Titolo: Storia dell’Istituto Cavanis – Congregazione delle Scuole di Carità 1772-2020
Autore: Giuseppe Leonardi, CSCh
Numero di pagine: 3.793
Lingua: ITALIANO
Anno: 2022 (*Aggiornato 2023)
Parole Chiave:
Congregazione Cavanis, educazione cristiana, Marco Cavanis, Antonio Cavanis, Venezia, pedagogia, vocazione, spiritualità, formazione giovanile, missione educativa, carisma, scuola cattolica, storia ecclesiastica, apostolato, congregazione religiosa, povertà educativa, Chiesa cattolica, evangelizzazione, comunità religiosa, tradizione.
Riassunto:
Quest’opera offre un ampio e documentato percorso storico sulla nascita, lo sviluppo e la missione educativa della Congregazione dei Padri Cavanis, fondata dai fratelli Marco e Antonio Cavanis a Venezia nel XIX secolo. Attraverso un’accurata analisi delle fonti, Giuseppe Leonardi ripercorre i momenti chiave dell’espansione della Congregazione in Italia e nel mondo, mettendo in luce la vocazione alla formazione cristiana e civile dei giovani, in particolare dei più poveri. L’autore evidenzia inoltre la spiritualità cavanisiana, fortemente radicata nella pedagogia dell’amore, nell’apostolato educativo e nella fedeltà alla Chiesa. L’opera si conclude con una riflessione aggiornata sulle sfide e prospettive della Congregazione nel contesto contemporaneo
5.2 L’ala “nuova” delle scuole di Venezia
Ancora prima di scoprire in AICV il progetto cartaceo delle fondazioni dell’ala nuova delle scuole, si avvertiva che P. Sebastiano Casara, dopo aver finito di ricomprare quanto era possibile dei beni della Congregazione rapiti dalla soppressione degli istituti religiosi e dall’incameramento dei loro beni dal demanio del regno d’Italia nel 1866-67, quasi con certezza aveva intenzione di costruire due fabriche, ovvero due edifici, una perché la comunità potesse trasferirsi in luogo più salubre, al posto della “casetta”, e l’altra per le scuole, da aggiungersi a palazzo Da Mosto. Questo era stato comprato e attrezzato a edificio-scuole dai fondatori a partire dal 16 luglio 1806, e poi era stato sfruttato a fondo fino a costruire dei soppalchi o forse un intero piano in più, dividendo in due, nel senso dell’altezza, gli ambienti molto alti del primo piano, come sembra indicare il fatto che nella figura di destra della tavola VI della Positio, si vede che le finestre di questo piano non erano alte come all’origine e come attualmente, ma erano state raddoppiate.
Si pensava finora, in congregazione, che questa seconda fabrica appartenesse all’inizio del secolo XX e all’attività del mandato di preposito del P. Giovanni Chiereghin (1900-1904), e c’era in Congregazione una falsa tradizione orale in questo senso. D’altra parte, non scoprendo nulla nella documentazione del mandato di quest’ultimo (diario e carteggi) letti in toto, e anzi avendo scoperto nella fototeca dell’AICV una fotografia del 1901 in cui l’ala “nuova” delle scuole risultava già costruita e con un aspetto già polveroso e “anziano”; e dopo essere arretrato senza successo nella ricerca nel diario e nelle carte dei quattro periodi triennali di mandato del P. Giuseppe Da Col (1887-1900), e poi nel diario compilato di mano del P. Domenico Sapori (1885-1887), si è cominciato a riprendere in mano il materiale archivistico relativo all’ultima fase della lunga attività di governo della Congregazione da parte di P. Casara.
Sebbene il Diario della Congregazione non parli – stranamente – né della posa della prima pietra, né delle fasi dei lavori né dell’inaugurazione dell’ala nuova delle scuole, esistono rari testi in cui P. Casara accenna a fabriche, al plurale, e parla di questa impresa come di cosa che deve servire sia agli studi cioè alle scuole (in prima posizione) sia anche alla comunità. Si veda in proposito:
- Il 5 novembre 1877, P. Sebastiano Casara scrive al Generale dei Certosini di Grenoble (Francia), da cui aveva già ricevuto un’offerta di franchi 100, per la fabrica per la comunità: “Il bisogno era di una fabrica di vera necessità e di grande utilità allo scopo dell’Istituto, che è di educare, col mezzo delle lettere, a vera religione e pietà i fanciulli principalmente poveri, che vi concorrono numerosi; e dei quali in generale si ha molte consolazioni.”
- Il 19 settembre 1879, P. Sebastiano Casara scrive a P. Guglielmo Lockart, padre scolopio inglese, tre lettere pregando di inoltrarle, con una lettera di raccomandazione, a tre nobili cattolici inglesi, il duca di Norfolk, il marchese Ripon e il marchese Bute, per ottenere offerte per le fabriche. La data di questo gruppo di documenti è del 19 settembre 1879.
Al Duca di Norfolk scrive: “(…) Ma oltre gli ordinarii gravi dispendii è da due anni che abbiamo dovuto per vera necessità affrontare uno straordinario e assai rilevante, intraprendendo una fabrica indispensabile ad ampliazione di scuole e ad abitazione per noi meno angusta e men disagiata, e più salubre di quella che ancora abbiam.” Al marchese Ripon: più o meno un testo uguale. Al marchese Bute “Urgeva intanto da lunghi anni il bisogno di fabricare per ampliazione e migliore ordinamento delle Scuole, e per abitazione di noi che le sosteniamo; e finalmente da oltre due anni vi ci siamo accinti”.”
L’Istituto ricevette altri 100 franchi francesi dai generosi certosini di Grenoble, come nel 1877, ma non avrebbe ricevuto alcuna offerta dai tre nobili inglesi, che del resto non avevano alcun dovere di aiutare un’opera pia tanto distante dal loro paese. Essi, tramite il loro segretario, spiegarono, ciascuno per suo conto, in modo abbastanza secco, che avevano già troppe richieste di sussidi e aiuti in patria.
Anche dopo essere stata terminata, inaugurata e benedetta la fabrica dell’edificio della comunità, P. Casara continua a raccogliere elemosine, in Italia e all’estero, per continuare i lavori programmati. A pag. 72 del vol V del DC, in data 24 aprile 1881, ricorda le due offerte ricevute brevi manu in occasione di una sua visita, da un giovane principe Carlo Klary che “ci conforta di elemosina per la fabrica, prima di lire mille, e ieri di altre 230”; per suo suggerimento, e infilando la richiesta in un’enveloppe fornito dal giovane principe con scritto di sua mano l’indirizzo, invia una richiesta di offerta al principe Costantino Radziwill, “all’Hotel Radziwill, Paris”. Non sappiamo se ne abbia ricevuto.
Il 4 ottobre 1881, (prot. 297 del 1881) si scrive nel DC, vol. V p. 83: “Condizioni alle quali si è conceduta l’applicazione dei fili pel telefono al fabricato delle Scuole”. (solo sul palazzo da Mosto o anche sui muri del pianterreno già eventualmente costruito del fabbricato nuovo per le scuole?).
Il 26 giugno 1882, (prot. 204 del 1882), a pagina 106 del vol. V del DC, troviamo, di mano di P. Casara: “Scrivo alla benedetta C.ssa Gatterburg Morosini, un parere sul modo di dare a noi il mezzo per fabricare, e conservare la vecchia Casa nostra al nuovo Orfanotrofio Emiliani”. (Dunque: hanno intenzione di fabbricare ancora, forse la nuova ala delle scuole?). Si tratta del documento “Se e Come” di cui parleremo più sotto.
Un documento prezioso – di cui purtroppo non si trova la risposta del patriarca nello stesso fascicolo 1881 – è la minuta della lunga lettera del 23 marzo 1881, scritta da P. Casara al patriarca Domenico Agostini, manifestandogli l’intenzione e il progetto avanzato di costruire “l’ala nuova della scuole”:
“Eccellenza Rever.ma
1. Con Atto del 7 7bre la R[egia] Amministrazione del Fondo per il Culto, rappresentata dal R. Intendente Provinciale delle Finanze Giacomo Cav.r Guaita, cedeva all’Emin.mo Card. Luigi Trevisanato Patriarca la Chiesa di S.a Agnese con tre appezzamenti contigui di terreno, quella e quelli nell’Atto stesso descritti. E tale Cessione venivagli fatta (ar. I) con tutti i diritti, gli obblighi, le azioni, le servitù attive e passive, inerenti allo stabile ceduto e spettanti all’Ente soppresso, ch’era la Congregazione Cavanis delle Scuole di Carità.
2. Nel dì 8 maggio 1873 all’Asta pubblica io acquistai il Palazzo già della stessa Congregazione ad uso di dette Scuole di Carità coll’Ortaglia ad esso adiacente, e confinante cogli appezzamenti suddetti; il qual fondo costituiva il lotto 1077.
3. Finalmente con Atto 19 8bre 1876, in seguito a ripetute mie istanze, e dietro graziosa restituzione dei tre medesimi appezzamenti, fatta dal prefato Emin.mo Patriarca, con Verbale 8 luglio di detto anno, questi furono venduti a me sotto l’osservanza delle condizioni generali contenuti nel Capitolato d’Incanto del lotto 1077, come se il Capitolato medesimo formasse parte integrante dell’Atto presente (ar. V). Con che io subentrai in tutti i diritti e in tutti gli obblighi del Demanio rispetto al fondo (già prima della Congregazione), giusta il tenore dell’ar. 6 del detto Capitolato
4. Ciò tutto premesso passo a significare all’Ecc.za V.ra Rever.ma, che, essendomi determinato di elevare una fabrica, la quale sul Rio terrà di S.a Agnese si estenda dall’attuale Palazzo delle Scuole di Carità fino alla Chiesa; benchè mi creda io in diritto di potermi alla Chiesa stessa congiungere, non mi contento però di darne all’Ecc.za V.ra semplicemente l’avviso, né intendo di prevalermene, se prima non me ne abbia dato V.ra Ecc.za positivamente l’assenso.
5. Ma prima, quanto all’accennato diritto, esso evidentemente consegue dal sopra detto e premesso (nn. 1-3). Osservo infatti:
a. Che il Demanio riconosca in sè come i diritti così gli obblighi inerenti agli stabili della soppressa Congregazione Cavanis, e ad essa spettanti.
b. Che con tali diritti ed obblighi cedette al Patriarca la Chiesa e vendette a me lo stabile delle Scuole e tutto il terreno tra esso e la Chiesa.
c. Che tra gli appezzamenti di terreno venduti a me c’è quello che estendesi lungo tutto il lato della Chiesa a tramontana, ed a contatto con esso.
d. Che dall’angolo del Palazzo delle Scuole a quello delle facciate della Chiesa si estende il muro di cinta con una porta di accesso dal Rio terrà all’interno terreno, e questa porta precisamente all’angolo della facciata.
e. Che in questo angolo, per quanto si eleva sopra il muro di cinta, avvi l’addentellato fattovi dalla Congregazione Cavanis, quando eresse la facciata dai fondamenti, appunto per la intenzione che aveva di eriger la fabrica a che mi sono io determinato, il che medesimo viene indicato dalla porta aperta a tramontana nel piano superiore dell’atrio costruito colla facciata.
f. Che all’erezione di questa fabbrica, e alla congiunzione colla Chiesa, la Congregazione aveva tutto il diritto per la piena e libera proprietà sua così della Chiesa come del Palazzo delle Scuole e di tutto lo spazio intermedio.
g. che un tal diritto non può essere diminuito o infirmato da quanto prescrive il Codice civile sulle distanze di altri edifizii dai publici, avendo la Chiesa di S.a Agnese cessato di esserlo fino dal 1810, quando cessò di esser Parochia, e fu chiusa, e come magazzino usata finchè la comprarono i Sac. Fr. Cavanis, che poi la passarono in proprietà della loro Congregazione
h. Che in fine un tal diritto, per conseguenza, passò intiero in me, sottentrato ora alla Congregazione: e questo direttamente per la parte divenuta di mia proprietà, ed indirettamente per la parte ceduta al Patriarcato con tutti gli obblighi e le servitù passive inerenti allo stabile ceduto e spettanti all’Ente soppresso (n.1).
6. Il che tutto osservato, non punto al fine di far valere presso V.ra Ecc.za un mio diritto, ma sì e unicamente a piena sua informazione, acciocchè dubitare non possa del pieno potere che Le compete di accordarmi l’assenso che Le dimando; passo ora, come Rettore che son della Chiesa, ad esporre all’Ecc.za V.ra Rever.ma vera e forte ragione, per cui Le tornerà anzi interessante e caro accordarmelo.
7. Questa Chiesa, in antico e fino al momento di sua chiusura nel 1810, lungo tutto il lato della sua fronte, dove ora è l’atrio, aveva la Casa canonica abitata dal Paroco, e naturalmente così era assai ben custodita. Dalla sua riapertura invece al Culto, avvenuta nel 1854, fino al presente resta da ogni parte isolata. Di che approfittando i tristi capaci di tutto, tentarono per ben due volte di introdurvisi nottetempo per derubarla. Il che avvenne la prima volta nel 1864, la notte dal 20 al 21 gen.°, nel quale, ricorrendo la Festa del Titolare, ripromettevansi di farne grasso bottino: la seconda volta poi l’anno scorso, la notte del venerdì al sabbato santo (26 a 27 marzo); e poco mancò l’una volta e l’altra che non compissero l’iniquo e sacrilego loro attentato, che abbandonarono perchè ne mancò loro il tempo, non già perchè ne siano stati da alcuno scoperti ed impediti.
Congiunta quindi alla Chiesa la nuova fabrica, ne vien rinovata pure l’antica naturale custodia, e allontanato con ciò il pericolo di sacrileghi nuovi attentati.
8. Prevedendo in fine ogni caso possibile, e dovendo e volendovi provedere, dichiaro che, ove mai in qualunque tempo avvenire la proprietà o l’uso della nuova fabrica, che vorrebbe congiunta alla Chiesa, non fosse più del Rettore della medesima, io son prontissimo ad obligarmi, per me e successori, di acconsentire che tolta ne sia ogni comunicazione col piano superiore dell’atrio, e venga proveduto all’accesso alla Chiesa nel piano terreno.
Il che tutto esposto V.ra Ecc.za, non mi resta che anticiparLe i miei umili ringraziamenti, e, baciandoLe la Sacra Mano, riconfermarmi della Ecc.za V.ra Rever.ma
[P. Sebastiano Casara]
23 marzo 1881”
Come si diceva, non siamo riusciti a localizzare una risposta del patriarca dando il suo consenso alla costruzione, e quindi al congiungimento del Palazzo Da Mosto con la chiesa di S. Agnese, né nel Diario della Congregazione, né nei carteggi di Curia generalizia. C’è però in questi ultimi un documento prezioso che ci permette di conoscere che il 29 giugno 1881, circa tre mesi e qualche giorno dopo la lettera al patriarca del 23 marzo, si erano di fatto già scavate le fosse e costruiti i fondamenti per il nuovo edificio, con dovizia di dettagli.
Nel fascicolo 1881 dei carteggi di curia, faldone 49 (1876-1881) in seconda posizione (dopo un progetto architettonico in pianta per un terzo piano del noviziato), e prima dell’ultima carta del 1881, di prot. n°424 del 1881 (le carte sono depositate dal n° 1 in basso al n° ultimo di ogni anno), c’è infatti una preziosa carta: un disegno delle fondazioni della “fabrica” dell’ala nuova delle scuole, disegnata in modo un po’ grezzo, ma da professionista, in inchiostro nero e rosso, con la seguente dicitura: “Promemoria sulle fondazioni eseguite dall’Impresa Costantini nell’anno 1881, nel campazzo fra la Chiesa di S. Agnese e la vecchia Casa. Proprietà RR. Padri Cavagnis”. In calce a sinistra c’è scritto da altra mano:
“Venezia, li 29 giugno 1881
Visto per la verità delle dimensioni esposte.
Antonio Bianchini
[ing]”.
Il documento, che non porta stranamente il n° di protocollo dell’Istituto, cioè di P. Casara, in questo periodo, e di cui non di trova riferimento nel Diario di Congregazione al giorno 29 giugno 1881, né nelle altre pagine del 1881 nel DC, non è di mano dei padri Cavanis, perché essi non chiamerebbero se stessi “Cavagnis”.
Sebbene ciò non sia scritto nella carta, questo disegno rappresenta senza alcun dubbio le fondazioni dell’ala nuova delle scuole, sita fra il palazzo da Mosto (ala vecchia delle scuole) e la chiesa di S. Agnese; di cui da tanto tempo si cercava senza successo la data di costruzione. In genere si pensava, come si diceva sopra, che la costruzione ne risalisse al mandato del P. Chiereghin (1900-1904).
Come si è visto sopra, P. Casara accenna bensì a una fabrica oltre a quella di cui si preparano le fondazioni a partire dal novembre 1876, è posta la prima pietra il 20.1.1879, e si fa l’inaugurazione l’8.1.1881, cioè il nuovo edificio di residenza della comunità religiosa; ma accenna soltanto, raramente e di passaggio, allo scopo educativo, ad uso di scuola, di una seconda fabrica.
Il disegno rappresenta in inchiostro rosso le fondazioni nuove, del primo semestre del 1881; e in inchiostro nero la “vecchia fondazione robustata” (cioè, si immagina, rinforzata). Queste vecchie fondazioni risultano un mistero, e consistono in una fondazione di direzione grosso modo nord-sud di circa 25 metri, che univa il muro del palazzo Da Mosto al muro della chiesa di S. Agnese e di una fondazione, con una distanza di 1,5 metri, e parallela alla precedente verso ponente, lunga circa 9 metri.
La prima fondazione, più occidentale (verso il rio terà), che unisce i due edifici, palazzo da Mosto e chiesa di S. Agnese, si può interpretare come fondazione del muro di cinta che separava il cortile o orto privato dal campazzo della strada pubblica, in continuità con il palazzo Da Mosto e sulla stessa linea della facciata di S. Agnese; tale muro di cinta, parzialmente diroccato all’estremità settentrionale, si può vedere in una fotografia apparentemente anteriore al 1838 , nella tavola VI fuori testo della Positio dei Fondatori; immagine ripresa con certezza dal primo piano o al massimo dal secondo del palazzo Pisani, gotico, sito dall’altra parte del rio di S. Agnese, sopra l’allora fondamenta degli Arsenalotti; trasformato attualmente (da qualche anno prima del 2014) in Hotel Pisani. All’epoca di cui si parla (1881) uno di questi piani era occupato da una depencence dell’Orfanotrofio dei padri Somaschi.
Tale immagine è assolutamente preziosa, tuttavia presenta non pochi problemi, se la data della foto fosse anteriore al 1838, come scrive P. Aldo Servini nella didascalia.
Infatti nel 1838 (e tanto più prima di questa data), non esisteva ancora un vero processo fotografico che permettesse di fissare le immagini. Anche il procedimento proto-fotografico di fissazione su supporto solido (una lastra di rame, nel caso) e di sviluppo di immagini, detto dagherrotipia (che produceva “fotografie” o meglio dagherrotipi anche di buona qualità ma non riproducibili, cioè non stampabili su carta), inventato dal francese Louis J.M. Daguerre, risale al 1837, fu presentato al pubblico a Parigi nel 1839 ed entrò in Italia il 2 settembre dello stesso anno (a Firenze), diventandovi popolare molto più tardi e rimanendo in applicazione fino almeno al 1855; non sembrerebbe probabile allora che già prima del 1838, quando fu interrato il rio di S. Agnese, si potesse ottenere un dagherrotipo così perfetto nell’allora decadente città di Venezia.
Sembra che qui P. Servini si sia sbagliato nella didascalia dell’immagine. Vi è caduto perché vi si vede ancora il rio di S. Agnese, che egli doveva credere essere stato interrato interamente già nel 1838 dal comune di Venezia, e qui lo si vede ancora esistente come rio, attraversato dal “ponte dei frati”, in legno che univa le due fondamente e tra l’altro permetteva ai padri Cavanis (appunto i frati; ma più anticamente anche i padri domenicani) di passare dal loro convento (la Casetta per i Cavanis, il grande convento per i domenicani), e raggiungere direttamente la fondamenta S. Agnese e le scuole.
La lapide che ricorda l’interramento del rio “Gesuatico” e la trasformazione della strada da due fondamente e un rio in un ampio rioterà (il rioterà ancora oggi chiamato “Rioterà dei Gesuati” nel 1838 può essere vista all’angolo fra la sacristia della chiesa della Madonna del Rosario, detta dei Gesuati e l’antico convento dei domenicani, in seguito e attualmente appartenente ai religiosi orionini. La lapide di cui sopra riporta la seguente scritta:
IESVATICO . RIVO
IN . AQUAEDVCTVM . MVTATO
PONTES . VTRINQVE
ABLATI . SVNT
A . MDCCCXXXVIII
AERE . CIVICO
cioè “Essendo stato mutato in acquedotto (in un canale sotterraneo) il rio dei Gesuati, i due ponti sono stati eliminati nell’anno 1838 a spese civiche”.
Tuttavia, se si guarda bene la fotografia, si può notare che al tempo in cui essa fu scattata, era stata di fatto già interrata la parte meridionale del Rio detto, a quanto pare, in questo tratto, chiamato Rio dei Gesuati, per una lunghezza di 48 metri; questo primo interramento del rio, e la realizzazione di questo primo rio terà, effettuati nel 1838, davano continuità alla “fondamenta de le Zatere ai Gesuati”, come si può vedere nella foto, con un po’ di buona volontà e di analisi, tra la casa che attualmente alberga una gelateria-bar e porta al primo piano un caratteristico “liagò” o “diagò” in legno, e il convento già dei domenicani, e permetteva inoltre, dalla fondamenta delle Zattere, di accedere a piedi in campo S. Agnese.
Non arrivava invece a permettere di raggiungere la fondamenta dei Arsenaloti (quella che si trovava sul lato occidentale del rio di S. Agnese e passava sotto la “casetta” della comunità Cavanis. Si vede chiaramente che il rio ancora esistente nella foto (il rio di S. Agnese) è sbarrato in fondo, cioè verso le Zattere e che il rio dei Gesuati, cioè l’ultima parte meridionale del rio, è interrato; con una lente si può vedere anche la nuova testata di riva con il muretto o spalletta con ringhiere metalliche che impedivano alla gente di cadere nel canale; e sembra di vedere anche l’imboccatura ad arco dell’aquaeductus cioè del rio sotterraneo che passava sotto il rio terà.
A questo primo imbonimento, ossia interramento, e soltanto a questo, si riferisce dunque la lapide affissa nell’angolo tra la chiesa di S. Maria dei Gesuati e l’ex-convento dei Domenicani.
I due ponti eliminati, citati nella suddetta lapide del 1838 erano il ponte dei Gesuati detto anche ponte de la guera, sulle Zattere, presso la chiesa di S. Maria del Rosario e, poco più a nord, il ponte in pietra e cotto detto ponte de S. Agnese; non il ponte chiamato il “ponte dei preti”, in legno, che si vede ancora nella foto più volte citata. I lavori non tennero conto della statica della chiesa di S. Maria del Rosario, e, mal condotti sotto la direzione del tristemente famoso ing. capo municipale Giuseppe Bianco, causarono lesioni alle fondazioni della chiesa dei Gesuati; inoltre sembra che essi si conclusero nel 1839, anche se la targa corrispondente parla del 1838.
Con tale imbonimento, rimaneva chiuso definitivamente anche il canale o rio che fino al 1726 circa passava nell’area in cui si trova ora il presbiterio della chiesa di Santa Maria del Rosario, che era stato ridotto a rio sotterraneo (o acquedotto, come si diceva) per una lunghezza di circa 36 metri, e di cui si vede ancora l’apertura orientale, con un arco la cui pietra di volta mostra in bassorilievo un animale stilizzato che a me sembra assolutamente un cane (più esattamente un cane da pastore, simbolo dei domenicani: “Domini canes”, ossia, cani da pastore del gregge del Signore, come essi stessi si chiamavano). Tale arco non è e non era, come si dice spesso, una cavana, cioè un’entrata per le barche nella sacristia della chiesa e/o nel convento; ma l’entrata di levante di questo canale sotterraneo, detto vòlto, la cui volta doveva permettere lo scorrere dell’acqua. Tale rio (de la Carità) era stato reso sotterraneo al momento della costruzione della chiesa (1726-1736), su progetto di Giorgio Massari, per poter rendere più lungo l’edificio; ora, nel 1838, esso veniva definitivamente chiuso e interrato.
A proposito di cavane, ne esistono realmente due nelle pareti dell’antico convento dei domenicani rivolte verso il rioterrà Antonio Foscarini, tutte e due naturalmente murate, dato che che il canale non c’è più. Su una, quella più bella, in pietra d’Istria, c’è scolpita una stella a otto punte, altro simbolo dei Domenicani e la lettera P. dei Predicatori.
Il resto del rio, che in questo tratto più lungo si chiamava rio di S. Agnese, quello che si vede ancora esistente e fluente nella foto di cui sopra, fu interrato più tardi, cominciando il cantiere nel 1858 e concludendolo nel 1863 (o anche nel 1864), e ciò spiega l’esistenza della bella fotografia di cui si sta scrivendo qui da tempo; tale data si trova in una targa di marmo attualmente (2020) poco leggibile perché molto sporca, infissa sopra la porta del numero civico 879/A, attualmente un un piccolo supercato tenuto da cinesi, sul rio terà, che inizialmente si chiamava rio terà Sant’Agnese, ma poi cambiò il nome in rio terà Antonio Foscarini, lato orientale, tra la calesela Rota e la cale nova S. Agnese. La lapide dice:
COLMATO IL RIVO
APRIVASI LA NUOVA VIA
MDCCCLXIII
PODESTÀ BEMBO
La fotografia quindi era stata scattata senz’altro molto dopo il 1838, per i molti motivi detti sopra, e prima del 1863, o meglio qualche anno prima; prima cioè dell’inizio dei lavori di interramento del canale. Tale data non pone problemi per una buona foto, fatta su lastra di vetro e poi stampata su carta o cartone.
Da notare che, come il rio che univa il Canal de la Zueca (della Giudecca) al Canalasso (Canal Grande) si divideva in due parti: a sud il rio dei Gesuati, in un tratto lungo 48 metri; e in un tratto più lungo al centro, di fronte alla chiesa e campo di S. Agnese e a nord, a fianco dell’Accademia delle Belle Arti, già convento de la Carità, tratto che si chiamava Rio de S. Agnese, così il rioterà corrispondente è diviso in due parti, come si legge nei corrispondenti ninsioleti (targhe di malta dipinta, indicatrici toponomastiche): il rioterà dei Gesuati, a sud, a fianco della sola chiesa di S. Maria del Rosario; e rioterà Antonio Foscarini per tutto il percorso, fino al ponte dell’Accademia e al Canalasso.
Per la verità, la porzione sud del rioterà, quella che fiancheggia la chiesa di S. Maria del Rosario, ha due ninsioleti: uno, vicino all’angolo con la facciata della chiesa, con il nome rioterà Antonio Foscarini, per uno sbaglio degli incaricati di questo servizio; e una, più vicina alla sacristia, con il nome (corretto) rio terà dei Gesuati.
La foto mette in evidenza anche la facciata di stile tra tardo-barocco e neoclassico della chiesa di S. Agnese. Non ci è ancora chiaro se tale stile sia stato scelto per la ricostruzione della facciata di S. Agnese dai Fondatori (nel 1850), o se essa riproducesse, in fase di tale ricostruzione, la facciata del rifacimento barocco della chiesa realizzato dal clero diocesano della parrocchia di S. Agnese e dai fabbriceri tra il 1795 e il 1810 (vedi sopra nel capitolo su S. Agnese).
Di questo cantiere si fa cenno più volte anche nel diario della Congregazione, quando P. Casara stava cercando che un tratto della fondamenta (ora che la strada si era allargata a formare un ampio rio terà), fosse data in uso all’Istituto Cavanis, con la costruzione di un muretto, sia che si trattasse della fronte delle scuole, sia della fronte della casetta.
L’interramento del tratto del rio della Carità giacente sotto la chiesa di S. Maria del Rosario e del rio di S. Agnese in due fasi, come descritto sopra, non furono episodi isolati: il sestiere di Dorsoduro fu in realtà uno dei più colpiti dalla smania ottocentesca (e un po’ già fine-settecentesca) di interrare i canali veneziani.
Solo nella zona strettamente adiacente all’Istituto Cavanis, fu interrato anche l’intero rio della Carità, dal suo sbocco in Canal Grande presso l’Accademia al convento dei Domenicani, nel 1817 o subito dopo, per una lunghezza complessiva di 113 metri. Non esistono lapidi per ricordare questo ulteriore misfatto.
Il rio della Carità così divenne, stranamente, “Campo della Carità”, nome che si applica non solo al campo effettivo, sito davanti al ponte dell’Accademia e all’ingresso dell’Accademia delle Belle Arti, ma anche alla strada ben poco larga che fiancheggia questa pinacoteca fino ad addentrarsi nella calle senza sbocco che porta alla palestra e al cortile grande dei Padri Cavanis, all’ingresso di ponente della cale Baleca e al ristorante S. Trovaso. In questo complesso viario non esistono neanche i ninsioleti con il nome.
Questa via o campo, che in realtà è un rioterà, interessa anche l’Istituto, perché questo rio de la Carità al tempo degli inizi dell’Opera delle scuola di Carità scorreva a fianco dell’ “Orto” e di un lato (occidentale) della casetta della comunità Cavanis.
Ancora, fu interrato il canale di nome a me sconosciuto, che riuniva il rio de Sant’Agnese al rio de San Vio, e aveva la lunghezza che ho calcolato in circa 100 metri. Sebbene ciò non sia molto conosciuto, anche per il fatto che non porta il nome di rio terà, ma quello di cale nova de sant’Agnese, tale rio fu interrato nel 1864, l’anno dopo dell’interramento completo del rio di S. Agnese, che passava davanti all’Istituto Cavanis. Infatti, in questa cale nova, al numero civico 880/B, che corrisponde a un negozio di chincaglieria per turisti, è infissa la seguente lapide:
PRIVATO CITTADINO
IDEAVA
IL COMUNE
APRIVA LA NUOVA VIA
MDCCCLXIV
PODESTÀ BEMBO
Per concludere, si può osservare che, al tempo dei fondatori e dei loro immediati successori nel governo della Congregazione, il convento della Carità e la chiesa di Santa Maria della Carità (costruito il primo e ricostruita la seconda in parte su progetto di Andrea Palladio, già dei Canonici Regolari Lateranensi, chiesa questa sconsacrata e soppressa nel 1807, poi galleria dell’Accademia e Accademia delle Belle Arti), come pure la Scuola Granda de la Carità, erano circondati completamente da canali e occupavano un’isola intera; e che le scuole di Carità ossia Istituto Cavanis, con l’annessa antica chiesa di S. Agnese, si trovavano in un’isola molto più piccola di quella attuale, mentre la “casetta” e l’Orto si trovavano in un’altra isola, di là del rio di S. Agnese, di fronte alle scuole.
Per passare il canale, dalla “casetta”, cioè la loro residenza, alle scuole, i religiosi Cavanis si servivano del ponte in legno detto “ponte dei Frati”, più probabilmente con riferimento ai frati domenicani o predicatori che ai Cavanis, che non sono propriamente frati.
Il ponte si trovava esattamente tra la porta del cortile dell’ “Orto” delle origini dell’Istituto (non l’attuale entrata dell’Albergo Belle Arti), ancora oggi cortile grande delle ricreazioni, lasciando la fondamenta degli Arsenalotti all’angolo con il convento già dei domenicani, ora degli Orionini; e sboccava sulla fondamenta di S. Agnese di fronte all’imbocco della cale de la Chiesa, poi privatizzata dai Cavanis e trasformata in corridoio detto caleta che unisce l’ala della scuole alla chiesa di S. Agnese.
Almeno da quando il 2 febbraio 1869 il P. Casara ricuperò, ricomprandola all’asta, la casa di stile gotico sita al n° 834 in Piscina Venier, che attualmente (dal 2013) corrisponde all’abitazione della comunità dei religiosi Cavanis di Venezia e alla sede dell’archivio storico, e più probabilmente con l’acquisto di questa casa già dal tempo dei fondatori in data sconosciuta, l’Istituto aveva due porte di ingresso ed uscita principali: la porta ufficiale e “nobile” (Dorsoduro 898) verso ponente, ossia il portone del palazzo da Mosto, sulla fondamenta di s. Agnese e dopo il 1863 sul rio terà Antonio Foscarini o dei alboreti; e la porta di servizio sulla piscina Venier, verso levante. A differenza di tanti palazzi e case veneziane, il complesso di edifici non aveva dunque (come del resto anche il palazzo natale dei fondatori) una porta da mar, raggiungibile in barca, e una porta da terra, raggiungibile a piedi; infatti la porta del palazzo da Mosto dava sulla fondamenta S. Agnese, e quella di servizio, sul retro (n° 834 e 834 A e B) dava sulla piscina che fin da principio doveva essere in epoche antiche uno stagno non raggiungibile in barca, e al tempo dei fondatori era già interrata da molto tempo, come dimostra tra l’altro la presenza dell’antico pozzo in piscina S. Agnese.
Ciò doveva provocare un aggravio delle spese di trasporto – che a Venezia avveniva e avviene prevalentemente per barca – delle forniture di ogni genere; tanto più dopo che il rio di Sant’Agnese fu interrato.
Saremo anche noi come tutti i popoli
E qui vale la pena di parlare brevemente di questo strano fenomeno che spinse Venezia a voler imbonir i canali, in forma moderata nella fase di decadenza finale della serenissima Repubblica, nella seconda metà del secolo XVIII (i tempi del conte Giovanni Cavanis per intendersi, e dell’infanzia e gioventù dei suoi figli Apollonia, Antonio e Marco) e tanto più nel secolo XIX.
Questo fenomeno, si parva licet, mi fa ricordare l’episodio del momento storico in cui il popolo d’Israele, due o tre decenni prima dell’anno 1000 a.C., si stancò dei giudici e della stessa istituzione, e volle un re; domandò allora al giudice e veggente Samuele di dargli un re. Samuele, scontento per motivi teologici, di visione politica e forse di difesa del prestigio personale, fa un lungo discorso su quali saranno i diritti, le tasse, le coscrizioni e gli altri svantaggi del sistema monarchico; e conclude: “Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà”.
Il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuele e disse: “No! Ci sia un re su di noi. 20Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie”. Ed ebbero un re, Saul prima e Davide poi e molti altri in seguito. E molto spesso ebbero a pentirsene.
Ecco, anche Venezia, verso la fine dell’antica Repubblica e soprattutto sotto i successivi governi ottocenteschi, proclamava “ Saremo anche noi come tutti i popoli e avremo le vie e, dove si passa, avremo anche le carrozze e i cavalli. Si tendeva così a snaturare la città. Scriveva l’ingegnere idraulico e uomo politico Pietro Paleocapa nel 1844: “Otturare i Rivi, per Venezia, corrisponderebbe allo sbarrare, in una città di terra-ferma le strade in guisa che, lasciati liberi i soli marciapiedi, non vi potessero passare più che i pedoni”.
In realtà Venezia, come pure le isole che l’accompagnano nella laguna, era (e in parte è ancora) una città dove si circola principalmente in barca; era (molto più di oggi) una città, con i suoi centri abitati satelliti, in cui le vie più importanti erano i canali; e in effetti, per conoscere veramente Venezia – per i turisti ma anche per i veneziani e chi scrive è veneziano – bisogna andare in giro ogni tanto o spesso in barca, e se ne ha una prospettiva del tutto differente e senz’altro più autentica e originaria, oltre che più originale.
I palazzi, le chiese, le ripartizioni pubbliche avevano la facciata principale rivolta verso i canali ed erano tutte raggiungibili in barca. Anche la basilica di S. Marco e il Palazzo Ducale (facciata di ponente), erano costruiti sulle rive di un’insenatura, un vero porticciolo, che poi, interrato fin dall’antichità, occupava l’area dell’attuale piazzetta S. Marco e arrivava almeno fino alla Porta della Carta del palazzo ducale, ma probabilmente anche più avanti verso nord a fianco della facciata della Basilica di S. Marco, che non per nulla è ancora la zona più bassa della città, con estrema frequenza coperta dall’ “acqua alta”, per la gioia dei cronisti della TV.
Anche l’antico campanile di S. Marco era lambito dalle acque di questo porto; e par di vedere le antiche piccole galee parzialmente spiaggiate e ormeggiate tutto attorno alla spiaggia di questa insenatura.
A Venezia antica, quasi tutti i benestanti (ma anche i lavoratori) possedevano una barca e comunque circolavano principalmente in barca. Le calli erano considerate quasi come percorsi di servizio.
Da notare però che, per esempio, la famiglia Cavanis, nobile e benestante anche se non ricca, almeno al tempo di cui trattiamo, non possedeva una gondola e doveva ricorrere a prestiti nelle occasioni in cui ne avevano bisogno per eventi sociali, in cui mancare di gondola era troppo mortificante. In altri casi la gondola poteva essere affittata. Ma la famiglia non possedeva una gondola e non contava, nella ridotta servitù, di un gondoliere.
La bonifica sistematica di Venezia fu importante nella fase più antica dello stanziamento della popolazione proto-veneziana nelle barene e velme della zona centrale della laguna di Venezia, che gradualmente, da ambiente paludoso e spesso sommerso venivano trasformate in isole abitabili; i canali e ghebi erano mantenuti per le comunicazioni e per facilitare l’afflusso e il deflusso delle acque, ma erano anche gradualmente raddrizzati, per accompagnare le facciate delle capanne e poi delle case; a volte nuovi rii erano tagliati e scavati per aumentare la viabilità e per utilizzare il sedimento scavato per alzare il livello delle isole.
Alcuni termini toponomastici di Venezia ricordano proprio questo lavoro di trasformazione di un arcipelago pantanoso in una città. Si vedano per esempio i termini arzere, “piscina”, paludo, sacca, spiagia e il termine antico pantano dato un tempo ad alcune vie o campi. La maggioranza dei canali o rii furono conservati, sia per il trasporto acqueo, sia per l’ufficio che ha l’acqua di mare a Venezia, di drenare due volte al giorno, con l’abbassarsi della marea, l’acqua carica di liquami organici (le fogne delle case private ancora oggi scaricano quasi sempre direttamente nei canali) e di altre acque reflue, e di portarle al mare; e di rifornire la laguna e specialmente l’ambiente urbano due volte al giorno di acqua marina pulita e ossigenata, di un meraviglioso color verde-acqua. Si tratta del fenomeno che si chiama “ricambio di marea”.
Dell’interramento di rii tra l’anno 1156 e il secolo XVIII si hanno notizie rare, che possono essere contate sulle dita di una o al massimo due mani. Si potevano imbonir piscine e laghi, bonificare pantani e paludi, creare terrapieni per allargare l’area edificabile e abitabile ai margini della città, ma si evitava di permettere l’imbonimento di rii, per preservare il regime idrico della città.
Si cominciò ad attenuare questa politica idro-geografica della città di Venezia con l’indebolimento del governo della Serenissima; e dodici rii furono interrati così negli ultimi 25 anni della repubblica veneta, ma quattro di loro erano stati fatti scorrere in volte sotterranee in mattoni prima di trasformare il loro corso in strade.
Già dal XIII secolo esistevano degli uffici super rivis et piscinis et super canalibus. Dal XVI secolo, la cura di mantenere i rii e i canali maggiori puliti e profondi quanto necessario per il passaggio di navi o barche, secondo i casi, era compito del Magistrato alle Acque, chiamato in quel secolo provedadori [provveditori] sopra le acque, che in genere era contrario, salvo casi eccezionali, ad eliminare il corso di qualche rio e si opponeva duramente ai richiedenti.
Sotto i governi successivi, francese (nelle varie fasi di invasione e controllo), austriaco (pure nelle varie fasi di dominazione) e italiano (dopo il 1866), l’interramento di canali, la loro sostituzione con strade e il tentativo qualunquista di modernizzare Venezia con il programma di renderla uguale a qualunque altra città, divenne una politica sistematica; soprattutto durante le dominazioni austriache (49% del totale interrato). Sparirono 38 rii, per un insieme lineare di circa 6 chilometri; tra di essi alcuni erano molto importanti per l’equilibrio idrico e il ricambio dei fluidi.
La responsabilità di questa politica di interramento sistematico con il fine di modernizzare la città, cioè di stravolgerne la natura, ricade senz’altro anche sui vari governi stranieri o su quello nazionale italiano; ma ancor più sui vari sindaci o podestà veneziani dell’Ottocento: particolarmente le amministrazioni Renier, Gradenigo, Morosini, Correr, Bembo, Grimani, tutti nobili, e dei loro tecnici, ingegneri e architetti. La responsabilità di questo stile è soprattutto del secolo XIX, un secolo distruttore, e non solo nei riguardi della città di Venezia.
A Venezia un proverbio dice “Palo, palù”, cioè: “palo, palude”. Se piantare un palo tende a far impantanare la zona intorno, chiudere parzialmente un rio – come nel caso dell’interramento dell’estremità meridionale del rio di S. Agnese nel 1838 – o eliminare un rio ampio che ne mette in contatto altri due, e soprattutto i rii secondari con i canali principali, tende a impantanare la città, ad aumentare il deposito di sedimenti (chiamamoli così, ma si tratta soprattutto di detriti organici provenienti dalle fogne), rendere più difficile la navigazione e aumentare la spesa dello scavo periodico dei rii, fino a farne diminuire o sparire la pratica, come di fatto è accaduto nei recenti decen ni.
L’interramento dei rii genera dunque un circolo vizioso. Si aggiunge che come nota opportunamente Zucchetta, molti servizi pubblici di pronto soccorso, di emergenza e di sicurezza, come il trasporto di ammalati, il soccorso a feriti, il servizio rapido di polizia e quello dei vigili del fuoco, dipendono ampiamente, in quell’arcipelago di più di cento isole che è Venezia e nelle isole vicine, dalla circolazione acquea e sono molto penalizzati in quartieri ampiamente privati di rii.
Si è parlato un po’ troppo lungamente, forse, del tema dei “rii terà” e quindi dell’interramento dei rii veneziani e nel quartiere di S. Agnese. Lo si è fatto perché la casa-madre dell’Istituto Cavanis si trova tra un rio terà (Rio terà Antonio Foscarini), interrato ai tempi delle prime prepositure di P. Casara e concluso durante il mandato di P. Giovanni Battista Traiber come preposito; e due piscine pure interrate, queste in tempi ben più antichi. Inoltre, l’ “imbonimento” completo del rio di S. Agnese nel 1863 spiega perché P. Casara poté iniziare a costruire l’ala “nuova” delle scuole nel 1881 senza procedere alla palificazione standard, ma costruendo su fondazioni come quelle che si potevano realizzare in terraferma.
Un’altra notizia che riguarda questo interramento concluso nel 1863, si trova nel Diario: P. Casara scrisse al municipio di Venezia, a quanto pare, chiedendo che la fondamenta (di S. Agnese) adiacente agli edifici e altri mappali di proprietà della Congregazione divenisse privata e fosse cintata con un muro; ma registra: “ Lunedì 19 [maggio 1862] “Il Municipio finalmente risponde alla nostra domanda della erezione di un muro sul limite della nostra fondamenta, che con dispiacere non può.”
Ritorniamo allora alla questione della “fabbrica”, e alla pianta della sue fondazioni, ritrovata recentemente in archivio storico.
La pianta indica chiaramente un corpo di fabbrica costruito mettendo in contatto i due edifici precedenti; nella mappa, da sinistra a destra (all’incirca da sud a nord), si distinguono (in modo poco distinto, anzi segnato solo in matita, (segno che non si era ancora decisa la larghezza da dare al corridoio)
1) il corridoio detto caletta e che corrispondeva all’estremità occidentale della ex-Calle de la chiesa; e in modo distinto;
2) la sala (aula scolastica dall’inizio, poi dal 2002 trasformata in ambiente principale del Museo della Memoria dei Fondatori;
3) un corridoio che serviva da spogliatoio degli allievi, che vi appendevano le giacche e i cappotti e che attualmente serve di sgabuzzino per deposito di materiale di pulizia e igiene;
4) una sala utilizzata sempre come aula scolastica;
5) un’aula scolastica, dal 2016 utilizzata invece come ufficio del vicepreside e dei responsabili dei cicli della scuola; e infine
6) un corridoio parallelo e adiacente al muro meridionale del palazzo da Mosto, che serviva storicamente e almeno fino al 1964 di entrata feriale per gli allievi, con la sua porta minore marcata dal numero civico Dorsoduro 899.
Verso levante, e verso il cortile, questi 6 ambienti sono serviti, nella mappa di cui si parla, da un corridoio che mette in comunicazione, allora come oggi, il palazzo da Mosto e in particolare il suo androne o salone di ingresso con la navata di sinistra della chiesa di S. Agnese e permette l’entrata nelle varie classi e corridoi di cui sopra e dà anche adito alla scala meridionale che porta al 2° piano (e poi al 3°, dal 2005 in poi). In questa pianta delle fondazioni, di cui si parla, non sono naturalmente disegnate le porte.
Il corpo di fabbrica ha la lunghezza di m 24,77, dal muro della chiesa di S. Agnese a quello del palazzo Da Mosto; e una larghezza, tra il cortile interno e la “Strada comunale”, ossia il rio terà Antonio Foscarini o dei alboreti, di circa m 13.45, con un’area di m² 333,15 al pianterreno; e di m² 306,26 nel primo e secondo piano. Il disegno delle fondazioni dell’ala nuova della scuola mostra quindi un edificio di pianterreno e due altri piani (tre piani in tutto) con un’area totale coperta di m² 945,67 circa. Con l’aggiunta del 3° piano nel 1936, l’edificio “nuovo” delle scuole raggiunge l’area di m² 1.251.93 circa; area cui andrebbero aggiunte le ampie soffitte, poi trasformate progressivamente, a partire dal 1958, e ancora più dal 2015, in ambienti ad uso dell’osservatorio meteorologico e ad ambiente didattico.
Il prezioso disegno di cui si parla presenta anche parecchie sezioni verticali, di estremo interesse, delle fondazioni sia longitudinali sia trasversali e, probabilmente, anche dei canali di scolo delle acque piovane e della acque nere. L’altezza o spessore delle strutture di fondazione vanno da 1,45 m a 2,49 m.
Il 10 luglio 1882, nel DC vol. 5°, prot. 216 del 1882, dal titolo “Approvazione” si dice: “Lunedì (10), Il Municipio mi ritorna il disegno della nuova fabrica approvandolo”: qui si tratta certamente della fabrica delle scuole, dato che quella della residenza comunità era finita da un anno e mezzo. Infatti, nei carteggi di curia, si trova una lettera del gabinetto del sindaco di Venezia, del 10 luglio 1882, che, “viste le modificazioni introdotte nel progetto di erezione di un fabbricato in rio terrà S. Agnese la Commissione dell’ornato ha trovato d’approvare il progetto stesso. (ecc.)”. Strano che la “commissione dell’ornato”, addetta si immagina alla bellezza, abbia dato l’assenso alla costruzione dell’edificio, data la sua bruttezza e la mancanza assoluta, appunto, dell’”ornato”. Tuttavia, immagino si debba essere grati alla stessa, per tutto il bene che si è fatto in quella scuola nell’educazione gratuita della gioventù soprattutto povera per quasi un secolo, e poi, purtroppo non più gratuitamente, fino ad oggi.
Nello stesso fascicolo del 1882 si trova una minuta di P. Casara, accompagnata da una copia più definitiva firmata e timbrata da lui e dai due definitori residenti a Venezia, in cui si discute la possibilità di costruire l’edificio senza ritardi, se si potesse vendere la “casetta” ai PP. Somaschi, cui era stata data in commodato; questi l’avrebbero comprata grazie a una offerta generosa di lire italiane 22.000 da parte della ND Loredana Gatterburg Morosini, che si era disposta a farla, e l’offerta sarebbe stata girata allora ai Cavanis, proprietari della “casetta”.
A quanto si capisce da questa e da altre carte, il P. Casara, nel suo caratteristico spirito di carità e nell’entusiasmo dell’inaugurazione della nuova residenza della comunità nel gennaio 1881, sembra proprio nel giorno dell’inaugurazione, un po’ in fretta e forse senza rifletterci sopra troppo, aveva dato in comodato gratuito – pare senza un documento scritto – la “casetta”, da cui i Cavanis si ritiravano per andare ad abitare nella casa nuova, e l’ “orto” ai padri Somaschi. Questi infatti avevano perso la loro sede precedente,in cui gestivano il loro orfanotrofio, nel grande palazzo sito a fianco della basilica della Salute (attuale seminario patriarcale), e non sapevano dove andare con i loro piccoli orfani.
Ora, in seguito a questo atto di generosità, misericordioso ma forse improvvido, Casara e la comunità Cavanis si trovavano in situazione difficile: i Somaschi continuavano ad occupare gratuitamente questa sede della “casetta” e del grande cortile adiacente, lo storico “orto”, in quello che doveva essere un prestito provvisorio e di emergenza; non riuscivano infatti a trovare un’altra sede alternativa. I religiosi di Girolamo Miani si erano leggermente allargati occupando (non sappiamo se per affitto o in che modo, né chi era il proprietario di quell’immobile) il piano dei mezzanini del vicino anzi contiguo palazzo Pisani; però anche questa soluzione non era più sufficiente. Il P. Giuseppe Palmieri, superiore dei Somaschi di Venezia, non si decideva a trovare una soluzione alternativa, e a questo punto i Cavanis non si sentivano logicamente di dare sfratto agli orfani e alla congregazione che li ospitava; ma d’altra parte avevano bisogno di molto denaro per la costruzione dell’edificio dell’ala nuova delle scuole; e la soluzione era quella di vendere l’edificio occupato dai Somaschi con la loro opera.
Casara e i Cavanis si sentivano “incastrati” in questa situazione, che rischiava anche di far perdere loro una grande elemosina che la ND Gatterburg-Morosini voleva fare ai Somaschi per la nuova sede, o perché essi comprassero l’immobile della “casetta” e dell’orto ai Cavanis. Scrive infatti P. Casara: “Tale speranza però, se non è affatto perduta, è grandemente assai affievolita: sicchè egli [= il P. Palmieri] si sta attualmente adoperando per ottenere e raccogliere da molti oblatori ciò che da uno solo [la ND Gatterburg-Morosini] non osa più ripromettersi; …”.
È anche chiaro che la presenza e l’estrema vicinanza dei due istituti e opere, dei Cavanis e dei Somaschi, l’uno in faccia agli altri, tutti e due in fase di espansione e tutti e due bisognosi di mezzi per costruire, l’uno, o per comprare, l’altro, oltre all’ordinaria amministrazione, rendeva più difficile anche la ricerca di questi fondi.
Il documento citato, aveva il titolo “Se e Come”, e il sottotitolo: “…potrebbesi non ritardare all’Istituto Cavanis il mezzo di erigere l’ala di fabrica lungo la strada [ossia il rio terà Antonio Foscarini, NdA], che dee servire ad uso di scuole e insieme assicurare al nascente Orfanotrofio Emiliani in perpetuo l’uso dello stabile da un anno e mezzo cedutogli ad uso temporaneo e gratuito”.
Sul tema del “non ritardare”, il documento spiega: “…e quindi resta pure incerto quando potrebbe l’Istituto Cavanis avere il mezzo per la sua fabrica, che avrebbe bisogno di poter erigere entro l’attuale buona stagione”. La lettera è del 26 giugno 1882, Casara quindi voleva completare l’opera entro l’estate e probabilmente l’autunno 1882.
Il documento fu scritto allora per esporre alla “Nobilissima Dama” il seguente “parere”, che è piuttosto un suggerimento o una richiesta:
“Se la Nob. Dama credesse dare la somma al P. Casara, per non differire il benefizio all’Istituto Cavanis, il P. Casara per sè, come rappresentante dell’Istituto, si obbligherebbe:
1°. A continuar la cessione dell’uso del fondo all’Orfanotrofio, col solo onere del pagamento delle pubbliche imposte, a cominciare dal prossimo anno 1883.
2°. A cedere in favor dell’Orfanotrofio stesso anche la proprietà, subito che fosse assicurato l’acquisto del vicino palazzo [palazzo Pisani, a quanto pare, NdA].
3°. Per dar valore a tale obbligatoria dichiarazione, questo verrebbe firmato dai tre sottoscritti
4°. Verificata che si fosse la condizione del n°.2, sarebbe da intendersi coi Superiori della Congregazione Somasca, quanto alla persona o alle persone a cui nominalmente far la cessione
5°. Nel caso poi (Dio nol permetta) che l’iniziato Orfanotrofio Emiliani non potesse stabilirsi, e ne dovesse essere abbandonata l’impresa, nè si potesse quindi effettuare la cessione del fondo; questo, se così piace alla Nob. Benefattrice, potrebbe restare all’Istituto Cavanis, ed allo scopo determinato di costituire qualche Patrimonio ecclesiastico ad uno o più Chierici dell’Istituto che ne abbisognassero, e la cui vocazione fosse riconosciuta e sicura.
6°. Per ora al P. Palmieri si comunicherà solamente, che, ove non possa entro l’anno [1882] il vicino palazzo; col cominciare del prossimo anno 1883 dovrà almeno pagar le pubbliche imposte, oltre l’obbligo di buona manutenzione”.
La ND Gatterburg-Morosini evidentemente, nella sua ben nota generosità scelse di seguire l’opzione suggerita dal P. Casara con le parole “Se la Nob. Dama credesse dare la somma al P. Casara, per non differire il benefizio all’Istituto Cavanis, il P. Casara per sè, come rappresentante dell’Istituto, si obbligherebbe: ecc.”, nella lettera intitolata “Se e come” del 26 giugno 1882, citata sopra. Infatti, nello stesso fascicolo 1882, si trova la minuta di una lettera del 22 settembre 1882, a mano del P. Casara, che è in realtà una ricevuta, di aver avuto dalla ND Gatterburg-Morosini la somma di £ (lire italiane) “22,000, ventiduemila”. La somma permise evidentemente alla Congregazione di continuare la costruzione dell’ala nuova delle scuole.
Il testo integrale della lettera è il seguente:
“Venezia li 22 7bre 1882
Il sottoscritto, per sè ed eredi, dichiara di aver ricevuto dalla Nob Contessa Loredana Gatterburg Morosini la somma di ite. lire 22.000, ventiduemila, ai riguardi del futuro Contratto di Compravendita dello stabile con annesso Orto, situato a S. Agnese, e descritto in Mappa del Comune Censuario (?) di Dorsoduro ai numeri 1952, 1954 con la superfe di p.e , e c.e 0,42, e rendita imponibile di £620,50, e n°1953B, suddistinto in num.o 2665 Ortaglia di p.e, e c.e 1.82colla rendita censuaria di £ 32,03 e n° 2667 Luogo terreno con la sup.e di 4(?),03 e rendita censuaria di lire 20
Stante tale esborso per parte della Nob. Dama Contessa Gatterburg Morosini, il sottoscritto si obbliga di devenire alla formale stipulazione del Contratto di compravendita ad ogni richiesta della prefata Nob. Contessa Gatterburg, e alla consegna materiale dello stabile sudescritto sia alla Nobil Dama medesima, sia a quella persona che venisse da lei designata.
Nel frattempo il sottoscritto si obbliga di continuare la cessione gratuita dello stabile a favore del pio Orfanotrofio Emiliani, condotto dal R. P. Giuseppe Palmieri.
Le rendite qualsisieno dell’Ortaglia restano frattanto, e fino alla stipulazione finale del Contratto, a vantaggio del sottoscritto, in quanto intendesse di coltivarla a tutte sue spese.
Per conseguenza avrà libero l’accesso all’Orto medesimo il sottoscritto ed i maestri e gli scolari dell’Istituto Cavanis
La presente dichiarazione verrà restituira al firmatario nell’atto della stipulazione del Contratto di compravendita
P. Sebastiano Casara del fu Francesco”
Il contratto di compravendita tra PP. Cavanis e PP. Somaschi fu poi finalmente stipulato il 10 giugno 1884, presso il notaio Candiani. La “casetta” così fu persa, ma sarà ricuperata ossia ricomprata molto più tardi con l’aiuto prezioso del Banco San Marco (il 16 luglio 1919). Ebbe in seguito vari usi: propri, come sede di studentato, come si dirà sotto; e impropri, come albergo turistico informale, e poi fu distrutta in parte e sostituita dalla grande nuova foresteria trasformata infine in albergo; l’ultima parte che rimane in piedi, quella con asse nord-sud, facente fronte al rio terà Antonio Foscarini, è stata pure affittata allo stesso albergo. Bisogna dire che, nonostante le liriche dichiarazioni su questa culla della Congregazione, presenti in tanti libri e articoli, l’Istituto non ha mai dimostrato autentica stima e affetto a questo piccolo, caro edificio.
Un altro documento che ci fa pensare che la costruzione dell’ala nuova delle scuole sia proceduta, come desiderato, piuttosto rapidamente, è una proposta commerciale dello “Stabilimento asfaltico di Venezia” a P. Casara e all’Istituto. Il proprietario di tale stabilimento, tale Alessandro Remy, che tra l’altro aveva asfaltato la piscina S. Agnese per conto del municipio di Venezia, come pure cortili e terrazzi (pavimenti) dell’Istituto Coletti. i chiostri dell’Istituto S. Caterina-Foscarini, in data 10 Settembre 1882 scrive a P. Casara che: “…a cognizione che inerentemente (=accanto) alle vecchie Scuole si stà per ultimare un nuovo fabbricato, si permette di proporre l’eseguimento delle pavimentazioni terreni e anche superiori in Asfalto ecc.”. Nel Diario di Congregazione, a pag. 113, prot. n° 275, al 28 settembre, P. Casara annota di aver ricevuto altra offerta di asfalto e cemento da (una ditta della) Madonna dell’Orto, parrocchia e quartiere al nord di Venezia.
Sembra proprio dunque che l’edificio della cosiddetta ala nuova delle scuole, come continuiamo a chiamarla ancora oggi, passati 138 anni (nel 2020), fosse al tetto e quasi nell’autunno 1882.
Del resto, ciò viene confermato e completato da un’altra lettera, questa volta dell’inizio dell’anno successivo, datata del 15 febbraio 1883 scritta a P. Casara da un prete a noi sconosciuto, che offre un suo dipendente:
“M.R. Padre Superiore
Se è vero che l’artista addetto alla sua fabbrica non voglia aggiustarsi per ciò che riguarda il lavoro da finestrajo, il latore della presente assumerebbe ben volentieri l’incarico colla più desiderabile Sua soddisfazione. È di nome Filippo Molin lavorante in parrocchia nostra, uomo probo e capacissimo che lavorò, già tempo nella Chiesa di S. Cassiano. Non cesso di raccomandarglielo perché, in fatto, merita.
Accolga le proteste della massima mia considerazione, e le sono:
Devotissimo servo
don Antonio Gallimberti Vicario
15/2 83-”
È chiaro che la fabbrica dell’ala nuova delle scuole era quasi terminata e che si stavano completando gli ultimi dettagli: le finestre, oggetti fragili, sono in genere le ultime cose. Nel Diario di Congregazione si trova una brevissima notizia nell’11 o 12 aprile seguente: “Dichiarazione della qualità e del prezzo del terrazzo (che in veneziano si deve intendere: pavimento, probabilmente terrazzo alla veneziana, N.d.A.) che l’artista Giuseppe De Venuto si obbliga fare entro maggio nelle tre scuole a pian terreno della nuova fabrica”. Sono le aule adiacenti al corridoio che porta dall’androne del palazzo Da Mosto alla chiesa di S. Agnese.
La costruzione dell’edificio, cominciata nella tarda primavera 1881, finisce dunque alla fine della primavera del 1883, e probabilmente si cominciò ad utilizzar l’ala nuova per le scuole, almeno nel pianterreno, nell’autunno 1883; la “fabbrica” era durata un po’ più di due anni. L’anno scolastico 1883-84 risulta già cominciato da qualche tempo il 12 novembre 1883.
Nel Diario di Congregazione non si trovano più riferimenti alla costruzione della nuova ala delle scuole, fino alla fine del governo come preposito di P. Sebastiano Casara, cioè fino al 30 agosto 1885, salvo un riferimento a “un debito di lire 3000 che ci resta dall’anno passato per lavori di fabriche”, per il quale debito si chiede un aiuto al Principe Giovanelli, benefattore, il 26 maggio 1885. Come non ci si trovano notizie sulla posa della prima pietra, così non ci si leggono cenni alla festa dell’inaugurazione e benedizione di questo imponente ed importante edificio. Ciò sembra molto strano, se si confronta questo fatto con l’entusiasmo che aveva accompagnato il periodo della costruzione del primo fabbricato, quello della residenza della comunità nel 1881. Sembra strano anche perché, se è vero che le annotazioni di P. Casara sul diario, particolarmente in questi ultimi due o tre anni del suo governo, sono molto stringate e laconiche, facendo del diario un puro libro di protocollo, è anche vero che in occasioni particolari, come la morte della contessa Loredana Gatterburg-Morosini, avvenuta il 7 dicembre 1884, e in occasione della celebrazione di battesimo e cresima di tre bambini in S. Agnese, il 16 aprile 1885, il Casara dedica in ambedue i casi quasi una pagina completa all’evento.
Il silenzio su questo tema forse dipende dall’età e dalla stanchezza del P. Casara e da una progressiva disillusione, che lo porterà a dare le dimissioni definitive nell’agosto 1885; e anche dal fatto che in questi anni P. Sebastiano di occupava quasi più della questione rosminiana che degli affari di costruzioni e in genere della Congregazione, se si deve dar retta alla quantità enorme di lettere su tale questione che occupano il Diario di Congregazione in questi anni. Avendo voluto fare un controllo su questo aspetto della corrispondenza (e degli interessi) del P. Casara, per il solo anno 1885, dal 1° gennaio al 30 agosto, ultima data del Diario di Congregazione da lui redatto, ho contato 84 numeri di protocollo relativi a questioni rosminiane; 114 relative alla Congregazione e alla casa di Venezia; più sette numeri su argomenti vari, su un totale di 205 numeri di protocollo.
Inoltre erano notevoli le preoccupazioni per la preparazione della seconda parte delle regole e per il comportamento di alcuni giovani confratelli della comunità al riguardo (soprattutto ma non esclusivamente i padri Michele Marini e Giuseppe Miorelli).
Si costruì dunque il grande edificio tra l’antico palazzo e la chiesa di S. Agnese, al posto del “campazzo” o “ortaglia” che c’era, lungo il rio terà Antonio Foscarini o dei Alboreti, ma si lasciò un cortile con grandi alberi, dei platani più esattamente, tra la chiesa, la casa della comunità, il nuovo edificio delle scuole e altre piccole case che più tardi divennero di proprietà della Congregazione, cortile adibito alle ricreazioni degli alunni, che esiste ancora oggi, pur senza alberi, che sono stati tagliati negli anni ’80 del secolo scorso, e senza l’antica voliera, nell’angolo presso la direzione delle scuole, pure ritirata da quasi 70 anni.
Il nuovo edificio scolastico, costruito in mattoni, molto semplice e piuttosto brutto, aveva il pianterreno e due altri piani. Si lasciò una stradina stretta tra la chiesa e il nuovo edificio (la caléta), che fu successivamente coperta da un tetto piano incatrameto, e divenne quindi un corridoio interno e privato. L’estremità orientale di tale caléta, ancora esiste come calle pubblica, e si chiama Cale de la Chiesa. Sarebbe piuttosto Ramo de la Chiesa, dato che, sboccando a est nella piscina S. Agnese, è chiusa invece verso ponente da un muro che la separa dal cortile delle ricreazioni dell’istituto.
A proposito di CALÉTE
A proposito della caléta, cioè la viuzza lasciata da P. Casara tra la nuova ala delle scuole e la chiesa di S. Agnese, più tardi trasformata in corridoio interno, nel quale attualmente si trova una parte degli ambienti del “Museo della memoria” dell’Istituto a Venezia, si può raccontare che negli anni antichi, prima dell’invenzione o dell’uso corrente dei frigoriferi, fino agli anni ’50-’60 del secolo XX, c’era l’abitudine di servirsi della caléta per un altro uso, oltre a quello di passaggio alla chiesa di S. Agnese.
A quei tempi in comunità non si tenevano in casa bibite fresche, meno ancora birre, anche se a tavola si beveva il tipico quartino di vino. E non c’era frigorifero e, a mia memoria, neppure ghiacciaie. Eppure, nei mesi caldi e afosi dell’estate veneziana, si sentiva un religioso invitare un altro: “Vieni, andiamo in caléta e ti offro una birra”. Il fatto è che in caléta c’era, e c’è ancora, la tubazione che porta dall’acquedotto esterno l’acqua nel complesso dell’Istituto, e il contatore; e lì, anche d’estate, l’acqua era molto fresca e gradevole, prima di passare nelle lunghe tubature che raggiungono gli ambienti di comunità. L’invito a bere una birra era una realtà più modesta: si facevano due passi insieme, lì c’erano dei bicchieri e si beveva insieme un bicchiere d’acqua fresca, scambiando amichevolmente due chiacchiere.
C’è anche un’altra caléta di cui parlavano con una certa frequenza i ragazzi della scuola, forse ne parlano ancora, certamente lo facevano ai miei tempi di scolaro e studente ai Cavanis. È la cale del Pistor, strettissima, come si usa spesso a Venezia, che è uno dei percorsi degli studenti del Cavanis che vengono dai sestieri di S. Polo, S. Croce e dalla parte occidentale di Dorsoduro, nei tempi in cui si andava a scuola a piedi.
Quando c’era un conto da regolare e si voleva passare alle vie di fatto, cosa che non si poteva certo fare, in genere, negli ambienti della scuola, un ragazzo diceva all’avversario “Te spèto in caléta”, cioè “Ti aspetto nella
viuzza”, e si sapeva già di quale viuzza si trattava, anche se a Venezia le viuzze o caléte sono molte. In realtà era nel campiello adiacente, Campielo Calbo, che i ragazzi facevano a botte, quando le parole non erano state sufficienti a risolvere il caso. Succede anche nelle migliori scuole cattoliche!
L’intenzione originaria di P. Casara era di non limitarsi ad addossare (lui scrive meglio “congiungere”) l’ala nuova delle scuole alla chiesa di S. Agnese solo a livello di pianterreno, per permettere il passaggio diretto dalla scuola alla chiesa. Prevedeva che il nuovo edificio si addossasse o congiungesse alla cortina muraria della navata di sinistra della chiesa anche al primo piano, in modo che si potesse passare dal primo piano delle nuove scuole, attraverso una porticina, agli ambienti che esistevano sopra la cappella del crocifisso e sopra l’atrio della chiesa. A questa porticina accenna P. Casara, come segno di antica intenzione di congiungere le scuole con la chiesa, nella lettera al patriarca Domenico Agostini del 23 marzo 1881, di cui si è parlato sopra: “ …la porta aperta a tramontana nel piano superiore dell’atrio costrutto colla facciata”.
Tale porticina si può vedere anche nella fotografia di cui di parlava sopra, subito a sinistra di un lunettone corrispondente al piano della canonica (più tardi biblioteca della comunità Cavanis) appartamento in cui abitava il parroco di S. Agnese fino al 1810, e situato sopra l’atrio della chiesa stessa. Non si giunse però nel 1881-83 ad addossare tutto l’edificio alla chiesa, e probabilmente i religiosi della comunità di Venezia dovevano passare allo scoperto sul terrazzino asfaltato che copre la “caleta” per aver adito alla biblioteca sita sopra la cappella del crocifisso e l’atrio della chiesa, fino a quando nella grande riforma e restauro Forlati del 1937-40 tutto l’ambiente dell’antica canonica e più recente biblioteca di comunità fu completamente distrutto, assieme alla facciata neoclassica della chiesa.
Si può chiedersi, tra tanti cantieri e fabbriche, vecchie e nuove, di abitazione e di scuole, di dove venisse l’acqua dolce, da bere, per la cucina, per lavare, per lavarsi (ma ci si lavava molto poco a quei tempi!), per lo sciacquone (manuale) dei gabinetti, per le piante e l’orto o ortaglia di cui si parla a volte; e così via. Venezia come si sa è un “arcipelago” di un centinaio di isole lagunari, circondate da acqua assolutamente marina e quindi salata. L’acqua dolce veniva soltanto dalla pioggia e altre intemperie e, raccolta da apposite “bocche di pozzo” situate nei campi, campielli, corti e corti private, era filtrata in qualche modo piuttosto inadeguato nei cassoni di sabbia costruiti attorno ai pozzi, veniva attinta con secchi e corde nei pozzi e con i secchi portata a casa. Il pozzo più vicino all’Istituto Cavanis, attualmente, è quello della piscina S. Agnese, dietro l’Istituto; gli si aggiunge, un po’ più distante, il più grande pozzo del campo S. Agnese, che porta nella seicentesca vera da pozzo una tosca e consunta immagine della santa patrona della chiesa e de campo attiguo. Non risulta che ci fosse pozzo privato nei cortili dell’Istituto. Non se ne parla mai.
L’approvigionamento idrico era stato sempre un problema gravissimo per la città di Venezia e per le altre isole delle lagune venete. Tra l’altro, il sistema dei pozzi era molto poco igienico, e l’acqua di pozzo era uno dei veicoli delle malattie e delle varie pestilenze storiche.
Dell’acquedotto municipale che portava (o meglio avrebbe portato) l’acqua potabile a Venezia, attingendola nella pianura veneta, più esattamente dalla fascia delle risorgive, e in particolare dalla località di S. Ambrogio, frazione del paese di Trebaseleghe in provincia di Padova, si parla per la prima volta nel Diario di Congregazione Domenica 17 febbraio 1884. P. Casara in questa data, sotto il n° di protocollo 55, registra l’arrivo di uno “Stampato della Compagnia delle acque con tutte le indicazioni e la condizioni per chi vuol acqua potabile dal pubblico acquedotto, ormai prossimo al suo compimento”. L’acquedotto di Venezia fu compiuto e inaugurato di fatto qualche mese dopo, il 23 giugno 1884, e migliorò enormemente la vita della città, sia con le fontanelle pubbliche, ancora in uso in molti quartieri di Venezia, anche in piscina S. Agnese per esempio, a fianco dell’antico pozzo, divenuto solo decorativo con i suoi tre stemmi nobiliari; sia nelle case private e nelle istituzioni pubbliche, scuole in particolare. L’acqua di Venezia, che chiamiamo giustamente acqua di S. Ambrogio, è per la maggior parte di falda, attinta all’inizio direttamente dalle risorgive, in seguito e tuttora da una sessantina di pozzi a una profondità che arriva oggi a 300 metri. È tra le migliori d’Italia per qualità e caratteristiche, economica, attentamente controllata e sicura, anche se un po’ troppo calcarea, dato che proviene dalle prealpi calcaree e carsiche, principalmente dal massiccio del Monte Grappa e da quello del Cesen. È curioso che, sotto vari nomi, la stessa acqua è venduta in bottiglia come acqua minerale, e minerale lo è senza dubbio, come tutta l’acqua del resto!
Altri lavori nel grande edificio delle scuole si svolsero più tardi e furono annotati nel Diario della Congregazione, che era anche diario della casa di Venezia:
1) L’Istituto di Venezia, per iniziativa del P. Giovanni Chiereghin, vicario generale e prefetto delle scuole di Venezia, appoggiato dalla comunità, chiede, fin dall’aprile 1899, un contributo straordinario e notevole a tutti gli amici e conoscenti per “lavori dispendiosi e di necessità da farsi nel locale del nostro Istituto ad uso delle scuole”.
2) Il 19 novembre 1901 il Diario di Congregazione registra una « Forte spesa di carpenteria e falegnameria (£ 2.190)”, in buon parte per infissi, pavimenti in tavole, soffitti, sia per la casa della comunità, sia per le aule della scuola tecnica, sia probabilmente per l’ala nuova delle scuole.
3) In una sua lettera dell’aprile 1899, P. Giovanni Chiereghin scrive con tono abbastanza ruvido, di cui si scusa alla fine della lettera in post-scriptum del denaro raccolto, e ancora in fase di raccolta nella colletta per lavori di cui sopra al n°1, in evidente opposizione alle idee o alla prassi di un «procuratore», termine che a quel tempo voleva dire economo, locale o generale; e dell’uso da farne per «le migliorie necessarie al palazzo vecchio, prima d’ogni altra quella dell’androne», cioè il restauro completo dell’androne delle scuole (l’attuale androne, nel palazzo Da Mosto) e delle scale, che definisce «la prima scala che dall’androne conduce alle scuole vecchie, per aver anche il modo di assicurare al muro vecchio del palazzo [Da Mosto], che prospetta la corte delle galline, con una torretta in cui si farebbero i cessi di I e II Elementare ». P. Giovanni Chiereghin continua, ricordando come d’accordo con la comunità e con il preposito, avesse stampato un foglietto con la richiesta di contributi per questi lavori in corso. Continua definendo i lavori in corso «lavori straordinari» e di «spese straordinarie» e che «manca ancora non poco a raggiungere le 2000 [£] che vorrei raccogliere».
Queste spese e questi cantieri riguardarono senza dubbio lavori di restauro o di ristrutturazioni minori.
Nel 1929 fu costruita obbligatoriamente la colonna dei servizi igienici adossata presso l’angolo di sudest alla cortina muraria dell’ala nuova; colonna che più tardi, nel 1936, fu innalzata per servire anche al 3° piano. La colonna era coperta dal terrazzino che, oltre ad essere un ottimo belvedere su Venezia, servirà per alloggiare gli strumenti scientifici dell’osservatorio meteorologico. Prima della costruzione di questa colonna di servizi igienici, ogni classe aveva uno sgabbiotto o sgabuzzino in legno che serviva da gabinetto o toilette. Erano altri tempi: anche nelle case di buona famiglie a quei tempi i gabinetti erano sistemati in analoghi “sgabbiotti” lignei nelle cucine, o in sostituzione di antichi Diagò, al di fuori delle mura degli appartamenti.
Un quarto piano (se si considera il pianterreno e i tre piani) fu aggiunto al nuovo palazzo delle scuole più tardi, più esattamente nel 1936, con materiali semplicissimi ed economici, come ebbe a scoprire con sgomento chi scrive, nel 2004, nel momento in cui bisognò rinnovare l’edificio e metterlo a norma di legge, e bisognò sostituire molte pareti con materiale più consistente. Il cortile a est dell’ala nuova è uno dei tre cortili per la ricreazione che abbiamo nelle scuole di Venezia.
Più tardi ancora, nel 1958, Padre Riccardo Janeselli, doppiamente dottore in Matematica e in Fisica e professore di queste due materie nel liceo Cavanis di Venezia, organizzava un’osservatorio meteorologico nel terrazzino sopra la colonna dei servizi igienici e in una stanza adiacente, riprendendo così, dopo 8 anni di interruzione, la tradizione dell’osservatorio meteorologico astronomico e sismico del seminario patriarcale diretto da Padri Cavanis fin dal 17 novembre 1917. Nell’aprile 2016, P. Pietro Luigi Pennacchi, direttorre dell’osservatorio, trasformò tutto il grande soffittone dell’ “ala nuova “ delle scuole, finora adibita a polveroso deposito di mobili scaduti o non più necessari, in un quarto piano dell’edificio, tipo mansarda (quinto piano se si considera il pianterreno), in un ambiente scientifico e didattico del nuovo osservatorio meteo.