella “cappa di piombo” che alcuni immaginano e detestano, perché si concilia con tutto ciò che è anche umanamente dilettevole e bello, e respinge e condanna soltanto ciò che sotto il pretesto del diletto e della bellezza fomenta gli istinti e insozza l’anima.

Intanto i ragazzi crescono, continuando a respirare l’aria di famiglia, così salubre e riposante. Anton’Angelo continua a frequentare la scuola dei P.P. Domenicani che lo ammaestrano nelle belle lettere e nella filosofia, mentre Marcantonio passa a quella dell’Abate D. Antonio Venier ottimo e dotto sacerdote nonchè celebrato predicatore; e il babbo provvede ad assicurar loro l’Ufficio di segretari della Repubblica facendoli iscrivere nei registri della cittadinanza originaria.

Il loro avvenire, secondo i piani umani, è già bello e tracciato. E la loro anima canta!

Il babbo è riuscito a destare in loro l’estro poetico e i due giovinetti lo secondano e ci si divertono, mettendo in versi non solo i sentimenti filiali e religiosi, ma anche le loro richiesta di doni o di qualche onestissimo svago.

Anton’Angelo apre il suo libro di poesie con un sonetto dedicato a Gesù Redentore, Marcantonio offre invece la sua prima poesia alla Vergine.

Si completano a vicenda anche nell’omaggio agli Amori celesti! E concordi son sempre nel chiedere, in versi, al loro genitore ciò che la loro età, i loro studi e le loro aspirazioni reclamano.

In versi domandano di essere condotti a vedere lo spettacolo della Laguna tutta gelata, o il danaro necessario per l’acquisto di un libro o del gioco degli scacchi, di fare adornare di incisioni il quaderno della Fisica o di assistere ad una recita nel teatrino di casa dell’abate Venier, di avere un calamaio nuovo o di visitare il Convento dei cappuccino alla Giudecca…

Il Conte Giovanni risponde pure in versi, ora di sì ora di no; ma sì o no che risponda, l’atmosfera familiar resta sempre serena.

Per allenarli al lavoro di Segretari, nel quale dovranno ben perfezionarsi e farsi onore, affida loro il compito di ricopiare in un libro tutti i documenti riguardanti la storia della famiglia.

Un lavoro di diligenza e di pazienza al quale tuttavia i due giovinetti si sottopongono con tutto il loro impegno. E condottolo a termine, e chiesto scusa degli involontari errori commessi, chiedono – in versi, s’intende! – il premio meritato.

Scrive al babbo Anton’Angelo, che ha ultimato per primo il lavoro assegnatogli:

Io mi lusingo ed ho gran speranza

che Lei ch’ha in abbondanza

Mezzi per consolarmi

Non vorrà già privarmi

D’un contrassegno, onde il suo aggradimento

Ben conosca qualche esperimento.

 

Il contrassegno dell’aggradimento paterno dovrebbe essere rappresentato da un orologio che egli desidera ardentemente; e il babbo gli fa trovare sul tavolo della sua cameretta una scatola con dentro il desiderato orologio, avvolto in un madrigale dal titolo: “ Chi lavora acquista tutto”, in cui è detto, tra l’altro, scherzosamente: “Poggia piano – che la mano – l’orologio – che ora voglio – regalarti – in mille parti – non divida – e non recida – del content – sul momento – ch’ è concesso – il bel progresso…

Anche Marcantonio sogna un orologio; ma è ancora indietro con il lavoro assegnatogli e perquanto ne presenti al babbo una parte, accompagnata da una Canzonetta giustificativa, il dono si fa attendere. Arriva poi – finalmente! – a lavoro compiuto – e il figlio esprime al padre la sua gratitudine con un altro madrigale traboccante di entusiasmo.

Ma l’estro poetico dei due pii giovenetti si sfoga principalmente in composizioni di carattere religioso. Tutti e due devote in modo del tutto particolare di Maria SS. assunta in Cielo (e a noi piace richiamare su di ciò l’attenzione del lettore or ache l’Assunzione è stata proclamata Dogma di fede fra il tripudio commosso di tutta la cristianità), ogni anno ai quindici di Agosto la onorano con un sonetto.

Scrive Anton’Angelo:

Ecco assisa Maria su’ Spiriti alati

Poggiar del Cielo sovra l’auree soglie

Ed oh come Costei giulivo accoglie

Lo stuol dei Santi, giù dai scanni aurati.

Già al novello splendor tutti i Beati:

Di qual coro è Costei? dicon: Si spoglia

ognun del primo posto, e par che voglia

Gigli primi e corone a Lei sien dati.

E Marcantonio dal canto suo:

Si schiude il ciel, dalle celesti porte

Ecco scender Gesù fra l’alte schiere

D’improvviso fulgor ardon le schiere

E canta inno novel l’eccelsa corte.

Dall’avel di Maria veggo la morte

Sbigottita  fuggir…Vieni a godere

Va dicendo Gesù…dall’ombre nere

Sorgi o morte a gustar l’eterna sorte

Ella si scuote e del Divin Figliolo

Fra i casti amplessi e fra le turbe elette

S’innalza e siede sull’eterno Polo.

Ah! Perché m’è disdetto in quelle vette

tuoi trionfi mirar…? Deh! Fa ch’io affrette

Lassù a spiccar per vagheggiarti un volo.

Il medesimo celebra con una composizione poetica anche il suo diiciassettesimo compleanno e vi aggiunge l’annotazione seguente:

Questa canzonetta fu fatta da me Marcantonio Cavanis nell’anno 1789 il dì 19 Maggio, giorno mio natalizio, per ringraziare il Signore di tanto bene che per sua misericordia fin ora mi ha impartito e per pregarlo che continui a custodirmi e proteggermi, e specialmente mi liberi dal peccato che è il maggior male che dar si possa“.

Diciassett’anni! L’età dei sogni e delle chimere; l’età in cui allungando la mano ci si illude di poter cogliere una stella, l’età in cui anche il male – forse il male soprattutto – appare così seducente!…

E questo giovane (e il suo fratello non meno di lui) al quale la vita si spalanca dinnanzi particolarmente rosea, brillante, piena di attrattive, pensa ad invocare la protezione divina e ad ottenere la liberazione dal peccato, il maggior male che dar si possa!

Dirà qualcuno: “altri tempi!” – come se nel 1789 la gioventù e non ci fossero, anche allora, sogni, chimere, tentazioni e peccati! – Diciamo piuttosto altri sentimenti, altre temper, altre anime.

Tempre ed anime di santi!

Ma ecco che mentre i due giovani vanno incontro alla vita “ con cuor diritto e puro”, il loro padre, poco più che cinquantenne, si ammala gravemente.

L’atmosfera di casa Cavanis, sempre così limpida, s’offusca ad un tratto e si fa squallida e greve.

Il Conte Giovanni non è soltanto il capo della famglia, ma l’amico più vero e più caro dei suoi figlioli; la guida, l’animatore, tutto!

Pertanto non si possono leggere senza provare un senso vivo di commozione e di tenerezza le suppliche che essi rivolgono, anche in versi, al “Padre nostro pien di grande amore”, al “gran consolatore degli affetti”, al “Signor pietoso e premuroso” perché ridoni la santità all’adorato genitori, sempre che ciò sia conforme si suoi sapienti voleri.

E quando il babbo, sia pure non ancora completamente rimesso in salute, torna ad assidersi alla mensa comune, rioccupando il suo posto rimasto per troppo tempo vuoto, è una inenarrabile festa di cuori.

L’atmosfera familiare si rifà limpida e serena e Marcantonio canta per tutti:

Serafini del ciel, ch’intorno state

all’Agnello divin, deh! voi  supplite

Per me, rendendo a Lui grazie infinite

Con le vostre d’amore lingue infuocate

Per essersi la somma sua bontade

(tosto ch’ell’ebbe mie preghiera udite)

Degnato ch’ancor fossero esaudite

Rendendo al genitor la sanitate.

05 – L’uomo propone

…E Dio dispone!

Nel gennaio del 1788 Anton’Angelo, che appena toccata l’età legale aveva concorso ad un posto di Notaio straordinario, veniva approvato e sul finire del 1789 era nominato segretario del nobile Benedetto Trevisan, Governatore delle galee dei condannati; e poichè la residenza abituale di questo Ufficiale della Marina veneta era Corfù, il neo-segretario avrebbe dovuto accompagnarlo; ma non sembra che egli si sia allontanato dalla città di Venezia, dove è certo, invece, che in quell’epoca presto servizio presso la Cancelleria ducale.

Fu anzi questo suo ufficio che lo mise in grado di scandagliare dentro al suo spirito più a fondo di quel che non avesse fatto fino allora.

Il governo della Repubblica di Venezia negli anni più gloriosi della sua storia era stato rispettosissimo della Chiesa e degli uomini di Chiesa,permeato com’era esso stesso di sincera religiosità.

Anton’Angelo lo sapeva, e s’illudeva che così continuasse ad essere anche al presente; invece le cose andavano assai diversamente; al rispetto era subentrato il dispetto e non di rado si preferiva mortificare la suprema autorità della Chiesa anzichè offrirle un omaggio di devozione. E di fronte a questo stato di cose, il giovane pio e delicato, provò un disagio e una ripugnanza tali da non poter più resistere.

Noi, per nostra disgrazia, siamo abituali allo spettacolo nauseante dei volta – gabbana che non provan ripugnanza a nulla e per una manciata di danaro son capaci di calpestare oggi quel che hanno portato alle stelle ieri (e viceversa) e di mercanteggiare la propria coscienza tutti i giorni misurando il valore di un Ideale da quel che rende, non da quel che costa.

Questo giovane cristiano – e cristiano sul serio – dà all’età di diciott’anni una lezione magnifica a tante “personalità” di ieri, di oggi, e di sempre.

La carica che ricopre lo obbliga a collaborare, sia pure materialmente soltanto, ad atti contrari alle sue più intime convinzioni? No, non è possibile! E se non c’è altra via di scampo, vada… a farsi benedire la carica!

Ma questo disagio lo porta anche più in là; cioè lo porta a domandarsi seriamente se non sia il caso, anzichè di mutare ufficio, di cambiar vita addirittura.

Forse non era la prima volta che gli balenava per la mente l’idea di farsi religioso; ma per la prima volta ora quell’idea nella sua mentre prendeva corpo e sostanza; tantochè un giorno, mentre s’intratteneva in una devota lettura, investito da uno di quei raggi misteriosi che frugano l’anima e la mettono a nudo, esclamò con impeto: “Sì, mi faro religioso e mi dedicherò tutto al Signore!”.

“Religioso”! in quale Ordine o Congregazione? Non lo sappiamo con certezza; è lecito tuttavia supporre che intendesse entrare nei Domenicani presso i quali si può dire era stato allevato. Ma quando Iddio ha posato gli occhi su di una creatura ed ha fatto su di lei un piano speciale, non c’è niente da scegliere; bisogna che essa, o prima o poi, vada dove vuole Lui.

Intanto, appena manifestata ai genitori la sua decisione, questi – contrariamente a quanto ognuno potrebbe immaginare dopo averli riscontrati così… di Chiesa – negarono recisamente il loro consenso.

Si trattava di vera vocazione o di una decisione derivante soltanto dal disagio in cui si trovava alla cancelleria ducale? Bisognava pensarci bene prima di rinunziare ad una posizione così brillante e ad un avvenire pieno di soddisfazioni! E Anton’Angelo chinò il capo; senza però darsi per vinto.

Bisognava pensarci bene?… Faremo così!

Due anni, ci pensò!… Dopo i quali, per non far passi falsi, andò a consigliarsi con un santo Sacerdote, l’abate Giorgi che aveva appartenuto alla Compagnia di Gesù prima che questa venisse soppressa. Il Giorgi l’ascoltò attentamente e in vista della sua particolare posizione, familiare e sociale, lo consigliò di farsi sacerdote secolare suggerendogli i mezzi più  adatti a santificarsi anche a contatto con la famiglia e col mondo.

Il giovane manifestò al babbo e alla mamma la nuova decisione, convinto che le avrebbero fatto buon viso; invece le fecero il viso delle armi, nè più nè meno che a quella di due anni innanzi! E qui si potrebbe anche osservare che questi piissimi Conti Cavanis non dettero, in questa circostanza, una prova molto… convincente della loro religiosità. Ma non bisogna mai dimenticare che Iddio per arrivar dove vuole passa per le vie più impensate e si serve dei mezzi più strani.

Vedremo infatti tra poco che Giovanni e Cristina Cavanis con questa loro ostinazione non facevano che preparare la via al Signore.

Ben fece dunque Anton’Angelo a non scagliarsi contro di loro, a non accusarli quali violentatori della sua volontà; e (pur soffrendo estremamente in cuor suo), a continuare a venerarli, obbedirli ed amarli di tenerissimo affetto ed anche a conservare intatta la sua serenità di spirito; quella bella e preziosa serenità che rende più che mai meritorio il sacrificio ed è segno inconfondibile di vera padronanza di sé, cioè di autentica superiorità.

 

Nel 1793 la limpida atmosfera di casa Cavanis tornava ad offuscarsi e questa volta le ombre eran proprio di morte. Agli ultimi di Novembre il Conte Giovanni in seguito ad un violento attacco del male che lo affliggeva da anni, era chiamato dal Signore a ricevere il premio delle sue virtù esemplarmente Cristiane.

Nel Diario paterno il figlio Anton’Angelo scriveva in data 30 Novembre le seguenti parole:

Lì 23 del cadente mese alle ore 4 passò agli eterni riposi il nostro veneratissimo Genitore, rapitoci da violentissimi assalti di asma convulsiva.

Morì munito di tutti i SS. Sacramenti e coi sentimenti più cristiani ed eroici. Ci lasciò per ultimi ricordi l’amore a nostra madre ed ai poveri…

Specie di “lapide mortuaria” espressiva ed edificante, pur nella sua estrema semplicità.

Alla morte del babbo Anton’Angelo aveva circa ventisette anni; ed essendo il maggiore dei maschi si trovava a dover assumere il ruolo di capo della famiglia.

…E dunque addio sogni benedetti di lasciare la carica, farsi religioso e dedicarsi tutto al Signore!…Ora sì che bisognava moltiplicar le forze e fronteggiare degnamente i nuovi doveri, le nuove responsabilità!…Chissà che il povero babbo non fosse stato tanto ostinato a negargli il suo consenso, per questo; perché sentiva che sarebbe mancato presto e lui, Anton’Angelo, il giovane riflessivo e casalingo, destinato a sostener la mamma ed a guidar la famiglia!…

Niente di tutto ciò! Morto il babbo le voci supreme che lo chiamavano al Sacerdozio anzichè affievolirsi si fecero più vive. Tanto più  vive che dovette farne parola alla mamma! E questa, ora che avrebbe potuto tacciarlo di insensibilità e di tradimento facendosi forte del suo dolore e della sua condizione, deve essersi invece ben presto piegata ai desideria del figlio se questi ai cinque di marzo dell’anno 1794, vale a dire a distanza di poco più che tre mesi appena dalla morte del babbo, vestiva l’abito sacro.

L’avvenimento è notato nel suo Diario con questo breve commento: “Dio voglia che un’opera incominciata per gloria sua abbia per termine fortunato il godimento eterno della gloria del Cielo!”.

Non si poteva dire nè di più meglio nemmeno con un numero di parole cento volte maggiore.

Un mese dopo Anton’Angelo riceveva la tonsure e i quattro ordini minori; il 14 giugno, ottenuta dal Governo della Repubblica (in virtù dei servigi prestati da lui e più ancora dal padre suo) una provvigione che gli servisse per il titolo prescritto dalle vigenti leggi ecclesiastiche, veniva ordinato Suddiacono. Ai 20 di dicembre di quel medesimo anno riceveva il Diaconato e finalmente il 21 marzo del 1795, ottenuta dalla Santa Sede una dispensa di 13 mesi perché non aveva ancora l’età canonica, veniva consacrato Sacerdote di Cristo dal Patriarca Giovannelli, il quale era sicuro di non improvvisare un sacerdote, ben sapendo che “il giovane Cavanis agli studi sacri aveva sempre atteso con somma diligenza presso i Padri Domenicani; e in quanto a pietà ne era ornato in maniera non comune”.

Il giorno della prima Messa fu per il nostro giovane Levita veramente il giorno del Signore e del gaudio che supera ogni desiderio.

La celebrò solennemente in Sant’Agnese alla presenza della mamma e degli altri famigliari nonchè di una folla di fedeli edificati e commossi dal suo serafico atteggiamento; e quel giorno stesso ebbe premura di scrivere nel suo Diario: “Dio voglia che questo divenga il giorno più felice per me, corrispondendo a tanta grazia, non curando più altro appunto che Dio, che sia solo la mia ricchezza ed il mio bene adesso ed in eterno”.

06 – Sboccia l’idea

Nella sua diletta Chiesa di Sant’Agnese il Sacerdote novello comincia ad esercitare il sacro Ministero con umiltà e zelo veramente edificanti. Ma non è, come alcuno potrebbe pensare, avendolo conosciuto per timido e riservato, una chiocciola eternamente chiusa dentro al proprio guscio.

Medita e prega a lungo davanti a Gesù in Sacramento ma non disdegna nelle ore libere di recarsi a far visita a qualche nobile famiglia di sua conoscenza e neppure di fermarsi a pranzo se invitato.

Era uso comune a quei tempi che nel pomeriggio i sacerdoti uscissero di casa non in veste talare ma in soprabito corto.

La mamma ne ha fatto confezionare uno anche per lui e P. Antonio lo indossa, ogni tanto, senza ostentazione ed anche senza esagerata timidezza finchè un giorno recatosi così vestito a far visita al suo Confessore, questi gli dice che quell’abito non gli piace. Da quel giorno lo lascia e fa uso della veste talare, sempre, anche quando qualcuno scherzando gli dice che altro è andare a rendere una visita di cortesia e altro è andare a raccomandare l’anima ad un moribondo.

Intanto comincia a predicare preparando con impegno le sue prediche dense di Dottrina attinta dalle Sante Scritture e dai SS. Padri e recitandole in una stile efficace, vigoroso e devoto; si dedica al Sacro ministro delle Confessioni ed a questo scopo va quasi ogni giorno all’Ospedale degli Incurabili dove continuerà poi a recarsi sempre più assiduamente fin quando non si buscherà (a causa delle fatiche e delle esalazioni malsane ivi assorbite) il male insidioso che lo affliggerà per tutta la vita; va a tenere le istruzioni catechistiche all’Ospizio delle povere donne in parrocchia dell’Angelo Raffaele; e tuttavia trova il tempo anche per recarsi nelle abitazioni private – specie in quelle dei poveri – dovunque ci sia una lacrima da asciugare, un dolore da confortare, un soccorso da porgere. Anzi è frequentando gli ambienti poveri della città, che comprende a quale missione il Signore l’ha destinato.

Per le calli anguste e nelle catapecchie senz’aria incontra dei ragazzi, tanti ragazzi, che vedono e ascoltano oscenità d’ogni genere, assorbendo in tal modo il mortale veleno della sfrenatezza e della irreligiosità, ed è come se fossero figli di nessuno, tanto appaiono privi di guida domestica!

Questo spettacolo lo turba; gli fa male al cuore. E da questo turbamento e da questa sofferenza sboccia nell’intimo del giovane Sacerdote un’Idea grande e un generoso proposito: immolarsi in pieno per l’educazione della gioventù!

Nel frattempo il fratello Marcantonio seguendo le tradizioni di famiglia e le orme del padre, era entrato – anche lui – nella carriera di Segretario della Cancelleria Ducale e come tale s’era trovato, fra l’altro, a prender visione delle preoccupazioni del governo di fronte al dilagare della depravazione dei costumi in Venezia e dei mezzi escogitati per mettervi un po’ di riparo. Il giovane retto, giustamente preoccupato dal fosco avvenire che l’incalzante marea della immoralità preparava alla sua diletta patria, s’era rallegrato molto di quei saggi provvedimenti; ma – ahimè – era troppo tardi. La Serenissima Repubblica di Venezia era ormai in agonia!

Venezia, al pari di tanti organismi potenti e gloriosi, compiuto ormai il suo ciclo storico, doveva dissolversi; ma (come ben dice B. Galletto nel suo bel Profilo de “I conti Cavanis”), il drama si chiudeva in una froma indegna delle sue tradizioni di gloria e di onore. Venezia cadette vilmente alla paura, poi fu tradita, alla fine venduta. La viltà porta un nome: il doge Lodovico Manin, il quale per debolezza, sanzionata però dalla quasi unanimità del maggior Consiglio, e nell’illusione di placare le ire minacciose di Napoleone decise la cessazione della Repubblica aristocratica e la formazione d’un governo popolare. Il tradimento fu opera dei Giacobini francesi. La vendita venne effettuata da Napoleone il quale, ritenendo lecito barattare gli stati allo stesso modo che si barattano le merci, vendeva Venezia ed i suoi possedimenti all’Austria con l’iniquo trattato di Campoformio del 17 ottobre 1797.

Il doloroso epilogo di dieci secoli di gloria e di potenza amareggiò molto la nobilità veneziana ed anche – come è facile supporre – Marcantonio Cavanis il quale tuttavia rimase al suo posto di dovere e di sacrificio servando i vari governi che si succedettero nella città spodestata con scrupolosa disciplina ma anche con austera dignità.

I tempi erano tristi. La Rivoluzione francese aveva delle ripercussioni deleterie sugli spiriti, anche in Italia. A Roma veniva instaurata la Repubblica. Il sommo Pontefice Pio VI perseguitato ed arrestato moriva in esilio (anno 1799).

Però la Chiesa, navicella divinamente intrepida in mezzo alla bufera che la premeva da ogni parte, resisteva agli urti e nel 1800 con l’elezione del nuovo Papa Pio VII rianimava i buoni e dava a tutti una novella prova della sua vitalità.

Anche i Cavanis ne furono rinfrancati; e mentre Anton’Angelo persisteva delle opera di pietà e di carità e col fàscino della sua parola ispirata traeva i fedeli a penitenza ed a propositi di vita cristianamente migliore, Marcantonio disimpegnava le sue difficili mansioni presso il nuovo Governo.

Verrebbe voglia di dire che seppelliva tra le pareti di un ufficio gli anni più belli della sua gioventù; ma è forse più esatto appropriare a lui ciò che il Signore dice del seme che deve essere seppellito sotto terra per dare buoni frutti.

Tutto il mondo è paese; e gli uomini di tutti i tempi si assomigliano sempre, almeno un poco. Anche allora la corrente trascinava con sè i più inesperti e i più fatui e ne faceva degli esaltati, cinici e intolleranti. Anche allora si stave diffondendo la moda dell’anticlericalismo beffardo che trovava non pochi seguaci e faceva le sue vittime dovunque, non esclusi gli uffici della ex Repubblica veneziana; ma il Conte Marco non si lasciava nè sopraffare nè intimidire. Non scendeva ad alterchi e neanche a dispute volgari ed inutile; faceva di più e di meglio: s’imponeva per la sua dirittura morale, per la sua franca professione di fede, per la sua nobilità di sentire e di pensare, tantochè tutti finirono per stimarlo, a cominciare dagli avversari più audaci e meno corretti.

Nella moda corrente c’era incluso, fra l’altro, di far degli sgarbi e dei soprusi alle Congregazioni religiose, ogni qual volta ciò fosse possibile; Marcantonio invece tutte le volte che poteva le favoriva; per questo i colleghi d’ufficio lo schernivano e una volta misero in circolazione, contro di lui, una satira in versi in cui era denunziato e sbeffeggiato quale “servitor dei frati”.

Il Conte Marcantonio non perdette la calma per questo; mostrò anzi di non dare alcun peso alla cosa considerandola come una burla bonaria ed innocua; ma rispondendo – è proprio il caso di dire per le rime – con un sonetto in dialetto veneziano nel quale bellamente rinfacciava loro di non far nulla tutto il santo giorno sprecando il tempo nello studiare insolenze, far delle passeggiate e stare attorno a lui…a seccarlo. (Quest’ultima espressione nel sonetto non c’era, ma ci voleva poco a sentircela).

Ed essi incassarono il colpo facendo, come suol dirsi, buon viso a cattivo gioco; anzi addirittura complimentandosi col college per la sua vena poetica.

Dove si vede che la fermezza e franchezza nell’affermare le proprie convinzioni, unita ad una buona dose di buon esempio è la più efficace delle prediche. Infatti se alcuno talvolta tentò di sfiorarlo in ciò che era una delle sue prerogative essenziali – la morigeratezza del costume – ne rimase svergognato e confuso sentendosi rispondere a tono che la spudoratezza non ha alcun diritto di imbrattare del suo luridissimo fango un’anima cristianamente pulita.

Come con gli eguali, così era anche con i superiori; franco, fermo, tutto d’un pezzo; pronto sempre ad obbedire ma disposto mai ad ingannarsi la coscienza, a farsi strumento di ingiustizia.

Un giorno, al tempo dell’invasione francese, uno di quei prepotenti, che per essere in auge si ritengono autorizzati a tramutare in legge anche l’arbitrio, pretese di estorcergli un atto che in coscienza egli riteneva ingiusto.

  • “Non posso!” – disse con calma il segretario. E alle insistenze dell’altro ribadì con tono pacatamente fermo: “Non debbo!”

Quello perdette le staffe e, sguainata la spada, gli vibrò un colpo che fortunatamente offese soltanto il cappello.

Marcantonio impallidì un poco; ma rimase al proprio posto e ripetè ancora a testa alta: “Non debbo!” – mentre il prepotente si allontanava, scornato, a passi concitati.

Era, come vedesi, una lotta quotidiana, ora sorda ed ora aperta,, sempre sostenuta con esemplare fortezza cristiana; ma una lotta che avrebbe finite per stancerlo se ogni giorno in famiglia non avesse trovato di che rinfrancarsi nel tepore degli affetti domestici.

Il venerato genitore non c’era più; ma questo vuoto così unanimemente sentito non faceva che ingentilire i rapporti reciproci e la reciproca tenerezza.

C’era, alla direzione, con rara maestria ed infinita tenerezza, la mamma per la quale (ci piace dirlo subito) i fratelli Cavanis nutrirono, anche da uomini maturi e finchè ella visse, un affetto più unico che raro. C’era la contessima Apollonia – la sorella – che vi rappresentava la gentilezza casta e lieta, pia ed operose…E chi non sa di quanta gioiosa poesia riempia la casa (insieme alla mamma) una sorella buona, e quale confortante carezza essa sia per gli uomini così spesso oberati dagli impegni e dalle preoccupazioni?

La Casa dei Cavanis ci si presenta dunque come un tepido nido ideale, invidiabile; come un raccolto Santuario in cui lo spirito si nutre e si riposa, si eleva e si consola.

Ricchezza vera e propria non ce ne doveva essere; c’era tutt’al più una decorosa agiatezza alla quale il frutto della fatica del Conte Marcantonio non doveva esser di troppo; ma quale ricchezza più preziosa di questa “grazia” e di questa concordia che vi regnavan sovrane?

Fin da bambini i due servi di Dio erano stati abituati a scrivere ai genitori,  per il primo giorno dell’anno, una poesia di augurio che finiva po (come tutte le massive dei bambini ai loro genitori) con la richiesta di una strenna.

Anche ora che avevan varcato la trentina continuavano – ogni capodanno – a scrivere la poesiola alla mamma ed a chiederle la strenna; anche ora non uscivan di casa al mattino nè si coricavan la sera senza baciarle la mano ed averne la maternal benedizione, quasi a rinverdire e perpetuare nella casa benedetta l’effluvio della  puerizia e della sua innocenza.

Con tutto ciò s’ingannerebbe chi pensasse che i fratelli Cavanis fossero dei misantropi, l’uno attaccato all’Ufficio come ostrica allo scoglio, l’altro rifugiato abitualmente in un angolo di sagrestia come un talpa, e tutti e due poi rannicchiati attorno alle sottane della mamma, in salotto, a finestre chiuse, per paura dei rumori e delle correnti d’aria.

La loro casa era aperta quotidianamente agli amici, chierici e Sacerdoti della Parrocchia, laici e religiosi, specie Domenicani, i quali vi si recavano volentieri, portandovi ondate di onesta e lieta gaiezza.

Ma è forse un demerit per i Cavanis l’aver fatto sì che quelle riunioni amichevoli, anzichè esaurirsi nel gioco dello scopone, nelle ciarle frivole e maldicenti e nelle lamentazioni a sfondo politico spaziassero in una atmosfera più alta e più ampia e un po’ alla volta si trasformassero in vere Conferenze famigliari per lo studio della Somma Teologica di San Tommaso?

Tanto Anton’Angelo quanto Marcantonio fino da giovinetti erano stati addestrati dai PP. Domenicani nello studio della Filosofia tomistica; e da grandi, poi, avevano approfondito con passione la loro cultura filosofia e teologica. Ora essi – ognuno nel proprio ambiente – eran costretti a constatare i danni e le rovine prodotte in tante anime da una falsa filosofia contrapposta alla fede e astutamente adoprata per scalzarne le basi; come avrebbero potuto assistere inerti a tanto disastro avendo in mano le armi valide da contrapporvi, cioè i solidi argomenti della scienza vera e perenne, elaborate dall’Angelico Dottore?

Nacque di qui – da questa premura di difendere l’integrità della Fede – la modesta Accademia intitolata a San Tommaso che giovò assai a non pochi Ecclesiastici, ma che fu anche, in mano alla Divina Provvidenza, un nuovo mezzo per preparare ancor meglio i due Servi di Dio all’opera cui eran chiamati a dare il senno e la mano.

07 – Il granello di senapa

Il Signore Iddio che potrebbe dare a tutte le opera sue un inizio trionfale e travolgente, preferisce invece, di solito, il sistema del… granello di senapa che è il più piccolo di tutti i semi e che solo col tempo diventa un grande albero.

Così è anche dell’opera che prende il nome dai fratelli Conti Cavanis, la quale solo un po’ alla volta sarebbe diventata quel rigoglioso albero fronzuto all’ombra del quale di riparano ormai a migliaia i giovani, ben paragonabili agli uccelli dell’aria, bisognosi di protezione e di riposo.

I due cuori generosi, fatti non soltanto per comprendersi ma addirittura per completarsi a vicenda, come intendevano che era urgente consolidare e difendere nelle intelligenza dei “pastori” l’integrità della fede mediante lo studio della Filosofia perenne e della Sacra Teologia, così intendevano come non meno urgente fosse consolidarla e difenderla nello spirito della gioventù, o insidiata o abbandonata, mediante l’insegnamento della Dottrina Cristiana; e non con un insegnamento arido e staccato dalla vita quotidiana, ma anzi in essa profondamente inserito mediante iniziative diremo così sussidiarie le quali contribuissero a renderlo “anima vivificatrice di opera solidamente cristiane” sì da plasmare nel fanciullo l’adulto “veremente religioso di convinzione e di azione”.

Erano, insomma, convinti della necessità di dare inizio ad un’opera vigorosa di Azione Cattolica in un tempo in cui di azione cattolica quasi non si parlava neppure. E tanto più ne eran convinti in quanto l’istruzione e l’educazione giovanile era allora, a Venezia, in completo sfacelo per il fatto che le scuole degli Istituti religiosi oltre a risentire gravemente delle tristi condizioni dell’epoca ed esser soggette a vessazioni e ad oppression, curavano quasi esclusivamente la gioventù del ceto nobiliare e quella che sembrava predisposta alla vocazione religiosa; i Seminari eran frequentati soltanto da alunni che avessero vocazione ecclesiastica, e le scuole pubbliche eran ridotte ad un campione di ignoranza e di frivolezza.

“La feccia del popolo”, come spregevolmente la definiva il Decreto del Governo provvisorio installatosi a Venezia il 15 Giugno del 1797, era dunque quasi completamente in balìa dei Giacobini della rivoluzione.

Ma come affrontare una situazione così difficile senza mezzi adeguati?

La decisione a cui ricorsero i Servi di Dio sembrerebbe, a prima vista, puerile come quella di chi si facesse incontro a un incendio di vaste proporzioni per spegnerlo, portando con sè un secchio d’acqua.

Incominciarono dunque… con l’andare ad insegnare la Dottrina Cristiana ai Fanciulli della loro parrocchia di Sant’Agnese, seguendo l’esempio dell’indimenticabile loro genitore! Il Conte Anton’Angelo portandovi la sua autorità sacerdotale e il Conte Marcantonio il prestigio del suo alto ufficio; portandovi ambedue un entusiasmo non comune ed una fede di quelle che arrivano a muover le montagne.

Si desume ciò da un episodio comune ma significativo:

Nel dicembre 1801 tutti i Maestri di Dottrina della Parrocchia si radunarono in amichevole simposio incaricando il Conte Marcantonio di fare il tradizionale brindisi; e il Cavanis, in dialetto veneziano, disse fra l’altro così:

Che bela compagnia

Che me rende alegria!

Quà i discorsi xe santi

Ghe xe un cuor solo in tanti;

L’agape antiche vedo

E apena a mi mel credo.

Invocate poi le benedizioni divine e ringraziato tutti per il loro zelo, chiudeva con queste espressioni:

 

Oh scuola fortunada

Scuola de Santa Agnese!

Te vedo per le sfese

Nei secoli avegnir,

Ti ti gha da fiorir!…

Addirittura “nei secoli avvenire”!… E chi ha visto, oggi, soltanto in quella Chiesa o nell’Oratorio vicino circa settecento ragazzi ordinati, sorridenti, in preghiera, come fa a non avvertire in queste parole un certo odore di ispirazione divina?

Un bel giorno nella casa patrizia dei Segretari della Repubblica veneta nasce…una scuola. Una scuola con… un alunno.

Più “granellino” di così, si muore!

Quando, come, perché? Non lo sappiamo. Si sa soltanto di un ragazzo, di nome Francesco Agazzi al quale Don Anton’Angelo, anche in seguito alle insistenze del fratello, comincia a fare scuola avviandolo alla carriera ecclesiastica per la quale manifesta una certa inclinazione.

D. Anton’Angelo (ormai lo conosciamo) è timido, umile, e teme di non potere assolvere degnamente il nobile impegno; Marcantonio invece (ormai conosciamo anche lui), vivace, fiducioso ed ottimista com’è, lo incinta: “Su, su, metti da parte ogni incertezza; dove non arriverai da solo arriveremo insieme!

E’ deciso! In questo  giovane i Cavanis cominciano ad attuare (e sperimentare) i primi criteri del loro metodo educativo; affettuosamente paterno da parte di Don Anton’Angelo. Amichevole, famigliare, fraterno da parte del Conte Marco. E l’Agazzi, che essi chiameranno poi scherzosamente D. Francesco Semenza considerandolo come il seme primo dell’opera loro affidata da Dio, diventerà poi Canonico teologo della Cattedrale di Padova.

Ma già bel 1799 il piccolo seme è cresciuto; gli alunni son saliti a quattro e mentre D. Anton’Angelo consacra ad essi i tesori nascosti della sua intelligenza e del suo cuore e l’infiiamma col suo ardore apostolico, Marcantonio sebbene impegnatissimo nelle cure del suo ufficio, non tralascia di contribuire alla loro educazione, porta in mezzo ad essi la nota allegra, li diverte, ne fa una famigliola affezionata e contenta.

Nel 1802 fra i primi alunni di casa Cavanis sorge la Congregazione Mariana.

Le Congregazioni Mariane germogliarono soprattutto nei Collegi della Compagnia Di Gesù fin dai primi tempi della loro istituzione; e legando i giovani in una specie di famiglia religiosa, ed impegnandoli a progredire nella solida pietà sotto la protezione e con l’aiuto speciale della Beata Vergine, apportarono frutti consolantissimi e preziosi. I fratelli Cavanis, animati dal desiderio di fare per i loro giovani qualche cosa di solido dal punto di vista spirituale, si consigliarono con il Padre Luigi Mozzi, già appartenente alla disciolta Compagnia di Gesù e stabilitosi a Venezia, circa il mezzo migliore per realizzare il loro proposito; ed avendo l’uomo di Dio illustrato loro con caloroso fervore i successi ottenuti mediante le Congregazioni suddette, si misero immediatamente all’opera per istituirne una anche fra i loro alunni.

Era indispensabile, prima di tutto, un locale per le pie pratiche prescritte dalla regola. Cercatolo invano nella vicina contrada di S. Gregorio, ottennero per mezzo del P. Mozzi l’uso della Cappella del SS. Crocifisso annessa alla Chiesa di Sant’Agnese e, sebbene fosse in grande disordine, se ne accontentarono.

Mancavano ora…i giovani! Dove trovare dei ragazzi disposti ad una vita virtuosa, mortificata ed infarcita di pratiche di pietà?

L’impresa non fu facile e bisognò, sul momento, accontentarsi di nove aderenti compreso il Conte Marco (nominato Prefetto della Congregazione) il quale non era più un ragazzo, contando allora circa 28 anni.

Con questi pochi, il 2 Maggio 1802 veniva inaugurate la novella Congregazione eretta sotto il titolo dell’Assunzione della B.V. Maria e l’invocazione di S. Luigi Gonzaga.

Era giorno di Domenicani. Compiuta la cerimonia dell’aggregazione e iniziata la pratica dei prescritti Esercizi di pietà, il piccolo drappello muovendo dalla Cappella, processionalmente, per l’attigua porta maggiore si recò in Chiesa già gremita di popolo. I congregati avanzavano lentamente, due a due, con esemplare contegno, a mani giunte, cantando una laude sacra. La folla dei fedeli fece loro ala con deferenza…Si udì dapprima un brusìo di curiosità, poi ad un tratto scoppiò irrefrenabile un applauso accompagnato da alte acclamazioni…

Lo spettacolo insolito aveva scosso e inebriate il cuore del popolo. Buon segno!

Si capisce che non mancò neppure chi volle fare…dello spirito di rapa, come quel tale che si lasciò sfuggire questa espressione: “Vovi de Pasqua!” (uovo di Pasqua); ma il Conte Marco appena lo seppe rispose con arguta prontezza: “Meglio; così a suo tempo avremo i pulcini!”

Infatti in capo a una settimana gli aggregati da nove salirono a quindici e alla fine dell’anno fra aggregati e aspiranti si avvicinavano a ottanta.

Era il piccolo seme che cominciava già a manifestare la sua vitalità, la sua capacità di svilluppo; e i due operai del Signore che l’avevan gettato con tanta trepidazione e con non minore speranza, coltivavano ora il promettente virgulto con insaziabile passione.

Don Anton’Angelo trasfondeva in quei giovani cuori il tesoro delle sue virtù di purezza, di umiltà, di dolcezza e di amor di Dio, accumulato in tanti anni di intense vita spirituale, con arte inarrivabile.

Spesso ai suoi sermoni informati a soave pietà, gli uditori piangevano di commozione.

Quando qualcuno dei confratelli, chiamato per divina vocazione allo stato ecclesiastico compariva in Congregazione vestito dell’abito chiericale, egli nella sua qualità di Direttore lo chiamava dinanzi a sè, lo faceva inginocchiare, gli rivolgeva soave parole di congratulazione e di ammonimento, poi lo mandava ad abbracciare i confratelli ad uno ad uno. Allora la commozione invadeva gli animi, si spargevano dolcissime lacrime e tra questi sfoghi di carità  fraterna sorgevano quasi sempre nuove vocazioni.

Su questo terreno, lavorato con tanta grazia e soavità, tanto Don Anton’Angelo che Marcantonio gettavano a piene mani e con sicura perizia la buona sementa dell’istruzione religiosa.

Fra i primi congregate ve n’erano alcuni che non erano stati ancora ammessi alla prima Comunione ed occorreva istruirli convenientemente.

I Servi di Dio non contenti di mettere a disposizione tempo e cultura offrivano loro anche la casa. Li chiamavano a gruppi separati per un mese di seguito, poi anche ad uno ad uno a render conto di quanto avevano appreso…

Non tralasciavano, insomma, niente di ciò che apparisse loro necessario per nutrirli di soda Dottrina ed accenderli di vivo amore per la Santa Religione di Cristo.

Ma non dimenticavano che i giovani hanno bisogno anche di aria, di sole, di moto, di svago…E perciò si preoccuparono di trovare un po’ di terreno scoperto dove trattenerli in sani divertimenti senza il pericolo dei cattivi compagni e del cattivo esempio.

Lì presso c’era un bell’orto!…Proprio quello che ci voleva per loro! Si dettero dunque a…far la caccia a quell’orto finchè, dopo un’infinità di peripezie, non riuscirono ad averlo a loro disposizione, insieme ad uno stanzone a pian terreno, adattissimo per essere adibito a Cappella ed a luogo di riunione.

Era un altro bel passo in avanti!

I Congregati che allora (1802) erano oltre quaranta, esclusi gli aspiranti, vi si trovavano a loro agio e ne erano entusiasti.

L’orto serviva egregiamente ad attirare i giovani alla Congregazione e nelle ore di ricreazione si riempiva di grida e di risate. I ragazzi si abbandonavano alla gaiezza propria della loro età saltando, correndo, giocando, gridando…E intanto i fratelli Cavanis studiavano la loro indole e ne traevano motivo per provvedere tempestivamente ai bisogni spirituali di ciascuno.

Il Conte Marcantonio era proprio nel suo centro ed esercitava in mezzo ad essi un’azione impareggiabile.

Per stare con frutto fra i giovani bisogna (l’abbiamo già detto) sapersi far giovani; o, più propriamente ancora, addirittura ragazzi.

Marcantonio era ammirabile, in questo; ma al tempo stesso era ammirabile anche nel mescolare alla sua giovanilità una “tenerezza maternal” a cui nessuno sapeva resistere.

“Pargoleggiava con loro, balbettava con loro, non sapendo vivere e godere se non tra loro”, scrisse un suo vecchio alunno; ma con quanta grazia, poi, spronava i pigri, incitava gli scontenti, attraeva e convinceva gli incerti!…

Quando si accorgeva che qualcuno era caduto o stava per lasciarsi vincere dalla tentazione (e il suo intuito era sorprendente), lo traeva a sè, lo stringeva al seno, gli comunicava il fuoco dell’anima sua, lo avvolgeva nell’alone luminoso della sua carità e lo salvava così, alla maniera medesima d’una mamma che salva il suo figliolo sottraendolo al male soltanto col tremore nella voce, le lacrime negli occhi e tanto, tanto amore vero nel cuore.

Sparsasi la voce di una Istituzione così utile, attraente e governate con tanto senso Cristiano, il numero degli aderenti crebbe ancora e per consequenza il cuore dei due Fratelli si dilatò ancora di più, nella carità nel sacrificio, nelle buone iniziative.

Dietro suggerimento del. P. Mozzi il Direttore (Don Anton’Angelo) introdusse nella Congregazione la pratica delle Corone di fiori, ossia di atti virtuosi d’ogni genere, esercitati entro un determinato periodo di tempo con l’intenzione di onorare il Signore, la Vergine ed i Santi, ed offerti poi tutti insieme nel giorno fissato (Corona di mistici fiori), in una breve relazione scritta, senza il nome del presentatore, e letta in pubblico a comune edificazione.

La proposta fu accolta con entusiasmo, prese piede e produsse nuovi preziosi frutti di umiltà, di obbedienza, di carità.

Ben a ragione, dunque, esclamava Marcantonio in una sua Relazione, esultando di santa gioia: “Chi non vede esser questa un’Opera della onnipossente Destra divina?

Il giorno della festa del SS. Nome di Gesù, di quello stesso anno (1802), Don Anton’Angelo esortava i congregati a salutarsi a vicenda con Sia lodato Gesù Cristo.

Anche questo invito fu accolto con unanime soddisfazione; e per la prima volta, forse, in Venezia – per le calli, per i campielli, per le fondamenta – risuonò il salute cristiano che i giovani educati dai Cavanis incontrandosi si scambiavano a voce alta, senza rispetto umano, fra la sorpresa e l’ammirazione di quanti li udivano.

E il numero di questi piccolo “arditi della Fede” continuava a crescere!

I Cavanis che fin da principio si erano impegnati a non imporre loro alcun aggravio di denaro e che per mantener la parola avevan profuso e continuavano a profondere nell’opera iniziata tutte le risorse personali e familiari, contraendo all’occorrenza anche dei debiti, si trovarono nella necessità di supplire alla mancanza di mezzi proporzionati.

Chiedere non era nella loro indole e nelle loro abitudini; ma il dilemma s’imponeva in tutta la sua crudezza: o provvedere ai crescenti bisogni dell’opera, o vederla crollare, proprio per insufficenza di mezzi finanziari.

Ancora una volta fu il Conte Marcantonio che prendendo il coraggio a due mani, per amor di Dio e per il bene della gioventù, si diede attorno a chiedere aiuti.

Sorsero così i Protettori dell’Opera, specialmente fra i nobili e le persone facoltose, e non mancò neppure chi, come N.U. Gerolamo M.a Balbi Valier, si obbligò a corrispondere addirittura un contributo a rate costanti.

Intanto la buona fama della Congregazione Mariana diretta dai fratelli Cavanis si propagava ed altre ne cominciarono a sorgere in città e fuori, nelle diverse parrocchie.

Era – ancora – il buon seme che cresceva e fruttificava! Tantochè i Servi di Dio, giustamente incoraggiati dal successo, che li confermava sempre di più nella convinzione essere, l’Opera intrapresa, gradita al Signore, organizzarono in seno alla Congregazione anche una Compagnia di San Luigi aperta a coloro i quali si sentissero disposti a formare una specie di milizia spirituale, più particolarmente dedicate agli esercizi di pietà ed alla propria santificazione.

Contemporaneamente introdussero anche l’uso di Dialoghi recitati, nuova industria, del tutto originale, posta in opera dagli zelanti fratelli per coltivare nel bene i loro diletti figli spirituali.

Chi li componeva era, al solito, il Conte Marcantonio che conciliando con maestria la dottrina sacra e la vivacità del dialetto veneziano, otteneva degli effetti portentosi.

Venivan recitati nell’orto, in tempo di ricreazione, con briosa disinvoltura e riuscivano egregiamente a far penetrare nelle menti e nei cuori le verità cristiane meglio d’una predica.

Alcuni di essi tendevano ad inculcare nei giovani la Vocazione al Sacerdozio e perciò ne illustravano la grandezza e ne tessevan l’elogio con fervore e con sapienza; e bisogna pur dire anche con efficacia e con successo, dal momento che 1’8 Dicembre un primo congregato prendeva l’abito chiericale, e l’anno seguente un altro ancora, e nel 1804 altri due, cui fecero seguito altri ed altri…

Si delineava in tal modo sempre più nettamente il piano generoso dei Servi di Dio che era – in conformità all’anelito del divino Maestro – di salvare la gioventù, di far dei giovani altrettanti soldati di Cristo, ma anche di trarre da essi gli operai della Vigna del Signore, perché altrimenti senza operai che ne sarebbe delle messi abbondanti che biondeggiano nei campi ed attendono?

08 – Un titolo Sacro

Altro è una Congregazione e altro è una scuola. I fratelli Cavanis avevano cominciato con l’insegnare la Dottrina Cristiana, avevano proseguito con l’istituire una scuola, minuscola e domestica e da questa, poi, avevano tirato fuori la Congregazione Mariana.

Ora era la Congregazione che suggeriva loro – potremmo dire addirittura imponeva – una scuola vera e propria, perché soltanto istruendo i congregati – figli del popolo – si poteva sperare di renderli perseveranti nell’amore alla Congregazione.

Pertanto, non appena i mezzi, forniti dai Protettori ed aggiunti ai loro volenterosi sacrifice, lo permisero, aprirono una Scuola vera e propria, la prima.

Era il 2 Gennaio del 1804: alle ore 9 di mattina il Sacrista della Parrocchia di S. Trovaso benediva la stanza; i presenti recitarono tutti insieme un’Ave Maria alla Madonna, un Gloria a San Luigi, un’altra Ave Maria a pro’ dei Benefattori, dopo di che “furono lette le Regole stabilite per il buon ordine della Scuola e fatto un po’ di colazione si diede principio nel nome del Signore all’istruzione di quei giovani” – così scrive il P. Marcantonio nel suo Diario.

Per la storia aggiungeremo che gli Scolari erano quindici; ma della fede e dell’entusiasmo ce n’era per cento ed anche per di più; infatti anche questa piccolo pianticella dette subito segni di vigorosa vitalità malgrado la ostinato penuria di mezzi finanziari che obbligava il Conte Marcantonio a battere a tutte le porte per ottenere il minimo indispensabile per la vita della nascente istituzione.

E qui diremo subito che non le angustie finanziare i fratelli Cavanis dovettero sempre lottare senza respiro, sì da farci ritenere che la Provvidenza intendesse, col distintivo della povertà, contrassegnare la loro opera. Ed è forse per questo che anche i loro figli spirituali sono di continuo impegnati in questa lotta estenuante, che per altro non turba eccessivamente la loro serenità, perché non scuote la loro fiducia nella Provvidenza medesimo che, come sempre, non delude che le fa credito.

Senonchè ben presto alle preoccupazioni di carattere economico se ne aggiunsero altre più  gravi e più preoccupanti ancora, procurate dal Governo austriaco il quale con il proposito di intralciare ogni iniziativa di magistero privato, cominciò a controllare, e a chieder licenze e titoli, e a voler sapere perché e per come

La risposta che i fratelli Cavanis dettero all’Imperiale Governo meriterebbe di essere scolpita a caratteri d’oro sul piedistallo di un monumento.

Il titolo per cui si presta a coltivare la gioventù – dissero – è sacro, perché deriva da un sentiment di carità”.

Non sappiamo che effetto producessero queste recise e nobili parole sull’animo di chi le lesse sul document da essi presentato; ma il fatto si è che per il momento la Scuola dei Cavanis potè continuare indisturbata per la sua strada.

La nube delle intromettenze governative non era ancora sparita dall’orizzonte che un’altra vi se n’andava addensando: il pericolo di perdere l’orto.

Senza l’orto – vero spazio vitale dell’opera – tanto la Scuola che la Congregazione sarebbero intisichite e a poco a poco si sarebbero spente per consunzione; eppure a causa di un trapasso di proprietà e del conseguente malaugurato intervento del governo il pericolo non solo esisteva, ma era imminente.

I Cavanis non mobilitarono soltanto le loro conoscenze, ma il Cielo addirittura, intimando ai Congregati, in onore della Madonna, una Corona di fiori per implorare il suo misericordioso intervento nell’affare tanto importante. Parve, sulle prime, che le difficoltà anzichè diminuire aumentassero; era invece la Provvidenza che disponeva sapientemente le cose in maniera da dare alla benefica Istituzione forma e consistenza più solida; e quando il piano provvidenziale fu compiuto, l’orto passò ai Cavanis in complete dominio.

Le cose, pur nelle strettezze finanziarie già dette, andavano di bene in meglio.

Don Agazzi (Francesco Semenza), già suddiacono aiutava nella scuola i suoi Maestri con grande zelo e D. Leonardo Romanini, bravo e pio Sacerdote assunto come Maestro, vi insegnava egregiamente aritmetica, italiano e latino; la piccolo schiera degli alunni non solo aumentava di numero ma si distingueva per la bontà, l’osservanza della disciplina e l’amore allo studio.

Nell’ottobre del 1805 dodici congregate mariani compivano un corso di Esercizi spirituali.

L’iniziativa era di D. Anton’Angelo il quale tutto preso com’era dalla santa passione di preservare la gioventù dai contagi malsani e pericolosi non poteva non comprendere l’importanza dei ritiri spirituali per assicurare il frutto delle sue fatiche apostoliche.

Nella relazione di quell primo Corso, custodita negli archive della Congregazione dei Padri Cavanis, sono notati con cura scrupolosa l’orario giornaliero, la distribuzione delle meditazioni e tutte le altre industriose provvidenze che mirano a porre l’anima per alcuni giorni dinanzi a se stesse, distaccata dal mondo esteriore e chiusa (entro la cella del cognoscimento suo” (per dirla con S. Caterina da Siena), al fine di scrutare i grandi problemi della vita, della morte e dell’eternità.

Lo spirito informatore del sacro Ritiro era compendiato in questa frase breve e densa di contenuto: “Parlar molto con Dio e poco con gli uomini”. Di qui l’obbligo del silenzio quasi assoluto perché più si parlare con gli uomini e meno tempo rimane per parlare Dio; e in mezzo al frastuono delle voci umane Iddio non parla; o se anche parlasse, non si sente.

Chi scrive è salito un giorno da Possagno sul Col Draga alla “Casa del Sacro Cuore” per esercizi spirituali ad adulti,, governate dai Padri delle Scuola di Carità, ed ha ancora nella mente e nell’anima una di quelle visioni che godute una volta non si scordano più.

Ripida è la strada che vi conduce (quando mai sono state commode le strade che portano in alto?); ma quando sei arrivato sul piazzaletto antistante alla “Casa” il tedio e la stanchezza svaniscono; ti si allargani i polmoni, ti si dilatano le pupille dallo stupor e il cuore dalla beatitudine.

Dall’alto di una colonna di pietra rustica la Madonnina del Grappa con Bambino Gesù fra le braccia guarda il suo monte, il monte della Patria (sul quale Ella condivise maternamente la sorte di tanti figli d’Italia al tempo della prima guerra mondiale), che giganteggia lì presso verso il cielo azzurro, mentre e sinistra si snoda pigro e tortuoso il Piave fatidico attraversando la bella pianura costellata di ville, di colli, di campanili slanciati e di fittissimi boschi.

Staccando, a malincuore, lo sguardo dal panorama incantevole t’incontri con il Redentore che ti apre le braccia, indulgente, da un festoso bassorilievo posto sopra la porta d’ingresso della “Casa” che ha l’aspetto di un maniero antico ma accogliente e suggestive anzichè tetro e imbronciato, umile sì da invitarti a confidenza invece che altero sì da incuterti suggezione.

Lì presso, ma ancora più in alto, alla sommità di una gradinata che pare risoluta a salire verso il Paradiso, c’è la Chiesa; un gioiello di stile basilicale,, adatto al riposo dello spirito ed alle meditazioni severe. E più in là, in mezzo ai cedri e ai castagni secolari, la Grotta di Lourdes in una penombra piena di misticismo…E la pineta poetica e balsamica…E silenzio, silenzio veramente divino, interrotto soltanto dalla musica arcana di fronde che stormiscono e di uccelletti che cinguettano!…

Un luogo delizioso, creato apposta per ospitare le anime desiderose di ritemprarsi e di ritrovare la via che conduce verso la Patria Celeste. “L’opera dei ritiri, che dal tempo della loro istituzione per iniziativa di S. Ignazio di Loiola tutti gli Ordini religiosi hanno sempre tenuto in grande considerazione e che al tempo nostro son diventati anche per i laici – staremmo per dire soprattutto pei laici – una tappa indispensabile onde conservare, o ricondurre, nella propria vita ai valori spirituali il posto che meritano, al nostro Istituto (diceva il buon Padre incaricato di farci da guida) sono imposti dalle Costituzioni le quali assegnano ai seguaci dei Cavanis come secondo scopo gli Esercizi chiusi da darsi ai giovani e agli uomini anziani”.

Ed aggiungeva che la grazia opera per mezzo di essi delle autentiche meraviglie, e che in capo all’anno, in turni diversi, salgono al Col Draga centinaia e centinaia di persone.

Noi allora ci rendemmo conto del rapporto fra Casa di esercizi e Opera Cavanis,, solo fino ad un certo punto perché dei Fondatori conoscevamo ben poco di più dei ritratti veduta nella sala del Capitolo dell’Istituto di Venezia; ma ora che ne abbiamo fatto una più intima conoscenza, nella iniziativa presa da D. Anton’Angelo nel 1805 e in quei primi dodici giovani chiamati in disparate e invitati a “parlar molto con Dio e poco con gli uomini”, riconosciamo il virgulto dal quale è derivato un po’ alla volta il vigoroso albero di Possagno (e non di Possagno soltanto!); ci rendiamo conto perfettamente degli stretti rapporti che passano fra istruzione bene intesa e cura dell’anima, e siamo indotti ad ammirare una volta di più la sapienza di questi militi d’avanguardia dell’educazione giovanile cristiana.

09 – L’ora del Conte Marco

Il 3 febbraio del 1806 era un giovedì grasso e a Venezia, città le cui tradizioni carnevalesche sono fra le più brillanti e famose d’Italia, sebbene i bei tempi della Serenissima fossero ormai tramontali, il Carnevale impazziva per le calli e su e giù per il Canal Grande.

Giorno, dunque, poco indicato per portare in giro una veste, come quella talare, così in contrasto con la baldoria che imperversava. Il Conte Marcantonio invece, che all’ora consueta non s’era presentato in ufficio come tutti gli altri giorni, vi si recò più tardi, vestito da prete, a portare al suo Capo la propria rinunzia all’impiego e a congedarsi dai colleghi.

Che il giovane patrizio avesse una spiccata tendenza allo stato religioso non era una novità per alcuno; e che la sua vita santa e il suo apostolato a pro della gioventù fossero indici inconfondibili di una vocazione ecclesiastica, tutti lo sapevano; ma quando si videro davanti “il collega” rivestito dell’abito sacro – di quell’abito che incute riverenza ai buoni, suscita il livore dei malvagi, ma s’impone a tutti – e lo sentirono proferire con voce vibrante parole di fervorosa fede, di ardente speranza e di infuocata carità, non poterono fare a meno di commuoversi profondamente.

E al momento del commiato, tutti – a cominciare dal Capo-Ufficio – avevano gli occhi umidi di pianto.

A questa scena noi assistiamo, in spirito, con la stessa commozione di chi vi assistette di persona.

Anche noi ci siamo resi conto che lo sbocco logico della vita e dell’attività del Conte Marcantonio, così legato al fratello e di sentimenti così identici ai suoi, non poteva essere altro che il Sacerdozio; ma dinnanzi a questo giovane di trentadue anni che lascia una carriera distinta e ben rimunerata, dice addio a tutte le soddisfazioni che il mondo e la sua posizione sociale gli offrono, priva se stesso e la famiglia del beneficio non superfluo del proprio stipendio e si dà  intieramente alla causa di Dio e delle anime, non possiamo rimanere indifferenti.

…Marcantonio lascia dunque l’impiego, dice addio al mondo e sposa la causa della gioventù per la quale il fratello ha già fatto il passo decisive!

Mio fratello ed io – dirà poi scherzosamente – siamo l’aquila imperiale, che ha pure due teste, ma il cuore è uno solo”.

Un cuore solo che palpita sotto la medesima veste nera, simbolo di rinunzia al  mondo e di dedizione al Signore.

Il 15 Febbraio 1806 il Conte Marco riceve la prima Tonsura e il 23 gli Ordini minori; il primo Marzo il Suddiaconato, il 20 Settembre il Diaconato e il 20 Dicembre dello stesso anno è ordinato Sacerdote. Un vero record di velocità!

Vero è che a quei tempi l’avanzamento nei vari gradi della carriera ecclesiastica era regolato con criteri diversi di oggi; ma a nessuno verrebbe in mente di dire che nel caso di Marcantonio Cavanis (come in quello del fratello Anton’Angelo) la sollecitudine sia stata eccessiva. La preparazione culturale e teologica c’era, la vocazione era indiscutibile, le attitudini…Chi più e meglio di lui aveva dato prova di possederne in abbondanza? Non v’era dunque che da prenderne atto.

E chi ne prese atto non ebbe certo a pentirsene perché con Marcantonio Cavanis Venezia non guadagnò soltanto un predicatore meritamente apprezzato  per la sua calda e dotta eloquenza, ma un Sacerdote secondo il cuore di Dio ed un apostolo della gioventù.

D’ ora in avanti l’unico cuore dei fratelli Cavanis batterà come un cuore solo ma ogni battuto avrà raddoppiate le sue vibrazioni!

Di fronte alla Casetta annessa all’orto dove gli ascritti alla Congregazione mariana fanno le loro ricreazione, sorge il palazzo dei nobili Da Mosto, disabitato e malandato.

Restaurato a dovere è proprio quel che ci vorrebbe per istallarvi stabilmente le Scuole di Carità. I due fratelli si consultano eppoi Marcantonio si getta audacemente nella difficile ma bella avventura.

  • Disposti a disfarsene?
  • Sì!
  • Per quanto?
  • Per tremila ducati.
  • Vada per tremila ducati! (In tasca non aveva neanche un soldo).

Ma ecco che nel bel mezzo delle trattative il Da Mosto, vecchio nonagenario, è colpito da paralisi che lo priva della favella e lo pone in grave pericolo di vita. L’affare rischia di andare a monte!

E’ il 16 di Luglio, festa della Madonna del Carmine; i Cavanis sono devote della Madonna in una maniera…fantastica; non fanno nulla senza di Lei, non promuovono alcuna iniziativa se non appoggiandola a qualche sua festa, non muovono foglia se non dopo averla prima interpellata e indotta a intervenire con preghiera, corone di fiori, tenerezze squisitanemnte filiali; perciò anche questa volta, fedeli alla consuetudine, si recano alla Chiesa dei PP. Carmelitani dove D. Anton’Angelo celebra la S. Messa all’Altare della Madonna per ottenere il suo aiuto.

Che è che non è, il vecchio Da Mosto si riprende; riacquista i sensi e la favella, tratta l’affare del palazzo, concede agli acquirenti la riduzione di 500 ducati sul prezzo già convenuto, dopo di che…se ne va tranquillamente al Creatore.

I Cavanis entrano in possesso della nuova Casa che in data 20 Agosto 1808 prende il nome di Palazzo delle Scuole di Carità. Il 27 dello stesso mese S. Giuseppe Calasanzio ne è eletto Protettore e a sera gli acquirenti, che fino a pochi giorni prima erano in possesso soltanto della…cospicua somma di venti soldi, si trovano in mano novecento ducati, saliti poi quasi subito a mille, che è quanto dire la somma loro occorrente per pagare la prima rata pattuita col venditore.

Ai 5 di Novembre dello stesso anno, giorno di sabato, l’intero debito è saldato: e il Diario che segna i palpiti dell’unico cuore, annota con religiosa compiacenza che un sì rivelante affare cominciato in una solenne festività di Maria è compiuta in un giorno consacrato a Maria. Segno che l’Avvocata è scelta bene!

Ma il diavolo ancora una volta ci mette la coda.

E’ tempo di confusion e di turbamento, secondo la giusta espressione del Conte Marco. Napoleone, il dominatore d’Europa, ha paura delle Confraternite, delle Congregazioni, delle Società religiose e le proibisce; il Parroco di S. Agnese temendo di dover passare dei guai, consiglia ai Cavanis di abolire le Cariche della Congregazione pur conservandone le pratiche; Don Anton’Angelo accondiscende al consiglio del Parroco e la Congregazione si reduce ad un Oratorio; l’oratorio festive delle scuole di Carità.

Il diavolo tenderebbe a restringere il raggio di azione dei servi di Dio; essi invece tendon ad allargarlo malgrado gli ostacoli e le difficoltà ognora crescenti.

Venuti in possesso di un piccolo stabile annesso al Palazzo delle Scuole, pensano di trasformarlo in Casa di lavoro dove un certo numero dei loro ragazzi trovino asilo e guadagno e vi impiantano una tipografia che viene inaugurate con la stampa di una preghiera in onore delle Vergine e di alcune massime di perfezione cristiana. E’ una iniziativa geniale e benefica che ha, tra l’altro, il merito di essere il primo saggio di altre iniziative del genere che S. Giovanni Bosco e i servi di Dio Murialdo e Pavoni attueranno poi su larga scala e con successo; ma dopo quattro anni di attività il liberticida governo napoleonico la strozza senza pietà.

E’ per i Cavanis un duro colpo dal quale però non si lasciano abbattere.

Il palazzo Da Mosto del quale sono da poco entrati provvidenzialmente in possesso ha una sala centrale vasta e sontuosa; la Cappella del Crocifisso dove i loro giovani si radunano ancora è angusta e vi si trovano a disagio; non potrebbe l’ampia sala diventare oratorio?

Nasce l’idea che ben presto si trasforma in “fatto” anche la generosità di un buon impresario, certo Pietro Crovato, il quale si offre per compiere gratis i lavori di adattamento, e nel nuovo Oratorio addobbato a festa, il 31 Agosto 1809 si celebra la festa di San Giuseppe Calasanzio protettore delle Scuole.

La cosa è, di per sè, un avvenimento di proporzioni ordinarie; ma ecco che Napoleone spinge fino alle estreme conseguenze la sua opera di devastazione delle cose sacre anche in Venezia. Gli Ordini religiosi sono soppressi, i beni ecclesiastici incamerati e venduti, i conventi ridotti a caserme, a carceri, a magazzini, le Parrocchie soppresse e ridotte.

Anche S. Agnese, dove i servi di Dio erano stati battezzati e dove avevano esercitato le primizie del loro zelo, è soppressa. L’Oratorio, pertanto, si manifesta come un tratto premuroso della Divina Bontà.

Senochè nel 1811 Napoleone, ormai perdutamente inoltrato sulla strada che lo condurrà alla rovina, proibisce negli Oratori privati qualsiasi funzione eccetto la celebrazione della S. Messa.

E’ un altro colpo durissimo. Don Anton’Angelo, così ritirato e timido, lo “accusa” e ne è talmente toccata che si decide a presentarsi al Commissario di Polizia per ottenere una benevola concessione. Inutilmente! Le leggi sono leggi e… vanno osservate. Però questa legge nessuno si preoccupa di farla osservare e l’Oratorio dei PP. Cavanis  continua a funzionare; ed a funzionare così egregiamente che nel Sttembre del 1812 un allievo della Congregazione, certo G. B. Zalivani, vi celebra la prima Messa e vi tiene il suo primo sermon sacerdotale.

Le scuole di Carità fondate e dirette dai benemeriti fratelli Conti Cavanis erano dichiaratamente private. Il titolo unico che esse avevano da far valere era, come abbiamo già visto, la carità.

Titolo sacro; ma appunto perché sacro, poco indicato per ottenere il riconoscimento di un Governo così poco tenero per le cose sacre. Però  era un’opera che non si poteva ormai più ignorare, e il suo carattere benefico era tale da costituire anche per il Governo un impegno e un dovere. Conveniva dunque mettere l’Autorità con le spalle al muro.

Così consigliò i Cavanis qualche autorevole amico ed essi, seguendo il saggio consiglio, chiesero alla Direzione generale della pubblica istruzione il riconoscimento ufficiale.

Invece dell’approvazione e del riconoscimento, nel febbraio del 1812 arrivò un decreto col quale si imponeva agli insegnanti delle scuole private un esame di idoneità.

E qui comincia la lotta ingaggiata dai fratelli Cavanis per la libertà di insegnamento, lotta che li pone – a loro grande onore – tra i pionieri e difensori del diritto sacrosanto, da parte della famiglia, di educare i propri figli come crede meglio.

Diritto sacrosanto che gli stati moderni tendono arbitrariamente a limitare, non solo, ma addirittura a conculcare.

Però il Decreto esigeva l’esame dai Maestri stipendiate; essi invece insegnavano gratuitamente. La loro era una Scuola di Carità.

Questo i Cavanis fecero osservare al Commissario, umili nella loro veste e nel loro atteggiamento sacerdotale, ma forti ed intrepidi nella loro coscienza e nel loro buon diritto di disinteressati benefattori dei figli del popolo.

E il Commissario, un funzionario gretto e scialbo, non comprese o… non volle comprendere!

Ricorsero allora al Prefetto del Dipartimento; ma…chi ha detto che i Prefetti sian sempre comprensivi più dei Commissari?

…Anche il Prefetto rispose negativamente. Non rimaneva, dunque, che confidare nella Provvidenza divina e nella maternal intercessione della Madonna Santissima.

Non dice forse la S. Scrittura che quando la notte è più alta l’alba è vicina?

Vengono infatti a sapere che il Prefetto si è assentato e che ne fa le veci il Cav. Ruzzini, Veneto, nobile di nascita e, più ancora, di idee e di sentimenti.

Presentano a lui un nuovo ricorso: il Cav. Ruzzini lo inoltra agli Uffici competenti e in data 6 Aprile 1812 – festa della SS. Annunziata – la Direzione generale della Pubblica Istruzione comunica agli interessati che avendo essi lodevolmente adempiuto alle condizioni prescritte, erano approvati Direttori del loro Stabilimento e Maestri delle facoltà ivi insegnate, s’intende purchè si uniformassero alle regole e discipline stabilite o che fossero per stabilirsi in avvenire…

Era un successo, tanto più lieto quanto più difficile ad ottenersi; e se ne può dedurre che se un Governo come quello – al quale preti e frati facevan l’effetto del fumo negli occhi – s’era deciso a tanta concessione, è segno che dinnanzi alla rettitudine, all’intelligenza e al disinteresse dei due benemeriti sacerdoti aveva dovuto buttar da parte le prevenzioni e riconoscere lealmente la loro superiorità e le loro benemerenze.

10 – Carità che sprona

Un simile successo non poteva che contribuire allo sviluppo dell’opera, e lo sviluppo di essa portava con sè nuovo personale, nuove speranze e, per conseguenza, ancor più gravi preoccupazioni, alle quali del resto ( e l’abbiamo già visto, e lo vedremo ancor meglio tra poco), i Cavanis facevano fronte con un coraggio e una tempestività addirittura sorprendenti; ma per avere un concetto esatto del loro zelo per la salvezza delle anime giovanili e della edificante tendenza del loro cuore a dilatarsi nell’amore secondo l’invito del Redentore divino, bisogno parlare, sia pur brevemente, anche dell’Istituto Femminile da essi fondato.

Se molti e gravi sono i pericoli a cui è sottoposta la gioventù femminile. Quante fanciulle, abbandonate a se stesse, si perdono, si dannano, trascinando altri con sè nel peccato e nella perdizione!

I due virtuosi fratelli camminavano per le calli veneziane frettolosamente e ad occhi bassi; ma certe cose penose le vede il cuore e ne soffre.

E il loro cuore sacerdotale vedeva lo spettacolo doloroso di tante fanciulle senza guida. Esposte continuamente al pericolo di perdere il loro candore…Lo vedeva e ne era grandemente afflitto!

Nacque di qui il loro proposito di “completare” l’opera educative a favore della gioventù; sicchè quando una pia signora – Maria Dorotea Ploner Inson – accennò loro d’un suo Progetto di aprire una Casa per povere fanciulle abbandonate, essi la considerarono senz’altro mandata da Dio e si misero all’opera…Al solito: senza tetto e senza mezzi, ma con una illimitata fiducia in Dio, che è poi il più sicuro dei tetti e il più valido dei mezzi.

L’Istituto si aprì il 7 Settembre 1808 (vigilia della Natività di Maria SS.) in una misera casetta nelle vicinanze di San Vio, con una Maestra, un’alunna e…senza un soldo. Ma poi venne loro in aiuro Elisabetta Cornaro Grimani, ad essi completamente sconosciuta; vennero altre fanciulle, ed altre ancora, tantochè bisognò andare in cerca di una Casa più grande.

Marcantonio, l’infaticabile viandante, si mise in moto e posati gli occhi sul Monastero (soppresso) e l’annessa Chiesa dello Spirito, ne fece richiesta spiegando bene lo scopo dell’Istituto, che voleva esser quello di educare cristianamente le fanciulle povere istruendole, anche, ed addestrandole nei lavori donneschi, e dichiarando – a scanso di ogni malinteso – che lui e suo fratello, vivamente eccitati ad adoprarsi per il pubblico bene dall’educazione ricevuta in famiglia e più ancora dal sacro lor Ministero, facevano ciò con tutto l’animo e altresì coll’impiego delle proprie sostanze, onde promuovere la gloria di Dio…

L’autorità interpellata “passò la pratica” al Ministero dell’Interno e questo concesse l’autorizazione richiesta a patto che l’Istituto dovesse essere sorvegliato dalla Prefettura e i Cavanis si accontentassero soltanto di essere gli eminenti direttori.

Era come dire: “Voi fate, spendete, sacrificatevi, ed io vi concederò l’onore di riconoscermi come vostro padrone”. Ma il lettore deve ormai aver capito che se i Cavanis erano “poveri di spirito” nel senso evangelico, non lo erano affatto nel senso (errato) che a questa espressione dà il volgo; e perciò non accettarono.

Si rivolsero pertanto direttamente alla Direzione del Demanio di Milano che accettò la loro istanza senz’altro gravamen che quello d’una modesta pigione annua e così il 12 Maggio 1810 l’Istituto femminile prendeva possesso della nuova sede.

Nel Giugno dello stesso anno veniva aperta anche la scuola esterna diretta da Angioletta Pedranzon allieva della Marchesa Maddalena di Canossa (oggi Beata), la quale si recò apposta a Venezia “per mettere in buon Sistema la nostra povera casa” e “si rese amabile a tutti e riuscì di edificazione a tutti”, come è detto nello speciale Diario scritto dal Conte Marcantonio.

Più tardi, correndo voce che il Monastero dello Spirito Santo sarebbe stato ceduto all’Ospedale degli Incurabili, Don Marcantonio chiese per l’Istituto l’antico monastero delle Eremite Agostiniane situato nella vicina Parrocchia di San Trovaso; e, ottenutolo, ne prese possesso nel Settembre 1811 trasferendovi persone, cose e…povertà.

Povertà innanzi tutto, giacchè le spese erano considerevoli e continue, e i proventi saltuari, incerti e scarsi; ma non per questo i due fratelli si perdettero d’animo; e moltiplicando ognuno la propria attività, i propri sforzi, le proprie risorse, e facendone due parti eguali – come una mamma di due figlioli farebbe del pane e dell’amore – riuniscirono a far fiorire, accanto all’Istituto maschile, anche quest’altro asilo di purezza e di virtù, pure in mezzo alle angustie più gravi.

Ma – come abbiamo detto di sopra – le scuole maschili esigevano cure speciali e il loro stesso aviluppo costituiva per i dirigenti, anche davanti alle Autorità ed al pubblico, un impegno al quale bisognava cercar di fare onore ad ogni costo per non perdere il prestigio ed il terreno acquistati.

E Don Anton’Angelo, ammalatosi nel 1810 proprio per eccesso di lavoro, sebbene rimesso in salute, aveva sempre bisogno di cure e di riposo; e Don Marcantonio oltre che alla scuola doveva attendere a procurare elemosine e sussidi!

Pertanto era indispensabile al buon andamento dell’Istituto altro personale, e si provide assumendo prima un Maestro particolarmente adatto a fare il Prefetto, cioè a sorvegliare sulla disciplina degli alunni.

…Assicurarsi che arrivassero accompagnati da persone degne di fiducia e accompagnarli a casa egli stesso nel caso che nessuno venisse a ritirarli, vigilarli nell’Oratorio e nell’orto, istruirli nella recita dei dialoghi ricreativi, assisterli nell’adempimento delle pratiche religiose…

Ne assunsero poi altri due per adibirli alle varie materie d’insegnamento…

E qui bisogna sostare ancora un momento per ammirare la “saggezza da santi” di questi due instancabili operai della vigna i quali ben sapendo che l’insegnante – l’educatore – è la sorgente che versa mentre l’alunno è il vas oche riceve, e che nessuno può dare quell che non ha, si preoccupano che la sorgente non solo non si inaridisca ma versi sempre acqua abbondante e salubre e perciò provvedono ad alimentare anche negli insegnanti la cultura, la pietà, lo spirito di sacrificio…

Ed ecco il corpo insegnante radunarsi ogni sera per commentare un Capitolo della Santa Scrittura, praticare il ritiro mensile e adempiere insieme le quotidiane pratiche religiose…Ecco sorgere nell’Istituto, a prezzo di immensi sacrifice, una Biblioteca adatta a soddisfare le esigenze degli insegnanti ed anche a completare la cultura degli alunni…

Intorno al 1814 le Scuole di Carità hanno già un ordinamento definitive in relazione alle usanze dei tempi.

I fanciulli per esservi accettati debbono presentare un attestato di povertà rilasciato dal Parroco e un certificate medico che li dichiari immuni da malattie contagiose. Debbono essere accompagnati a scuola e ritirati, ogni giorno, da persona sicura. Appena giunti all’Istituto passano in consegna al Prefetto. Prima di cominciare le lezioni assistono alla S. Messa e in estate, dopo la scuola pomeridiana, si raccolgono nell’Oratorio per una breve istruzione religiosa. Trattandosi di gioventù abbandonata e bisognosa di custodia, le vacanze sono ridotte al minimo. Al giovedì e alla Domenica non si fa lezione, ma è aperto l’Oratorio!…

Per i giovani bisognosi di particolari aiuti vi sono più assidue ed amorose sollecitudini. A tutti è sempre aperta la casa dei Cavanis…

Le classi sono ormai sette, equivalenti al corso completo delle elementari, nonchè di quelle che ora si chiamano medie.

Piano educativo organico e complete, perfezionato ancora da ciò che D. Marcantonio scrive come ad illustrazione e commento:

Quivi si pensa a provvedere nel miglior modo alla buona riuscita dei cari allievi e a tal oggetto non si risparmia diligenza o fatica per istruirli nei sacri doveri di Religione, per allontanarli dai cattivi compagni, per invigilare sulla loro condotta privata, per animarli con premi e con ricreazioni innocenti, per prestare ancora possibilmente alle loro indigenze gli opportuni soccorsi”.

Ma questo piano educativo ispirato ad una carità del tutto scevra d’ogni umano tornaconto suggerisce ai Cavanis una industriosa sollecitudine per agevolare agli alunni le fatiche dello studio, mentre il presupposto morale e religioso che è alla base della loro opera li pone di fronte al delicato problema dei libri di testo. Ed ecco i venerandi fratelli, dopo una giornata laboriosissima trascorsa a fare scuola e, per quel che riguarda D. Marcantonio, anche a camminare per la città e scendere e salire le altrui scale in cerca di aiuti e di elemosine, mettersi a tavolino a comporre, insieme, nuovi metodi per agevolare ai fanciulli lo studio del latino, squarci di eloquenza di celebri autori ad uso della gioventù studioso, Parabole evangeliche “maternamente” adattate ai fanciulli, perfino un piccolo vocabolario latino-italiano; a ritoccare prudentemente Testi classici in modo da renderli innocui all’educazione morale dei giovani senza deturparne le classiche bellezze, ad istruire i giovani nella cognizione dei libri, pubblicando in forma di Dizionario ben 15 volumetti di circa 200 pagine ciascuno per offrire ad essi i dati biografici e un giudizio ponderato su autori di ogni secolo e su opera le più disparate.

Così essi attuano la scuola ideale; la scuola, cioè che non si limita a trasfondere meccanicamente nel cervello degli alunni una congerie di nozioni e di regole, ma una fucina in cui si attende a forgiare tutta la personalità spirituale del giovane: intelligenza, cuore ed anima.

E non s’indugiano – come spesso avviene – ad aspettare la manna dal cielo protestando contro le autorità che non fanno e contro la nequizia dei tempi, ma se la costruiscono da sè, con le proprie mani, col proprio ingegno, con la propria pazienza, dando un esempio meraviglioso agli educatori di tutti i tempi e di tutti i gradi.

11 – Per l’avvenire

Chi è che pone mano ad un’opera senza la speranza che essa prosperi e si estenda?

Anche i fratelli Cavanis avevano iniziato le Scuole di Carità nutrendo questo umanissimo e legittimo sentimento; ma forse nella loro innata umiltà non avevano ardito sperare che la loro opera fosse coronate da tanto successo.

Ora però che gli ex alunni erano addirittura delle centinaia e non pochi di essi occupavano in Venezia posizioni onorate, ed altri – per merito delle loro particolarissime cure – avevano abbracciato lo stato ecclesiastico ed erano già sacerdoti integerrimi e zelanti, essi il successo insperato lo toccavano con mano. Ed avevano tutto il diritto di compiacersene! Ma considerandolo con quel senso cristiano che li contraddistingueva, e sentendosene vorremmo quasi dire “responsabili” agli occhi di Dio che l’aveva loro concesso, se ne preoccupavano.

Se l’Opera prosperava e faceva del bene, che diritto avevano essi di limitarla alle loro persone, di legar le sue sorti a quelle della loro esistenza e far sì che cadesse il giorno in cui fossero caduti loro, come tutti i mortali, sia pur sulla breccia?

Si erano procurati dei nuovi collaboratori  fra i Sacerdoti usciti dall’Istituto e fra i chierici che ancora lo frequentavano, ed altri ne avevan domandato al Seminario diocesano; ma tutto ciò non avrebbe mai risolto il problema, così come essi lo sentivano e se lo ponevano, nella loro coscienza di educatori al servizio completo di Dio e delle anime.

Pertanto, dopo avere a lungo riflettuto, meditato e pregato, ed essersi consigliati tra loro, convennero che fosse necessario dar vita ad una Congregazione religiosa di Maestri, vale a dire di persone decise a consacrarsi interamente, per amore di Dio, all’educazione cristiana della gioventù; e poichè da che mondo è mondo nessun progetto è mai passato allo stato di realtà con un colpo di bacchetta magica, si dettero a maturarlo e a concretarlo a poco a poco con saggezza e prudenza.

Intanto (correva l’anno 1814) Napoleone, in armi contro un mondo di nemici, ed a corto di quattrini, si dava a cercarne un po’ dappertutto e con ogni mezzo.

Ai veneziani, infatti, veniva intimate un’imposta straordinaria di un milione di lire ed offerta ai sottoscrittori del prestito, in compenso, una parte dei beni demaniali confiscate agli enti ecclesiastici.

E’ comodo pagare i propri debiti coi quattrini altrui! Ma non era la prima volta che si verificava un tale sopruso (e neanche l’ultima, purtroppo!), per cui i nostri protagonisti non si sarebbero nè meravigliati nè allarmati, se fra questi beni non fosse stato compreso anche il famoso orto,, dove i loro ragazzi avevan fatto le prime rumurose ricreazioni, ed una casetta molto modesta ma per loro indispensabile addirittura.

Questo non solo li toccava sul vivo, ma vi affondava addirittura il coltello!

Che cosa fare? Come rimediare? A chi ricorrere?

Il rimedio era uno solo: pagare! – Rimedio rapido e radicale per chi ha quattrini; ma per loro che non ne avevano?

Ecco allora i nobili Cavanis, e specialmente Don Marcantonio che ha gambe buone e “faccia tosta” assai più del fratello, mettersi in giro, e bussare alle “dure illustri porte”, e inchinarsi, e chiedere, e supplicare, finchè non siano raggiunte le ventimila lire necessarie per l’acquisto!

Il giorno 24 Aprile veniva finalmente steso e firmato il contratto; il giorno dopo le truppe francesi abbandonavano Venezia accompagnate dale urla e dai fischi del popolo veneziano e vi entravano gli austriaci ai quali la città era stata ceduta da Napoleone, travvolto dalla sua stessa sconfinata superbia.

Il ritardo di poche ore avrebbe dunque reso impossibile l’affare e rimandatolo chissà a quando; perciò i Cavanis scorgendo nella coincidenza un nuovo tratto di predilezione divina se ne rallegrarono santamente e l’attribuirono alla intercession dell’Arcangelo Raffaele di cui in quel giorno si celebrava la festa.

Il governo austriaco era, al pari di quello francese, un governo straniero; ma avendo il vantaggio di succedere ad un governo resosi per troppi motivi esoso ed intollerabile, non infierendo – come quello – sui cittadini, e governando in nome di un Imperatore ben diverso da Napoleone superbo e rapace, riuscì (per il momento) a cattivarsi la cordialità dei veneziani.

Anche i Cavanis, sempre cristianamente ossequenti all’autorità costituita e, d’altra parte, occupati unicamente a far del bene ai loro cari figlioli, accettarono la nuova situazione politica con molta serenità, nutrendo anzi qualche speranza circa il consolidamento del loro piano costruttivo.

Del resto non è umano che chi si vede liberato da un giogo insopportabile confide – o si illuda – che il nuovo abbia ad essere un po’ meno iniquo, anche se con l’andar del tempo sia costretto ad esclamar sospirando: “si stave meglio quando si stave peggio?”.

Comunque, notato – tra parentesi – che gli ingiusti gioghi imposti dagli uomini agli uomini son tutti pesante e intollerabili, continuaimo la nostra storia informando il lettore che i Cavanis si affrettarono a preparare un abbozzo di Regolamento della erigenda Congregazione da trasmettersi al Pontefice Pio VII per ottenere l’approvazione.

Infatti il 28 Maggio 1814 l’abate Carlo Zen, per incarico dei servi di Dio lo presentava al sommo Pontefice insieme ad un memorial che narrava la storia dell’Istituto ed illustrava il piano della nuova Congregazione, la quale si sarebbe costituita non ex novo ma solo come una diramazione dell’Ordine fondato da S. Giuseppe Calasanzio (e ciò allo scopo di renderne più facile l’autorizzazione).

Se il S. Padre avesse approvato il progetto (continuava il Memoriale) ed i postulanti avessero potuto avere 24 sacerdoti, si proponevano di assistere gratuitamente la gioventù dei sei Sestrieri di Venezia con Oratori, Ricreatori e Scuole di Carità dipendenti dalla Sede principale dell’Opera.

Una tale proposta non poteva che essere accolta benevolmente, in visa soprattutto della sua opportunità: perché..sempre, ma in quel turbinoso period di inquietudini e di rivolgimenti complicati e pericolosi, un’opera che si dedicasse esclusivamente all’assistenza della gioventù di un’intera città, e così importante come Venezia, era veramente…una manna; ma con che animo ci si poteva accingere ad  erigere una nuova Istituzione mentre fumavano ancora le rovine di tutte le Comunità religiose recentemente soppresse e perfino le più antiche e benemerite rimanevano ancora atterrate?

L’audacia dei Cavanis era, certamente, degna della loro santità e del loro zelo; ma il Papa non poteva nascondersi così gravi difficoltà; e pertanto in data 24 Novembre pure incoraggiandoli e benedicendoli di tutto cuore, li esortava ad attendere, rinviando ogni decisione a tempi migliori.

  • “Non ci comprendono; invece di aiutarci ci mettono i bastoni fra le route, e allora facciano loro!”.
  • Così, forse, avrebbero detto uomini di fibra diversa e di diverso spirito; i Cavanis no; non soltanto non dissero così, ma si consolarono anzi grandemente della risposta e della benedizione del Padre comune e ne trassero incitamento per perseverare e progredire nel Bene.

C’era, in Venezia, tanti conventi abbandonati dagli Ordini religiosi disciolti; ne chiesero al Demanio uno per la loro opera; la petizione fu respinta, ma nemmeno questo li scoraggiò; e di questa loro tenacia nell’apostolato la Provvidenza li volle visibilmente premiare.

Nuotando, come sempre, nelle strettezze e nei debiti avevano spedito anche una supplica all’Imperatore Francesco I per ottenere un sussidio alle Scuole di Carità. Confidando che, almeno quella, qualche cosa avrebbe fruttato; ma non avrebbero mai immaginato che l’Imperatore in persona si sarebbe interessato di loro. Invece nel Dicembre del 1815 il Sovrano, trovandosi a Venezia, si recò all’Istituto con un numeroso seguito di personalità civili e militari, visitò le scuole, l’Oratorio, l’orto, ascoltò con compiacenza i complimenti recitati dagli alunni e s’intrattenne poi amabilmente in Biblioteca coi Direttori i quali gli fecero omaggio dei libri pubblicati fino allora.

Terminata la visita all’Istituto maschile volle visitare anche l’Istituto femminile recandovisi a piedi con tutto il seguito e conversando bonariamente, lungo il tragitto, coi servi di Dio che gli stavano ai lati.

Era – non v’è che dire – un vero trionfo, e ben meritato, del quale peraltro essi si affrettarono a ringraziare la Madonna, celebrandosi in quel giorno la festa della B.V. di Loreto; e più ancora la ringraziarono quando vennero loro dallo stesso Sovrano notevoli soccorsi per il pagamento dei debiti e confortanti assicurazioni circa la di Lui particular protezione e l’interessamento del suo Governo per la conservazione e il progresso di tale private Istituto.

Nè si limitò a questo il premio della Provvidenza.

Nel Marzo del 1817 prendeva possesso della Sede Patriarcale Mons. Francesco M. Milesi, già Parroco in San Silvestro di Venezia. Poco dopo i Cavanis mandavano a lui due pii sacerdoti a pregarlo di accordare alle Scuole di Carità sei chierici che sotto la loro guida volessero dedicarsi all’opera di assistenza dei giovani. Contrariamente all’aspettazione l’istanza veniva esaudita e un mese dopo tre giovani chierici andavano ad abitare nella Casetta dell’Orto la quale diventava così la Casa dei chierici alunni delle Scuole di Carità.

Era un primo passo, sia pur piccolissimo, verso la fondazione della Congregazione.

Infine anche il Sommo Pontefice volle dare ai Cavanis un segno tangibile del suo compiacimento donando loro il palazzo Corner, lasciato a Lui in eredità dal legittimo proprietario Cattarin Corner, coi mobile di pregio che conteneva ed una ricca galleria.

Il palazzo Corner era (ed è ancora) uno dei più grandiosi fra quanti ingemmano il Canal Grande, che è quanto dire la strada più unica che rara, la più splendida fra le strade del mondo.

Veramente il dono doveva servire ai Cavanis per poter risparmiare la gravosa pigione del locale per l’Istituto femminile; ma se detto Istituto fosse stato trasferito in quell palazzo, le alunne esterne della scuola, circa un centinaio, sarebbero rimaste sacrificate, non potendo recarsi ogni giorno ad un luogo così distante.

I beneficati esposero umilmente questa difficoltà e il Papa li autorizzò a farne liberamente l’uso che credessero meglio.

Era come dire che tanto dal fabbricato quanto dai quadri pregevoli in esso esistenti potevano ricavare il maggior rendimento possible per finanziare e consolidare entrambi gli Istituti; e questa sì che era una manna discesa dal Cielo

Ma ecco come l’angelico Anton’Angelo comunicò agli alunni la lettera che annunciava l’atto benefico del Vicario di Cristo:

“Erano ancor uniti gli scolari nell’Oratorio dopo la Meditazione, e stavano per portarsi alle loro scuole sicchè fu in tempo il Direttore di leggerla pubblicamente a comune notizia e consolazione. Recò a tutti sorpresa e giubilo, e fino alcuno fra i piccolo dimostrò grandissimo sentiment per questa nuova, dopo di che per intimazione del Direttore medesimo, recitarono tutti un atto di contrizione per rinnovare il dolore dei loro peccati e proporre più vivamente l’emendazione, mentre si trovavano colpiti dai benefizi di Dio; poi con altre preghiera si rivolsero a ringraziare e ad implorare la protezione di Maria SS. e de’ Santi Protettori dell’Istituto”.

Quell’atto di contrizione intimate a tutti, mentre si trovano colpiti (il diario dice proprio così, “colpiti”!) dai benefizi di Dio, ci mette davanti nuda, senza alcun velo, la coscienza di un santo! Nel gesto di Don Anton’Angelo c’è, se non proprio la paura, il tremore che la straordinaria fortuna sia una prova e possa diventare se non una condanna almeno una tentazione. Perché nelle strettezze, nelle pene, nella povertà, si è certi che Dio è con noi; ma nel benessere, chi ce ne assicura?

…Ma per sentire così bisogna essere santi!

La Lettera Pontifica di cui sopra porta la data del 7 Settembre, e il sette Settembre è la Vigilia della Natività di Maria Santissima.

Don Marcantonio si fa un dovere di notarlo nel suo Diario per attribuire alla mediazione della Madonna una grazia così segnalata e per convalidare quello che è ormai il motto suo e del fratello: “Tutte le nostre cose per Maria”.

12 – Sereno e tempesta

Nell’estate del 1818 un evento impensato veniva a ravvivare i cuori dei Fondatori. Il Patriarca stesso domandava loro il Piano della Congregazione sia dei Sacerdoti che delle Maestre delle Scuole di Carità; e di lì a poco, con insolita sollecitudine, il Governo concedeva “alli Direttori di unirsi altri sacerdoti a vivere insieme e dedicarsi a sostener l’Istituto”.

Era una grazia straordinaria che i Padri (ormai possiamo cominciare a chiamarli così) annunciarono con profonda commozione ai loro giovani radunati nell’Oratorio, invitandoli a sciogliere l’inno del ringraziamento a Gesù Sacramento esposto in forma solenne.

Ma non era tutto. Per poter raccogliere a suo tempo la nuova Famiglia religiosa occorreva un vero e proprio decreto imperial, ed i Cavanis si dedicarono con tutta lena ad ottenerlo ma, naturalmente, passò ancora del tempo.

Intanto verso la metà del 1819 l’Imperatore tornava a visitare l’Istituto, si compiaceva ancora vivamente coi Direttori e apprendendo dalla viva voce di P. Marcantonio che l’Amministrazione delle Scuole era in deficit di tremila fiorini, prometteva confidenzialmente il suo aiuto ( e fu di parola).

Due giorni dopo i Cavanis recandosi a ringraziarlo della benigna visita gli presentavano copia del piano da essi ideato e il 15 Agosto dello stesso anno, festa dell’Assunzione di Maria SS., arrivava al Patriarca il Decreto sovrano di approvazione.

Era un bel passo in avanti!

Occorreva ora il Decreto del Patriarca ed essi lo domandarono, con le formalità richieste; sennonchè mentre la Curia stave estendendone il testo, la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari alla quale era stata passata a loro insaputa una supplica da Essi indirizzata al Pontefice, chiedeva al Patriarca informazioni in proposito.

Questi, pensando – e non a torto – che gli fosse stata fatta, come suol dirsi, una finestra sul tetto, rimase malissimo. Le leggi austriache gli impedivano di comunicare con Roma senza autorizzazione del Governo, assai penosa ad ottenersi; d’altra parte per il momento l’approvazione dell’Ordinario diocesano sarebbe stata più che sufficiente; perché dunque i Cavanis, sempre così riguardosi e delicate, erano ricorsi a Roma a sua insaputa creandogli un così grave imbarazzo?

Si riprometteva dunque di chiamarli e dir loro il fatto suo quando il suo stato di salute, già tutt.altro che buono,, si aggravò all’improvviso e in breve si ridusse in fin di vita.

Dal canto loro i Servi di Dio, che erano innocent, venuti a sapere la cosa ne furono grandemente angosciati. L’equivoco andava chiarito al più presto; ma come giustificarsi in così grave frangente?

L’11 Settembre Mons. Milesi era agli estremi. Dunque sarebbe morto con quella immeritata opinione di loro e l’atto di fondazione del nuovo Istituto sarebbe stato rimandato…alle calende greche.

Invece il giorno seguente, festa del Nome di Maria, una lettera del Vicario generale comunicava ai Cavanis il Decreto Sovrano di approvazione dell’Ordinario, e il Patriarca cominciava improvvisamente a migliorare, tantochè il P. Marcantonio poteva recarsi a visitarlo e portargli una reliquia di S. Giuseppe Calasanzio.

Il diciotto dello stesso mese (sabato precedente la festa dell’Addolorata) il Patriarca firmava il suo Decreto “pianissimo e amorosissimo”, come lo definisce il P. Marcantonio nel suo Diario, dopo di che cassava di vivere con una morte preziosa.

Come non scorgere anche in tutto questo la mano della Provvidenza?

La nuova Congregazione ebbe la sua culla nella Casetta, cioè in quei locali squallidi e nudi dove la Congregazione mariana di S. Agnese aveva esercitato le prime opera di carità.

Essi furono adattati e restaurati alla meglio; ma i muri rimasero quel che erano, vecchi, rappezzati, corrosi dalla salsedine, e quando – come succede a Venezia non di rado, nell’inverno – le acque della laguna gonfiate dalla marea e dal vento che le spinge dal mare invadono la città, specialmente nei punti più bassi, il refettorio, la cucina e l’Oratorio ne rimanevano allagati, sì che le panchette galleggiavan sull’acqua e i fratelli laici per accostarsi al focolare a preparare il cibo per la Comunità dovevano…”andarvi in barca”!

Il 27 Agosto del 1820, festa di S. Giuseppe Calasanzio, si componeva definitivamente il primo nucleo della nuova Famiglia.

Nella Casetta, precedentemente benedetta dal Parroco, entravano il P. Anton’Angelo, il Ch. Pietro Spernich, Matteo Voltolini ed Angelo Cerchieri, e in qualità di servente il giovane Pietro Zalivani. Il P. Marcantonio rimase, per il momento, con la mamma ottuagenaria che nel silenzio e nel nascondimento tanto aveva fatto e continuava a fare per l’opera fondata e diretta dai suoi figlioli.

La casa era piccolo e povera ma ai religiosi che eran venuti ad abitarla sembrava bella e grande “come una Badia” e la vita loro sarebbe stata “di paradiso” se ben presto il sereno non fosse stato turbato dall’addensarsi d’una nuova tempesta.

L’animo dell’Imperatore Francesco I era buono, ma gli umori del Governo austriaco erano di tutt’altro genere. Questo, intimamente pervaso dall’errore orgoglioso che lo Stato ha la possibilità di provvedere a tutti i bisogni dei sudditi e il diritto di ficcare il naso in tutte le loro faccende, volle avocare a sè tutto ciò che concerne l’istruzione e l’educazione della gioventù e con il pretesto di riformare gli studi, tolse alla scuola ogni vestigio di libertà.

Il 3 Gennaio 1818 il Padre Marcantonio riceveva dal Consigliere di Governo Passy, deputato alla Pubblica Istruzione, l’annunzio che l’insegnamento privato non era più consentito; e pertanto i casi, per i Cavanis, erano due: o accettare una scuola pubblica, o chiudere l’Istituto.

L’uomo di Dio fece le sue rimostranze, espose le proprie ragioni, difese il proprio punto di vista; ma…contro la forza la ragion non vale!

Era la fine; ossia, sarebbe stata la fine se il Passy colpito da grave malattia non fosse andato sull’orlo della tomba. Guarito, parve ridotto a più mite consiglio e per un anno e mezzo i Cavanis non ebbero alter noie.

Nell’Agosto del 1819 eccoti una nuova intimazione di limitare l’insegnamento alle sole scuole elementari perché “è impossibile che un Istituto privato possa sostener tante classi quante ne richiede il Codice per il Ginnasio”. Il P. Marcantonio dimostra che è possibilissimo, ma invano; il Ministro è inflessibile. Per fortuna arriva in buon punto il Decreto Sovrano di approvazione dell’Istituto e la inflessibilità del Ministro è costretta a piegarsi.

La provvidenza anche per questa volta ha parato il colpo; ma il demonio sferra subito un nuovo assalto. “I ginnasi, in Venezia – dice il Governo austriaco – sono troppi!”

I nostril Padri cui preme sommamente che le Scuole di Carità siano considerate come pubbliche, sia perché abbiano valore  i diplomi da esse rilasciati, sia per evitare le insopportabili ingerenze cui sono sottoposte le scuole private, chiedono che sia ad esse riconosciuto ufficialmente il privilegio della pubblicità e dopo una lunga serie di ispezioni, informazioni, rapporti, l’insegnamento elementare e ginnasiale per le scuole maschili, finchè essi si attengano alle norme governative. Non solo, ma nel Novembre dello stesso anno (1820) ricevono anche una visita del Vicerè il quale si compiace vivamente e lascia loro una Generosa offerta. E’ dunque il caso di riprender lena; ed è ciò che i Servi di Dio si accingono a fare introducendo nel Ginnasio le modifiche volute dalla nuova legge scolastica, e per supplier alle ingenti spese occorrenti domandano al Governo un contributo di mille fiorini all’anno per un quinquennio, restando in fiduciosa attesa. Ma dopo sette mesi viene comunicata loro la risposta del Vicerè, sbalorditiva addirittura: “Non occorre aggiungere un nuovo ginnasio a Venezia e i Cavanis si limitino alle scuole elementari minori…”.

L’egregio personaggio non si ricorda più neppure che il Ginnasio nell’Istituto Cavanis esiste già da tanti anni!

Pertanto ecco i Servi di Dio di nuova in movimento per chiarire l’equivoco e sostenere le loro buone ragioni; ma invano.

Il primo di Dicembre un dispaccio del Vicerè ordina la cessazione dello scuole ginnasiali entro otto giorni.

Tocca a quel povero instancabile Cireneo di P. Marcantonio rimettersi in moto e mettersi anche le persone amiche, a cominciare dal nuovo Patriarca, Mons. Pyrker. Intanto il Vicerè torna a Venezia e il P. Marco lo abborda.

“L’approvazione richiesta non può esser concessa perché le Scuole di Carità non hanno ancora messo in pratica la riforma prescritta dai nuovi Regolamenti”. Questo afferma il Vicerè; ma non è vero; e l’imputato sa così bene difendersi e giustificarsi che quello lo autorizza a continuar le scuole fino a nuov’ordine.

Nel Dicembre del 1821 anche il Patriarca visita l’Istituto e ne è soddisfattissimo. Nel Gennaio 1822 lo ispezionano due autorità scolastiche e non hanno che a lodarsene.

Con tutto ciò l’ostinazione del Governo rimane caparbia. Un nuovo Ginnasio pubblico non è necessario e quindi non deve funzione!

Sorge nel frattempo una nuova questione che è per i Servi di Dio motive di grande amarezza: il Governo austriaco non esonera dal servizio militare i chierici se non iscritti nei corsi teologici del Seminario e pertando lo Spernich, che fa parte della nascente Congregazione ed è fuori del caso contemplato dalla Legge deve presentarsi alle armi. I Servi di Dio, consapevoli dei pericolic che il servizio militare porta con sè e ossequenti alle leggi della Chiesa, si danno da fare perché anche a quell loro figlio spirituale sia riconosciuto il diritto di non interrompere gli studi e di non esporre la propria vocazione alle tentazioni del mondo.

E riescono ad ottenere la sospirata grazia! Ma ciò non li distoglie dalla lotta ingaggiata a tutela della libertà di insegnamento.

Mentre i due Istituto, come scriveva P. Anton’Angelo “sono in orazione continua”, il P. Marcantonio, ottennuto il necessario passaporto, corre a Verona dove trovasi l’Imperatore per ottenere da lui comprensione e protezione. Qualche giorno dopo, a Venezia, ottiene una nuova udienza; l’Imperatore è cortese, amoroso, ma non è decisive. Egli è un di quei re che…regnano ma non governano! Infatti di lì a pochi giorni il Vicerè gli comunica che non conviene concedere alle Scuole di Carità il legale e libero insegnamento e perciò  debbono ridursi alla condizione delle scuole private.

L’accanita estenuante battaglia è (o almeno sembra) conclusa con la sconfitta dei PP. Cavanis; e al P. Marco non resta che attendere tranquillamente l’esito dalla Provvidenza divina.

In una sua lettere egli dice proprio così: “tranquillamente”!

Questo accadeva alla fine del 1822.

Il 26 Gennaio del 1823 l’instancabile Pellegrino tornava alla R. Delegazione a difendere la propria causa e con sopresa trovava che era atteso per delucidare un pro-memoria presentato poche settimane prima direttamente all’Imperatore.

Possiamo figurarci se l’ex Segretario della Serenissima non seppe esprimere ancora una volta le proprie ragioni! Le espresso, e così esaurientemente, che ne ebbe un parere favorevolissimo.

Ma non si approdò a nulla di concreto lo stesso; sicchè per altri sette mesi egli dovette moltiplicare ricorsi, suppliche, lettere… Sempre inutilmente.

A che cosa possono approdare le buone ragioni di un galantuomo contro i raggiri di un governo settario ed avverso?

Il 17 Novembre del medesimo anno la Direzione delle Scuole di Carità riceveva dalla Commissione aulica il seguente definitivo responso: “Lo Stato, abbastanza di mezzi presenta per l’istruzione ginnasiale e filosofica senza che siavi bisogno di aumentarne il numero, il che, particolarmente per la parte bassa, sarebbe piuttosto dannoso, anzichè di alcun giovamento”.

Questa volta la battaglia era perduta davvero! Ma il P. Marcantonio scrivendo ad un suo amico si Vienna così si esprimeva:

Come è piaciuto al Signore, così è accaduto. Il Nome del Signore sia Benedetto!… Dopo una tempesta terribile di tre anni abbiamo alfine naufragato in porto. Adoriamo le Divine disposizione”.

Non è forse – questo – il linguaggio dei Santi?

13 – Nel Nome de Dio

Malgrado l’inconsulto tentativo di strangolarle, le Scuole di Carità continuavano a prosperare, affollate com’erano di alunni docili e affezionati. Segno che Iddio era di parere diverso da quello del Governo austriaco. Bisognava dunque andare avanti nel Nome di Dio e fidando unicamente in Lui. Questa del resto era una prerogativa essenziale dei fratelli Cavanis.

Ma…dice il proverbio: “aiutati che Dio ti aiuta”; e perciò quando mancavano i mezzi necessari – il che succedeva molto spesso – non si poteva rimanere con le mani in mano ad attendere che scendesse dal cielo il tradizionale panierino; bisognava “aiutarsi”, cioè muoversi, andare, chiedere… E questo era ormai compito del P. Marcantonio.

Nell’Agosto del 1823 l’Istituto era appunto in non lievi difficoltà, dovendo pagare, senza proroga, una somma non indifferente contrattata per l’acquisto, necessario, di alcune catapecchie adiacenti alla Casetta, di proprietà del R. Demanio.

P. Marcantonio scrisse al Conte Mellerio di Milano, signore pio e benefico, certo di essere aiutato; invece questa volta…non ci indovinò; e, stringendo il bisogno, dovette mettersi in giro per Venezia.

La stagione era eccessivamente calda e le porte, questa volta, ostinatamente chiuse.

Tutti rispondevano di no; chi non poteva e chi non voleva. Intanto il termine stabilito per il pagamento stave per scadere; e il sant’uomo avanti, da una calle all’altra, da un canale all’altro. Sotto quel calore asfissiante…infruttuosamente! Alla fatica si aggiungeva lo sconforto, lo scoraggiamento.

Tornava a casa e non poteva accostar cibo alla bocca. Era sfinito! Sicchè finì per doversi mettere a letto; e tale fu la gravità del male che gli si dovette portare il Santo Viatico. Ma prima di mettersi a letto era riuscito improvvisamente a trovare a prestito quanto occorreva per far fronte all’urgenza del momento decisive; e appena riacquistata la salute non pensò ad altro che a … riacquistare anche il tempo perduto.

Intanto la giovane famiglia religiosa temprava le proprie energie nel nascondimento della Casetta mediante la meditazione e la preghiera, e nella nobile fatica dello studio e dell’insegnamento.

E andava anche crescendo di numero e di speranze!

Di quando in quando uno dei suoi membri era invitato a rispondere alla chiamata alle armi e bisognava sempre ingaggiare la medesima lotta per farlo esonerare; ma di quando in quando qualcuno di essi arrivava a salire l’Altare e allora la Letizia di tutti era di quelle che non si possono descrivere.

Nelle aule stipate di figli del popolo si studiava d’impegno, ma si pregava, anche, intensamente e la preghiera muoveva la divina Bontà ad aprire la strada sbarrata dai poteri civili.

Il decennio che va dal 1823 al 1833 è per l’Opera dei fratelli Cavanis un periodo di raccoglimento durante il quale Essa consolida la sua struttura, “si fa le ossa”, come suol dirsi, e diventa adulta.

Le tribolazioni non mancano ma non manca neppure la forza, di continuo invocata da Dio, per sopportarle con esemplare rassegnazione.

L’intransigenza governativa esige da tutti gli insegnanti, compresi i  direttori, una regolare patente di abilitazione all’insegnamento e un po’ per volta si sostiene il sacrificio di acquistarla.

Si naviga fra mille difficoltà, ma si naviga, con decisione e con fiducia. La mancanza di mezzi finanziari è l’eterno assillo dei Direttori; ma anche questa non riesce a farli nè scoraggiare nè deflettere dalla loro linea di rettitudine e di santa fierezza.

Autorizzati a vendere i quadri della Collezione d’arte del palazzo Corner, quando si trovano al verde li vendono; ma piuttosto che ricavare del danaro dalla vendita di alcuni di essi, a loro giudizio indecenti, fanno come il Savonarola; li bruciano o ne fanno stracci da cucina e restano nella loro povertà, preferendo stender la mano piuttosto che maneggiar quattrini contaminate dal fetore dell’impurità.

Negli anni belli della loro gioventù i nostri Padri eran soliti recarsi ogni anno per qualche giorno a respirare un po’ d’aria libera e pura in campagna; ed anche ora, fra tanto lavoro e tanti affanni, qualche volta vi andavano approfittando della graziosa ospitalità di parenti o di amici. Ma chi oserebbe pensare che la loro fosse soltanto o soprattutto una villeggiatura?

Le spese di viaggio di solito erano sostenute dalla mamma, la quale (è bene che il lettore lo sappia e se ne ricordi) per sostenere le opera dei figli e specie l’Istituto femminile, arrivò perfino a mettere in pegno i gioielli e gli oggetti preziosi di famiglia.

Essi partivano carichi di libri e di speranze. I libri eran quelli che andavan pubblicando e li portavano con sè per venderli; le speranze eran quelle che custodivano nel cuore e le portavano con sè confidando in qualcuno che le tramutasse in fatti.

Nel 1824 il P. Marcantonio si recava a Milano di dove scriveva ai confratelli: “Pregate per me, fate cuore e sostenete questo fantoccio che ha bisogno ch’altri lo aiutino perché si muova come conviene”.

Scriveva anche ai cari Chierici “i baroncelli della Casetta” per informarli che pensava sempre a loro; e più tardi mandava al fratello venti zecchini “per sanare un poco la piaga”. Infatti non era forse andato là proprio per questo, per vedere di sanare un poco le piaghe dell’Istituto, sempre così aperte?

Tornato a Venezia convinse il P. Anton’Angelo, che soffriva spesso di terribili convulsion nervosa, a prendersi un po’ di svago e riuscì “ a spedirlo” a Udine; partì dunque anche lui carico di libri come un venditore ambulante; e nella città veneta quando celebrava la S. Messa i professori del Seminario si collocavano dietro le griglie presso l’Altare per vedere, non visti, un santo nell’atto di celebrare il Divin Sacrificio.

Nell’Ottobre del 1825 partiva ancora il P. Marcantonio percorrendo a piedi le vie di Padova, Verona, Brescia, Milano…Oh, non c’è che dire, era una villeggiatura divertentissima, specie se, come in questo caso, quasi dovunque non trovava che negative!

Meno male che, come abbiamo già detto, le negative non eran bastanti a scuotere la loro fiducia in Dio!

Scriveva infatti il P. Marco: “Verran gli aiuti donde noi non sappiamo… Tante orazioni fatte finora non hanno a cader senza affetto; però riposo tranquillo nel seno amoroso della Provvidenza divina”.

E il P. Anton’Angelo dal canto suo: “E che vogliono dire questi bei “no” di Marchesi e di Conti, che vi si sputano in faccia? Che cadrà l’Opera? Uh! Uh! Altro, ben altro! Vuol dire che è tribolata, e che appunto per questo Dio la vuol proteggere e farla grande. Io vi avverto che non sono nè turbato nè afflitto per un momento. Io sto in una bella pace, senza pensieri, senza timori, co’ miei figliuoli…”.

L’8 Dicembre del 1826 i Direttori indicevano un Anno Mariano per celebrare il primo quarto di secolo dell’Istituto, glorificando la Madonna e implorando da Essa protezione sull’Opera. Anno di eccezionali Corone di fiori, di Sante Comunioni, di feste, di canti, di preghiera!…Così si fa violenza ai cuori adorabili di Gesù e di Maria!

L’8 Dicembre del 1830 visitava in forma solenne l’Istituto il Patriarca, Card. Iacopo Monico, e in tale circostanza i Fondatori presentarono all’eminente Prelato una specie di resoconto dell’attività spiegata fino allora.

Dalle Scuole di Carità erano usciti e si erano formati 47 ecclesiastici fra i quali 30 Sacerdoti e 17 chierici. Tra i primi Mons. Augusto Foscolo, prima Arcivescovo di Corfù e poi Patriarca di Gerusalemme, il Rettore e Vice Rettore del Seminario Patriarcale ed altri distinti Prelati. La Congregazione contava allora 6 Sacerdoti e 10 chierici, elementi attivi, intelligenti, sicuri, fra cui quel Sebastiano Casara che sarebbe diventato poi il più valido esponente dell’Opera.

L’albero era in piena fioritura e dava già garanzia di frutti copiosi.

…Copiosi ma soprattutto sani e saporiti! Ed a ciò attendevano i due “Agricoltori” con tutte le loro forze e con tutta la loro saggezza corroborata dagli aiuti divini.

Convinti essi infatti della assoluta necessità che la Santa Sede sanzionasse la loro Istituzione col suo autorevole riconoscimento, mantenevano frequenti contatti col Pontefice, valendosi dei buoni uffici di qualche amico residente a Roma, ed ebbero così, prima da Leone XII eppoi da Gregorio XVI, ripetuti segni di benevolenza; ma principalmente si preoccupavano di formare una Congregazione rispondente in tutto e per tutto – per quanto umanamente possibile – alla missione assegnatale dalla Provvidenza e da essi vagheggiata.

I Cavanis (l’abbiamo già visto) non si contentavano di insegnanti anche capaci; volevano degli educatori; ma educatori nel senso religioso del termine, che vedessero nei giovani non soltanto degli alunni ma addirittura dei padroni ai quali consacrare tutto -mente, cuore, affetti – come facevano loro che eran sempre in prima linea a dar l’esempio di ciò che esigevano dagli altri.

E questo spiega come alcuni, entrati in Congregazione, ne uscissero poi per dedicarsi in altra sede alla commune vita sacerdotale, e come altri si consumassero innanzi tempo logorati dalle intense fatiche.

Il 9 gennaio 1832 si apriva infatti nella Congregazione la prima tomba con la morte del Diacono Angelo Battesti, giovane d’indole ardente e impetuosa, rigorosamente domata con l’esercizio assiduo dell’umiltà dell’obbedienza e dell’abnegazione di sè; un anno dopo si apriva la seconda con la morte di Alessandro Scarella, “esemplare in tutto” come dice il P. Marco nella sua necrologia, e quasi contemporaneamente se ne apriva una terza con la dipartite di Bartolomeo Giacomello eccellente nell’obbedienza, nella pazienza e nell’applicazione allo studio, illibato nel costume e semplice come una colomba.

Erano vuoti dolorosi che affliggevano il cuore materno del P. Anton’Angelo; ma erano anche il seme da Iddio destinato ad essere sotterrato e marcire per trarne frutti abbondanti.

Mentre la famiglia dell’anima che i Cavanis si eran formata con tanto ardore di fede e di apostolato cresceva, pur fra i lutti e le tribolazioni, quella del sangue dove il loro spirito aveva trovato alimento e riposo, si spegneva e la casa paterna nido di virtù familiari e religiose e di pace serena e benedetta, restava deserta.

Già nel 1817 era morta la dolce sorella Apollonia, tormentata da lunghe malattie sopportate con esemplare rassegnazione.

Ora, il 13 Maggio del 1832, se n’andava anche donna Cristina – la mamma – ultraottantenne.

Abbiamo già detto che i Cavanis ebbero sempre per la loro mamma una venerazione profonda e un tenerissimo affetto; specie Marcantonio, di carattere particolarmente vibrante ed espansivo.

Dal giorno in cui Anton’Angelo aveva lasciato la casa per obbedire alla chiamata del Signore,, egli aveva raddoppiato per la mamma le premure e le tenerezze onde attenuare il vuoto lasciato da lui e s’era industriato di conservarsi, nei rapporti con lei, bambino per rimanere più aderente al suo cuore materno.

Si potrebbe dire che dal cuore di lei non un palpito solo uscisse senza trovare il cuore del figlio aperto, pronto a raccoglierlo.

E la nobile Donna di quale amore ricambiava quel suo impareggiabile figliolo!

Quandot l’Istituto si trovava in strettezze finanziarie e lui, per conseguenza, in angustie di spirito, ella non aveva che a guardarlo per leggergli in viso l’intimo turbamento; e con gesto degno proprio d’una mamma, più d’una volta si tolse i pendenti dalle orecchie, lo spillo d’oro di sul petto o un anello dal dito per vederlo tornare sereno e sorridente.

Quando morì, il P. Marcantonio aveva cinquantotto anni; eppure provò lo stesso dolore di chi si vede portar via la mamma nel fiore della giovinezza.

A Venezia non era uso, almeno a quel tempo, che i familiari seguissero il feretro durante i funerali; ma il P. Marco volle accompagnar la sua mamma fino all’ultima dimora destando nei presenti ammirazione e commozione con le lacrime che gli scendevano silenziose giù per le guance e col pio atteggiamento di anima devota, in raccoglimento e in preghiera.

…Poi se ne tornò a casa, nella casa vuota e buia come una tomba… a fare che cosa? Posò gli occhi sulla poltrona dalla quale sua madre gli sorrideva benedicendolo… sui libri che adornavano il salottino dove ella era solita trascorrere le sue giornate…

Ogni cosa aveva serbato un sorriso, un ricordo; ma lei non c’era più ; non c’era più nessuno; non c’era più nulla! A far che cosa, sarebbe rimasto, lui solo?

Sistemò tutto, liquidò ogni pendenza famigliare, eppoi s’avviò rapido verso la Casetta.

Il mezzogiorno era suonato da poco e i Padri si trovavano in refettorio; in quel povero refettorio umido e scalcinato il cui mobilio si componeva d’una tavola rozza e d’alcuni sgabelli, senz’altro ornamento all’infuori di un Crocifisso di legno appeso alla parete di centro.

Il P. Marcantonio chiese timidamente il permesso, rivolse ai confratelli, a voce bassa, il salute cristiano “sia lodato Gesù Cristo” e fatti pochi passi s’inginocchiò sull’impiantito. I commensali lo rimiravano incerti, ansiosi, commossi.

A voi, P. Anton’Angelo – disse il sacerdote in tono di preghiera – e a voi tutti, miei confratelli, io domando la carità di accettarmi fra voi anche se mi riteneste indegno di simile grazia”.

Il fratello commosso fino alle lacrime gli mosse incontro per abbracciarlo; gli altri ad uno ad uno fecero lo stesso; e tutti insieme, poi, sciolsero a Dio l’inno della lode e della riconoscenza.

Chiusa una casa, il Signore gliene aveva aperta un’altra.

14 – Da Vienna a Roma

E’ difficile supporre che il P. Marcantonio entrando ufficialmente in Congregazione potesse fare per essa e per l’Istituto più di quanto aveva fatto fino allora; ma è certo che egli vi entrava col proposito di dare all’una e all’altro ogni sua energia, fino al limite estremo. E l’occasione di ricominciare a spenderne non si fece attendere troppo.

Nel Novembre di quello anno, 1832, Antonio Rosmini (l’abate roveretano – già celebre – fondatore anch’egli di una Congregazione di Sacerdoti intitolata Istituto della Carità), recatosi a visitare l’opera “Cavanis” insieme al Conte Mellerio ammiratore e benefattore dei nostril Padri, parlando con loro della necessità per i cattolici e i religiosi di ottenere la libertà d’insegnamento, li informava che l’Imperatore in una sua lettera al Governo del Tirolo aveva espresso il desiderio che le scuole venissero esercitate da Ecclesiastici ritenendo che quelli viventi in Comunità potessero esercitare tutto il Corso scolastico in forma legale e valida.

I Cavanis si attaccarono a questa informazione con la tenacia del naufrago che si aggrappa al primo scoglio che gli càpita a portata di mano e rivolsero immediatamente una supplica al Patriarca implorando il suo interessamento e la sua mediazione.

Contemporaneamente – cioè prima di attenderne l’esito che, tra parentesi, fu nettamente negative – il P. Marcantonio partiva per Vienna allo scopo di ottenere un’udienza dall’Imperatore.

Noi siamo abituati alla “macchina” ai treni direttissimi o rapidi e, quasi quasi, ormai anche all’aeroplano, per cui un viaggio da Venezia a Vienna è, ai nostri occhi, un’inezia; ma bisogna pensare che a quei tempi unico mezzo di locomozione era la diligenza a cavalli e che della diligenza dovette servirsi il P. Marcantonio per recarsi nella capitale dell’Impero austriaco a perorare la santa causa della libertà della scuola. Perciò fa piacere sapere che vi arrivò felicemente il 7 Febbraio del 1833 e appena arrivato, dopo aver celebrato la S. Messa nella Chiesa dei PP. Redentoristi all’Altare di S. Alfonso dei Liguori per impetrare buon esito all’ardua impresa, incominciò subito il suo pellegrinaggio di visite a Principi, Prelati, Personaggi della Corte, per renderseli propizì; e il giorno 13 fu ricevuto dall’Imperatore. Ma… che disastro! Costretto a rimanere nell’anticamera, in attesa, cinque ore consecutive, quando fu ammesso alla presenza del Sovrano era così sfinito che non ebbe la forza di affrontare il suo grande argomento. Lo affrontò bensì in una nuova udienza ottenuta per il giorno 27 sostenendo la causa della libertà di insegnamento e della educazione cristiana con tale eloquenza che l’Imperatore ne fu visibilmente toccata.

Il visitatore, santamente audace, non si peritò nemmeno ad informare il sovrano che il testo ufficiale usato nelle Scuole di Filosofia era empio e scalzava le basi della Fede; e ritenendo per certo che simile attentato alla coscienza della gioventù non poteva essere da lui nè approvato nè tollerato, lo invitò a levarlo di circolazione.

Parlò come parlano i Santi; con libertà sacrosanta, senza paura di giocarsi la benevolenza di un sì alto personaggio, perché per i Santi “è amico Cesare, ma più amica è la Verità”, e il bene delle anime va avanti a tutto.

E il Re gli assicurò categoricamente che quel testo sarebbe stato levato di mezzo al più presto.

Il commesso viaggiatore delle Scuole di Carità peregrinò ancora per la capitale visitando Arciduchi, Principesse, perfino l’Imperatrice, e ripartì poi il 16 di Marzo portando con sè più di seimila svanziche raggranellate un po’ qua e un po’ là, molte promesse ed anche un discrete numero di speranze.

Le svanziche furono un vero balsamo per le piaghe finanziarie dell’Opera; ma le promesse e le speranze si ridussero in fumo; e per altri quattro anni, di libertà dell’insegnamento non si parlò più.

…Ossia, se ne parlò ancora l’anno seguente in seguito a un nuovo Decreto governativo che vietava l’apertura di nuovi Istituti privati di educazione, se non per soli convittori interni, e quindi soltanto per mettere in confusione questi poveri religiosi costretti a far sempre la parte degli imputati solo perché ostinato a fare un po’ di bene e … a volerlo far bene, con la testa e col cuore degli altri.

Il padre Marcantonio che si trovava di nuovo a Milano a… bussare a danari, dovette presentarsi al Vicerè per parare il colpo ed ebbe la consolazione di sentirsi dire che il Decreto non riguardava minimamente l’Istituto Cavanis.

Non era poco, atteso quel che… bolliva nella pentola governativa riguardo alle scuole private! Infatti P. Anton’Angelo che si era molto allarmato gli scrisse per ringraziarlo con amabilità tutta fraterna del suo efficace intervento. Ma egli rispose, con uno “spirito” che ormai non ci riempie di ammirazione: “…Del buon esito de’ miei passi e delle mie parole sia tutta lode a Dio e tutto il merito si scriva pur, ch’è ben giusto, alle comuni orazioni, che mi hanno impetrato la Divina Benedizione. Io non sono altro qui che un fantoccio, che si muove e che parla in quanto voi il fate muovere e lo fate parlare”.

Nel frattempo altri sbocchi si aprivano alla loro bramosia di bene.

Nell’aprile del 1833, pochi giorni dopo il ritorno del P. Marcantonio da Vienna, si presentava ai Servi di Dio un certo Francesco Marchiori da Lendinara offrendo loro, a nome di un ignoto benefattore, locali e mezzi finanziari atti a fondare nella cittadina del Polesine fra l’Adige e il Po un Istituto per la educazione dei giovinetti.

L’uomo pratico al quale vien proposto un affare, prende la matita, fa i suoi calcoli, tira le somme e se i conti tornano, accetta; altrimenti rifiuta. L’Apostolo non ha matita per fare i conti; ha soltanto luce per vedere se l’affare propostogli è conveniente per la salvezza delle anime (e quindi per il Signore, padrone delle anime), oppure no.

I nostri Padri videro che in questo senso era conveniente ed accettarono.

Il Marchiori, un di quegli uomini congegnati chissà in che modo, che sembran fatti apposta per fare esercitare la pazienza, dopo il primo gesto di spontanea generosità fece come le chiocciole le quali un po’ alla volta si ritirano fino a sparir del tutto dentro al guscio; tuttavia essi andarono a Lendinara e vi impiantarono l’Istituto.

Vi andarono all’improvviso, in forma privatissima, per evitare il clamore delle accoglienze trionfali loro preparate, clamore contrario al loro temperament ed ai loro principi; vi condussero un Padre (il P. Voltolini), due chierici e un assistente, che si misero subito all’opera sotto la guida amorevole di P. Anton’Angelo fermatosi là per presiedere appunto alla sistemazione definitive, e per il primo anno entrarono in funzione le prime due classi ginnasiali. Che se fra le irragionevolezze del Marchiori ed altre più gravi tribolazioni, quali la morte dolorosa di un Chierico e il ritiro dalla Congregazione dell’altro, la vita dell’Istituto a Lendinara si presentò difficile ed irta di triboli e di spine, ciò non può costituire pei fratelli Cavanis e per la loro opera educativa altro che  un titolo nuovo alla nostra ammirazione ed edificazione.

E di spine, anche in questo period essi dovevano averne non poche, e non soltanto provenienti da Lendinara, dal momento che dovettero decidersi a vendere il Palazzo Corner per la modestissima somma di sessantamila lire austriache.

Tuttavia le difficoltà e le tribolazioni non distoglievano il loro animo dall’aspirazione più  grande che era di ottenere dalla S. Sede l’approvazione ufficiale dell’Istitutto. A ciò si accinse il Padre Marcantonio l’anno 1835, con giovanile baldanza, partendo da Venezia l’11 di Febbraio, nel giorno, cioè, che più tardi la Chiesa avrebbe consacrato alla festa della Madonna di Lourdes.

Dopo brevi soste a Lendinara, dove lo accompagnò  il fratello, ed a Bologna, per la via di Ravenna, Ancona, Tolentino, Foligno, viaggiando continuamente (riposando, e pochissimo, soltanto la notte), in nove giorni arrivò a Roma attraversando il passo di Colfiorito, brullo sassoso e impervio, in una giornata di pioggia e di orrido vento, e la montagna di Somma aspra e malsicura.

Giunse a Roma il 24 di Febbraio nel pomeriggio, solo! Ma non si sgomentò. Disse a se stesso: “niente paura, la Provvidenza mi aiuterà!”. Infatti trovò un giovane prete che ben volentieri l’accompagnò a San Pantaleo dai Padri Scolopi.

La mattina dopo celebrò la Messa nella stanza dove per 36 anni visse e dove morì San Giuseppe Calasanzio, poi si recò a San Pietro dove, come è detto in una sua lettera, prostate davanti alla tomba del Principe degli Apostoli fece la professione di fede per sè e per i confratelli, supplicandolo ad aiutarli a vivere in essa ed a morire… Quindi dette inizio al suo pellegrinaggio, bussando alla porta di quanti, a suo avviso, potessero aiutarlo sia nel conseguimento del suo ideale, sia nella raccolta dei fondi necessari all’Istituto. E noi non possiamo fare a meno di soffermarci ancora a rimirare questo nobile sessantenne che per le vie, a lui sconosciute, della Città eterna cammina a giornate senza sentire stanchezza, Pellegrino della Fede e dell’apostolato giovanile, destando nel nostro animo una soave santa tenerezza.

Fra i Cardinali alla porta dei quali umilmente bussò il P. Marco va ricordato l’Em.mo Odescalchi Vicario di Papa Gregorio XVI, uomo di virtù insigne, ritiratosi poi nella Compagnia di Gesù e morto in fama di santità.

L’Odescalchi lo comprese pienamente (i santi s’intendono a volo!) e gli ottenne la sospirata udienza papale per il 10 di Marzo.

Il Servo di Dio si prostrò commoso ai piede del Vicario di Cristo e questi ebbe per il diletto Figlio venuto così da lontano paterna comprensione ed espressioni amabilissime.

Egli conosceva bene l’opera dei Cavanis e la benediceva e l’approvava pienamente. All’approvasione ufficiale della Congregazione non si opponevano che delle difficoltà di carattere contingente; comunque lesse anche, seduta stante, la lunga Relazione presentatagli e di proprio pugno vi scrisse la nota di rimessa al Card. Segretario dell S. Congregazione dei Vescovi e Regolari, autorizzando il P. Marco a consegnargliela personalmente.

Nel congedarlo lo incaricò perfino di salutare in suo nome il fratello P. Anton’Angelo. Confermando in tal modo la sua augusta simpatia per l’opera e per i suoi animatori.

Convinto d’essere arrivato in porto, o quasi, ma al tempo stesso  non ignaro (quale ex Segretario della Republica) degli incagli che non di rado le “pratiche” trovano negli uffici attraverso ai quali debbono passare, il P. Marco riprese il suo pellegrinaggio, specie per le anticamere, dei Cardinali e dei Prelati, ma con esito tutt’altro che lieto perché… la pratica doveva fare il suo corso, e la faccenda di quel forestiero piovuto in Roma a spillar danaro era, per i più, antipatica e deplorevole; di modochè il sant’Uomo scrivendone al fratello ebbe perfino ad esprimere il dubbio d’esser lui, indegno peccatore, a mettere in pericolo l’opera di Dio. Si capisce che si trovava in uno stato d’animo di momentanea tristezza, ad aumentar la quale contribuirono due dolorose notizie: la morte dell’Imperatore Francesco I e quella della Marchesa di Canossa, ambedue amici e benefattori dell’Istituto. E la S. Congregazione, per timore delle opposizioni austriache, continuava a tirare in lungo le cose!

Si decise pertanto a chiedere un’altra udienza al S. Padre e l’ottenne per la mattina del 18 Aprile, sabato santo, prima delle Sacre Funzioni.

Informandone, più tardi, il fratello e persuaso di aver difeso con efficacia la causa comune, metteva le mani avanti con candida umiltà: “… Ma se vi è niente di bene tenete pure per fermo che è tutto succo delle comuni vostre orazioni, perché io non sono che il Pulcinella dell’Opera; quando mi fanno muovere, allor mi muovo”.

Però bisogna convenire che “il Pulcinella” s’era mosso egregiamente dicendo al Papa che “per ogni parte si aiuta la gioventù, ma che in mezzo a tanti aiuti la maggior turba perisce, ed è appunto quella di quei moltissimi che mancano della educazione domestica, e che hanno bisogno di Padri”.

Ora a Venezia – aveva soggiunto con calore il patrocinatore della causa della feccia del popoloc’è un Corpo di Volontari, che sorge a fare appunto uffizio paterno. Perciò, Beatissimo Padre, vi supplico istantemente a confortare l’impresa e a darci tuono e vigore!

Qui non siamo due soli, ma ci sta intorno una turba immense di abbandonati figlioli i quali attendono con impazienza l’esito felice di queste istanze. A questa turba non si provvede fuorchè dal complesso di quegli aiuti paterni che nell’Istituto nostro si prestano, su cui che erve dir molte parole, ed abusare indiscretamente della pazienza della Beatitudine Vostra?”.

La difesa era stata così appassionata che il Papa, pur rammaricandosi di non poterlo far subito perché la Congregazione asseriva “non essere il momento opportuno”, lo aveva assicurato di essere dispostissimo, di tutto cuore, ad esaudirlo.

“Che volete di più? – esclamava il Servo di Dio nella medesima lettera – E confidava al fratello di aver manifestato al Pontefice anche il suo stato di assoluta miseria, pregandolo di annoverarlo fra i poveri da Lui soccorsi in occasione delle sante feste Pasquali!… Al che faceva eco il P. Anton’Angelo rispondendogli: Io sono senza soldi che bastion quasi al giorno, pure spero che potrò difendermi confortato dall’opportuna assistenza  della Provvidenza divina. Non vi dia questo travaglio alcuno; solo affrettate quanto potete gli aiuti; e quando non potete, statevi tranquillo ugualmente, ch’io pur lo sono per grazia di Dio.

Pochi giorni prima gli aveva scritto: “Voi, voi solo siete la più grande elemosina che fa Dio ai nostri Istituti”.

Quanta carità, e che perfetta unità di cuori!…

Dopo l’udienza Pontificia il P. Marcantonio ricevette due… “docce”, una calda e una fredda; il Principe Doria gli fece un’elemosina di dieci scudi e il di lui fratello Cardinale gli regalò un Calice d’argento; Mons. Soglia invece lo inform che non essendo state ancora presentate le Regole della nuova Congregazione, la pratica inerente all’approvazione rimaneva in sospeso.

Ne scrisse subito al Fratello; e dalla lettera traspare chiara la sua costernazione.

Il contrattempo è penoso; molto più che sebbene abbia fatto tutte le economie possibili – in due mesi s’è servitor della carrozza una volta sola per affari della massima premura – si trova quasi al verde, senza avere in tasca neppure più i quattrini occorrenti per il viaggio. Ed ora chissà  quanto altro tempo ci vorrà per rimettere in moto l’affare!…

Sappiano dunque i giovani – conclude – che questo è per me tempo di pena”. Ma quasi pentito di avere espresso un sentiment di sconforto, soggiunge subito: “Sappiano però che la sostegno assai volentieri per bene loro: mi raccomando al Signore, e confidiamo nell’amorosa Provvidenza”.

La richiesta delle Regole, d’urgenza, mise in costernazione il P. Anton’Angelo sempre molto sofferente e per di più occupatissimo fra la scuola e la Direzione dei due Istituti; nonostante si mise all’opera, le compile e le spedì al fratello entro poche settimane; questi, copiatele e fattavi qualche opportune modificazione, cui il fratello l’aveva autorizzato, il 13 Giugno le presentava alla S. Congregazione e …rimaneva in fiduciosa attesa!

Agli 11 di Luglio recatosi da Mons. Soglia a sentire “se c’era nulla di nuovo” seppe che l’Istituto non poteva essere approvato: 1) a causa del decreto del Governo austriaco del 1818 che lo sottoponeva alla sorveglianza politica; 2) perché la sua sussistenza era affidata esclusivamente all’elemosina.

Contemporaneamente apprese dal fratello che il Patriarca s’era rifiutato di intercedere presso la S. Sede a favore dell’approvazione per non andare incontro a gravosi disgusti con Governo, ad insaputa del quale la causa si stave trattando. Ed ebbe per di più la conferma di quanto già sapeva fin troppo, che le angustie economiche erano addirittura lacrimevoli.

Con quello che sarebbe per un uomo qualsiasi “il coraggio della disperazione” e che invece si manifesta in lui come incrollabile fiducia nella Provvidenza, P. Marco chiese ed ottenne una terza udienza privata dal Pontefice riuscendo ad ottenere che la sua causa fosse esaminata e discussa dal consesso dei Cardinali.

Pensò bene, allora, di avvicinare i trenta e più Porporati che l’avrebbero dovuta esaminare, per dilucidarne a ciascuno i caratteri e l’importanza; ricominciò pertanto a scendere e salire le altrui scale, sospinto dalla brama di portare a  buon esito la sua battaglia, animato dalla convinzione che il Cielo non potesse non essere dalla sua parte.

Ricevuto dovunque con cortesia, anzi con amorevolezza, ebbe assicurazione che il 7 d’Agosto la causa sarebbe stata trattata. Alla sera di quel giorno, invece, seppe che per la molteplicità degli argomenti di cui i Cardinali avevano dovuto occuparsi, la trattazione di quello che interessava lui era stata rimandata al 21 dello stesso mese.

Chi non si sarebbe spazientito? Egli invece disse: “Questo è uni dei tempi più belli della nostra vita, in cui possiamo avere la grazia di patire qualche cosa per amore di Dio. Allegri, allegri, allegri!”

Ma sebbene consigliato ad attendere ancora sino alla fine, non se la sentì; e non perché gli mancasse la tenacia. Il colera, che dalla Russia s’era diffuso in tante alter parti d’Europa ed anche in Italia, si affacciava, in quell’estate, minaccioso e terrificante.

Come si sarebbe venuto a trovare se col propagarsi dell’epidemia i cordoni sanitari che si stabilivano fra regione e regione per frenarne il contagio gli avessero impedito a tempo indeterminato di tornare a Venezia?

Si recò dunque per la quarta volta dal S. Padre il 10 di Agosto, rimise nelle sue mani paterne il buon’esito della causa delle Scuole di Carità e il 15 dello stesso mese, dopo aver celebrato nella Sede del Pontificato romano con fervore di figlio affezionato e fedele la festa della Madonna Assunta in Cielo, così cara al suo cuore fin dal tempo lontano della sua prima giovinezza, iniziò il lungo e disagioso viaggio del ritorno.

Sette mesi circa di permaneza in Roma. Sette mesi di fatiche, di mortificazioni, di speranze, di disagi fisici e morali, per concludere che cosa?

Apparentemente, ben poco. Eppure il Pellegrino di Dio, sfinito, ridotto ormai all’estremo di ogni risorsa, con le scarpe rotte e la veste a brandelli, tornava a Venezia con la certezza in cuore che la causa era vinta.

15 – Guerra del diavolo

Sappiamo tutti che non si scala una vetta senza sudare, che non c’è vittoria senza battaglia e che è prerogativa delle opera di Dio affermarsi e fiorire fra le difficoltà ed i contrasti; tuttavia seguendo il corso delle vicende attraverso le quali l’opera dei fratelli Cavanis è cresciuta e s’è affermata, si rimane perplessi e si sarebbe indotti a chiederci se contro di essa il Nemico di Dio non si sia impegnato con un’accanimento straordinario; nè ci sarebbe da meravigliarsene; perché chi non sa che “la gioventù” è il campo dove il diavolo raccoglie di più e con meno fatica? Che meraviglia, dunque, che abbia fatto tutto il possible per far fallire un’opera destinate ad ostacolare con tanto successo i suoi facili – e loschi! – interessi?

Il P. Marcantonio partì da Roma, come s’è detto, il 15 Agosto 1835. Al passo di Colfiorito stanco di starsene rannicchiato dentro alla diligenza caracollante sul fondo stradale sassoso e disuguale (le vie cilindrate e asfaltate erano ancora in mente Domini), volle discendere per sgranchirsi alquanto le gambe facendo un po’ di strada a piedi. La strada oltre che impervia era stretta. Ed ecco ad un tratto venirgli incontro in ordine sparso e trotterellando, per giunta, un drappello di somari ognuno dei quali portava sulla groppa “a basto” due barili pieni d’olio.

Alla vista delle bestie libere e sciolte, abbandonate a se stesse da una guida che le seguiva da lontano con la testa nelle nuvole o giù di lì, il pacifico viandante si tira in disparte più che può ma inutilemente, chè una bestia lo sfiora e urtandolo violentemente con uno dei barili che ha sulla groppa lo fa stramazzare per terra. Il malcapitato, caduto con la facia verso i giumenti e la schiena rivolta alla carrozza che sta per sopraggiungere, sebbene stordito tenta di rialzarsi con prontezza ma non può a causa di un piede che nel cadere ha subìto una distorsione e non risponde più alla volontà del suo legittimo proprietario.

Si mette allora a gridare con quanto fiato ha in corpo; ma mentre il vetturino si affanna per fermare i cavalli, i conducenti dei buoi attaccati alla diligenza di rincalzo, non se ne danno per intesa e così buoi e cavalli continuano a camminare come se niente fosse; i viaggiatori non posson farci nulla; gli asini continuano a trotterellare in ordine sparso.

Il P. Marcantonio sente il pesante veicolo vicino… Un attimo ancora eppoi le route gli saranno addosso e lo schiacceranno!

Infatti ecco il primo urto della ruota anteriore che lo colpisce alla schiena, poi subito dopo il secondo, quello della ruota posteriore, più grande e massiccia…

Ma come se una mano misteriosa la trattenesse con gigantesco vigore, essa urta il povero corpo disteso per terra –  quasi non potesse, come infatti non può, farne a meno – ma non lo schiaccia, e neanche l’offende; tantochè passato il veicolo e… il pericolo, con l’aiuto dei compagni di viaggio il Servo di Dio si alza!… E’ un po’ indolenzito, ha il piede dolorante, ma con grande sorpresa sua e di tutti è illeso.

Si potrebbe asserire che non sia stata una grazia del cielo? Ne son convinti tutti e più ancora d’ogni altro Lui che invita i compagni di viaggio ad unire le loro alle sue preghiera per ringraziare il Signore e la Madonna Santissima.

Il 21 dello stesso mese, come rendimento di grazie alla Vergine che lo aveva scampato dal recente pericolo, il P. Marco celebrò la S. Messa nella Santa Casa di Loreto e proseguì poi il viaggio fino a Bologna dove ebbe, dal fratello, assicurazione che il parere dei cardinali per l’approvazione della Congregazione era stato favorevole. Divenne allora impaziente di trovarsi a Venezia, co’ suoi, al più presto; e dopo una sosta brevissima a Lendinara, vi arrivò la sera del 7 Settembre.

Era assente da sette mesi – mesi densi di preoccupazioni, di ansie, di peripezie d’ogni genere; si può immaginare dunque come lo accolsero i confratelli ed i giovani, come fu tutta in festa la Casetta!… Ma l’unico che avrebbe potuto lasciare aperto uno spiraglio attraverso al quale fosse concesso a noi di penetrare nell’intimità della Famiglia e partecipare a tanta festa di cuori era proprio lui, il festeggiato, che nel suo Diario annotò sempre ogni avvenimento anche minimo; invece di questo, neanche una parola!… Forse perché avrebbe dovuto dirci in qual conto lo tenevano e di quanto affetto lo circondavano!

Ci ha fatto sapere invece che suo primo pensiero fu di ottenere che si compisse l’opera così bene avviata.

Infatti avendo il Papa Gregorio XVI già confermato il voto favorevole della S. Congregazione non mancava che il Breve Apostolico; ma…ecco il diavolo pronto a metterci ancora lo zampino. Il Breve pontificio imponeva ai congregati i santi Voti, mentre il Governo aveva posto come condizione dell’approvazione la libertà per i suoi membri di uscire, e dei superiori di licenziarli, in qualsiasi momento. Come conciliare le due esigenze in contrasto? Non c’era altra via che stabilire “che i voti fossero temporanei e tenessero obbligato il religioso soltanto finchè fosse rimasto in Congregazione”. Soluzione geniale che la S. Sede accettò di buon grado.

Ma era appena superato questo ostacolo che già se ne profilava un altro: al principio dell’anno scolastico 1835-36 il Governo assoggettava anche le classi 1 e 2 elementare a sostenere l’esame semestrale presso la scuola governativa, previa una tassa di quattro fiorini per ogni alunno. Era lo stesso che ordinare di… sgombrare le aule!

I servi di Dio ricorsero allora al Patriarca perché interponesse i suoi buoni uffici; sennonchè il rimedio fu peggiore del male perché l’Autorità si dichiarava disposta ad autorizzare le scuole di Carità ad accogliere anche gli alunni esterni purchè i Cavanis si occupassero esclusivamente di fanciulli poveri ed abbandonati dai loro genitori.

Ma questo in parole povere era un voler fare la parte del leone ad ogni costo!

Lo scopo dell’Istituto era stato sempre la educazione dei giovani principalmente poveri; ma perché pretendere che si occupasse esclusivamente di quelli riducendolo ad una specie di… ospizio di mendicità? Che forse gli agiati non possono aver bisogno di una assidua assistenza e di una sana educazione?

Con calma e prudenza il P. Marco “fece i suoi passi” e nel Maggio del 1836 otteneva la revoca del Decreto-capestro.

Poco dopo i nostri Padri avevano la indicibile consolazione – tanto meritata! – di ricevere il Breve di Approvazione; ed a tanta letizia si aggiunse anche quella di un po’ di respiro per le loro scuole avendo la Delegazione provinciale proposto di pareggiare le prime due classi elementari alle comunali con appositi esami interni, ed avendo poi il Governo, poco dopo, accordato anche agli student ginnasiali dell’Istituto l’esenzione dell’esperimento mensile presso il Ginnasio pubblico.

La Provvidenza non ha fretta ma arriva dove vuole!

… Però il diavolo è duro ad arrendersi! Alla fine del 1836 i Cavanis, forti del Breve di Approvazione Pontificia e ritenendo che fosse ormai giunto il momento buono, avevan chiesto al Patriarca che riconoscesse anche Lui canonicamente, con analogo decreto, la fondazione.

Non potevano esservi, da parte sua, motivi per negarlo; e difatti non ne aveva addotto alcuno, anzi s’era affrettato a domandare il beneplacito del Governo che in conformità alle Leggi vigenti era rigorosamente prescritto.

Ma anche il Governo quali prevenzioni avrebbe potuto avere ormai nei riguardi dei Cavanis, così ben quotati – ed a ragione – nelle alte sfere?

Invece la risposta fu che il beneplacito non poteva esser concesso perché i fratelli Cavanis avevano domandato l’approvazione del Sommo Pontefice senza il preventive permesso dell’Autorità politica, permesso previsto come obbligatorio dalle norme vigenti.

Un vero fulmine a ciel sereno; il quale per altro, non valse a turbare la serenità dei Servi di Dio, ben certi di essere dalla parte della ragione; infatti la Congregazione non era già stata approvata anche dall’Imperatore? Quale “permesso preventive” più autorevole di questo si poteva pretendere? Questo, il Patriarca fece osservare alle Autorità governative; e il Vicerè, intesa la ragione, concesse subito il placet.

La guerra era del diavolo (secondo l’espressione dello stesso P. Marco), ma la causa era di Dio e per conseguenza doveva finir per trionfare.

A confermarlo sta il fatto che in data 23 Settembre 1837 venivano ordinati Sacerdoti D. Angelo Minozzi, D. Giuseppe Marchiori e D. Sebastiano Casara, e ammessi agli Ordini minori Giuseppe Rovigo e Giuseppe Da Col, perle preziose – tutti e cinque – della nuova Congregazione.

Ma chi arresterà iil pio pellegrino nella sua corsa incessante? Quando, la Carità che lo spinge, l’inviterà a riposarsi?

Il 13 di Febbraio 1838 in compagnia del giovane Sacerdote D. Marchiori parte di nuovo per Vienna con la Veloce (una vettura così chiamata perché viaggia ininterrottamente di giorno e di notte).

C’è l’approvazione della S. Sede; c’è una squadra di volontari, preparati ed animosi; ma manca ancora quella libertà che è indispensabile all’opera per rispondere pienamente allo scopo prefissosi. E’ la piena libertà di insegnamento, che bisogna ottenere! Ed eccolo, ancora intrepido ed instancabile, a 64 anni, di nuovo in giro per la capitale dell’Impero a conferire con persone influenti, a chiedere aiuti, ad invocare l’appoggio dei Dignitari della Corte e perfino dell’Imperatrice…

“Con P. Marcantonio – dirà poi il P. Marchiori – non si stave mai seduti!”

Superati ostacoli, vinte difficoltà, ottenute sovvenzioni e garanzie con la sua facondia, con la sua audacia, ma soprattutto con la sua santità  che si manifesta e s’impone agli ecclesiastici, ai laici ed alle autorità politiche, il 13 aprile torna a Venezia col proposito di lasciare al Signore la cura di perfezionare l’Opera.

Ma ci resiste per poco! Ai primi di Maggio è a Milano per offrire di persona al Vicerè il suo ultimo libro: “Notizie intorno alla Fondazione della Congregazione dei Chierici Secolari delle scuole di Carità” destinato a far conoscere l’Istituto e suscitare nuove vocazioni.

Mentre è a Milano perviene l’annunzio di una sovvenzione di 200 fiorini da parte dell’Imperatrice Marianna per costituire il patrimonio ecclesiatico di uno dei Chierici della Congregazione e per vengono inoltre altre buone notizie dale quali è lecito dedurre che le suppliche presentate al Sovrano saranno presto esaudite.

Allora il pio Pellegrino presentendo che l’ora di Dio sta per scoccare si decide a tornare a Venezia per esser presente nel momento sospirato e benedetto.

16 – La data memoranda

Dopo 36 anni di fatiche e di lotte il seme minuscolo gettato con indomita fede sotto gli auspice della Regina del Cielo e coltivato con eroica costanza, era diventato una pianta in grado di dar frutti.

L’Opera, consolidata dall’approvazione della Chiesa e dello Stato e veduta con ammirazione e simpatia da tutti i buoni, muoveva sicura verso l’avvenire.

Il 13 luglio 1838 dopo tre giorni di ritiro spirituale la nascente Comunità si raccoglieva nell’Oratorio domestico per procedere alla cerimonia della vestizione del più anziano dei fondatori, il P. Anton’Angelo.

Il Servo di Dio mosse verso l’Altare con edificante raccoglimente, preceduto da quattro sacerdoti ed avendo alla destra il fratello incaricato di presiedere al sacro rito.

Arrivatovi si inginocchiò ai piede di lui e questi dall’Altare stesso gli rivolse affettuose parole di circostanza; ma ad un certo punto la commozione lo vinse ed il rito continuò ed ebbe termine fra lacrime dolcissime, di lui e di tutti gli astanti.

Il pomeriggio del giorno seguente il P. Anton’Angelo pronunziò i SS. Voti e il P. Marcantonio, ricevutili, lo aggregava ufficialmente alla religiosa famiglia presentandolo come superiore. Lo stesso giorno il Patriarca Card. Monico pubblicava il Decreto col quale dichiarava formalmente esistente in Diocesi la nuova Congregazione.

Il giorno 15, festa del SS. Redentore, ebbe luogo la cerimonia della vestizione degli altri congregati: cinque sacerdoti, quattro chierici e quattro aspiranti.

L’anima serafica di P. Anton’Angelo ardeva e i fremiti dell’anima sgorgavano dalle sue labbra con accenti infuocati.

Il 16, festa della Regina del Carmelo, il Patriarca al quale facevan corona autorità civili ed alte personalità ecclesiastiche celebrò nell’Oratorio delle Scuole la S. Messa e dopo, dal faldistorio, in una alata orazione, tessè le lodi dell’Opera, dei fondatori e dei loro primi figliuoli. Rispose a Lui il P. Anton’Angelo con un discorso poderoso che edifice tutti grandemente e li sorprese per la vastità delle linee e la profondità dei concetti, espresso così all’improvviso.

In fine fu cantato il Te Deum; un Te Deum nel quale il tripudio e la gratitudine attingevano significato e sostanza da quasi un quarantennio di operosità indefessa, di ostinate speranze e di sacrifice incommensurabili.

Alla benignità del Signore si aggiungeva, verso la fine dello stesso anno, anche un’attestato di umana benevolenza: a ciascuno dei due fratelli, Conti Cavanis, l’Imperatore decretava l’onorificenza della “grande medaglia d’onore civile in oro con nastro, in contemplazione delle distinte benemerenze acquistatesi pel pubblico bene”.

Lo storico dei servi di Dio – il P. Francesco Saverio Zanon – si fa premura d’informarci che mentre i due documenti rimangono in Archivio, delle medaglie non c’è rimasto traccia.

…Furono ingoiate, non si sa quando, nel vortice dei debiti del sempre povero Istituto dei Cavanis!

Il che – aggiungiamo noi – è la prova migliore che l’avevano meritata e che la motivazione è quella giusta.

Nel suo ultimo viaggio a Vienna il P. Marcantonio aveva domandato al Governo: 1) la libertà di abilitazione dei maestri delle Scuole di Carità: 2) la libertà dello studio filosifico dei loro Chierici; 3) la esenzione dei medesimi dal servizio militare; 4) la primitiva libertà e pubblicità delle scuole ginnasiali. Ora, costituita definitivamente la Congregazione, l’animo suo e del fratello si volse di nuovo, e con rinnovato ardore, al conseguimento di ciò che bramavano.

Nè salti in mente a qualche lettore distratto di dire che… pretendevano troppo! Pretendevano soltanto l’indispensabile!

Per l’Istituto la libertà da ogni ingerenza statale degli educatori come degli alunni rappresentava il respiro; e… o si respire a pieni polmoni, o non si può vivere a lungo.

Insistere era dunque non petulanza, ma necessità; e se per arrivare al sì eran costretti, secondo l’espressione usata dal nostro intrepido viaggiatore, a percorrere la via del no (anzi, dei tanti e tanti no!), non era colpa loro.

Nel 1839, infatti, dopo i no ripetuti ed ostinato, anche per l’intervento dell’Imperatrice ottenevano per il Ginnasio la prerogativa della pubblicità, sempre – s’intende – con l’obbligo di attenersi alle prescrizioni vigenti.

Non era ancora tutto, ma era un nuovo considerevole passo in avanti.

L’ingerenza del Governo negli studi filosofici e teologici dei Chierici era intollerabile; lo comprende chiunque; e i Cavanis che la subivano come si subisce una catena al piede, decisero di tentare tutto il possibile per spezzarla, ma una loro supplica in proposito ottenne l’effetto contrario. Allora il P. Marcantonio riprende il bordone del pellegrino e va a Monza a conferire con Vicerè. Niente! Fiasco complete!

Non è il primo e forse non sarà l’ultimo; ma non si perde d’animo. Nel giorno del 1841, a sessantasei anni, riprende la via di Vienna su di una caracollante diligenza antidiluviana, insieme al P. Marchiori; e il viaggio porta a conclusioni consolanti perché con Decreto comunicato allo stesso P. Marcantonio in data 8 dicembre – quasi a rendere omaggio e convalidare la sua fiducia nella protezione della Madonna – il Governo Imperiale riconosce gli studi già fatti dai chierici dell’Istituto (purchè ne sostengano gli esami presso il Seminario Patriarcale) e autorizza lo studio domestico, filosofico e teologico.

“Conclusioni consolanti” abbiamo detto, non “definitive” perché  quest’ultima disposizione cozzò ancora una volta contro la grettezza e il malanimo degli organi governantivi i quali ebbero l’impudenza di mandare in lungo la cosa per altri sei anni.

Finalmente nel Novembre 1846 lo studio domestico filosofico e teologico dei Cavanis ebbe il riconoscimento ufficiale.

La invitta tenacia dei Servi di Dio aveva trionfato. Il P. Marcantonio per la via del no era arrivato al sì.

Le scuole fiorivano; l’Opera Cavanis era ormai entrata nel cuore del buon popolo veneziano; ma se le aule riuscivano a contenere, alla meglio, la moltitudine degli alunni, l’Oratorio non la conteneva più affatto. E ciò non era, per i Servi di Dio, un inconveniente da poco, perché la loro opera di educatori non aveva forse per fine essenziale “Chiesa” con tutto ciò che Essa significa e comprende?

Avere una Chiesa sufficiente, comoda, decorosa dove completare e perfezionare l’educazione scolastica, era dunque per essi indispensabile ed urgente.

La Chiesa di S. Agnese, che i loro antenati avevano devotamente frequentato, dove essi stessi erano stati battezzati ed avevano poi esercitato le primizie del loro ministero sacerdotale, diventata di proprietà del Demanio era fin dal tempo della dominazione francese adibita a magazzino di legnami; a poterla ricuperare, restaurare e adibire di nuovo al culto divino, sarebbe stata un Oratorio ideale. Oh, poterla ottenere dalla… disinteressata generosità del Governo! Tentarono; il P. Marco si rimise in moto con la sua tenacia e con la sua eloquenza, ma non approdò  a nulla; fu deciso allora di comprarla concorrendo all’asta pubblica; sennochè i Cavanis ebbero per avversario un francese, certo Francesco Charmet, che la strappò loro di mano per 7150 lire austriache.

Il popolo numeroso che assisteva all’asta, indignato, voleva gettare in acqua il vincitore che dovette chiedere protezione alla forza pubblica; ma nessuno potè salvarlo, di lì a pochi giorni, da una grave disgrazia in seguito alla quale temendo trattarsi di un meritato castigo si decideva a cedere ai PP. Cavanis ogni diritto.

Così il 27 Novembre 1839, trovato nel Conte Francesco Revedin un munifico benefattore disposto a versare la somma occorrente, quasi per intiero, la Chiesa di S. Agnese diventava proprietà della Congregazione. Ma in che stato era ridotta!..

Per restaurarla convenientemente tutti i membri della Congregazione sono mobilitati nei lavori di pulizia e di sgombero dei materiali; ma chi provvederà alle ventiduemila e più lire austriache preventivate per le opera di muratura e di ripristino?

  • “Cireneo volenteroso e prodigioso, tocca ancora a te!…”

E il Cireneo delle Scuole di Carità nel Maggio del 1844, benchè settantenne, abbraccia ancora la croce – il suo peso adorabile – e ricomincia il calvario delle suppliche, si sottopone di nuovo ai rifiuti, alle scortesie, alle incomprensioni, alle delusioni…

A Verona s’incontra con Gaspare Bertoni fondatore della Congregazione degli Stimatini, a Brescia con il Pavoni fondatore dei Figli di Maria, a Torino con Giuseppe Cafasso il “santo prete della forca” e tra di loro santi s’intendono, si incoraggiano, si edificano reciprocamentee; ma i santi di regola son tutti poveri, mentre chi è ricco il più delle volte invece di esaudirlo lo respinge.

Malgrado ciò la Provvidenza, supplendo alle incomprensioni degli uomini, benedice il suo spirito di sacrificio, sostiene la sua sovrumana fiducia e i restauri progrediscono. Vanno avanti a spinte, a pezzi e a bocconi, come suol dirsi, ma vanno avanti; tantochè nel 1854 la Chiesa potrà essere ufficialmente riaperta al pubblico.

Ma il periodo che va dal 1844 al 1854 include il quarantotto e il quarantanove!

Il lettore ha già capito di che cosa si tratta: Maturavano per l’Italia avvenimenti di straordinaria importanza; i rifugiati politici attendevano dal Piemonte il momento opportune per realizzare la libertà e l’unità italiana; l’avvento al Pontificato di Pio IX, divenuto simbolo di riscossa e di redenzione, incoraggiava nella Lombardia e nel Veneto le prime sommosse che il Governo Austriaco reprimeva sistematicamente con la forca o col carcere; Milano cacciava l’invasore; Venezia liberava dalla prigione a furia di popolo Manin e il Tommaseo e al grido di Viva S. Marco istituiva il Governo provvisorio; Carlo Alberto dichiarava la guerra all’Austria…

I cavanis alieni sempre dalla politica (ed il lettore che ormai li conosce non saprebbe certo da che parte rifarsi per opinare il contrario), benchè gli avvenimenti in Corso coincidessero con il loro devote attaccamento alle gloriose tradizioni della Repubblica veneta, che (come nota opportunamente B. Galletto nel già citato Profilo dei Servi di Dio) si inserivano nella riconquistata libertà ed unità nazionale, li accolsero con la prudenza e serenità che si addicono ad educatori degni di questo gran nome, considerandoli alla luce della fede e della carità e ritenendosi in dovere di obbedire lealmente all’Autorità costituita, come comanda il Signore, nella convinzione che a restar fedeli a Dio non si sbaglia.

Fermi in questo saggio atteggiamento, quando sores a Venezia il Battaglione della speranza suggerito dalla euphoria del momento e nel quale si arruolavano in massa perfino i ragazzi di dieci anni, i Cavanis furono, sulle prime, titubanti se consentire o meno la formazione di un drappello di guardia civica fra gli alunni delle loro scuole che lo reclamavano con giovanile baldanza.

La gioventù fa presto ad esaltarsi e buttarsi allo sbaraglio; ma chi s’è assunto il compito guidarla, prima di aiutarla a buttarcisi ha il dovere di pensarci due volte!

Però non appena il Patriarca li consigliò ad acconsentire, acconsentirono all’istante.

Naturalmente non mancarono i fanatici e gli speculatori (oh, come gli uomini son sempre “quelli”, e come si assomigliano i tempi!) che ne presero pretesto per accusarli e denunziarli quali nemici della Patria; ma l’accusa non attaccò! Niccolò Tommaseo, uomo di statura morale non comune, nominato ministro dell’Istruzione, disse chiaro che sarebbe stato un delitto non mostrarsi riconoscenti ad uomini come i fratelli Cavanis; e il Presidente del Comitato di pubblica vigilanza rispose ai loro accusatori che “le prove monumentali da Essi offerte di patrio affetto e di Cristiana carità rendevano nulla l’accusa”.

Una volta tanto la Verità riusciva a rompere la nebbia fitta e micidiale del fanatismo antireligioso e della bassa speculazione politica.

Al “quarantotto” teneva dietro il “quarantanove” vale a dire la reazione.

L’Impero austriaco ancora forte passava al contrattacco e sconfiggeva le truppe piemontesi; a Venezia le cose prendevano una piega dolorosa. Mancavano  i viveri, si incominciava a patire la fame, il nemico iniziava il bombardamento della città fiaccando l’eroica difesa dei patriotti.

Nella notte del 29 Luglio i proiettili arrivarono anche nel centro di Venezia. Non erano come quelli di nostra conoscenza, ma non eran neppure caramelle!

Durante l’infernale bombardamento che si protrasse fino al 22 Agosto, non pochi proiettili caddero anche nell’orto della Casetta dei Cavanis, sicchè bisognò sfollarla, trasferendo l’intera Comunità al Seminario, luogo più sicuro. L’Istituto femminile delle Eremite fu colpito ancor più duramente ma non riuscendo a trovare un rifugio, quelle povere creature dovettero rassegnarsi a rimanere, confidando nelle protezione di Dio, confortate dall’assistenza paterna del P. Frigiolini che rimase volontariamente e coraggiosamente fra loro con edificazione di tutti.

A questo si aggiunga la mancanza dei generi di prima necessità (il pane non si faceva più, ormai, che con le spazzature dei magazzini di grano), l’impossibilità di trovare il danaro occorrente per il sostentamento quotidiano e la mancanza assoluta di riserve, e si avrà il quadro completo della tragica situazione in cui si trovava l’opera dei Cavanis.

Il 22 Agosto Venezia si arrendeva e il 28 vi entrava Radetzki.

In questa atmosfera di desolato smarrimento spiccava il volo dalla rocca del Vaticano l’invito di Pio IX al mondo cattolico di raccogliersi in preghiera per “preparare” nella luce dello Spirito Santo il Dogma dell’Immacolata Concezione di Maria SS. e il 16 Novembre i PP. Cavanis ricevevano, al pari di tutti i Superiori delle Comunità religiose, l’invito ad unirsi al Coro dei fedeli ed anche ad esprimere il loro parere, com’era richiesto dalla S. Sede.

Fu per i Servi di Dio una gioia che li ripagò di tutte le privazioni e di tutte le ansie sofferte.

L’affetto filiale e la profonda venerazione alla Madre celeste non eran forse una delle prerogative essenziali del loro Istituto?

Questo dissero, rispondendo all’appello del Patriarca; e il primo di Dicembre il P. Anton’Angelo intimava a tutti i suoi figli la devozione dell’Anno Mariano.

17 – Fino all’ultimo

Sulla soglia dell’anno di grazia 1850 l’opera dei Cavanis arriva addirittura stremata di forze. Gli avvenimenti dell’anno precedente l’hanno ridotta all’estremo limite della povertà.

E il P. Anton’Angelo è giunto alla grave età di 78 anni, e il P. Marcantonio ne ha settantasei!

Malgrado ciò il primo, benchè quasi cieco, attende ancora alla direzione dell’Istituto e l’altro è ancora in moto per provvedere ai molteplici improrogabili bisogni.

Infatti lo troviamo ancora a Rovigo per ottenere elemosine, a Lendinara per sollecitare dall’erede del Marchiori,  morto l’anno prima, la Fondazione di un Istituto femminile, e a Milano in cerca di sussidi ma anche e principalmente di Vocazioni.

Le strettezze di personale, così indispensabile al funzionamento delle scuole, erano preoccupanti. Non era una vita comoda, quella che l’Istituto offriva a coloro che chiedevano di mettersi al suo servizio! Era, anzi, vita di fatiche e di privazioni di ogni genere; e pertanto, come abbiamo già detto, molti dopo aver provato per qualche mese ne uscivano, altri vi resistevano per qualche anno eppoi stanchi di quella acuta povertà, di quella misera casetta malsana e di quell lavoro snervante riprendevano la propria libertà, ed altri infine cadevano sulla breccia esausti, consunti… Che sarebbe accaduto dell’Opera se i vuoti non si fossero riempiti?

Mentre il P. Marcantonio va peregrinando – e gli aiuti e i conforti che ottiene sono tanto esigui – il Governo Austriaco torna ad accampare nuove pretese imponendo alle Scuole innovazioni ed aggiunte; perciò al suo ritorno deve occuparsi subito anche di parare il nuovo colpo  mancino.

E’ scritto che il Cireneo debba portar la croce fino all’ultimo! Ma il ’51 segna il principio della fine.

Il P. Anton’Angelo, ottantenne, va declinando rapidamente e dolorosamente con grande amarezza di tutta la Congregazione e specie del fratello che è sempre stato una cosa sola con lui.

La cecità e le infermità gli rendono oramai impossibile la direzione dell’Opera che ha bisogno di energie più  fresche e pertanto d’accordo col Patriarca Mons. Aurelio Mutti successo al Card. Monico passato a miglior vita, rinunzia alla direzione proponendo come suo successore il P. Frigiolini, giovanissimo e dotato di doti eccezionali.

Disinteressarsi d’una creatura a cui s’è data la vita e per cinquant’anni s’è alimentata con l’intelligenza e col cuore, col sangue e con l’anima, deve essere tanto penoso!…

Eppure il P. Anton’Angelo chiede proprio questo; di rinunziare a governarla e a nutrirla.

In tanta afflizione lo consola la certezza che il suo successore ha lo stesso suo cuore e nutrirà la diletta creatura con lo stesso suo sangue.

Invece, a distanza di poco più che tre mesi dalla nomina, il nuovo Superiore, nel quale eran riposte tante speranze, muore in cinque giorni, a soli 34 anni di età!

A chiudere gli occhi ai due eroi della libertà dell’insegnamento cristiano, a raccogliere la loro eredità spirituale ed a prendere le redini dell’opera per guidarla col senno e con la mano per le vie del Signore, era designato un altro figlio, loro prediletto anch’esso e dal cuore santamente generoso, il Padre Sebastiano Casara.

Frattanto la fibra dei due Padri va cedendo con rapidità impressionante.

Il P. Marco esce ancora ogni giorno in cerca di elemosine. Lo si vede barcollare per le strette viuzze ripiegato su di un fianco a causa degli acuti dolori che lo aggrediscono all’improvviso, e talvolta perdute le forze si accascia, sicchè deve essere ricondotto in gondola alla Casetta.

Tutta Venezia ormai lo conosce e lo venera, e quindi è, per ognuno, un vanto poterlo soccorrere; ma com’è malinconico il tramonto di questa meravigliosa esistenza!… Com’è amaro l’arrestarsi e il soccombere di questo Cireneo che porta la Croce della Carità ininterrottamente, eroicamente, da un cinquantennio!

Al principio del 1853 si decide anche lui a “disinteressarsi” della sua creatura consegnando tutta l’Amministrazione nelle mani del P. Casara.

La debolezza senile, accentuate dale continue fatiche e preoccupazioni, acuisce in lui la naturale delicatezza di coscienza e di sentimento e lo rende simile ad un fanciullo timido, debole, sempre preoccupato di tutto, mentre il fratello assalito dalle convulsioni che si ripetono con straordinaria violenza e mortificato da frequenti alienazioni mentali, vaneggia, si lamenta, piange…

Componevano insieme un’unica fiamma; ora l’unica vivida fiammo languisce e va spegnendosi perché nè l’uno nè l’altro la può più alimentare.

Che tristezza, nei figli, che la vedono ancora guizzare limpida e vigorosa nella amabilità con cui il P. Anton’Angelo sorride e benedice durante i suoi lucidi intervalli e nelle vibranti parole con cui il P. Marcantonio li incoraggia e li sprona! Che tristezza a pensare che sono gli ultimi guizzi!…

Nel medesimo anno (1853) il Governo ordisce una ennesima trama ai danni delle Scuole private imponendo loro oneri irragionevoli più che ingiusti.

Il P. Marco, quasi cieco anche lui, e cadente, insurge raccogliendo l’ultimo residuo di forze ancora rimastegli e sostiene la nuova battaglia.

L’esito è negativo. Il Ministro, ostinato a ridurre a condizione privata tutti gli Istituto non governativi, ordina ai nostri fondatori di comunicargli le loro decisioni per il nuovo anno scolastico.

Il santo vecchio – par di vederlo – si erige altero sulla persona affralita e piegata dale sofferenze e dice no! Che non può accettare il nuovo sopruso.

Era l’ultima battaglia sostenuta in favore delle sue scuole. Battaglia perduta?

A noi sembra invece che quel no gettato in faccia al tiranno di sull’orlo del sepolcro sia il degno suggello di tutte le sue vittorie.

18 – Il buon passaggio

La mattina dell’8 Ottobre 1853 il P. Marcantonio s’era recato a confessarsi da un padre domenicano di S. Lorenzo, com’era solito, ed era tornato a casa senza troppa fatica; a mezzogiorno, in refettorio, era apparso di buon umore, soltanto durante la cena il P. Casara notò che parlando s’inceppava e perciò mandò a chiamare il medico. Appena questi lo vide ravvisò i sintomi dell’apoplessia e ordinò un salasso.

La notte passò tranquilla e la mattina seguente dopo avere scherzato un poco, amabilmente, col fratello laico che l’assisteva,, disse all’improvviso: “Pregate per me perché faccia buon trapasso”.

Furon queste le ultime sue parole! Ma continuando a dar segni d’essere ancora in sé gli si somministrarono tutti i Sacramenti, lo si circondò di ogni amorevolezza e poco dopo la mezzanotte del giorno 11 si spense placidamente…

Il P. Anton’Angelo, che sentendo suonar l’agonnia alla parrochia vicina s’era subito immaginato che suonasse per il fratello e l’aveva voluto visitare per tre volte in quello stesso giorno manifestando una rara fortezza e una sublime pietà, quando lo seppe morto ripetè più e più volte “fiat voluntas tua” ed espresse dal cuore anche il “Te Deum laudamus”.

Soltanto più tardi si abbandonò al pianto; ma quando, sostenuto dal P. Casara, entrò nella camera dove il P.Marco giaceva sul letto di morte e si chino a baciargli la mano, alle sue cuocenti lacrime si unirono quelle di tutti gli astanti perché non v’era chi non sapesse che il santo vegliardo baciava e bagnava di pianto la mano prodigiosa cui era dovuta la vita dell’Opera nata dal cuore di tutti e due.

I funerali furono straordinariamente solenni; e le schiere di giovani e i cittadini d’ogni ceto accorsi a rendere omaggio alla salma venerata decretandone un vero trionfo, non lasciarono alcun dubbio sulla unanime convinzione che “era morto un santo”.

Adoprandosi con tanto zelo – come s’è visto – per il restauro e la riapertura della Chiesa di Sant’Agnese, il P. Marco, che vi aveva gustato insieme al fratello, da piccolo, le prime gioie dello spirito, aveva talvolta sommessamente, in perfetta umiltà, espresso il desiderio di potervi riposare un giorno, da morto.

Il suo desiderio – tanto legittimo – non potè essere esaudito subito perché i lavori di restauro non erano ancora ultimati, ma dopo la sua morte si accelerarono cosicchè il 15 di Agosto 1854 festa della Madonna Assunta (tanto cara al cuore dei Cavanis) la Chiesa fu solennemente inaugurate tra la commozione della famiglia religiosa e l’entusiasmo di tutto il popolo; e il 5 Settembre successive, superate le formalità burocratiche, il P. Marco vi rientrava, nelle esanimi spoglie del suo mortale organismo, accompagnato da un corteo che  doveva esser funebre e invece apparve a tutti trionfale, accolto dall’amato fratello, cieco, cadente, ma spirante dal volto, dal portamento e da tutta la persona tanta santità e pia contentezza, che la folla non si saziava di rimirarlo e di goderne il fascino benedetto.

Com’era da prevedersi, la morte del P. Marcantonio influì molto sul fisico e sul morale del venerando fratello, tantochè si temette che la sua fibra non resistesse e si trepidò molto al pensiero di perderlo; invece resistette ancora per qualche anno; ma oh, con quale trepidazione e pena da parte dei figli che tanto lo veneravano!

Costretto a starsene quasi sempre nella sua stanza, i Padri e i Chierici facevano a gara ad assisterlo ed a tenergli compagnia, leggendogli qualche pio libro, pregando con lui e ricevendone in cambio il dono prezioso della sua santa parola e del suo esempio sublime; ma la sua mente si andava offuscando sempre di più e allora lo spettacolo triste di quella gran fiamma annebbiata e smorta dava ad essi un senso di sgomento.

L’andamento dell’Istituto era soddisfacente; la Congregazione fioriva, le scuole ad onta delle vessazioni politiche progredivano. Morivano il P. Bonlini condiscepolo del P. Marcantonio e il P. Marchiori, religioso esemplare, ma il Signore consolava l’Istituto con nuove vocazioni (tra cui alcune preziosissime come quella del P. Chiereghin e di Don Tito Fusarini, benefico protettore e guida al Sacerdozio di Colui che diverrà in seguito il Santo Papa Pio X), ed aprendogli nuovi orizzonti con la fondazione di una nuova Casa a Possagno, la patria di Antonio Canova, destinata a diventare un organo vitale dell’Opera Cavanis.

Confortante sarebbe stato pei figli mettere il venerando padre a parte delle “cose di famiglia”, averlo ancora a condividere dolori, gioie, speranze; ma il suo stato era, purtroppo, di abituale alienazione mentale, sempre più grave. Aveva dei lucidi intervalli durante i quali la sua bell’anima guizzava ancora di spirituale splendore, ed in uno di questi benedisse anche con paterna effusione il P. Da Col che era venuto a rendergli omaggio dopo essere stato investito Parroco di Possagno; ma poi ricadeva quasi subito nel suo doloroso torpore o ricominciava a veneggiare…

Il 16 di Gennaio 1858 compiva 86 anni; e proprio in quel giorno si aggrevò tanto che i confratelli ritennero giunto il momento di amministrargli i Sacramenti; ma come fare se era fuori di sé?

Invece qualche giorno dopo dette segno – quasi prodigiosamente –  di una tale lucidità di mente che fu possible fargli fare la Confessione e la Comunione mentre egli stesso recitava da sè il Confiteor battendosi il petto con profonda umiltà.

Più tardi il P. Fusarini gli domandò la benedizione  per tutta la Famiglia ed egli la impartì, ai vicini e ai lontani, con tre segni di Croce, pronunziando distintamente le parole e ripetendo infine per tre volte: “Amen, Amen, Amen!”

Al P. Casara raccomandò poi, per tutti, la carità aggiungendo che “di questi (che rimangono fedeli alla Carità di Cristo) il diavolo non ne piglia nessuno”.

Anche nel ricevere l’Estrema Unzione recitò da sè il Confiteor e rispondendo a qualche parola di pietà suggeritagli dai suoi Figlioli, stretti intorno al suo capezzale, rispose che…sì, da Dio viene ogni bene e che noi da soli non siamo buoni a nulla. In seguito, anche vaneggiando, non parlò d’altro che di religione e di pietà; e tornando poi in sè non pronunziò altro che parole di perdono per tutti e di tenerezza per i suoi Figli, assicurandoli che si sarebbe ricordato di loro in Paradiso e avrebbe pregato il Signore di farli gran santi

Fra queste alternative di quiete e di sofferenza, di vaneggiamenti e di lucidità, si giunse al 12 Marzo: i Padri si trovavano in refettorio quando il fratello laico che assisteva l’infermo chiamò. Accorsero tutti e videro che era agli estremi; perciò il P. Casara gli impartì l’assoluzione e gli suggerì delle giaculatorie alle quali egli rispose con cenni di consenso e balbettando parole incomprensibili.

Il Casara continuò con le Litanie della Madonna; e fu proprio mentre i suoi Figli lodavano la Vergine, da lui tanto amata, che il P. Anton’Angelo si addormentò nel Signore, così tranquillamente che essi non se ne accorsero neppure.

La sua salma vegliata dai figli in lutto, fu visitata dagli alunni delle scuole, dal clero veneziano e da una moltitudine di popolo che le passò dinanzi raccolta e commossa.

La sera del 15 Marzo, con una processione trionfale, fu portata in S. Agnese e il giorno seguente fu deposta dietro l’Altare Maggiore nell’Arca dove era già stata collocata quella del P. Marcantonio.

Uniti nella Carità, uniti nel sepolcro, uniti in Dio!

19 – L’aquila a due teste

La figura del P. Marcantonio pellegrino instancabile e strenuo lottatore per la libertà della Scuola, domina la storia dei fratelli Cavanis. La domina come domina un colle il faro posto sulla vetta, o una torre la croce issata sulla cuspide; ma nè la croce nè il faro dominerebbero senza la torre o il colle, vale a dire senza la base che li sostiene.

Le Scuole di Carità ben difficilmente (parlando dal tetto in giù) avrebbero potuto affermarsi e progredire senza il P. Marcantonio; ma a che cosa sarebbe valsa l’opera del P. Marcantonio senza quella del fratello, assidua, paziente, saggia, ispirata?

Con questo – intendiamoci – non vogliamo stabilire un confronto fra i due perché se esiste al mondo un caso in cui il confronto sia fuor di proposito, è proprio questo. Vogliamo dire piuttosto che i due benemeriti religiosi non si possono considerare l’uno di fronte all’altro e nemmeno l’uno separato dall’altro perché ci si presentano come due elementi che mescolati insieme – anzi, fusi addirittura – danno un’unica sostanza; e se si separano è la sostanza stessa che se ne va.

Noi li vorremmo definire familiarmente due anime in un nocciolo; ma la definizione più esatta, quella che sintetizza meglio d’ogni altra  i loro rapport reciproci l’ha data lo stesso P. Marcantonio quando ha detto scherzosamente: “Mio fratello ed io siamo come l’Aquila austriaca, che ha due teste, ma un cuor solo”.

E’ questa rara e preziosa unità di cuori che fondendo i due intelligenze e le quattro braccia ne compone in perfetta armonia gli elementi necessari alla vita e allo sviluppo di un’unica istituzione.

Cosicchè sebbene la figura del P. Marcantonio domini e risplenda, egli non è soltanto croce o faro come il P. Anton’Angelo, non è soltanto torre o colle, ma l’uno che l’altro hanno in sè della sostanza comune, tanto i due son riusciti a fondersi e a diventare uno solo.

Ma che cosa c’è alla radice di questa perfetta fusione? E da che cosa deriva? Forse dall’essere fratelli? Non basta! Il fatto stesso di avere due temperamenti diversissimi dice che per fondersi insieme esser fratelli non basta.

Dall’avere disposato una medesima Idea? Non basta neppure questo; perché quand’anche si parta insieme decisi di conseguire un’unica mèta, il più delle volte strada facendo ci si convince che il viaggio in comune non è possibile e ci separiamo; o se anche non si arriva a questo, si diverge, si contrasta, si litiga; mentre fra i due fratelli Cavanis non si riscontra mai un contrasto, un dissapore, una divergenza anche minima.

Allora da che cosa deriverà? Il lettore che ha seguito la loro storia fin qui ha in mano elementi sufficienti per comprendere che alla base di questa perfetta fusione non ci può essere che la Virtù esercitata con tanto eroismo da meritare i carismi ed i lumi della Grazia soprannaturale.

La Fede dei Cavanis!… Che fiamma limpida, sempre uguale, dalla puerizia fino alla  morte! C’è chi tentenna, chi si stanca, chi si smarrisce; essi, invece, mai un dubbio o un’incertezza! Le cose andavano bene? Gloria a Dio! Andavano male? Gloria a Dio più che mai!

Anton’Angelo alimentava la fiamma con la preghiera continua, nel nascondimento, dove la voce di Dio si sente meglio; per P. Marco era la molla che lo spingeva di tappa in tappa, la certezza che lo rendeva fiducioso nella sua lotta aspra e incessante.

Nei momenti bui l’uno scriveva: “Io riposo tranquillo nel seno amoroso della Provvidenza divina”; e l’altro rispondeva: “Lasciamo fare a Dio; chè se ci manda delle tribolazioni è segno che ci protegge”.

Unisono perfetto dei due cuori fusi in uno solo.

Così nella speranza! Se non avessero sperato fermamente in Dio, come avrebbero abbandonato una posizione decorosa e rimunerativa, profuse in un’opera di carità le loro risorse, abbracciato una vita di povertà e di rinunzie?

Come avrebbero, il P. Anton’Angelo persistito in una iniziativa così combattuta e il fratello in una vita di fatiche, di lotte e di umiliazioni?  Come si sarebbero consolati, fra tante difficoltà, con la giaculatoria che era quasi di continuo sulle loro labbra, come su una sola bocca: “Sia fatta, lodata ed in eterno esaltata la giustissima, altissima ed amabilissima Volontà di Dio in tutte le cose”; e come si rebbero rinfrancati a vicenda ed avrebbero rinfrancanto i loro figli con la stessa frase di S. Giuseppe Calasanzio: “Lasciamo fare a Dio”?

E la loro Carità? Tutta la loro vita non è forse un esercizio di carità, in tutte le sue forme più elette?

Si sono dedicati interamente a Dio; dunque vuol dire che lo amavano!

Per essere più accetti a Dio si sono mantenuti illibatissimi anche nel tempo trascorso in mezzo al mondo; dunque lo amavano!

Da Sacerdoti hanno edificato tutta Venezia, e non Venezia soltanto, con la compostezza del loro portamento, con la devozione piissima con cui celebravano la S. Messa e s’intrattenevano in Chiesa davanti a Gesù in Sacramento, coi loro infervorati sermoni, col loro continuo parlare delle cose dell’anima, con la loro vita distaccata da ogni cosa terrena e rapita sempre nel pensiero e nella contemplazione dei beni eterni: e così non si fa se non si ama.

Che se è vero – come è vero – che la riprova dell’amore verso Dio è la Carità per il prossimo, chi non troverà nella vita dei due Servi di Dio questa riprova, lampante, meravigliosa, inequivocabile come oggi si dice?

Hanno scelto come oggetto della loro predilezione le creature che sono l’oggetto della predilezine divina, i giovani; per essi hanno fondato un’opera destinata a dar loro – per Carità – una posizione, un pane onorato, una coscienza cristiana e conseguentemente a dare in essi alla Patria onesti cittadini ed alla Chiesa figli devoti e ministri fedeli.

E quell’opera l’hanno alimentata con danaro, con l’intelligenza, con cuore, con l’anima…

L’hanno santificata stendendo la mano nel gesto dell’elemosina chiesta per amor di Dio ed impegnando per essa fino i gioielli della loro mamma!…

Può darsi una Carità più autentica e più squisita di questa?

Nel gran quadro dove campeggiano le tre Virtù teologali che sono le inesauribili generatrici di santità e di apostolato, s’inseriscono le altre che rendono il quadro stesso completo in tutte le sue parti: la Prudenza, la Giustizia, la Fortezza, la Temperanza…

La Prudenza (Prudenza virtù, non prudenza furberia!), si manifesta in ogni azione e in ogni momento della loro vita; soprattuto nella via da essi scelta e nel metodo scelto e adottato nell’educazione della gioventù.

Per sè hanno scelto la via del sacrificio, rinunziando ad ogni agiatezza, preferendo servire Iddio piuttosto che gli uomini. E l’hanno servitor fedelmente tanto nelle ore liete come nelle tristi, nell’innocenza e nella religiosità della vita, dall’infanzia alla tarda vecchiezza.

Dice il Vangelo: “Badate a procurarvi quei tesori che la tignola non rode e i ladri non possono rubare”. I Cavanis hanno dato retta al Vangelo.

Ai loro alunni hanno additato la medesima via; e, quel che più conta, glie l’han fatta percorrere guidandoli per mano, inculcando loro l’odio al peccato, la frequenza ai SS. Sacramenti, la fuga delle cattive compagnie, l’amore alla purezza, la devozione alla Madonna… Convincendoli che bisogna, sì, preoccuparsi della vita presente ma che giova niente conquistare il mondo intero, se poi si perde l’anima.

Onorano e praticano la Giustizia rendendo in primo luogo il dovuto omaggio di ossequio e di adorazione al Signore osservando la sua santa legge, onorandolo ognuno a seconda del suo temperament – Anton’Angelo nel nascordimento e nella contemplazione, Marcantonio nella difesa aperta e fuocosa dei suoi diritti sulle anime – ma tutti e due sempre in quel concorde spirito di pietà che è il movente di ogni loro atto e perfino di ogni parola. Onorando e inculcando l’onore alla SS. Eucaristia, alla Vergine, agli Angeli, ai Santi (fra ii quali S. Raffaele Arcangelo, S. Luigi Gonzaga, S. Vincenzo de’ Paoli e, non ultimo, S. Giuseppe Calasanzio costituito Patrono principale dell’Istituto); prestando obbedienza e venerazione somma alla Santa Chiesa, al Sommo Pontefice, al Patriarca ed a tutte le Autorità ecclesiastiche, rendendo il dovuto ossequio anche alle Autorità civili, secondo il suggerimento di San Paolo, chiunque esse siano purchè legittimamente costituite.

Danno un mirabile esempio di fortezza cristiana in un secolo corrotto e miscredente, strappando la gioventù al vizio e all’errore; ricostruendo una Comunità religiosa si può dire sulle rovine ancora fumanti degli Ordini religiosi che contavano secoli di vita, soffocati e distrutti dal superbo Napoleone Buonaparte; lottando a viso aperto per i diritti della scuola cristiana e per sottrarre la formazione filosofia e teologica dei chierici al controllo interessato ed iniquo dello Stato…

Il lettore ha visto in combattimento aperto solo il P. Marcantonio; ma non creda che l’animo del P. Anton’Angelo fosse meno forte e meno invitto.

Ricordi le parole del P. Marco: “Sostenete questo fantoccio che ha bisogno che altri lo aiutino perché si muova come conviene” e in altra occasione: “io non sono che il Pulcinella dell’Opera; quando mi fanno muovere, allor mi muovo”; tenga in debito conto la sua affermazione: “io e mio fratello ..siamo un cuore solo” e stia sicuro che se si fosse trattato di andare in prigione, od anche sul patibolo addirittura, ci sarebbero andati tutti e due insieme.

Che se invece son riusciti a superare ostacoli insuperabili ed a vincere una battaglia tanto ardua soltanto con le armi della pazienza e della Verità, ciò significa che le loro energie e risorse spirituali unite insieme formavano una potenza di azione irresistibile.

E’ proprio dell’uomo forte (cristianamente, santamente forte) conservare quel felice equilibrio per il quale riesce ad usare di tutto ciò che deve, nella giusta misura, senza eccedere e senza abusarne. Questo equilibrio che non si ottiene se non a forza di rinunzie (o mortificazioni) è la virtù della Temperanza.

Mettiamoci davanti agli occhi, per una volta ancora, le venerabili figure dei due Servi di Dio: il P. Anton’Angelo è raccolto in se stesso; tutto in lui è compost e devote; la persona, l’andatura, lo sguardo, il sorriso; ma non è affatto caricato; tant’è vero che in lo vede desta venerazione, non scherno o compatimento; non è nemmeno timido o mole, tant’è vero che quando è necessario richiama, ammonisce, corregge, punisce, fa tremare! E tutto questo senza perdere per nulla la sua amabilità abituale, ossia il suo spirituale equilibrio.

Il P. Marcantonio è più disinvolto, più vivace, più risoluto; tant’è vero che talvolta ne riprendere e correggere appare perfino duro, eccessivo; ma non è vero; egli è così – franco, energico, risoluto – con tutti, siano essi Cardinali, Ministri, Sovrani; ma se il tono della voce è risoluto, le sue parole son sempre misurate, rispettose, umili anche se franche; tant’è vero che il Card. Monico Patriarca di Venezia gli rende questa testimonianza: “Il P. Marco ha il dono di poter dire ciò che vuole, senza che nessuno se ne possa offendere”.

Ambedue nati e vissuti nell’agiatezza si obbligano ad una vita di privazioni; abituati in una casa signorile provvista di ogni comodità, si riducono a vivere in una casa incomodo, ristretta, malsana.

Non ci risulta che si sian dati a digiuni eccezionali come certi santi famosi; ma vivono in una quotidiana estrema parsimonio pur sottoponendosi ad un ministero faticoso e non di rado sfibrante. E ci scherzano su, specie il P. Marco, che talvolta accenna, scrivendo, a… pranzi succulent per concludere poi che una zuppa e un uovo rappresentano il suo lauto cibo quotidiano.

Non sappiamo neppure se abbiamo praticato grandi penitenze corporali; ma sappiamo della malattia contratta dal P. Anton’Angelo da giovane sacerdote nell’assistere gli infermi dell’ospedale degli Incurabili e aggravatasi poi sempre di più con l’andar degli anni, malgrado la quale egli non solo “non si collocò a riposo” come avrebbe potuto fare, ma si caricò invece di lavoro, di preoccupazioni e di responsabilità, sopportandola con disinvoltura e nascondendo le sue sofferenze il più possible agli occhi di tutti.

Non è già questa, anche da sola, una bella penitenza?

Sappiamo inoltre che in vecchiaia perdette la vista. E’ una gran disgrazia, la cecità. Eppure al P. Casara, il quale lo esortava un giorno a raccomandarsi al martire S. Fiorenzo che aveva ridonato la vista al P. Inghirami Scolopio, rispose con un dolcissimo sorriso sulle labbra: “Ma, e se al Signore è pur piaciuto di mandarmi questa tribolazione, non la porterò io volentieri”?

Non è questo un ragionare da Santi?

Nemmeno il P. Marco pare si sia dato a penitenze straordinarie, benchè una catenella per mortificare le sue membra, a quanto pare, la portasse anche lui!

Ma ripensi un po’ il lettore alle sue peregrinazioni quotidiane in città per raccogliere le offerte necessarie all’Istituto; ai viaggi disagiosi (penitenziali nel senso più  proprio della parola) in Italia ed all’estero; pensi al passo di Colfiorito, alla Veloce per Vienna, ai sette mesi passata a Roma, alle ultime Marcie forzate, curvo, piegato addirittura sur un fianco a causa dei dolori lancinanti che lo affliggevano, eppoi ci dica se questo “penitente di tutti giorni” di penitenza non ne ha fatto abbastanza.

La castità ha nella temperanza e nella mortificazione il suo baluardo.

Il candore dell’anima e l’illibatezza dei sensi, tanto nel mansueto Anton’Angelo quanto nel vivace Marcantonio, erano diremmo quasi visibili a occhio nudo e aspirabili, stando loro vicino, come un profumo che portassero con sè.

Da fanciulli, quando si recavano col babbo alla Parrocchia per adempiere ai loro doveri religiosi, la gente si fermava ad ammirarli e li seguiva a lungo con lo sguardo, conquisa dalla loro compostezza e dalla loro sorridente amabilità.

Avevan sul volto il riflesso luminoso dell’innocenza; e tanto luminoso che a nessuno mai passò per le mente il minimo dubbio circa la loro castità.

Da grandi, da Sacerdoti specialmente, il baluardo di temperanza e di mortificazione con cui cinsero la loro purezza fu tale che mentre tutti poterono continuare ad ammirarla in ogni loro anche minimo gesto e ad aspirarne il grato profumo al loro passaggio, nessuno ardì mai violarne il sacrario.

Nella loro vita non c’è traccia di ombra, in questo delicato settore; nè in quella di Anton’Angelo quasi sempre ritirato e raccolto, nè in quella di Marcantonio quasi sempre per il mondo, allo sbaraglio. E poichè è risaputo che il dèmone della lussuria trova sempre modo di accostarsi tanto a chi vive all’aria aperta come a chi se ne sta chiuso in una cella, anzichè pensare che ognuno l’abbia implacabilmente e vottoriosamente respinto, dovunque esso avesse avuto l’ardire di presentarsi, strada o cella che fosse.

Un cuor solo anche in questo! O meglio, un cuor solo soprattutto per questo, chè se uno dei cuori fosse rimasto inquinato d’impurità, l’incanto della perfetta fusione si sarebbe spezzato irrimediabilmente.

L’episodio dei quadri impudichi del palazzo Corner è significativo.

Anton’Angelo è d’opinione che si debba bruciarli ritenendo che venderli equivarrebbe a farsi, complici del male che essi potrebbero occasionare, destando cattivi pensieri  in chi li guarda; ma Marcantonio che sa in che disastrose condizioni economiche si trova l’Istituto e che basterebbe la vendita di un paio di quei quadri per risollevarlo da morte a vita, potrebbe anche essere di opinione diversa da fratello; potrebbe esortarlo a pensarci meglio, ricordargli che “necessità fa legge”, o quantomeno suggerirgli di consigliarsi prima con persona competente, giacchè potrebbe darsi anche il caso (non improbabile) che egli li giudichi troppo…rigidamente e severamente…

Invece niente di tutto questo; non ha – neppure lui – un momento solo d’incertezza; l’opinione del fratello è la sua; all’Istituto provvederà il Signore che…non ha bisogno di quadri: e pensa lui stesso a levarli di circolazione nel più spicciativo e definitive dei modi.

Questo è lo spirito che ii due Servi di Dio trasfondono nella loro opera e pongono alla base del loro apostolato giovanile; tantochè “l’Opera dei Cavanis (scrive il nostro autore P. Zanon), a volerlo dire in compendio, si reduce a due cose: “coltivare nei giovani lo spirito della pietà e conservarli nella santa purezza cristiana”.

Lo scrupolo che ebbero di mettere in mano ai ragazzi i classici nei quali in fatto di morale non si guarda troppo al sottile e la cura che ebbero di purgarli da tutto ciò che potesse rappresentare un pericolo per la loro innocenza, ne è la conferma.

Ma per intendere ancor meglio fino a qual punto la pietà e la purezza siano state le leve potenti delle quali i Cavanis si sono serviti per ottenere, con l’aiuto di Dio, risultati prodigiosamente copiosi, bisognerebbe averli visti in mezzo ai giovani, cioè sulla breccia.

Il P. Chiereghin  che ebbe questa fortuna, ne fa un quadretto vivo e palpitante:

Il P. Anton’Angelo assomiglia a S. Filippo Neri; mite, amabile, sorridente – e al tempo stesso grave  riesce a conciliarsi l’amore più vivo e insieme la riverenza filiale. I ragazzi hanno bisogno di amarlo, di stargli vicino, di udirne la parola che scende nel cuore e l’accarezza. Anche il dono di far correzioni è singolare in lui!… Corregge con pietà, con, amore, come una mamma, più che come un padre; eppure quando il rimprovero è “solenne” perché la mancanza lo esige, il colpevole trema; e nel tremare c’è anche il timore di non meritare più l’affetto del Maestro amatissimo.

Nell’orto, fra gli alunni, fra i ragazzi che corrono, volteggiano e s’ammusano, è sempre presente; ad animare l’ilarità o a regolarla, a richiamare all’ordine gli indisciplinati e a dire una parola buona a tutti.

Di regola i ragazzi sono più contenti quando il superiore non c’è, specie a ricreazione.

Invece se per caso il P. Anton’Angelo manca, i suoi alunni se ne affliggono. Perché manca, con lui, il buon angelo che non è mai importuno.

Il P. Marco è diverso; con la sua presenza s’impone e quando entra nell’Oratorio il raccoglimento s’accentua. Gli basta un’occhiata a una parola per farsi obbedire; ma non mette paura; tant’è vero che appena entra nell’orto gli alunni l’assaltano confidenzialmente e la ricreazione acquista un ritmo di maggiore vivacità ed allegria.

Ha un modo tutto suo di riprendere.

  • Sei una nave in borrasca” – diceva ad uno che stave scomposto o sguaiato. “Bada che non t’esca dalla bocca il poco cervello che hai!”.
  • Diceva ad un altro troppo loquace.

Anche la sua amabilità s’intonava alla sua indole fervida e maschia. Eppure i ragazzi lo veneravano e non s’offendevano delle sue espressioni risolute perché anche di lui, come di Anton’Angelo, avevan davanti, aperta come un libro, l’anima bella, senza ombre e senza pieghe, nella quale lo sviscrerato e verace amore per loro si poteva leggere a occhio nudo.

…Il tutto, corroborato, impreziosito e ingentilito dall’amore tenerissimo che ambedue nutrivano per la Madonna Santissima!

Da fanciulli l’avevano cantata in poesia; da grandi avevano messo nelle sue mani ogni cosa; l’esito delle loro battaglie, la realizzazione delle loro speranze, l’Istituto e la Congregazione, l’anima propria e quella dei loro figliuoli… Tantochè la loro vita potrebbe essere definita una “lode perenne”, un quotidiano vissuto “canto di Litanie”, in onore della Madre di Dio; non solo nelle ghirlande di fiori composte in suo omaggio e negli anni Mariani celebrati con con tanto fervore, ma nella purezza praticata e inculcata, nella amabilità intesa come un dovere, nei consigli impartiti, nella prudenza posta in ogni impresa, nei sermoni saturi di fede amorevole, nello sforzo incessante di esser giusti, di quella giustizia di cui la Madonna è lo specchio, e di formare i giovani a quella sapienza vera di cui Ella è la sede, nella santa letizia che è indice di tranquilla coscienza, nella incessante aspirazione al cielo, del quale Maria è la porta, nel totale abbandono dell’anima che rinnova alla Vergine la gioia di mostrarsi Madre…

Per questo le date più memoranda dell’opera dei Cavanis e le sue tappe decisive coincidono con le feste dedicate a Maria SS. e le Istituzioni fecondate alle origini dalle loro virtù e dal loro mistico fervore, manifestano – come abbiamo già avuto occasione di osservare – una vitalità che lascia indovinare radici ben profonde e vigorose.

20 – …fiorirà come palma

Nel 1918, con un ritardo considerevole dovuto peraltro ad un complesso di vicende puramente fortuite, il Card. Patriarca La Fontaine di venerate memoria, accogliendo la supplica presentatagli da P. Tormene Preposito generale della Congregazione delle Scuole di Carità, dava inizio al processo informativo per la Beatificazione dei Servi di Dio, processo chiusi nel 1925.

Verrà il giorno – giorno segnato dalla Divina Provvidenza – in cui la voce autorevole della Santa Madre Chiesa li chiami alla solenne glorificazione che è l’ardente sospiro dell’Istituto, dei concittadini e di tanti e tanti fedeli?

Veramente la vita dei Fratelli Cavanis non è una vita “sfarzosa” (spiritualmente, s’intende); non presenta nulla di clamoroso; eppure da vivi, e più ancora da morti, essi si sino  acquistati quella fama di santità che la Chiesa sapientemente raccoglie come primo indizio di meriti insigni.

Si è che nella loro vita piana e modesta rifulge una prerogativa fondamentale, cioè la piena conformità al volere divino e il continuo esatto adempimento (diciamo pure eroico, chè  l’aggettivo non è affatto sprecato), ai doveri del proprio stato, fino alla morte.

E’ una vita priva, almeno all’esterno, di doni straordinari; ma s’impone pur sempre alla considerazione e ammirazione comune il dono della parola, comune ad entrambi, dono che consente loro non solo di insegnare ma di trascinare le anime e riportarle a Dio; e al P. Marcantonio in particolare di difendere e sostenere con un vigore degno d’un Padre della Chiesa gli ideali dell’opera che si identificano coi diritti di Dio.

Del resto anche i doni soprannaturali hanno le loro sfaccettature, e aspetti diversi, e svariate manifestazioni; chi ci dice dunque che Iddio, sempre mirabile ne’ suoi Santi, non abbia volute dai Fratelli Cavanis l’esplicazione dei doni loro concessi, sotto l’aspetto della semplicità, come quello più confacente alla loro vita semplice ed umile ed al loro apostolato in mezzo ai fanciulli?

Ciò premesso, si veda e si consideri il grado della loro umiltà, l’eroismo della loro dedizione complete alla causa della salvezza della gioventù, il loro spirito di povertà, di distacco dai beni terreni, fino al punto di aver paura del benessere materiale, la sottomissione e l’amore alla Chiesa e al Sommo Pontefice cui dichiarano di abbandonarsi “senza volerne al tutto sapere di altro”…

Si consideri lo slancio con cui questi due Fratelli l’uno così diverso dall’altro si uniscono, lasciano tutto e fondendosi in un cuore solo indirizzano la loro azione ad un’unica mèta dalla quale nulla e nessuno mai li distoglie nemmeno per un attimo: la santificazione propria, l’educazione cristiana dei giovani, la gloria di Dio!

Ma poi… “Il giusto, dice la S. Scrittura, fiorirà come palma e si moltiplicherà come un cedro del Libano”; e i Fratelli Cavanis hanno fiorito!

L’abbiamo visto, sia pur brevemente, nel primo capitolo di questa brevissima storia: le centinaia di migliaia di figli del popolo che a Venezia nel palazzo Da Mosto e nei locali adiacenti ampliatio o costruiti ex novo, da oltre un secolo ricevono un’istruzione completa e una educazione profondamente cristiana; i settecento e più allievi che si sussegguono annualmente nei Collegi tenuti dai loro Figli spirituali; gli aspiranti dei Probandanti… Non sono forse tutti fiori sbocciati da quella duplice palma?

Eppoi ancora… Di certi Santi Confessori la Chiesa si allieta perché furono infiammati di amor di Dio e per loro mezzo Egli suscitò nel suo materno seno una nuova Famiglia; ma dunque per mezzo dei Cavanis Iddio non ha forse suscitato la nuova Famiglia dei “Padri delle Scuole di Carità”; il drappello dei Volontari bene addestrati e sciolti da ogni altra cura che si dedicano completamente alla tenera gioventù e che non sazi di logorarsi in questo ministero, oggi più che mai impegnativo e delicato, attendono anche ai Corsi di Esercizi spirituali per Sacerdoti e laici e si prodigano – ma in silenzio, chè nessuno lo sappia, secondo lo spirito dei Fondatori – in ogni opera di Religione e di Carità, dando tutto senza domandare mai nulla?

Dunque… noi non intendiamo certo nè affrettare l’ora di Dio nè  passare avanti alla Santa Chiesa; soltanto preghiamo di cuore perché, se così piacerà al Signore, siano un giorno esaltati questi due “nobili” che per amor suo e delle anime a Lui più care – i giovani – seppero essere così santamente umili.

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